venerdì 27 novembre 2020

Guerra e ambiente

Wild Nahani




Questo argomento (guerra e ambiente) potrebbe avere un exscursus storico e un decorso descrittivo praticamente infinito, perché la tematica si connatura radicalmente nei rapporti o meglio negli attriti che l’uomo ha sempre innescato con i propri simili (o almeno da qualche migliaio di anni). Ma, in questa sede, non possiamo sviluppare anche una semplice casistica che riassuma i continui eventi che si sono protratti nel corso dei millenni senza soluzione di continuità, altrimenti ci vorrebbero decine di volumi al riguardo pur mantenendo un rigoroso schema di sintesi. Ci limiteremo a sottolineare ciò che le guerre portano al mondo naturale e che tutti si sono ben guardati dall’evidenziare sia per malafede e sia perché non ne vedono affatto il problema. E anche qui, come sempre, il mondo naturale può solo subire passivamente gli eventi. Questo non significa, si badi bene, che si vuole ignorare e tacere sugli immani genocidi che i popoli e le singole persone hanno vissuto e pagato sulla propria pelle, ma, per affrontare i risvolti ambientali di una tale spinosa tematica, è stato doveroso impostare un taglio diverso. Le miserie, le apocalittiche sofferenze, le più atroci privazioni, i fiumi di sangue sparsi rimarranno per sempre incisi su quella parte abominevole (che rappresenta la maggioranza) della storia dell’umanità.

Ogni conflitto ha un costo ambientale inquantificabile, con distruzioni a volte integrali di interi territori, di immense foreste, di specie animali, di paesaggi che a volte cangiano addirittura radicalmente i loro connotati. E si badi bene, se durante un conflitto si vuole minimamente sottolineare questa immane catastrofe, subito si levano voci che “scomunicano” la riflessione perché ci si è permesso di non parlare dei morti e delle distruzioni che l’uomo subisce e determina; ma su questo punto si spera di esserci già chiariti all’inizio del paragrafo.

Ora, nell’ambito bellico occorre fare una duplice distinzione: l’impatto sull’ambiente in tempo di pace per le preventive preparazioni militari e l’impatto sull’ambiente in tempo di guerra (sia a carattere locale che su larga scala). Nel primo caso gli effetti sugli ecosistemi sono più impattanti di quando si pensi perché l’industria bellica si mobilita su un ampio fronte di azione per mettere a “punto” i suoi sistemi, per sviluppare armi sempre più sofisticate ed “intelligenti”, per mettere in azione continue prove pratiche, per produrre armi sempre più devastanti, per impiegare ingenti somme finanziarie “necessarie” alle ulteriori ricerche onde poter verificare gli effetti delle svariate armi offensive. Si ricordano gli esperimenti delle armi nucleari, i laboratori per la produzione di sostanze batteriologiche, gli addestramenti degli eserciti, ecc. La lista non potrebbe terminare mai. Il tutto pagato dall’ambiente con un pesante utilizzo energetico, di materie prime, di territorio e di altri elementi strettamente connessi.

Quando poi si passa alla parte operativa allora tutta la macchina bellica sviluppa sul campo la sua forza distruttrice sia essa grandiosa, come accade nei grandi conflitti, sia meno appariscente per le guerre più localistiche ma sempre fortemente deleteria per l’ambiente. E poi, molte strutture umane comunemente utilizzate in tempo di pace (p.e. dighe, centrali elettriche, pozzi petroliferi, ecc.), diventano bersaglio e potenziali detonatori di una reazione distruttiva a catena. A volte le azioni belliche toccano luoghi della terra che agli occhi dei più paiono del tutto insignificanti come deserti, immensi valloni montani pietrosi, distese di pianura “desolate”, ecc., ma anche lì il danno ambientale è devastante perché in quelle condizioni estreme vive ben organizzata ed adattata tutta una serie di forme viventi, animali e vegetali, che subiscono di conseguenza le azioni rovinose dell’uomo. Non viene risparmiato proprio nulla e, soprattutto quando ci si muove in luoghi dove per esempio sono presenti specie animali sull’orlo dell’estinzione, anche conflitti locali di natura etnica o religiosa possono determinare una vera e propria catastrofe. Si veda per tutti il crollo forse decisivo della popolazione dei gorilla di montagna - già insidiati dall’alterazione dell’habitat e dal bracconaggio - dopo le sanguinose guerre tra i popoli di quei luoghi. E che dire quando vengono impiegate armi biologiche o addirittura nucleari che portano sul campo distruzione ed alterazione per decenni se non per centinaia di anni? (si ricordano per esempio le deflagrazioni atomiche della seconda guerra mondiale sul Giappone o i numerosi test nucleari durante la guerra fredda); oppure le deleterie azioni nella guerra del Vietnam quando furono defogliati con il napalm migliaia di ettari di foreste per “stanare” sotto di esse il nemico. O ancora i devastanti incendi appiccati volontariamente alle grandi distese boschive o come conseguenza di bombardamenti o attentati. E che dire delle milioni di mine anti-uomo sparse nel terreno che oltre a mutilare od uccidere nel tempo un numero incalcolabile di esseri umani causano lo stesso effetto per il restante mondo animale? Gli esempi potrebbero continuare all’infinito, ma l’elencazione, sia pure estremamente allarmante, pare non sortire nessun effetto limitativo sulle coscienze di tutti gli uomini della terra perché rimangono sempre troppo facilmente belligeranti. Occorre però porre in evidenza il un fatto che ad ogni evento di guerra è facile constatare di persona. Provate a notare, anche con estrema attenzione, se tutte le riviste, i quotidiani, i giornalisti inviati sul campo o gli scrittori che successivamente analizzano con sagacia e “intellettualità” le cause di una guerra, spendono mai anche una piccola riflessione su ciò che il mondo naturale sta subendo in quei terribili momenti. Si può ovviamente accettare che al primo posto sia evidenziata la situazione degli eserciti o della popolazione inerme, d’altronde è l’uomo che fa la guerra e ci tiene a parlare di se stesso, è anche giustificabile, ma sull’ambiente nemmeno in seconda e finanche ultima battuta è spesa una singola parola o un solo rigo di un articolo. Sicuramente ci saranno le dovute eccezioni o la faccenda sarà affrontata da ecologi esperti del settore, ma in un quadro generale il silenzio è totale perché, come si diceva in precedenza, l’argomento non è per nulla visto. Quando si parla di distruzione è sempre argomentata da un punto di vista strettamente umano, con i conseguenti svantaggi e nulla più. Anche su un argomento così delicato, atroce, devastante, il pensiero umano si è voluto imbrattare per l’ennesima volta di due macchie di sangue (anche se in fondo è la medesima cosa): il sangue degli uomini e il sangue della natura. Ma nel corso dei secoli i libri di storia parleranno solamente del sangue umano (e probabilmente nemmeno in forma corretta e giusta). Della natura non ci sarà alcuna traccia anche perché sin dall’inizio non erano mai stati solcati i pur minimi elementi dell’argomento. E qui, come abbiamo premesso, non entriamo nel merito sulla diffusa malafede del senso di giustizia e di verità quando scoppia una guerra, locale o globale che sia. 

Valga in tale circostanza l’arguta riflessione fatta da Byron: “Ecco la morale di tutte le storie umane; non è che la stessa prova del passato; prima la Libertà e la Gloria - quando ciò viene a mancare Ricchezza, Vizio, Corruzione - Barbarie infine - e la Storia con tutti i suoi volumi non ha che un’unica pagina”.

Ecco, ora, per concludere un brano tratto da un’opera importante di Kropotkin, “Il mutuo appoggio. Un fattore dell’evoluzione” (da AA. VV. 1994 pag. 27): “Fortunatamente, la competizione non è una regola, né nel mondo animale, né in quello umano.

Fra gli animali, è limitata a periodi eccezionali e la selezione naturale, per attuarsi, trova migliori strategie d’azione.

Le condizioni migliori per l’evoluzione sono create dall’eliminazione della competizione, tramite l’aiuto ed il sostegno reciproci.

Nella grande lotta per la vita - per la maggiore pienezza e la maggiore intensità di vita possibili, con il minore spreco di energia - la selezione naturale cerca costantemente i modi per evitare al massimo la competizione.

Le formiche si organizzano in nidi e in nazioni; producono il proprio cibo, allevano il proprio “bestiame” - ciò evita la competizione e le sue conseguenze dannose.

La selezione naturale premia, fra le formiche, quelle varietà che meglio sanno collaborare.

La maggior parte dei nostri uccelli si sposta lentamente verso sud e ritorna poi in inverno.

Questi uccelli viaggiano in grandi stormi e questo contribuisce ad evitare la competizione.

Molti roditori cadono addormentati nel periodo in cui potrebbe essere necessario competere per la sopravvivenza; mentre altri immagazzinano il cibo per l’inverno e lo fanno riuniti in grandi comunità, per avere la necessaria protezione durante il lavoro.

Le renne, quando nelle zone interne i licheni seccano, migrano verso il mare.

I bufali attraversano un immenso continente per avere cibo a sufficienza. E quando i castori divengono troppo numerosi nello stesso fiume, si dividono in due gruppi e vanno, i più anziani, verso la foce e i più giovani verso la fonte. Questo evita la competizione.

Quando gli animali non possono cadere in letargo, nè migrare, nè immagazzinare, nè crescere essi stessi il proprio cibo, come le formiche, allora fanno come la cincia....: ricorrono a un nuovo cibo! E anche questo evita di competere.

‘Non competere! La competizione è sempre negativa per la specie e ci sono molti modi per evitarla!’, questa è la tendenza indicata dalla natura, non sempre pienamente realizzata, ma comunque sempre presente.

Questo è il messaggio che ci viene dalla foresta, dalla macchia, dal fiume e dall’oceano.

Perciò, unitevi e praticate l’aiuto reciproco! Questo è il modo migliore per dare a tutti e a ciascuno la più grande soddisfazione, la migliore garanzia di esistenza e di progresso, materiale, intellettuale e morale”.


“Le istituzioni di reciproco aiuto hanno qualcosa in più del loro valore funzionale. Sono una misura e un indicatore della salute di ogni società” (C. Ward).