Wild Nahani
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Il concetto di Wilderness
Una nuova esigenza di conservazione
delle aree e delle risorse naturali
"Wilderness mind"
“La natura selvaggia è sia una condizione geografica che uno stato d’animo”
“La conservazione della natura selvaggia per il valore in sé e per una visione ecocentrica ed olistica”
“In ogni luogo ci vorrebbe un posto, così, lasciato incolto” (Cesare Pavese).
“La protezione di un territorio naturale può certamente avere molti ruoli, molte finalità, ma credo che solo uno debba essere lo scopo per cui la si debba attuare: conservare il territorio fine a se stesso” (Franco Zunino).
“Sono pessimista sulla sorte della razza umana perché essa ha troppo più ingegno di quanto ne occorra al suo benessere. Noi ci accostiamo alla natura solo per sottometterla. Se ci adattassimo a questo pianeta e lo apprezzassimo, invece di considerarlo in modo scettico e dittatoriale, avremmo migliori probabilità di sopravvivere”. (E.B. White)
Prima che l’uomo civilizzato facesse la sua “apparizione” sulla terra tutto il mondo era “wilderness”, un’immensa area selvaggia dove regnava solo la verità naturale. Poi è arrivato l’uomo civilizzato e, poco a poco, ha sottratto al mondo e a sé stesso l’armonia imprevedibile e “caotica” della natura che era lo spirito della vita. Scrive Aldo Leopold (1949): “ La wilderness è una risorsa che può diminuire ma mai aumentare. Le distruzioni possono essere bloccate o limitate in maniera tale da rendere un’area ancora fruibile per la ricreazione, o per la scienza, o per la fauna, ma la creazione di nuova wilderness nel vero senso della parola è impossibile. Ne consegue, allora, che ogni programma di conservazione che riguardi la Wilderness è un’azione difensiva, mediante la quale la sua degradazione può essere ridotta al minimo....
La capacità di comprendere il valore culturale della Wilderness sta divenendo in ultima analisi una questione di umiltà intellettuale. Il presuntuoso pensiero dell’uomo moderno si è distaccato dalle sue radici con la terra, e sostiene di avere già scoperto cosa è importante; è chi ciancia di imperi, politici o economici, che resterà indietro di migliaia di anni ”.
Ma vediamo ora di spiegare qual é l'essenza del “concetto di wilderness”, vediamo perché esso è da considerarsi una vera e propria filosofia da cui si genera il pensiero protezionista e, in via più generale, la concezione stessa della vita. Riportiamo integralmente le lodevoli parole di Franco Zunino fondatore, dell’Associazione Italiana per la Wilderness.
“Lo sviluppo sociale in continua evoluzione sta alterando ogni angolo della nostra terra, e anche le aree veramente selvagge rimaste tali per casualità o in quanto fino ad oggi prive di interessi economici o non utilizzabili a questo scopo, vengono ormai giornalmente intaccate da sempre nuove iniziative a loro danno, senza che mai le giustificazioni economiche ad una loro alterazione siano considerate in second’ordine a quelle spirituali, definendo tali, per brevità, tutte quelle esigenze per cui ovunque nel mondo si protegge la natura.
Le poche aree senza strade e moderne costruzioni rimaste vengono considerate ‘terra di conquista’ dalla civiltà, e gli uffici preposti alla pianificazione del territorio e al suo uso vi programmano sempre nuove forme di sfruttamento anziché preservarle nel loro stato naturale come rarità ecologiche quali esse sono, e anche come Eden per i bisogni emotivi dell’individuo. Nessuno nei contesti sociali locali sembra più amare la propria terra, il paesaggio in cui è nato! Anche l’uso ricreativo dell’ambiente da parte dei cittadini si sta rivelando, specie nei Parchi Nazionali, un’ultima frontiera della conquista dell’uomo, in quanto un eccessivo uso in tal senso rischia di trasformarsi in un danno più sottile e strisciante, meno appariscente di una strada o di un residence, meno fastidioso della caccia sul piano morale, ma altrettando dannoso e deteriorante di tutto quanto di fisico e di psichico è racchiuso nella definizione di natura selvaggia, cioè di ‘Wilderness’ così come è intesa nella cultura anglosassone.
Wilderness è un termine che può suonare oscuro al profano, ma il cui significato intrinseco va ben al di là della sua letterale traduzione, esso definisce infatti anche i dettami di una filosofia specifica, che è scaturita da esigenze umane sia di godimento emotivo nel contatto con la natura selvaggia che di conservazione di quei territori naturali dove queste esigenze possono esprimersi.
Il 'Concetto di Wilderness’ altro non è che la definizione di questa filosofia; una filosofia che vede nel rapporto uomo-natura un rispetto reciproco che privilegia la natura nei casi di conflittualità di interessi; una filosofia alla cui base c’è veramente l’idea di dare corpo a patrimoni ambientali da lasciare alla posterità, investendo le nostre generazioni della loro responsabilità in questo senso, cioè di decidere oggi il limite massimo oltre il quale l’uomo e le sue suggestioni non devono più andare, per lasciare un perenne spazio alla natura e alle sue creature selvagge.
.......Dobbiamo preparare l’opinione pubblica di oggi e quella di domani a comprendere l’esigenza spirituale delle nostre e delle future generazioni di godere anche solo del fatto disapere che esistono ancora luoghi lontani, nel senso di ampi e selvaggi; luoghi dove la natura è lasciata a sé stessa come agli albori della vita sulla terra, e con garanzie durature di una loro preservazione nel tempo che li sottragga all’evoluzione della civiltà........
Le Associazioni di protezione della natura hanno troppo spesso ignorato le esigenze puramente spirituali legate al rapporto uomo-natura, e così quegli impatti sulla natura da parte dell’uomo che, soddisfacendo bisogni puramente materiali di sviluppo sociale o di ricreazione meramente fisica, ne impediscono la loro espressione; esse hanno sottovalutato la potenziale forza distruttrice della spirale economica della nostra civiltà nelle sue sfumature più insidiose, così come quelle delle necessità dell’uomo come individuo. Non sono poche le volte che queste Associazioni hanno espresso consensi favorevoli a certe attività, troppo superficialmente credute educative o necessarie e quindi compatibili con le motivazioni della conservazione in quanto sviluppate da chi gestisce aree protette o divulgate e promosse con l’intento di migliorare il rapporto con la natura da chi in realtà mira ad indiretti interessi economici (es. campeggio, escursionismo, caccia fotografica, artifici di gestione faunistica, quando non realizzazioni di rifugi, strade e altre strutture ‘indispensabili’), che viste in un’ottica diversa sono di fatto l’embrione di guasti che minano alla base proprio quello che è il ‘Concetto di Wilderness’. Per una mancanza di previdenza corriamo il rischio di essere noi protezionisti che nei casi più delicati inneschiamo, senza potere di controllo, processi un giorno difficilmente arginabili (e la storia della conservazione insegna, per chi vuole imparare!), aiutati in questo dalla collaborazione compatta dei mass-media, per lo più favorevoli ai discorsi economici che stanno dietro alle sempre nuove giustificazioni che permettono all’’effetto uomo’ di incancrenirsi sempre più in profondità negli ambienti naturali.
Verrà un giorno in cui anche le visite ai Parchi dovranno essere programmate, e limitati saranno gli artifici per godere della natura con le immancabili facilitazioni, oggi più che mai in auge (e dietro ai quali sta sempre la spirale economica): di questo passo banalizzeremo anche i luoghi più selvaggi, remoti ed impervi della terra!
Certe aree naturali vanno salvate solo perché hanno diritto di continuare a perdurare nel tempo così come sono giunte a noi, modificate solo dalla lenta evoluzione delle forze della natura o da quelle primitive dell’uomo, e quindi non perché siano ‘usate’ dall’uomo di oggi come centri di produzione economica o di sfogo ricreativo, cioè in senso materiale stretto. Esse devono esistere invece per loro stesse; la natura va salvata in queste aree più selvagge solo per la fauna e per la flora, che vi si devono sviluppare in completa armonia. In questi luoghi l’uomo deve porsi dei limiti precisi oltre i quali di principio non permettere più ogni ulteriore e pur minimo intervento modificatore o realizzazioni artificiose, e deveavere poi la forza e la volontà di tirarsi indietro anche come visitatore non appena la sua presenza tende a modificarne lo stato fisico, o anche quello psichico del visitatore stesso, che deve sempre godervi le sensazioni di un rapporto di solitudine con la natura selvaggia. Certo, questa è una scelta difficile, ma è l’unica seria alternativa da opporre alla paurosa antropizzazione del paesaggio che quotidianamente ci circonda e alla vandalizzazione degli ambienti naturali che facciamo quando ci trasformiamo in turisti estivi o domenicali........è giunto il momento di fare questa scelta di ‘utilizzo-non utilizzo’ per le zone più selvagge.......Se non lo faremo oggi per mancanza di coraggio politico sarà troppo tardi per le generazioni future. Qualsiasi altra decisione volessimo prendere a loro salvaguardia fisica o anche dei valori spirituali che esse, così, racchiudono e rappresentano, sarà un palliativo che servirà solo ad evitare alle nostre generazioni la responsabilità di una scelta che si sa difficile e impopolare ”
Thoreau osservò che “nella wilderness è la salvezza del mondo”, e si disse convinto che una natura selvaggia aiuta a conoscere meglio noi stessi, a migliorarci e a migliorare la società in cui viviamo. Il solo pensiero che un’area possa rimanere wilderness, ossia selvaggia “forever”, affrancandosi dalla presenza dell’uomo conquistatore e assoggettatore, colpisce profondamente la sensibilità di una persona che abbia una propria vita spirituale. Come abbiamo già sottolineato, il concetto di Widerness non riguarda solo lo spazio fisico di un territorio ma concerne anche l’emotività interiore da cui l’uomo, solo di fronte alla natura selvaggia, può essere preso. La filosofia wilderness può quindi riassumersi in una frase “ La natura selvaggia è sia una condizione geografica che uno stato d’animo”.
Scrive Salvatore Veca (1986): “ la natura non è una pseudo-persona verso cui gli esseri umani siano responsabili: lo siamo nei suoi confronti per il semplice fatto che le nostre azioni causano alterazioni della biosfera e non possiamo più, o meglio, non dobbiamo più essere i predatori della biosfera. Ovviamente, noi facciamo parte della natura, senza disporre di un controllo totale di essa (non siamo responsabili della sua esistenza), e tuttavia differiamo in alcuni aspetti essenziali da altri elementi costituenti della natura. A differenza delle altre specie, sembra che noi possiamo cambiare - migliorare o peggiorare - gli effetti delle nostre azioni sulla natura: questa responsabilità causale genera una responsabilità morale ”.
A corollario di quanto osservato in merito alla protezione della natura secondo la filosofia wilderness, ci sia consentito di formulare una riflessione di tipo provocatorio: se qualcuno proponesse di distruggere una grande opera d’arte, un museo o una preziosa chiesa romanica verrebbe certamente considerato un folle, ma paradossalmente non èconsiderato folle chi decide di distruggere un bosco secolare per far passare un'autostrada o per realizzare un impianto sportivo d'alta montagna, con tutti i danni ambientali che quelle opere comportano.
All’uomo risale dunque la responsabilità di provvedere alla conservazione della natura perché è l’uomo che la distrugge ed è suo compito quindi tutelarla, a meno che non lo si voglia considerare alla stregua di una semplice componente del materialismo dialettico, a cui sarebbe stato affidato il compito di sovvertire integralmente l'ambiente naturale: solo questo potrebbe essere in chiave ironica l'essenza della filosofia antropocentrica.
Gary Snyder (1992) annota magistralmente: “Thoreau dice: ‘Give me a wildness no civilization can endure’ (datemi un mondo selvatico che nessuna civiltà possa tollerare). Una cosa del genere non è difficile da concepire. Più difficile è immaginare una civiltà che il mondo selvatico possa tollerare. Eppure questo è precisamente quello che dobbiamo cercare di fare. Wildness non significa semplicemente conservare il mondo; wildness è il mondo. Da lungo tempo le civiltà orientali e occidentali sono in rotta di collisione con la natura selvatica e oggi in particolare i paesi industrializzati hanno il dissennato potere di distruggere non solo singole creature, ma intere specie, interi processi della terra. Abbiamo bisogno di una civiltà capace di convivere pienamente e creativamente con il mondo selvatico, con l’essere selvaggio..... La wilderness è un luogo dove il potenziale selvaggio è pienamente espresso, dove una varietà di esseri, viventi e non, si manifestano secondo il loro ordine interno..... Wilderness vuol dire totalità, interezza. Gli esseri umani emergono da quella totalità; e l’idea di riaffermare la nostra partecipazione all’assemblea di tutti gli esseri non è affatto un pensiero regressivo”.
Scrive ancora Zunino: ". Chi sente il desiderio di un rapporto diverso con l'ambiente, più legato ad esigenze interiori di beltà e solitudine, di riflessione, di godimento della bellezza, dei momenti del vivere e dell'evolversi della natura, più facilmente capirà l'esigenza di maggior rispetto, capirà che i diritti della natura, devono avere il primo posto e che l'uomo deve visitarla sempre pronto a tirarsi indietro non appena divengono evidenti i segni del mutamento che la sua presenza le arreca, che vanno dalla degradazione ambientale al disturbo della fauna, alla perdita di certi stati di pace e solitudine (che sono un diritto della fauna prima che nostro); pronto pertanto anche a rinunciare alla natura quando ne è il caso.
Invece, la maggioranza di quelli che amano la natura, la fauna, la flora, o ne godono attraverso la ricreazione fisica in essa (naturalisti, alpinisti, escursionisti, cacciatori, ecc.), raramente si pongono problemi di rinuncia ai propri piaceri per rispetto alle sue esigenze......... In realtà ogni categoria di fruitori della natura deve rassegnarsi a porsi deilimiti, perché non esistono fruitori buoni e fruitori dannosi, ed è nella limitazione di tutte le libertà il compromesso giusto che permette di garantire alla natura la possibilità di perpetuarsi nella sua libertà, perché mentre sono adattabili le nostre esigenze, il più delle volte non lo sono quelle della natura.......'c'è bisogno di amore verso la Terra, non verso i piaceri che ne traggono attraverso l'uso'. E' invece, purtroppo, quasi sempre l'inverso per la stragrande maggioranza degli aderenti ai vari gruppi di interesse, dall'ornitologo al cacciatore ".
Scrive ancora Zunino e completa il discorso: "Il Wilderness Concept è quella ipotetica barriera invisibile ma invalicabile contro le pressioni delle esigenze economiche, e quindi di sviluppo, della società umana, posta dall'uomo stesso a difesa della natura, o meglio a garanzia della sua perpetuità. In pratica una premeditata rinuncia dei diritti dell'uomo per garantire quelli della natura. Questa barriera è stata codificata per la prima volta al mondo nel 1964 con una legge speciale del Congresso americano. I territori delimitati da questa barriera legislativa sono per sempre e per principio tutelati contro ogni progetto di modifica al loro stato ambientale.
Oggi è il momento di cominciare seriamente a batterci affinché in tutto il mondo venga applicato questo concetto conservazionistico.
Salvare il salvabile delle ultime terre selvagge della Terra è una priorità indifferibile; abbiamo troppi esempi di luoghi selvaggi andati persi nel volgere di pochi anni perché ritenuti enormi o inattaccabili per assenza o scarsità di risorse o per la difficoltà di operarvi imprese redditizie. E' invece bastato poco perché il lento erodere di terre ai grandi spazi selvaggi si sia evoluto con un crescendo esponenziale vertiginoso (l'Amazzonia è l'esempio più attuale) in conseguenza a sviluppi socio-economici impensabili solo pochi anni fa; e così è stato per le risorse naturali scoperte in luoghi impensabili, risorse di qualità ed in quantità, la cui richiesta ha raggiunto i vertici sui mercati mondiali (petrolio, uranio, gas, ecc.): e qui insegna l'Antartide, ritenuto una landa sterile e desolata e ora scoperto come inesauribile miniera di ricchezze per il mondo intero! E' così pure i luoghi ritenuti inavvicinabili per le difficoltà tecniche di aprirvi vie di penetrazione: le scienze ingegneristiche nell'ultimo decennio hanno praticamente risolto ogni problema tecnico: ormai è solo questione di soldi. Se si vuole fare arrivare la civiltà mediante strade, dighe e costruzioni d'ogni natura non c'è più barriera naturale che riesca a fermare o contenere la volontà colonizzatrice dell'uomo.
Ad un tale stato di cose, tutte basate sul profitto, solo una corrente di pensiero può opporsi con efficacia. La volontà di distruggere colonizzando o sfruttando si può combattere solo con una volontà opposta: quella di conservare. Nessuna convinzione utilitaristica potrà mai prendere il posto a quella esigenza interiore e morale di conservarci qualcosa che amiamo perché sentiamo intimamente nostro come l'angolo preferito dalla nostra casa. Fino a che non ci convinceremo che conservare un luogo o un territorio è come far sì che gli estranei rispettino le nostre proprietà materiali (chi non si ribella a chi ci imbratta la casa o l'automobile?), non otterremo nessuna legge, nessun provvedimento duraturo a difesa dell'ambiente: accetteremo sempre compromessi, compromessi che considereremmo assolutamente inaccettabili se dovessero riguardare le nostre proprietà materiali. E questo non è giusto. Vuol dire che non abbiamo ancora raggiunto una coscienza sociale che ci faccia sentire nostro ciò che è di tutti. Ovverosia, continueremo a considerare ciò che è di tutti come se non fosse di nessuno o comunque mai nostro.
E' per questi motivi che piuttosto che vincoli seri e duraturi continuiamo ogni giorno a chiedere alle forze politiche la istituzione di nuovi Parchi ed aree protette solo per la soddisfazione di stampigliare queste definizioni su aree circoscritte cartograficamente ma che ben poco hanno di Parco o di Riserva della e per la natura, accettando labili vincoli pur di ottenere quelle semplici espressioni geografiche che, appunto, sono divenuti i Parchi italiani, siano essi nazionali o regionali. La 'Parcomania' affibiataci dai cacciatori esiste, non è una definizione per deridere il movimento ambientalista!
I Parchi Regionali istituiti negli ultimi anni, e così le molte Riserve Naturali regionali e statali, nonché i Parchi Nazionali progettati, sono basati su vincoli così poco vincolanti che al di là del solito scontato ed a volte inutile divieto di caccia, ben poco difendono dei patrimoni ambientali delimitati quali 'aree protette'.
Corriamo il rischio che come già in passato è avvenuto per tutti i Parchi nazionali esistenti, si vengano a perdere i valori ambientali e paesaggistici migliori proprio dopo che essi sono o saranno stati, teoricamente, sottoposti a tutela! Pensiamo quali grandi aree di natura selvaggia erano il Gran Paradiso o l'Abruzzo o lo Stelvio all'atto della loro designazione in Parchi Nazionali: 60.000, 30.000 e 70.000 ettari di Wilderness! Ora di quella Wilderness è rimasta ben poca cosa.
Oggi, quali Parchi o altre Riserve garantiscono che nessuna opera stradale o rifugio (per non parlare di peggio!) venga realizzata nei loro confini dopo la data della loro designazione? Pochi, se non nessuno in senso rigido.
Ecco quindi la necessità di una nuova corrente di pensiero conservazionistica in merito a ciò. Una corrente che scopra e faccia proprio il Wilderness Concept. Non è una 'Parcomania'. Bensì una scelta oggettiva dei luoghi meritevoli di vera tutela, da scindere da quelli di scarso valore ambientale o, peggio, con valori solo socio-economici per i quali possono anche andar bene gli pseudo vincoli di oggi. Una scelta, quindi, non tanto dei luoghi da tutelare per essere sfruttati quanto dei luoghi da conservare veramente, per necessità biologiche e psicologiche; da difendere come difendiamo i nostri giardini, per abbellire i quali spendiamo danaro al solo fine indiscusso di crearci qualcosa di bello da guardare e da godere. Solo prendendo atto e coscienza di un tale assioma potremo batterci al fine di ottenere anche da noi delle norme vincolistiche ispirate al Concetto di Wilderness, norme da applicarsi nell'ambito di tutte le aree protette esistenti e da prevedersi in quelle di futura istituzione, almeno a difesa delle ultime aree selvagge rimaste nel territorio italiano. E solo così potremo considerare la loro difesa nostro diritto indiscutibile, al pari del diritto alla difesa della nostra casa, delle nostre proprietà fondiarie, dei nostri beni materiali in genere.
Forever wild può significare anche per sempre nostro!”.
John Muir in una lettera al fratello scrisse: “Vendimi 20 ettari del prato vicino al lago e tienilo recintato in modo che non vi possa penetrare il bestiame.... voglio che resti incalpestato per la salvezza delle felci e dei fiori e, anche se non potrò rivederlo mai più, la bellezza dei suoi gigli e delle sue orchidee sarà tanto presente alla mia mente che ne gioirò soltanto immaginandomeli”.
La nostra mente ormai atrofizzata in uno stile di vita artificiale, illusorio e superficiale, non ci consente di poter concepire, anche per un solo istante, l’esistenza di una natura che non sia stata manipolata e trasformata dall’uomo. Il nostro pensiero di uomini “civili” non include più qualcosa che non sia umano o per lo meno umanizzato. Ecco perché apprezziamo solo le cose che evidenziano in qualche modo una “presenza” umana, anche minima, ma sempre umana (un sentiero selvaggio, non battuto e non marcato, viene considerato “abbandonato”, impraticabile, non confortevole). Tutto deve essere sempre sottomesso in qualche modo all’operato dell’uomo. Si spera che le ultime aree della terra che ancora sono immuni dal “morbo” umano, rimangano tali per sempre.
“Quello che ho cercato di dire è che la conservazione del mondo è nella natura selvaggia... La via è fatta di spazi selvaggi. La cosa più viva e la più selvaggia. Non ancora sottomessa all’uomo, la sua presenza la rinvogorisce.... Quando voglio ri-crearmi, cerco il bosco più intricato, più fitto e più esteso e, per l’abitante della città, il più tetro e paludoso. Vi entro come in un luogo sacro, un Sanctum sanctorum. Lì è la forza, il midollo, della Natura. In breve, tutte le cose buone sono selvagge e libere” ( H.D. Thoreau).
John Mitchell in un suo articolo (1998) ci ricorda, a conferma di quanto detto pocànzi che: “Quando si parla di wilderness non si intende esclusivamente un luogo fisico, e neppure un sistema di gestione...... Wilderness è anche uno stato mentale. Un’idea a un tempo inafferrabile e terrena: personale quanto il rischio, la libertà, la solitudine e il riposo
spirituale; concreta quanto la terra vivente e le acque che ne disegnano il profilo”. Aggiunge poi, citando un suo interlocutore Charles Little che: “La terra è una comunità, insegnava Leopold. Le sue acque, il suolo, le piante, gli animali, compongono un insieme armonico non per il nostro beneficio, bensì per il loro”.
E’ bene completare ed integrare il discorso con le parole del già più volte citato Aldo Leopold, cui si deve la designazione della prima Wilderness Area del mondo, ed universalmente noto per i suoi trattati sull’”Etica della Terra”. Dall’opera A Sand County Almanac (1949/1968, traduzione di F. Zunino): “La Wilderness è il materiale grezzo dal quale l’uomo ha manipolato il manufatto chiamato civiltà.
La Wilderness non è mai stata un materiale grezzo omogeneo. Era molto varia e i manufatti risultati sono, pertanto, molto differenti. Queste differenze nel prodotto finale noi le conosciamo come culture. La ricca diversità nella selvatichezza delle quali hanno preso vita.
Per la prima volta nella storia della specie umana, due cambiamenti sono incombenti. Uno è l’esaurirsi della Wilderness nella porzione del globo più abitata. L’altro è l’ibridazione delle culture del mondo attraverso i moderni mezzi di trasporto e l’industrializzazione. Nessuno dei due può essere prevenuto; o forse potrebbe anche esserlo, visto che, da alcuni insignificanti miglioramenti dei cambiamenti che incombono, certi valori possono essere preservati prima che siano persi.
Per il fabbro accaldato nel lavoro, il ferro sulla sua incudine è un avversario da conquistare. Così era la Wilderness, un avversario per i pionieri. Ma per il fabbro in riposo, capace per un momento di gettare uno sguardo filosofico nel suo mondo, lo stesso ferro grezzo è qualcosa da amare e custodire, perché dà determinazione e significato alla sua vita. Questo significa la preservazione di alcuni rimasugli di Wilderness come pezzi di museo, per il piacere di quelli che potrebbero un giorno desiderare vederli, viverli, o studiarvi le origini della loro eredità culturale”.
Pur se alcuni passi sono una ripetizione di quanto scritto sulla wilderness, riportiamo alcuni punti (punto 1 e 2) del documento programmatico dell'Associazione Italiana per la Wilderness, affinché si focalizzi ancora meglio l'importanza di alcuni aspetti di questa reale visione della conservazione della natura.
Punto 1 - Wilderness come sentimento
Come ogni bellezza, anche la natura nella vastità dei suoi molteplici aspetti fisici e delle sue manifestazioni prima di destare in noi interessi d'ordine scientifico o culturale o
soddisfare esigenze ricreative, desta emotività. Negarlo sarebbe sciocco; ognuno di noi con la riflessione può riuscire a risalire a questa prima emozione di scoperta del mondo naturale. Tutto il resto dei nostri interessi è venuto dopo, con l'acculturamento. La natura è pertanto in primo luogo un patrimonio spirituale per l'uomo, e i complessi ambientali più intatti e quindi più belli secondo un metro di giudizio naturalistico, sono le cattedrali o i santuari di questa spiritualità.
Nella società moderna si può essere malati dello spirito così tanto quanto nel corpo, e in questi caso il contatto con la natura, il vivere nella natura in modo equilibrato divenendo membri partecipi della sua comunità ritrovando ancestrali rapporti con essa, può essere un modo, e sicuramente lo è per molti individui, di ritrovare stat d'animo che ci migliorano e che migliorano il nostro vivere civile con gli altri, la nostra etica sociale; è quindi un modo per migliorare la società in cui viviamo. La natura diventa in questo caso una componente indispensabile della nostra esperienza di vita. Questo è il sentimento che gli anglosassoni hanno strettamente legato all'esperienza di "Wilderness".
Di fronte ad un bosco distrutto, ad una montagna deturpata, a qualsiasi modificazione di stati paesaggistici che amiamo o che abbiamo amato, sentiamo dentro di noi un moto di rivolta spontaneo, che è la nostra prima reazione a questi misfatti. Tutti gli altri motivi, sociali, culturali, ricreativi, scientifici ed anche economici, li elenchiamo dopo, col ragionamento. Ancora una volta notiamo, quindi, come sia il valore spirituale a destare il nostro primo e più sentito interesse. nonostante questo, la tendenza comune è di porre questi altri motivi al primo posto dei nostri interessi, e di farne le motivazioni per cui vogliamo proteggere la natura; giungiamo in pratica a negare anche a noi stessi l'emotività che abbiamo dentro e che è il primo motivo di rivolta e pertanto il vero primo motivo per cui dobbiamo batterci per tutelare il patrimonio naturale (e questo vale anche per le opere artistiche, il cui valore sentimentale è sempre superiore a quello venale): la vista stessa senza questi sentimenti non avrebbe senso o sarebbe ben sterile e fredda.
In definitiva, bisogna proteggere la natura perché è bella, perché ci piace e ci procura emozioni, e soprattutto perché ha diritto di esistere. Chi capisce questo sentimento ha capito la filosofia Wilderness. Legare questa idea ai soli spazi selvaggi è limitativo: i grandi spazi selvaggi sono solo i luoghi migliori, tra i massimi per bellezza e ricchezza naturalistica, dove garantire i diritti della natura e dove la nostra emotività nei rapporti con essa si manifesta maggiormente.
I bisogni spirituali dell'uomo legati alla natura sono in aumento, ma sia il capitalismo che il consumismo si fondano su una società materialistica che tende ad ignorare questa esigenza umana e che sta distruggendo o quanto meno assoggettando ogni fenomeno naturale alle sue necessita tecnologiche ed economiche; se c'è una possibilità di fermare questa evolution, non è nel rivoluzionamento dei sistemi sociali, ma nell'esaltare e far progredire i valori dei sentimenti umani, perché è in essi l'unica forza capaci di resisterle e di condizionarla.
Le motivazione interiori sono tra l'altro le uniche che non potranno mai essere assoggettate alla volubilità degli uomini politici e degli amministratori del territorio. Anche nei momenti più critici della vita sociale sarà più difficile derogare alla necessità di salvaguardare una poco di natura; anche di fronte a gravi esigenze contingenti ci si potrà opporre, nel limiti dell'umano, alla distruzione della natura. Una tale forza non ha nessuna delle motivazioni materialistiche.
Punto 2 - Wilderness come maggiore rispetto della natura
Chi sente il desiderio di un rapporto diverso con l'ambiente, più legato ad esigenze interiori di beltà e di solitudine, di riflessione, di godimento della bellezza, dei momenti del vivere e dell'evolversi della natura, più facilmente capirà l'esigenza di maggior rispetto, capirà che i diritti della natura, almeno in alcune aree, devono avere il primo posto e che l'uomo deve visitarle sempre pronto a tirarsi indietro non appena divengano evidenti i segni del mutamento che la sua presenza le arreca, che vanno dalla degradazione ambientale al disturbo della fauna, alla perdita di certi stati di pace e solitudine (che sono un diritto della fauna prima ancora del nostro); pronto pertanto anche a rinunciare alla natura quando ne è il caso.
Invece la maggioranza di coloro che amano la natura, la fauna, la flora, o ne godono attraverso la ricreazione fisica in essa, raramente si pongono problemi di rinunzia ai propri piaceri per rispetto delle sue esigenze. Di solito, ogni organizzazione, ogni gruppo di interesse, tenta di porre dei limiti ad altri organismi o gruppi di persone la cui libertà di azione minacci le proprie esigenze. Si guarda quasi sempre agli altri, prima di fare autocritica e cominciate a vedere cosa vada limitato delle proprie attività. L'esempio più lampante è la rivalità tra naturalisti e cacciatori. I primi vorrebbero abolire del tutto la caccia, vista come attività rivale ai loro interessi, ma quasi mai si pongono problemi di limitazione alla loro attività di osservazione, studio o ricreazione pur dannose come la caccia in certe situazioni. I secondi, dal canto loro, sono sempre pronti a prendersela col turismo o con gli inquinatori, ma evitano di porre limiti al terribile impatto che la loro categoria infligge alle popolazione faunistiche. Ogni categoria di fruitori della natura cerca in buona fine da una lato di limitare la libertà delle altre antagoniste, e dall'altro di scegliere delle alternative che diano solo la parvenza di limitazioni alle proprie attività, trovando
sempre motivazioni sufficienti per giustificare il proprio "diritto all'ambiente" e negare quello degli altri.
In realtà ogni categoria di fruitori della natura deve rassegnarsi a porsi dei limiti, perché non esistono fruitori buoni e fruitori cattivi, ed è nella limitazione di tutte le libertà il compromesso giusto che permette di garantire alla natura la possibilità di perpetuarsi nella sua libertà, perché mentre sono adattabili le nostre esigenze, il più delle volte non lo sono quelle della natura. L'"Etica della Terra", o l'etica ambientale, di Aldo Leopold, è in fondo anche questo.
"C'è bisogno di amore verso la Terra, non verso i piaceri che se ne trae attraverso l'utilizzo". E' invece, purtroppo, quasi sempre l'inverso per la stragrande mggioranza degli aderenti ai vari gruppi di interesse, dall'ornitologo al cacciatore. Una politica di "carryng capacity", cioè di un uso razionale ed equilibrato non solo delle risorse ma anche dell'ambiente come luogo di ricreazione, e nel primario rispetto delle esigenze della natura.......
L'uomo deve rispettare la natura per il suo valore in sé, e deve sapersi tirare indietro non appena la sua presenza vi incide negativamente, non trovare cavilli e rimedi provvisori per giustificare la necessità o, peggio, il "diritto" della sua presenza……”
Prima di concludere e passare ad illustrare alcune notizie pratiche si vuole fare un ultima riflessione.
E’ stato ampiamente esposto precedentemente l’alto e lodevole significato della filosofia Wilderness per la conservazione di un territorio selvaggio ed abbiamo visto che un area sottoposta a quel principio rappresenta, nella sua attuazione pratica, una forma concreta e reale di protezione/conservazione che si esprime al massimo grado a cui oggi si possa arrivare.
Quello che invece si vuole portare bene alla luce (anche se Zunino ne ha già abbondantemente parlato) è il fatto che il Concetto di Wilderness, abbia nel suo seno, un aspetto fondamentale molto importante, sia per gli effetti che proietta su una eccellente protezione della natura, ma anche un principio tanto caro all’Ecologia profonda: “il valore in sé della natura”. Riportiamo nuovamente quanto detto da Zunino all’inizio del documento: “La protezione di un territorio naturale può certamente avere molti ruoli, molte finalità, ma credo che solo uno debba essere lo scopo per cui la si debba attuare: conservare il territorio fine a se stesso".
Il valore in sé della natura è un atteggiamento tra i più profondi che si possono elaborare. Si va oltre il fine antropocentrico ed utilitaristico della natura e si riconosce che il suo esistere prescinde da quello dell’uomo. Certo l’uomo, soprattutto negli ambienti selvaggi, può trovare il massimo godimento, soprattutto spirituale, di vivere una natura vera e può gioire sapendo che si tratta di un’area tutelata con il più alto valore possibile oggi auspicabile (si ricorda, come detto, il Wilderness Act americano che nel lontano 1964 ha sancito un punto di svolta epocale per una vera tutela dei territori naturali).
Questo pone, come detto, il concetto di wilderness al di fuori di ogni logica utilitaristica della natura e, come sappiamo, imprime alla conservazione reale di un territorio un valore che non ammette compromessi, cioè tutelare un ambiente, ma non permettendo, o al massimo ridurre al minimo, molte attività umane che alla fine snaturano, almeno in buona parte, gli effetti iniziali dell’atto protettivo (la politica dei parchi in Italia ne è un esempio). Il concetto di Wilderness, guarda in primis agli interessi della natura e, successivamente - ma in forma completamente diversa rispetto a quello che molti credono sia buono per l’ambiente - a “vantaggi” anche per l’uomo, ma questi vantaggi sono per lo più di carattere spirituali e molto poco materiali.
Le aree wilderness non sono riserve integrali nelle quali non è possibile accedere, ma l’etica della wilderness ci dice di farlo “in punta di piedi”, perché occorre ricordare che in un’area selvaggia è sempre la natura ad essere “padrona” e protagonista. L’uomo deve sapersi tirare indietro al minimo cenno di disturbo o di alterazione. Scrisse un indiano Piedineri: ”Un uomo non dovrebbe mai camminare con tanto impeto da lasciare tracce così profonde che il vento non le possa cancellare”.
Il riconoscimento del valore in sé della natura, porta ad approdare ad un altro concetto fondamentale che stravolge tutte le posizioni che l’uomo ha sempre avuto nei riguardi della natura (e non solo): l’ecocentrismo!! Si abbandona la centralità dell’uomo (antropocentrismo), e questo porterà ad una vera rivoluzione di tutti gli atteggiamenti mentali e materiali che si esprimono. E, fatto questo passo si arriva direttamente alla concezione dell’olismo, l’unità del tutto, una visione che pone sullo stesso livello ogni elemento di madre terra (animato e non): “Non si può toccare un fiore senza disturbare una stella” (G. Bateson).
Dice Hargrove “La bellezza è un carattere intrinseco e oggettivo dell’ente naturale (il quale quindi è bello per il solo fatto di esistere), dunque essa è svincolata dalla percezione da parte di un soggetto…..” e conclude “….la Wilderness è oggi simbolo universale di un territorio selvaggio non manomesso dalla mano dell’uomo in cui la natura, libera di rappresentarsi, si manifesta in tutto il suo splendore”.
Dedicato……. ad una Wilderness che conservi per sempre gli ultimi territori selvaggi stando esclusivamente dalla parte della natura, grazie ad una sua visione, olistica, ecocentrica, profonda e che riconosce, nel suo massimo significato, il valore in sé della natura tutta”.
Dopo questa lunga dissertazione vediamo ora di riassumere le finalità generali della filosofia wilderness e di accennare ad alcune applicazioni pratiche della stessa.
Le finalità
- - Per una nuova filosofia che consideri la natura un valore spirituale per l’uomo, che esalti il suo valore morale e di bellezza e l’emotività che essa suscita nell’animo umano; affinché sia maggiore il suo rispetto e più sicuri e duraturi i vincoli presi a sua tutela.
- - Per un più giusto rapporto tra l’uomo e la natura ed un uso equilibrato dell’ambiente anche se a fini ricreativi e di godimento nel primario rispetto delle sue esigenze: affinché sia effettivamente possibile tramandare di generazione in generazione sempre uguali i nostri patrimoni ambientali.
- - Per il mantenimento della assoluta integrità territoriale e paesaggistica delle aree naturali più selvagge, dentro e fuori le aree già protette; affinché pur nel rispetto di tradizionali utilizzi delle risorse naturali e recupero di valori culturali, esse si conservino per sempre inalterate.
- - Per l’approvazione da parte degli organi legislativi ed altri organismi che gestiscono il territorio, di leggi e provvedimenti speciali che tutelino i valori della natura selvaggia; affinché sia garantita per sempre e per principio la intangibilità delle aree naturali più selvagge e vi sia proibita ogni forma di motorizzazione ed antropizzazione.
- - Per un controllo e una supervisione morale a favore della natura sulle attività di gestione degli organismi che amministrano le aree protette; affinché i primari interessi della natura non debbano mai essere messi da parte o sminuiti per fare quelli dell’uomo.
- - Per il riconoscimento legittimo di un diritto di proprietà morale sulle bellezze naturali a prescindere dalla proprietà catastale dei suoli; affinché ogni valore della natura non sia più considerato solo in un’ottica economica con la conseguente negazione del valore estetico e spirituale che lo stesso bene possiede.
La nascita concreta della wilderness
Scaturita in America nel secolo scorso e diffusasi soprattutto in questo secolo, fino ad allargarsi al resto del mondo, la filosofia Wilderness ritiene, come abbiamo appena visto,
che la natura vada conservata in quanto valore in sé, e considera questo valore un patrimonio spirituale per l’uomo per ciò che esso esprime, a livello interiore, in ogni individuo.
Il Concetto di Wilderness ha invece soprattutto una profonda implicazione protezionistica, significando un vincolo duraturo nel tempo con il massimo di garanzie che la società possa dare. Codificato in USA in una legge speciale, esso ha permesso di designare quelle zone protette note come “Aree Wilderness” che hanno l’eguale nella vasta gamma di Parchi ed altre Riserve analoghe per la difesa della natura. Esse hanno lo scopo di preservare gli angoli più selvaggi della Terra nel loro stato più primitivo, e per questo rappresentano un fatto di insuperabile qualità nella politica di tutela del territorio; ciò non solo per garantire la sopravvivenza della fauna e ella flora nei loro stati originari o il più vicino possibile a tali stati, ma per permettere anche all’uomo di goderne in una natura incontaminata, e soprattutto di goderne in equilibrio ed in armonia.
The Wilderness Act
1964 - Il 3 settembre 1964 il Congresso americano approva, dopo vent’anni di discussioni e revisioni dei testi, il Wilderness Act (legge per le zone selvagge), la prima legge mondiale che riconosce, definisce e tutela il valore della Wilderness, designando contemporaneamente una lunga serie di tale aree. E’ la legge più rigida in materia di difesa ambientale mai approvata da un governo, e tuttora mai eguagliata. La difesa del valore Wilderness è anteposta ad ogni altra esigenza; i territori così protetti, completamente selvaggi e privi di strade, vengono sottratti per sempre ad ogni manipolazione e riservati esclusivamente al libero sviluppo delle forze naturali. L’uomo può però visitarle quale membro partecipe della comunità vivente, ovverosia in modo equilibrato, senza interferenze o forme di usura ambientale.
1980 - Con un’altra legge destinata a restare come pietra miliare nella storia del conservazionismo mondiale, il Congresso americano designa in un colpo solo 40 milioni di ettari di nuovi territori protetti nello Stato di Alaska, dei quali circa la metà immediatamente classificati Wilderness e sottoposti ala rigida legge del 1964.
E’ sintomatico notare come questa legge rigidissima sia anche un esempio unico di sinteticità e chiarezza legislativa: si è codificata la migliore forma di protezione ambientale con soli 35 articoli pari a 12 pagine dattiloscritte!
Attualmente sono sottoposti ai vincoli del Wilderness Act più di 500 aree per un totale di oltre 40 milioni di ettari.
“Tuttavia, - annota J. Mitchell (1998) - nei posti che sono riuscito a visitare, ho osservato e sentito abbastanza da poter affermare che dopo quasi 35 anni il National Wilderness Preservetion System regge ancora piuttosto bene. Non che manchino i problemi. Così come le foreste, i parchi e i rifugi nazionali che le racchiudono, anche le riserve integrali sono esposte ad insidie: l’uso improprio, l’abuso vero e proprio, e poi l’insufficienza di fondi, l’erosione dei sentieri, le specie esotiche invasive, i battibecchi politici e gli interessi locali contrari all’intervento normativo del governo. Sinora, però, nella maggior parte dei casi, sulle difficoltà ha prevalso l’ingegno.
Fra tutte le questioni che assillano i responsabili, forse nessuna richiede un tale dispendio di soldi e di tempo quanto l’impatto dei visitatori sui sentieri e sui campeggi. Negli ultimi trent’anni, l’uso ricreativo delle wilderness areas si è moltiplicato di sette volte rispetto al passato ”.
La wilderness nel mondo
Il concetto della difesa delle ultime grandi aree selvagge della terra dagli Stati Uniti si allarga al resto del mondo, ed in particolare ai paesi di origine anglosassone. Allo stato attuale le nazioni che vantano una specifica legge sulle aree Wilderness sono: Stati Uniti, Canada, Nuova Zelanda, Australia, Sud Africa, Kenia, Finlandia.
“Non sarò più giovane, ma ne sono felice se non c’è un paese selvaggio in cui esserlo. A che serve tutta la libertà del mondo senza un punto vuoto sulla mappa?” (Aldo Leopold).
“Se tu conoscessi i territori più selvaggi come conosci l’amore, non vorresti mai separartene. E’ del corpo dell’essere amato che parliamo, non di proprietà terriere” (Terry Tempest Williams).
“La rivalutazione della natura selvaggia è una delle più straordinarie rivoluzioni intellettuali nella storia del pensiero umano riguardo all’atteggiamento verso la terra... Da inferno terrestre, la wilderness è diventata un rifugio di quiete dove i visitatori possono avvicinarsi, felici, alla dimensione divina sull’onda delle parole dell’ambientalista John Muir e delle melodie di John Denver “ (Roderik Nash).
“Noi esseri umani dobbiamo tornare a una comprensione della terra e dell’aria nel senso morale del termine. Dobbiamo vivere in armonia con un’etica della terra. E’ l’unica alternativa possibile a morire” (N. Scott Momaday, Kiowa - in AA. VV., 1995).
“Io nacqui nella prateria dove il vento soffiava liberamente e dove non c’era nulla a bloccare la luce del sole. Io nacqui dove non c’erano recinti e dove ogni cosa respirava liberamente.
Io voglio morire là, e non dentro questi muri” (Dieci Orsi, Comanche Yanmparika - in AA. VV., 1995).
“La Wilderness non è mai stata così importante quanto oggi. Ma non così importante oggi quanto lo sarà domani”(Vance G. Martin).
“Che qualcuno mi mostri un luogo la cui vista risulti insopportabile a qualsiasi civiltà” (Henry D. Thoreau).
"La salvaguardia del mondo naturalen è riposta nel suo stato di wilderness" (Henry D. Thoreau).
"La Wilderness è molto più di laghi, fiumi e boschi lungo le rive, molto più del pescare o del campeggiare. Essa è il senso di primitivo, dello spazio, della solitudine, del silenzio e dell'eterno mistero" (Sigurd Olson).
“La risposta a qualsiasi domanda la troverai sempre nella natura selvaggia” (Mario Spinetti).
"La natura sarà salvata solo se l'uomo le manifesterà un po' d'amore semplicemente perché è bella, e perché noi abbiamo bisogno di bellezza, qualunque sia la forma a cui siamo sensibili a seconda della nostra cultura e della nostra formazione intellettuale. Perché questa sensibilità è la migliore e la più integra espressione dello spirito umano" (Jean Dorst).
“La natura selvaggia è un bisogno spirituale che ognuno di noi si porta dentro e che va dal semplice amore per il bello al preponderante bisogno di solitudine che sentono alcuni. E’ il senso di fastidio che proviamo in natura di fronte all’opera dell’uomo, anche quando quest’opera è minima o ha fini di conservazione o di studio. La natura selvaggia è acqua libera di scorrere, di erodere, di gonfiarsi e straripare; è la libertà di volare e di correre degli animali; sono gli orizzonti intatti di montagne o di piatte paludi; è l’immensità del cielo
su un panorama d’erba; è il silenzio della natura e lo scrosciare d’acque nelle valli montane; l’urlo del temporale nella foresta; il sibilo della bufera e il boato pauroso della valanga; il lento volo dell’aquila che annulla lo spazio tra le montagne; è il gioco delle onde sulle scogliera. La natura selvaggia è girare attorno lo sguardo e non vedere segno d’uomo; è ascoltare e non udire rumori d’uomo” (Franco Zunino).
“La protezione di un territorio naturale può certamente avere molti ruoli, molte finalità, ma credo che solo uno debba essere lo scopo per cui la si debba attuare: conservare il territorio fine a se stesso. E conservarlo vuol dire, o dovrebbe voler dire, far si che non venga alterato volutamente, vuol dire decidere di sottrarlo alla logica dello sviluppo (che è la logica del profitto) che è prettamente umana.
Decidere di conservare un luogo è decidere di tenere per quel luogo un comportamento ancestrale, animale, quale è la nostra origine, che è l’unico modo per poterci definire in equilibrio con l’ambiente: nessun cervo, nessun lupo, nessun orso ha mai potuto o preteso di “sviluppare” o “valorizzare” o “far produrre” il proprio habitat. Semplicemente da millenni lo utilizzano per quello che spontaneamente esso offre loro e lasciandolo immutato per altre generazioni. E’ solo l’uomo l’unica specie animale ad essere uscita da questo “cerchio della vita” (Franco Zunino).
Per una Wilderness profonda
“C’è solo una speranza di respingere la tirannica ambizione della civiltà di conquistare ogni luogo della terra. Questa speranza è l’organizzazione delle genti più sensibili ai valori dello spirito, affinché combattano per la libera continuità della natura selvaggia” (Robert Marshall)
“Come i venti e i tramonti, la vita selvaggia era considerata sicura finché il cosiddetto progresso non ha cominciato a portarla via. Ora ci troviamo di fronte al problema se un ancora più alto livello di vita valga il suo spaventoso costo in tutto ciò che è naturale, libero e selvaggio” (A. Leopold)
“La battaglia per la conservazione della natura continuerà indefinitivamente, perché essa è parte dell’universale battaglia tra il giusto e l’errore” (J. Muir)
“La natura deve essere rispettata e salvaguardata per il suo valore in sé. E’ l'uomo che deve adattarsi alle sue esigenze e non viceversa. Se è possibile, si deve fare in modo che il mondo selvaggio viva nella sua libera continuità e nella sua fierezza, quella libertà e quella fierezza che l'uomo, prigioniero e schiavo delle proprie convenzioni, forse inconsciamente invidia"
In questo documento vogliamo porre in evidenza la parte più profonda del Concetto di Wilderness ovvero il valore in sé che riconosce agli elementi della natura. Emendiamo quindi gli aspetti di ecologia di superficie, infarciti di antropocentrismo a cui approdano molto spesso i vari movimenti wilderness (tra cui quello italiano). Infatti Franco Zunino, praticamente il “padre” italiano di tale movimento, con un pensiero tipicamente “occidentale” scrive: ” Secondo me non si può prescindere dall'uomo. Che piaccia o meno, l'uomo è al centro del mondo e non sarà mai possibile evitarlo. Ed essendo noi uomini dotati coscienza e di intelligenza, è inevitabile che qualsiasi cosa si faccia, la si faccia sempre per l’uomo. Quindi la conservazione della natura non è altro che una reazione alla parte dell'uomo che la sta distruggendo. Ma anche chi la vuole difendere, sempre per l'uomo lo vuole fare. Dire che bisogna preservarla di per sé e che così facendo poi servirà comunque all'uomo è quasi pleonastico, perché in realtà sempre per noi che la amiamo lo facciamo, che sia per scopi materiali, scientifici o spirituali. E allora non cerchiamo di negare una realtà che magari non ci piace ma che è tale, nell'illusione di una natura che vive di per sé (ma che certamente non si autoapprezza!). Se l'uomo non ci fosse, neppure la natura di per sé avrebbe senso. Io sono felice di sapere che la natura dell'Isola di Papua esiste integra di per sé, ma è comunque un di per sé che mi soddisfa ed appaga come uomo. Quindi è sempre per l'uomo che noi desideriamo la preservazione di per sé di luoghi che mai vedremo nella nostra vita, ma che finché viviamo ci allieta sapere che esistano. E' un concetto difficile da spiegare, ma alla fine sempre all'uomo si ritorna. Altrimenti, prima che opporci alla distruzione della natura di questo nostro pianeta dovremmo farlo per impedire che l'uomo ne scopra altri, i quali certamente esistono e vivono di per sé. Ma ha senso pensare così? Ci potrà mai appagare l'idea di un mondo naturale che vive di per sé ma che neppure sappiamo se esiste?! Io non credo. Per appagarci dobbiamo sapere che esiste, e nel momento che sappiamo che esiste, ecco che l'uomo torna al centro, a quell’ombelico che l'ecologia profonda vorrebbe negare”. Lo stesso Zunino, in altro passo del suo pensiero, pare che si sconfessi da solo, quando dice: “la protezione di un territorio naturale può certamente avere molti ruoli, molte finalità, ma credo che solo uno debba essere lo scopo per cui la si debba attuare: conservare il territorio fine a se stesso" . E poi ancora: ".... Chi sente il desiderio di un rapporto diverso con l'ambiente, più legato ad esigenze interiori di beltà e solitudine, di riflessione, di godimento della bellezza, dei momenti del vivere e dell'evolversi della natura, più facilmente capirà l'esigenza di maggior rispetto, capirà che i diritti della natura, devono avere il primo posto e che l'uomo deve visitarla sempre pronto a tirarsi indietro non appena divengono evidenti i segni del mutamento che la sua presenza le arreca, che vanno dalla degradazione ambientale al disturbo della fauna, alla perdita di certi stati di pace e solitudine (che sono un diritto della fauna prima che nostro); pronto pertanto anche a rinunciare alla natura quando ne è il caso".
Continuando con Dalla Casa egli risponde a Zunino dicendo che ”Sono rimasto abbastanza stupito nel constatare che la filosofia wilderness, secondo la visione di Zunino, è completamente antropocentrica.
Le aree wilderness sarebbero da preservare allo stato completamente naturale, ma per la rigenerazione spirituale dell’uomo e non per un valore in sé o per la loro spiritualità intrinseca. In sostanza la filosofia wilderness si adegua ai principi dell’ecologia di superficie e del pensiero corrente, tranne che per il fatto (lodevole) di chiedere una gestione completamente diversa delle aree protette naturali-selvagge, che comunque restano isole in un mare di “progresso”.
L’affermazione che mi sembra davvero insostenibile è che l’ecologia profonda sarebbe “materialista” e la filosofia wilderness avrebbe invece aspetti più “spirituali”. Infatti:
- la filosofia wilderness, come esposta da Zunino, vede la parte spirituale-psichica-mentale solo nell’uomo: le aree wilderness vanno preservate, ma per il miglioramento spirituale dell’uomo;
- l’ecologia profonda vede un aspetto profondamente mentale-psichico-spirituale in tutte le entità naturali e nelle loro relazioni. Vede la nostra specie come componente interrelata in queste relazioni e quindi dotata anch’essa di profondo valore spirituale in quanto parte inscindibile di questa Natura, di quest’Anima del mondo.
Come si fa ad affermare che l’ecologia profonda è più “materialista” della filosofia wilderness? A me sembra proprio il contrario. Nella filosofia wilderness lo spirito è prerogativa di una sola specie, nell’ecologia profonda è ovunque.
Inoltre, a mio avviso il concetto di “primitivo” è privo di significato. Mi sembra invece che Zunino segua sostanzialmente le idee correnti che portano al vertice del cosiddetto “progresso” l’attuale civiltà industriale: al massimo ne chiede qualche correttivo. Mi sembra di capire che considera il “Cristianesimo”, palesemente inteso come l’attuale tradizione ebraico-cristiana, come un “progresso” rispetto alle visioni animiste-panteiste di tante altre culture umane.
La visione giudaico-cristiana-islamica è invece soltanto il frutto di spaccature profonde, dualismi inconciliabili fra Dio e il mondo, lo spirito e la materia, l’uomo e la natura. Diventa così facile passare al materialismo puro, basta togliere uno dei due termini, già ben separati. Non c’è nessuna “superiorità”. E’ forse superfluo aggiungere che tale visione non ha praticamente nulla dell’insegnamento di Cristo, di cui non sappiamo quasi niente. Resta soltanto l’impressione che tale insegnamento richiama moltissimo “l’amore compassionevole verso tutti gli esseri senzienti” del Buddhismo Mahayana.
Come dettaglio, esistono un centinaio di specie fossili intermedie con altri Primati, dagli Australopiteci al Neanderthal e poi all’Homo sapiens. Mi piacerebbe sapere da che parte vengono collocati questi esseri senzienti da chi sostiene la spaccatura umani-animali.
E poi aggiungo, non stiamo parlando di due contrapposizioni tra la filosofia wilderness e l'ecologia profonda. L'una è insita nell'altra e, soprattutto l'ecologia profonda, racchiude una visione universale che include ogni nostra positiva prospettiva delle cose. Infine è un grave errore inquadrare l'importanza della filosofia wilderness in una visione meramente antropocentrica (sarebbe più logico e significativo dargli una peculiarità ecocentrica ed olistica)”.
Occorre invece con forza ribadire il concetto del valore in sé della natura affinché si evidenzi ancor più un intimo legame che può intercorrere tra il concetto di Wilderness classico e l’Ecologia profonda, che porta con se una nuova etica ambientale integrata dal Manifesto per la terra; tutto ciò produce fondamentali elementi che universalizzano i concetti di conservazione e quindi di tutto il pensiero ecologico. Non è infatti sufficiente impegnarsi solo (anche se ovviamente è già un atto lodevole) alla salvaguardia di territori (wilderness e non), ma occorre anche impostare una nuova forma di pensiero affinché la protezione della natura divenga una sol cosa con il quotidiano esistere. Estinguere il dualismo e abbracciare la visione olistica e bioregionale del tutto. In tal modo il concetto di Wilderness epurato dai marcati riflussi dell'ecologia di superficie che, come abbiamo accennato, troppo spesso gli appartengono, esporterà principi non solo di salvaguardia diretta e reale delle aree selvagge, ma anche di pensiero.
Questo è un punto fondamentale poiché pensare di conservare un luogo quanto più selvaggio possibile senza andare ad intaccare anche una nuove concezione del mondo, è certamente un fatto importante, concreto e lodevole, ma ha alla base dei piedi di argilla, in quanto fermandosi ad una visione miope e mirata verso un unico elemento “superficiale” conservativo, in una proiezione futura verrà inesorabilmente fagocitato da un sistema di pensiero che è fermo alla centralità dell’uomo e sempre allo sfruttamento della natura, in tutti i sensi che tale concezione intende. Infatti vedere la Wilderness in funzione dell’uomo, anche se in forma prevalentemente spirituale, è anche essa una forma vera e propria di ”utilizzo“ utilitaristico della natura. In questo caso è meno grave, poiché è un utilitarismo volto ad esaltare fondamentalmente gli aspetti spirituali che l’uomo carpisce nel vivere la Wilderness (anche se non mancano quelli materiali), ma ha un “cancro” dentro se, poiché pone la questione in senso di proteggere un territorio per un ennesimo beneficio dell’uomo. E’ vero che la classica visione della wilderness riconosce il valore in se stesso di un territorio, ma ciò prende vita solo se l’uomo ne può “beneficiare” in un qualche modo. Ricordiamo invece il precetto fondamentale che dice “la natura deve essere salvaguardate per il suo valore in sé e non per un nostro interesse materiale, spirituale o etico che sia”; poi, a questo punto e con questa visione se anche l’uomo troverà un giovamento ben venga, anzi è auspicabile, ma ciò deve essere esclusivamente un riflesso, non lo scopo di quel ”salvataggio”. Occorre comprendere che se non si cambia la forma mentis utilitaristica, il libero dispiegarsi della natura non troverà mai spazio, perché sarà ”frenato” sempre dagli interessi diretti dell’uomo. E senza una visione olistica, ecocentrica ed universale, nel futuro tutto naufragherà nella totale distruzione di madre terra, poiché essendo dapprima stata totalmente posseduta dall’uomo, viene di conseguenza annientata. Nessuno mette in dubbio che l’uomo “originario” vedesse nella natura quasi esclusivamente elementi di sua utilità, ma in questo caso parliamo di “sopravvivenza” e, come il resto delle forme di vita sulla terra, “sfruttava” ciò che trovava a disposizione, ma non arrivava mai a distruggere ciò che era il suo pane. Ma l’uomo di cui stiamo parlando è un uomo che ha sviluppato una eccessiva, anzi direi, unica via di sfruttamento/utilizzazione delle risorse naturali che, oltrepassato i fini di sussistenza è approdato agli interessi “economici” e sta annientando tutto, solo perché oramai vede nella natura un immenso “cavoau di una banca” a cui “rubare” quanto più non posso, tutto il denaro che ivi trova riposto.
“Quando si parla di ecologia e protezione della Natura, occuparsi di ‘visioni del mondo’ sembra una cosa più astratta, o meno pratica, rispetto a dare consigli sullo smaltimento dei rifiuti o la conservazione delle foreste, ma è soltanto perché parlare di ‘visioni del mondo’ ha effetti a scadenza molto più lunga. Sono però aspetti che toccano molto più in profondità il comportamento e gli atteggiamenti, rispetto ai più immediati consigli pratici di ecologia spicciola” (G. Dalla Casa).
E’ certamente vero che voler cambiare la forma mentis, spostandola dalla visione attuale centrata-sull’umano verso una centrata-sulla-Terra, non è cosa facile ed immediata, ma sviluppare questa rinnovata visione (rinnovata poiché all’origine dei tempi così veniva vissuta) è fondamentale perché nel tempo, sia pure lungo, qualora affermata, approderà a risultati universali, unici ed imprescindibili. “L’uomo è un fenomeno filosofico sorpassato. L’universo è fin troppo vasto perché solo l’uomo vi dimori” (H. D. Thoreau) e, citando J. Muir “La natura ha tanti altri scopi, non certo gli interessi degli uomini” oppure ““La Natura può aver destinato la terra fertile anche ad altri scopi che al nutrimento degli esseri umani”.
Dalla Casa, ricordando la figura di Arne Naess scrive a tal proposito: “In realtà, come filosofia di fondo e di comportamento, l’ecologia profonda era ben nota agli sciamani Hopi o Lakota, ad altre culture native o ad alcune filosofie di origine asiatica, ma Naess è stato il primo a definirla in termini scientifico-filosofici occidentali. In quell’articolo diventato famoso, Naess distingue fra un’ecologia “superficiale”, che si batte per la conservazione della natura, che però rimane risorsa al servizio dell’uomo, e un’ecologia “profonda”, che sostiene il valore intrinseco delle realtà naturali. Se tutto ciò che esiste è interrelato, se cioè “tutto dipende da tutto”, l’essere umano non è più separato dal mondo naturale ma ne è solo una parte, che interagisce con le altre e verso le quali deve assumere un atteggiamento empatico.
Il grande merito dell’ecologia profonda è quello di spostare la coscienza da centrata- sull’umano a centrata-sulla-Terra. Naess definì il movimento dell’ecologia superficiale, molto più diffuso di quello dell’ecologia profonda, come “la battaglia contro l’inquinamento e l’esaurimento delle risorse, che farà spostare gli umani verso le nazioni cosiddette sviluppate”. L’approccio di superficie dà per scontata la fede nell’ottimismo tecnologico, nella crescita economica, nello sfruttamento basato sulla scienza e nella continuazione delle attuali società industriali. Naess così si esprime: “I sostenitori dell’ecologia di superficie pensano di poter modificare le relazioni dell’uomo con la Natura all’interno della struttura della società oggi esistente”.
“La maggior forza trainante del movimento dell’Ecologia Profonda – scrive Naess – se paragonato a tutta la restante parte del movimento ecologista, è l’identificazione e la solidarietà con tutta la Vita”. Il primato del mondo naturale è considerato “un’intuizione” e non un derivato filosofico o logico. In linea di principio, ogni essere vivente ha diritto ad una vita libera, autonoma e dignitosa. Per Naess vanno compresi fra gli esseri senzienti gli organismi individuali, gli ecosistemi, le montagne, i fiumi e la Terra stessa.
Il libro di Rachel Carson “Primavera Silenziosa” (1962) lo aveva colpito profondamente. Gli esseri viventi, pensava Arne Naess, hanno un valore in sé. Come gli uccelli delle sempre più silenziose campagne americane, hanno bisogno di essere protetti dall’invadenza di miliardi di umani. Bisogna cercare una nuova armonia ecologica tra gli esseri viventi che abitano il pianeta Terra. Questo rinnovato equilibrio passa a livello teorico attraverso la rinuncia a qualunque forma di antropocentrismo: il diritto alla vita di ogni essere vivente è assoluto e non dipende dalla maggiore o minore vicinanza alla nostra specie. A livello pratico il nuovo equilibrio ecologico passa attraverso la riduzione della popolazione umana, l’uso di tecnologie a basso impatto ambientale e la mancanza di interferenza umana in moltissimi ecosistemi……..
Infine il significato dell’opera di Naess è stato anche quello di presentarci una via verso il ritrovamento di una relazione pre-industriale, animistica e spirituale con la Terra, con il rispetto verso tutte le specie e non solo la specie umana. Questo è il messaggio di cui ha bisogno il nostro tempo, che la Terra non è soltanto una “risorsa” per l’umanità, qualcosa che deve essere sfruttato commercialmente.
Purtroppo i personaggi più noti del movimento ecologista non hanno mai nominato pubblicamente l’ecologia profonda, né parlato della sua grande importanza: non è per caso, dato che i suoi principi comporterebbero modifiche considerate troppo drastiche alla società e soprattutto al sistema economico”.
“Non si può toccare un fiore senza disturbare una stella” (G. Bateson).
Dice Hargrove “La bellezza è un carattere intrinseco e oggettivo dell’ente naturale (il quale quindi è bello per il solo fatto di esistere), dunque essa è svincolata dalla percezione da parte di un soggetto…..” e conclude “…la Wilderness è oggi simbolo universale di un territorio selvaggio non manomesso dalla mano dell’uomo in cui la natura, libera di rappresentarsi, si manifesta in tutto il suo splendore”.
DEDICATO……. “ad una Wilderness che conservi per sempre gli ultimi territori selvaggi stando esclusivamente dalla parte della natura, grazie ad una sua visione, olistica, ecocentrica, profonda e che riconosce, nel suo massimo significato, il valore in sé della natura tutta”.
”La civiltà non può prescindere dalla wilderness, la natura selvaggia ed incorrotta!”
(John Muir)
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Ma elaborare il profondo dissidio dell’uomo con la natura è un compito tutt’altro che facile, anche se si vuole arrivare semplicemente alla pura consapevolezza del fatto. E’ in parte come voler ricomporre un complicatissimo puzzle fatto di tanti elementi diseguali senza averne davanti l’immagine guida. Questo è dovuto anche dal fatto che occorre eradicare una forma di pensiero che negli ultimi secoli si è indirizzata, progressivamente, verso una disgiunzione totalizzante dove le monoculture mentali, improntate sul profondo solco del dualismo (l’uomo da una parte e la natura, ben distinta, dall’altra), si sono fortemente arroccate in una visione unilaterlmente volta verso la sola verità ed esistenza del genere umano. Un nuovo pensiero, libertario e di ampie vedute, deve dunque affrontare un duplice ostacolo; il primo è quello di eradicare il pensiero globalizzato sulla dominanza e unilateralità dell’uomo (pensiero che anche in forma inconscia è ora insito nelle menti), il secondo sarà quello di disarcionare le false certezze così fortemente incastonate per intravedere, sia pure in lontananza, una visione olistica del tutto. Quanti autorevoli personaggi con il loro dire ed il loro agire hanno cercato di svolgere questo immane compito, ma, almeno in prima battuta, si sono visti nella difficoltà di farsi metabolizzare da “monoculture mentali” volte all’esatto opposto. Ma forse un giorno quello che per ora, sotto certi aspetti, appare ancora distante, sarà compreso e praticato in totale consapevolezza e comprensione. All’inizio gli acuti “profeti” (Aldo Leopold, John Muir, H. D. Thoreau, ecc.) di un profondo cambiamento non sono stati capiti o addirittura del tutto ignorati, ma pur se il tempo è ormai molto ristretto, un cauto ottimismo sull’inversione anche parziale della rotta, potrebbe aleggiarsi nell’aria (?!). Comprendere, capire, autoesaminarsi sembrano terminologie e concetti difficili da digerire, ma non è escluso che facciano invece il loro giusto percorso per arrivare, alla fine, ad essere acquisiti. La speranza, pur se flebile, è sempre l’ultima a morire. Ma per il momento finché lo sfruttamento, il saccheggio e la distruzione del pianeta terra (sotto tutti i fronti) rappresenterà ancora un enorme vantaggio economico, estremamente arduo apparirà il modo di procedere verso la giusta operatività e visione delle cose. Sinora infatti l’uomo dalla sua cecità ha cominciato a vedere qualcosa, ma solo i resti fumanti lasciati dietro al suo devastante cammino e sarà così saggio e lungimirante da invertire la rotta? I dubbi rimangono molti e in gran parte irrisolti. Molteplici azioni che ora paiono positive sono ancora una piccola goccia d’acqua in un grande oceano eccessivamente sporco di “petrolio”!
“La protezione di un territorio naturale può certamente avere molti ruoli, molte finalità, ma credo che solo uno debba essere lo scopo per cui la si debba attuare: conservare il territorio fine a se stesso. E conservarlo vuol dire, o dovrebbe voler dire, far si che non venga alterato volutamente, vuol dire decidere di sottrarlo alla logica dello sviluppo (che è la logica del profitto) che è prettamente umana.
Decidere di conservare un luogo è decidere di tenere per quel luogo un comportamento ancestrale, animale, quale è la nostra origine, che è l’unico modo per poterci definire in equilibrio con l’ambiente: nessun cervo, nessun lupo, nessun orso ha mai potuto o preteso di “sviluppare” o “valorizzare” o “far produrre” il proprio habitat. Semplicemente da millenni lo utilizzano per quello che spontaneamente esso offre loro e lasciandolo immutato per altre generazioni. E’ solo l’uomo l’unica specie animale ad essere uscita da questo “cerchio della vita” (Franco Zunino).
Wilderness,
il "lato selvatico" e non conformista americano
di Eduardo Zarelli
Vi è un fiume carsico che collega il pensiero ecologista americano al ruolo profetico permanente nella storia degli Stati Uniti: quello di chi pensa, pratica e ripropone la buona custodia della terra (steawardship) come componente essenziale della libertà umana e della giustizia sociale. Dalle virtù civiche di Thomas Jefferson al “trascendentalismo” di Emerson ed Henry D. Thoreau, dal naturalisimo pionieristico di John Muir al conservazionismo di Aldo Leopold, c’è parte del retroterra culturale a cui attingono le “virtù rurali” di Wendel Berry; il bioregionalismo di Peter Berg e di Kirkpatrick Sale; il ritorno alla selvaticità (wildersness) di Gary Snyder; il “paradigma olista” di Fritjof Capra e di Gregory Bateson. Forse la vastità e la profonda bellezza dei paesaggi unite alla saggezza della cultura pellerossa, hanno insinuato fin dalle origini nello spirito americano - prometeica esaltazione della modernità conquistatrice di un “eterno” West trasposto nell’ideal tipo della Frontiera - un particolare richiamo interiore alla natura come riferimento sostanziale della civiltà. Poiché lo stile di vita edonistico statunitense è divenuto il maggior fattore di distruzione degli equilibri naturali, il ruolo di questi pensatori si è fatto più gravoso e contraddittorio rispetto a quello dei loro predecessori. Poiché la cultura americana ha tradito la sua vocazione originaria, essi si pongono criticamente nei confronti di quella vocazione.
Aldo Leopold - fondatore, tra l’altro, della Wilderness Society e morto 50 anni fa mentre tentava di domare un incendio nella prateria che minacciava la sua fattoria - nel suo Almanacco di un mondo semplice riproduce immagini semplici ed essenziali tratte dall’esperienza del mondo naturale. La sua è una commovente descrizione dei mutamenti che la natura subisce nel corso di un anno, con il fiorire e lo sfiorire della vegetazione e il conseguente comportamento degli animali: la ciclicità delle quattro stagioni come analogia della spirale dell’esistenza umana. Questa parte narrativa sfocia quindi nelle riflessioni sul rapporto uomo-natura, delineando quell’originale prospettiva biocentrica, in cui il sapere ecologico si allea all’etica e all’estetica; prospettiva, questa, che ha esercitato un influsso decisivo sull’ecologia del profondo. Leopold, evidenziando i fallimenti del “protezionismo” ambientale, parte dal presupposto che la “Terra è un organismo” e che, solo sentendola come una “casa comune” a cui apparteniamo, potremo servircene con il dovuto rispetto. Il degrado della bellezza della natura corrisponde alla riduzione della sua complessità,
diversità, stabilità: quell’equilibrio, che ne sostanzia in profondità la pienezza vitale e simbolica.
Sicuro erede di questo atteggiamento interiore è Wendell Berry, poeta, scrittore, saggista,
professore di letteratura all’Università del Kentucky, ma, soprattutto, agricoltore. Il suo approccio alla repentina degradazione ambientale, culturale e umana della società industriale inizia nei primi anni Sessanta, quando la dimostrazione dei danni ecologici diventa evidente al grande pubblico grazie a opere come Primavera silenziosa di Rachel Carson. A differenza di molti pensatori e letterati di quell’epoca, per la maggior parte legati alla Beat Generation, alcuni dei quali (come Gary Snyder) suoi strettissimi amici, Wendel Berry non vaga per il paese alla Easy Rider. La sua protesta contro il consumismo non persegue una “fuga dal Sistema” o la recisione delle radici; al contrario il suo contributo è rivolto alla riscoperta delle fonti della cultura occidentale, che l’industrialismo progressista ha soffocato. Rivisitando le grandi opere della letteratura europea, dall’Odissea alla Divina commedia al Paradiso perduto di Milton, insieme al Vecchio e Nuovo Testamento, Berry rintraccia i presentimenti del tragico destino occidentale. La sua poesia e la sua letteratura non hanno nulla di estetizzante o intimistico, ma si rivolgono comunque all’anima contemporanea straziata dalla mancata identità personale e sociale. Non indulgono alla nostalgia ma forniscono a politici, economisti e uomini della strada, delle indicazioni pratiche e della intelligenza tecnica e storica sedimentata dalle sobrie virtù civiche comunitarie.
Con i piedi per terra è l’emblematico titolo di una sua raccolta di testi (tradotta anche in Italia); gli argomenti spaziano dall’improprio primato dell’economia industriale, al fallimento “specialistico” dell’istruzione universitaria, al nostro rapporto con gli strumenti della tecnologia e con la natura selvaggia. Il problema della coerente e pratica applicazione della coscienza personale e comunitaria nella vita di ogni giorno è quello centrale di ogni uomo. Quando una società nega questa esigenza, separandosi dalla propria tradizione, regredisce nell’anomia individualistica e nel degrado culturale, nonostante la patinata veste di prodigi tecnologici e successi materiali di cui si riveste. Berry si richiama, in controtendenza, ad una prospettiva di radicamento etico del quale l’economia può, e quindi deve, essere un mero strumento. Nell’interpretare l’evoluzione del modello economico statunitense immagina retoricamente come sarebbe stata la società, se nel dopoguerra si fosse dato il giusto peso alle comunità rurali rispetto alla crescita esponenziale del prodotto interno lordo, se si fosse investito nella qualità della vita con lo stesso impegno impiegato per dispiegare il complesso militare-industriale più potente del mondo. Domanda oggi quanto mai pertinente e drammaticamente attuale.
La ricaduta localistica del pensiero di Wendel Berry è presa alla lettera dal movimento bioregionalista americano. La parola bioregione si compone semanticamente di bio, la parola greca che significa vita e “regione” che deriva dal latino regere, cioè governare. La vita che si autogoverna nel limite biotico di un territorio. Un territorio abitato, un luogo definito dalle forme di vita che vi si svolgono, piuttosto che dall’artificio della razionalizzazione; una regione governata dalla natura. Tutto ciò è credibile solo coltivando una rinata sensibilità per la specificità dei luoghi e delle culture, una lealtà politica verso il territorio in cui si vive, unite a pratiche economiche e sociali sostenibili, cioè radicate nella particolarità del territorio e delle sue tradizioni, espresse dalla sensibilità delle comunità locali. La pluralità delle identità comunitarie evita i rischi di accentramento del potere e quindi di colonialismo o imperialismo. La complementarietà e lo sviluppo di una fitta rete di relazioni intercomunitarie - tra cui la sussidiarietà e l’interdipendenza - possono definire con sufficiente approssimazione l’intento di un “federalismo ecologista”. Il problema di fondo è di ripensare pluralisticamente il mondo fuori dall’universalismo monistico e dall’etnocentrismo occidentale rispetto al quale tutto diventa barbarie, periferia retrograda. In questa prospettiva naturalistica è maggiormente noto in Europa il pensiero di Fritjof Capra. Grazie all’originalità e all’importanza dei suoi contributi - fra cui il bestseller internazionale Il Tao della Fisica - il fisico americano è oggi considerato uno degli intellettuali più credibili tra coloro che propugnano un nuovo “paradigma” olistico per interpretare e favorire il mutamento del modello di sviluppo tecnomorfo. Il debito dell’autore all’ecologia del profondo è riconosciuto limpidamente, quando definisce il “nuovo paradigma” come una visione del mondo che si fonda sulla consapevolezza della interdipendenza fondamentale di tutti i fenomeni ed afferma che, come esseri individuali e sociali, tutti noi incidiamo e contemporaneamente dipendiamo dai processi ciclici della Natura. Nelle sue opere Capra, analogamente a Bateson, accosta la fisica contemporanea e la tradizione sapienziale constatando come, inconsciamente, la scienza contemporanea si allontani sempre più dalla cornice entro cui è nata, che è quella cartesiana di una scissione fra mente e natura. Così, idee come quella della “sostanziale interconnessione della natura” - fondamento di buona parte del pensiero orientale - o archetipi mitici come la “danza di Shiva” cioè della materia come emanazione energetica, cominciano ad acquisire un preciso significato nel linguaggio della fisica occidentale; infatti le teorie dei quanti, dei quark e del cosiddetto bootstrap giungono a descrivere analiticamente la “compenetrazione” dell’esistente. È intuibile la portata di questa vulgata, che travalica i campi del pensiero scientifico e investe le categorie della “modernità” tutta.
Capra prospetta un radicale mutamento in atto nell’ambito del sapere. I modelli lineari e deterministici ereditati da Newton e Darwin si stanno rivelando sempre più inadatti a favorire la comprensione del mondo e di noi stessi: è necessaria una nuova sintesi dell’universo, alla quale, da campi diversi, stanno contribuendo gli studiosi impegnati su fronti apparentemente distanti ,che si chiamano teoria di Gaia, teoria sistemica, della complessità e del caos. Capra tenta a una sintesi complessiva di questa “insensibile” rivoluzione, scorgendo il delinearsi di un nuovo/antico pensiero, che vede nella natura e negli esseri viventi non entità isolate, meccanicistiche, ma sempre e comunque “sistemi viventi” dove il singolo è olisticamente in stretto rapporto di interdipendenza con i suoi simili e il sistema tutto. La somma di queste relazioni, che legano gli universi della psiche, della biologia, della società e della cultura è una rete: la rete della vita. Ricongiungersi alla trama della vita significa edificare e mantenere comunità sostenibili, in cui si possano soddisfare i nostri bisogni e le nostre aspirazioni senza pregiudicare l’equilibrio complessivo. Tra le comunità umane la diversità culturale ricopre un ruolo analogo alla biodiversità nell’ecosistema. Diversità significa relazioni molteplici date da approcci diversi a problemi simili. La diversità è la risorsa vitale contro l’uniformità suicida di cui l’unilateralismo occidentale ne è epifenomeno epocale.
Vivere lo spirito della Wilderness
di Franco Zunino
La maggior parte di noi amanti della natura, la natura non la vive; bensì la visita. Non è facile spiegare il sentimento che trasforma un’esperienza nella natura selvaggia in qualcosa che non sia tematicamente scientifica, come succede quasi sempre agli ornitologi o agli appassionati di botanica (ma anche a gran parte dei biologi della selvaggina e della fauna in genere) o chi considera il mondo naturale come una lavagna per appunti didattici e di conoscenze (tutto diviene scopo di educazione, e noi finiamo per assumere la semplice funzione di scolari o maestri), o per soddisfazioni epiche (ne godono la maggior parte degli alpinisti ed altri praticanti attività avventurose) o per ricreazione fisica (quando il fitness e la salute o il benessere sono il vero nostro motivo). Così, però, si è ben lontani dallo spirito della wilderness. Cercare lo scenario naturale solo come una cosa od un luogo per soddisfare propri interessi o appagare desideri egocentrici è lungi da uno spirito wilderness. Quando, invece, veramente, si vive lo spirito della wilderness? E chi si avvicina veramente alla comprensione del selvatico che è in noi, che è rimasto in noi perché parte inscindibile del nostro ancestrale DNA? Per assurdo che possa sembrare, è spesso l’individuo privo di cultura che vi riesce, o chi ha la capacità di mettere da parte la sua base di conoscenze e si compenetra nel mondo della natura trasformandosi in essere membro e partecipe del tutto, spogliandosi del substrato che ci ha dato la civiltà, una scorza di conoscenze e di bisogni che sono spesso indispensabili. Si capta più spesso l’esistenza di questo spirito in pastori o montanari in genere, quando non in cacciatori o pescatori, cioè individui che vivono la natura non in modo virtuale come noi naturalisti ma ritornandovi “antichi”. Difatti, può ancora considerarsi naturale un mondo soggiogato all’uomo per i suoi bisogni da manuale? La Natura trasformata in orto, addomesticata, in tutte le sue forme, finanche nella sua funzione (se così la possiamo definire) di mantenersi preservata per diretto impegno dell’uomo? Ma la Natura esiste e vive di per sé, e solamente ritornando col nostro io a quello stato che la civiltà ha soffocato dentro di noi può scoprirsi lo spirito della wilderness, sentirlo e viverlo.
Si intuisce più uno stato di wilderness durante l’emozione di un momento, quando tutte le nostre cognizioni si annullano di fronte ad eventi che ci impediscono la riflessione nozionistica che non in tante pagine di saggi, ed ore ed ore di lezioni di cultura naturalistica o filosofica di cui sono pieni i libri, si sentono in sale di convegni o si leggono in siti Internet. Allora sì, diventiamo parte integrante di ciò che vediamo o viviamo, che può
essere anche solamente l’improvviso scroscio di un temporale che nella foresta ci costringe a rintanarci sotto una roccia e sentiamo allora il mondo attorno a noi ritornare primordiale e noi farne parte con quel semplice istintivo atto di difesa. Allora sì, si coglie il vero spirito della natura selvaggia, se ne capisce il diritto che essa possa continuare a perpetrarsi almeno in qualche luogo, il diritto a noi di poterne fare parte, non di essere solo visitatori. E ciò succede perché in quel momento noi diventiamo parte di quel tutto e non più estranei al mondo naturale………
Sul concetto del valore in sé della natura
Il noumeno naturale
“Un filosofo ha definito questa essenza imponderabile il noumenon delle cose materiali. Esso è in opposizione al phenomenon, che è ponderabile e prevedibile, fin nel moto delle più lontane stelle” (Aldo Leopold, 1949-1997). La conoscenza di un fenomeno è puramente empirica, cioè frutto della mediazione sensibile del soggetto. Tale acquisizione però, non può essere elevata a concetto universale, essendo del tutto arbitrario generalizzare un’esperienza strettamente individuale. Una personale esperienza, poi, presenta dei limiti anche verso se stessa, perché è il frutto di un “momento” empirico continuamente variabile.
Il “valore in sé o intrinseco” di un fenomeno (noumeno), valore privo di esperienze e mediazioni soggettive, assume invece carattere duraturo, universale e reale. Il “valore in sé” è qualcosa di superiore, qualcosa di non definibile forse non conoscibile, che trascende il soggetto per divenire essenza dell’oggetto: “il Tao definito non è l’eterno Tao” (Lao Tse). Ecco dunque apparire nella mente un profondo concetto universale e “nobile”.
Solo in una fase successiva potremo “interpretare” il noumeno trasformandolo in un “fenomeno” cioè oggetto dei sensi. Nasce quindi la contrapposizione tra le “cose in se stesse” e le “cose rispetto a noi”. Questo dualismo è un concetto fondamentale, come vedremo, anche per la protezione e conservazione della natura. La visione dualistica del mondo naturale si impose in larga misura in occidente grazie ad una negativa influenza religiosa (p.e. il cristianesimo poneva l’uomo dominatore da una parte e la natura soggiogata dall’altra), ed era propria, tra l’altro, della filosofia greca che collocava l’uomo, soggetto pensante e sensibile, all’esterno di una natura oggettivata e subalterna. Solo nel pensiero orientale sarà possibile discernere, almeno in parte, una filosofia vitale non antropocentrica e quindi mancante del dualismo. Nell’occidente si esalta l’io a danno del tutto, in oriente si esalta il tutto a danno dell’io.”Il controllo della natura è una frase piena di presunzione, nata in un periodo della biologia e della filosofia che potremmo definire l’Età di Neanderthal, quando ancora si riteneva che la natura esistesse per l’esclusivo vantaggio dell’uomo” (Carson, 1963). La filosofia di vita della maggior parte degli indiani d’America è un altro vivido esempio di globalità e di assoluta assenza di dualismo. “E’ una cultura del rispetto per la natura, per tutte le forme in cui si manifesta; una visione del mondo come globalità, scambio continuo e reciproca dipendenza; una concezione della vita come partecipazione incessante alla creazione” (Kaiser, 1992). Citando ancora Kaiser si evidenzia che “Il dualismo divide l’uomo dalla natura, separandolo così da se stesso, in quanto anch’egli è natura......Una concezione dualistica della relazione dell’uomo con il suo prossimo implica che l’individuo si senta innanzi tutto separato dall’altro, contrapposto a lui......Il pensiero dualistico divisore vede l’uomo come opposto alla natura, per cui l’uomo sarebbe chiamato a dominare sulla natura, sottomettendola al proprio volere. La natura non ha alcuna rilevanza etica e l’uomo non ha quindi nessuna responsabilità morale nei suoi confronti....Sotto questo aspetto, il pensiero indiano tradizionale ruota intorno ai concetti di una grande famiglia cosmica e della solidarietà col tutto ”.
Occorre tuttavia evidenziare la differenza che intercorre con il concetto di dualità. Scrive a tal proposito Kaiser (1992): “Nella nostra riflessione è necessario distinguere nettamente la ‘dualità’ dal dualismo. La confusione tra questi due concetti, che possiamo rilevare assai spesso, impedisce, infatti, una chiara differenziazione tra il dualismo occidentale e il modo di pensare, in termini di equilibrio, tipico delle culture asiatiche e degli indiani d’America.
L’idea del bilanciamento, dell’equilibrio, della compensazione, che contraddistingue l’interpretazione indiana del mondo, si basa interamente sul concetto di ‘dualità’. Abbiamo accennato alla dualità uomo-donna, ma è la realtà intera a essere ordinata sulla base di quel concetto: giorno-notte; estate-inverno; terra-cielo; attrazione repulsione; amore-odio; gioia-tristezza.......
Nell’idea di equilibrio è fondamentale considerare la dualità non come formata da realtà opposte, di valore diverso, dominate dalla discordia, ma da realtà di pari valore, esistenti in un rapporto complementare e che pertanto si integrano a vicenda. Il vero motore del mondo è quindi il desiderio delle contrapposizioni di riunirsi e riconciliarsi. E’ importante, inoltre, non intensificare o protrarre all’infinito le divisioni e le dissonanze all’interno delle dualità, perché altrimenti esse si trasformano in dualismi. Il dualismo, infatti, è indice di una dualità intesa antagonisticamente e non in modo complementare........
La fisica moderna, pertanto, interpreta determinate contraddizioni non più come realtà che si escludono a vicenda, ma come aspetti diversi di un’unica realtà”. Scrisse J. Muir: “…….Ci è stato detto che il mondo è stato creato per l’uomo. E’ una supposizione completamente smentita dai fatti. Sono in molti a stupirsi quando nell’universo di Dio trovano qualcosa, vivo o morto, che non è commestibile o non è, come si dice, utile per l’uomo. Non contenti di prendere tutto dalla natura, pretendono anche lo
spazio divino come fossero le uniche creature per le quali è stato progettato questo insondabile impero...
E’ molto più probabile che la natura abbia creato gli animali e le piante per la loro stessa felicità piuttosto che per la felicità di uno solo dei suoi elementi. Perché l’uomo dovrebbe reputarsi più importante di una entità infinitamente piccola che compone la grande unità della creazione?…..”.
Si ricorda quindi che la compenetrazione degli opposti pur nella diversità genera sempre unità all’interno della dialettica della natura a patto che la visione del mondo sia unificatoria e centripeta.
Il “valore in sé o intrinseco” della natura (noumeno naturale), è l’espressione più alta del pensiero. Affermare quindi che la sostanza naturale (nel senso generale del termine) debba essere conservata e rispettata per il suo valore in sé, senza nessuna nostra mediazione o intuizione, è la massima elevazione concettuale di conservazione che possa essere formulata. Ogni azione deve sempre essere fine a se stessa senza attribuirgli un valore positivo o negativo in relazione alle eventuali conseguenze che genera.
Al contrario, nella comune speculazione mentale della conoscenza, ci si riferisce “sempre” a concetti “rispetto a noi”. Infatti si stimolano interventi solo se portano “guadagni” materiali o spirituali o in ogni caso utilitaristici. Traducendo, avremo: proteggiamo un bosco secolare affinché nella presente e nelle future generazioni l’uomo possa goderne materialmente e spiritualmente.
Ecco, invece, un concetto superiore: “La natura deve essere conservata e rispettata per il suo valore in sé, non per un nostro interesse materiale o spirituale che sia”.
Un fenomeno naturale ha la sua massima valenza in sé stesso, e si manifesta indipendentemente dalla conoscenza e dalla mediazione sensibile. E’ fondamentale comprendere che un “luogo” ha qualcosa in sé che noi non possiamo e non dobbiamo cercare di interpretare. Solo in tal guisa riusciremo a dare al mondo naturale quel giusto valore che gli appartiene. Un tempo lo spirito umano aveva in se stesso, nell’inconscio, questo concetto, come lo possiede un lupo selvaggio o un orso delle foreste, ma il distacco traumatico dalla natura ce ne ha privato. Ogni essere ha in fondo una propria “visione” della vita e inconsapevolmente pone se stesso (soprattutto come individuo) al “centro” della realtà. Ma questa centralità è solo apparente, utile alle esigenze della sopravvivenza del momento. L’uomo invece trasforma quella centralità in una subordinazione totale di tutta la realtà esterna da lui, facendo prevalere unicamente i diritti universali e assoluti della propria specie. Il tutto con il massimo della consapevolezza.
Quando si “studia” un fenomeno naturale è impossibile conoscerlo senza essere influenzati dalle speculazioni personali di chi opera tale indagine. La pretesa della scienza occidentale di capire asetticamente gli “oggetti” della natura senza considerare l’apporto del soggetto, è una pura illusione cartesiana. J. Wheeler, fisico della Princeton University ci ricorda che “non c’è nessuna legge tranne la legge che non c’è nessuna legge”.
Se, come abbiamo visto, l’uomo è stato in passato membro a tutti gli effetti della wilderness del mondo, progressivamente è diventato l’unico soggetto, è uscito dal palcoscenico della natura, ha falsificato la verità, e ha condizionato verso i suoi subdoli interessi quasi tutti gli elementi della natura.
Dinanzi a questa profonda dialettica così articolata e ricca di variabili, nasce la necessità, all’interno dello stesso pensiero umano, di invertire lo stato delle cose, mentali e materiali, per ricondizionare l’uomo ad una “equilibrata e giusta” dimensione. Questa “giusta” dimensione, era propria, come accennato, nei popoli selvaggi o in coloro che vivevano in ogni caso in “essenza” con la natura.
Se l’uomo rimaneva in connessione con il mondo selvaggio, come elemento indistinto nell’ordinato ed imprevedibile caos naturale, non sollevava nessun problema di distruzione e di invadenza e, quindi, conseguentemente, di tutela, di rispetto o di conservazione della natura. Ma la sua ribellione alla verità naturale lo ha portato ad estinguere dentro se il senso dell’armonia e della purezza originaria, trasformandolo in un vorace essere accecato dalla propria affermazione e dal proprio egocentrismo. Ecco, dunque, che l’essenziale diventa superfluo e il vacuo diventa essenziale. Avviene il distacco totale dalla natura, avviene la sopraffazione verso le cose e l’annientamento del mondo esterno da sé. L’uomo si considera allora il centro di tutto e il solo metro delle cose. “La Natura può aver destinato la terra fertile anche ad altri scopi che al nutrimento degli esseri umani”. (J. Muir).
Il pensiero conservazionistico, visto nella sua globalità, ha spesso ignorato il concetto del “noumeno” nel proporre una nuova impostazione mentale verso la natura, ribadendo invece ancora una volta la centralità dell’uomo come fine ultimo della protezione (etiche antropocentriche). Solo le etiche ecocentriche hanno introdotto questo nuovo paradigma sia in forma di valore intrinseco non utilitaristico che transpersonale (deep ecology). Molto importante è invece quello che si ravvisa nel “concetto di wilderness”, nel quale viene dato molto rilievo alla preservazione di un territorio per il suo valore in sé e non utilitaristico, diffondendo proficuamente questi principii, compiendo passi fondamentali in direzione di una nuova e reale filosofia della conservazione.
L’ecologia superficiale, esclusivamente antropocentrica, è nettamente incline verso una valutazione utilitaristica della natura (la natura rimane strumento, risorsa al servizio dell’uomo - Naess, 1994). L’ecologia profonda, invece, tende ad attribuire un valore intrinseco alle cose della natura (viventi e non) universalizzando il senso di identificazione. Andare oltre il valore intrinseco della natura, significa perdersi in speculazioni conservazionistiche che si allontanano dall’assunto di questo valore e si snaturano in un profitto soggettivo ed egocentrico. Il passo successivo, ma già contenuto nel noumeno, è quello di riconnettersi con l’uno naturale valicando e disperdendo la weltanschauung dualistica della vita. Occorre dimensionarsi al di sopra delle parti e della mente soggettiva. Ciò non vuol dire che l’io personale debba essere sopraffatto, ma al contrario deve praticare una vera e propria rivoluzione soggettiva per confluire nell’infinito mare dell’impersonale.
“Sarebbe una grave ingiustizia liquidare il pensiero utopico come pura fantasia, immaginaria e irrealizzabile; relegarlo alla letteratura definita utopistica significa sottovalutare la sua ampia diffusione a molti livelli in tutte le culture. In qualsiasi modo venga espresso, il pensiero utopico è essenzialmente una critica dei difetti e dei limiti della società ed espressione di qualcosa di migliore” (P. Sears, 1965 in Devall e Sessions 1989).
Non è possibile prescindere dalla wilderness e, aggiungo, ancor più dal suo valore in sé.
Chi recepisce il valore intrinseco delle cose, avrà una visione totalizzante della vita che sarà nuova e profonda (nel lavoro sarà onesto, nell’amicizia sarà sincero, nell’amore sarà leale, nel respiro sarà profondo, con il prossimo sarà gentile, e così via).
Giustamente Aldo Leopold asseriva che i problemi ambientali sono fondamentalmente di matrice filosofica, nella quale va ricercata la soluzione di un nuovo rapporto con la natura (Hargrove, 1990).
“Abbiamo cercato di metterci in relazione con il mondo intorno a noi soltanto attraverso il lato sinistro della nostra mente, e stiamo chiaramente fallendo. Se intendiamo ristabilire un rapporto vivibile, ci sarà necessario riconoscere la saggezza della natura, consapevoli che il rapporto con la terra e il mondo naturale richiedeva l’intero essere” (Dolores LaChapelle in Devall & Sessions, 1989).
Disse John Muir: “Ero uscito solo per fare una passeggiata ma alla fine decisi di restare fuori fino al tramonto: perché mi resi conto che l’andar fuori era, in realtà, un andar dentro”.
“Dichiaro di capire cosa c’è di meglio
che dire il meglio. E lasciare sempre il meglio inespresso". (W. Whitman, A Song on the Rolling Earth)
Etica della terra
“Stavamo mangiando su una sporgenza rocciosa, ai cui piedi un torrente turbolento piegava a gomito. Vedemmo quello che pensammo fosse una cerva guadare, immersa fino al torace nell’acqua bianca spuma. Quando si arrampicò sulla sponda dalla nostra parte e scosse la coda ci accorgemmo del nostro errore: era un lupo. Un’altra mezza dozzina, evidentemente piccoli già cresciuti, balzò dal folto dei salici, radunandosi per dare il benvenuto, scodinzolando e litigando giocosamente. Insomma, un vero e proprio mucchio di lupi si agitava e ruzzolava allo scoperto proprio sotto il nostro masso.
A quei tempi non avevamo mai sentito che qualcuno si lasciasse sfuggire l’occasione di
uccidere un lupo. In un attimo stavamo scaricando piombo sul branco, con più eccitazione che precisione.......
Raggiungemmo l’animale agonizzante, che era una lupa, in tempo per vedere un feroce fuoco verde spegnersi nei suoi occhi. Mi resi conto allora, e non l’ho mai dimenticato, che c’era qualcosa di nuovo per me in quei occhi, qualcosa che solo lei e la montagna sapevano. A quel tempo era giovane e mi prudeva il dito sul grilletto; pensavo che meno lupi significasse più cervi, e quindi niente lupi equivalesse al paradiso dei cacciatori. Ma quando vidi spegnersi quel fuoco verde, sentii che né la lupa, né la montagna condividevano quel punto di vista......
Forse è proprio questo che significa il detto di Thoreau: ‘La salvezza del mondo si trova
nella natura selvaggia’. Forse questo è il significato nascosto nell’ululato del lupo, che le montagne conoscono da molto tempo, ma che gli uomini raramente percepiscono” (A. Leopold, 1949-1997).
Nella società contemporanea per una reale conservazione degli spazi naturali e per poter adempiere ad uno sviluppo sostenibile della comunità umana è necessario mettere in gioco molteplici atti pratici, ma che prendano le mosse dall’acquisizione di una nuova mentalità che ormai, pur se in forma ancora embrionale, serpeggia in una qualche misura nel mondo. Ecco dunque affacciarsi la necessità di esprimere al meglio e con la massima chiarezza una nuova etica della terra in cui, la sommatoria di svariati aspetti, deve portare al radicamento di una conoscenza che può palesarsi nella realtà effetttiva delle cose. Non è infatti sufficiente parlare di conservazione della natura o di un nuovo stile di vita disquisento solamente su ciò che si dovrebbe fare, ma è fondamentale portare alle luce numerose questioni che riguardano soprattutto la politica, la società, la filosofia più
profonda. In altri termini se non si radica nella mente del genere umano una visione olistica del tutto, ogni discorso avulsamente inalberato per affermare la giusta via, non trova nessuna base concreta di attuazione. “Che cosa ha a che fare la filosofia con i problemi ecologici? Non è forse meglio che parlino la chimica, la biologia, la geografia, l’ingegneria oppure la sociologia e la politologia? L’incombere della catastrofe ecologica provoca reazioni di rassegnazione o di cinico edonismo e trova le sue radici nella frammentazione del sapere e delle sue tecniche che sta anche alla base della crisi filosofica attuale. Il compito della filosofia appare allora quello di domandarsi come l’uomo sia arrivato a minacciare l’intero pianeta e che senso abbia, in questa prospettiva, l’idea tradizionale di progresso. Ma non solo: la filosofia deve individuare nuovi valori e categorie per reimpostare il rapporto uomo-natura in modo da formare esseri umani in grado di affrontare la crisi. Ecologia è, letteralmente, dottrina della casa. Ma oltre la dimora materiale, la Terra, è necessario ricostruire la dimora spirituale (e con essa una nuova idea della politica) che garantirà la sopravvivenza della casa planetaria” (quarto di copertina in Hosle, 1992).
A questo punto appare fondamentale ricordare i concetti, più volti citati in questo lavoro, che espresse Aldo Leopold (simbolicamente la sua presa di coscienza partì proprio dal giorno che vide spegnersi quel “fuoco verde” degli occhi della lupa). Infatti nella sua “Etica della terra” contenuta nel suo capolavoro “A Sand County Almanc”(1949, 1997), un libro che rappresenta una pietra migliare per la mentalità conservazionista, Leopold va oltre l’antropocentrismo ed elabora l’“etica della terra”; tutte le etiche si basano su un’unica premessa: che l’individuo è un membro di una comunità di parti interdipendenti ... una volta che si riconosce questo è difficile negare i diritti alle varie parti ... l’uomo essendo membro della comunità biotica della terra non può negare a questa i suoi diritti. Una decisione è giusta quando tende a preservare l’integrità, la stabilità, la bellezza della comunità biotica. E’ sbagliata quando tende all’opposto (Pagano, 2001). Con questo semplice ed acuto ragionamento Leopold è considerato la fonte più importante del biocentrismo moderno e dell’etica olistica. Scrive sempre Pagano (2001): “….. la natura non era solo un oggetto di cui l’uomo poteva disporre a piacimento. Leopold capì che rimanendo ancorati alle banalità quotidiane il pensiero diventa incapace di percepire la grandiosità della natura……. Nessuna, fino ad allora, aveva pensato ad un’etica che operasse a livello di specie, habitat e persino a processi ecosistemici. In quel breve ragionamento Leopold sostiene che l’etica umana impone dei limiti al singolo uomo in quanto parte di una comunità di parti interdipendenti: la società umana. Ma, allargando il ragionamento, se la specie umana riconosce il suo ruolo di parte integrante delle comunità
ecologiche deve anche, automaticamente, riconoscere i diritti della natura. La consapevolezza di essere ‘compagni di viaggio’ degli altri esseri naturali implica che la natura ha un valore proprio indipendente da quello che gli dà l’essere umano. Scrive a tal proposito Leopold:’In breve, un’etica terrestre modifica il ruolo dell’Homo sapiens da conquistatore della terra a semplice membro e cittadino della sua comunità’”.
Ma come abbiamo accennato poc’anzi, l’affermazione di una nuova etica della terra deve confrontarsi, per poter essere realmente metabolizzata, con numerosi eventi sociali, politici e filosofici. “Il problema non è più se i problemi ambientali siano meglio risolvibili attraverso l’azione etica o l’azione politica, bensì se questi problemi siano risolvibili attraverso un’azione complementare a entrambi i livelli.
Perché questo duplice approccio alla soluzione dei problemi ambientali possa funzionare, come lo stesso Leopold vedeva chiaramente, lo Stato democratico deve educare i cittadini a quei valori ambientali che sono necessari sia per l’azione etica sia per quella politica L’obiettivo dell’insegnamento dei valori non deve essere l’indottrinamento, ma
il chiarimento ” (Hargrove, 1990).
Il concetto di chiarimento è molto importante perché pone la questione su un punto fondamentale: un’etica della terra biocentrica ed olistica non deve tanto essere insegnata come qualcosa partorita da un atteggiamento filosofico e metafisico avulso dalla realtà, ma semplicemente come qualcosa che è già in essere, sin dalla formazione del pianeta terra, un qualcosa che solo nel corso dei millenni il cammino dell’uomo l’ha smarrito dalla sua dimensione e che ora non lo vede più o al massimo lo percepisce molto debolmente. In altri termini non si deve affermare qualcosa di inventato da una nuova visione della vita, ma bensì “chiarire” che i precetti non antropocentrici sono già in essere nella realtà della madre terra sia a livello biotico che abiotico. Ecco dunque l’appello affinché la nuova etica della terra (occorre dire nuova perché se un tempo era presente, cammin facendo, come detto, l’abbiamo completamente smarrita), si riappropri del proprio essere e rientri trionfante nella visione del tutto da parte del genere umano.
Il compito di questo chiarimento non è affatto semplice, anche se stiamo parlando di qualcosa che esiste già, perché l’uomo contemporanea si è gettato a capofitto verso precetti che lo vedono sempre più al centro delle cose con la pretesa che ogni elemento è di sua esclusiva proprietà e lo utilizza a suo libero, ma insensato piacimento. “Ci possono essere innumerevoli scale di valori, ma da quanto accennato è evidente che il primo valore dovrebbe essere quello di consentire la vita della Biosfera, da cui dipendiamo: la sopravvivenza della Terra è essenziale.
L’etica della Terra non è solo una posizione filosofica, è soprattutto una necessità per mantenere in vita e in salute l’Organismo cui apparteniamo, assieme alle altre specie, agli ecosistemi, all’atmosfera, al mare, ai fiumi, alle montagne”. (Guido Dalla Casa).
Un riassunto schematico sui principi basilari di una reale etica della terra sono simili a quelli esposti nel capitolo sull’ecologia profonda, ma per una maggiore chiarezza e completezza è bene riesporli con ulteriore aggunte e precisazioni (da Devall & Sessions, 1989, modificato):
- Il benessere e la prosperità della vita umana e non umana sulla Terra hanno valore per se stesse (in altre parole: hanno un valore intrinseco o inerente). Questi valori sono indipendenti dall’utilità che il mondo non umano può avere per l’uomo.
- La ricchezza e la diversità delle forme di vita contribuiscono alla realizzazione di questi valori e sono inoltre valori in sé.
- Gli uomini non hanno alcun diritto di impoverire questa ricchezza e diversità a meno che
non debbano soddisfare esigenze vitali.
- La prosperità della vita e delle culture umane è compatibile con una sostanziale diminuizione della popolazione umana: la prosperità della vita non umana esige tale diminuizione.
- L’attuale interferenza dell’uomo nel mondo non umano è eccessiva e la situazione sta peggiorando progressivamente.
- Di conseguenza le scelte collettive devono essere cambiate. Queste scelte influenzano le strutture ideologiche, tecnologiche ed economiche fondamentali. Lo stato delle cose che ne risulterà sarà profondamente diverso da quello attuale.
- Il mutamento ideologico consiste principalmente nell’apprezzamento della qualità della vita come valore intrinseco piuttosto che nell’adesione a un tenore di vita sempre più alto. Dovrà essere chiara la differenza tra ciò che è grande qualitativamente e ciò che lo è quantitativamente.
- Le culture religiose antropocentriche devono mutare radicalmente la loro visione e diffondere il pricipio ecocentrico della terra.
- Le forze che devono promuovere una visione olistica del tutto devono operare con sinergia e coinvolgere una multitudine di settori: sociologia, politica, economia, filosofia, scienza, ecc.
- Il concetto del valore vita non deve essere riferito nelle dissertazioni solo nella sfera umana, ma deve comprendere ogni forma di essere vivente.
11. Nell’attuale diffusione della globalizzazione occorre universalizzare concetti di valore olistici ed ecocentrici e non solo aspetti di utilità economica e liberalistica. Occorre inoltre diffondere a livello mondiali precetti di sobrietà, parsimonia ed semplificazione dello stile di vita.
dalla società nella sua interezza, altrimenti con la scusa che in generale nulla cambia, anche il singolo non opera in nessun campo. Si riccorda che la moltitudine è fatta dalla somma di tante singole unità.
- Ricordarsi sempre di proteggere e sviluppare al massimo la biodiversità sulla terra.
- Chi condivide i punti precedenti è obbligato, direttamente o indirettamente, a tentare di attuare i cambiamenti necessari.
L’etica della terra deve dunque celebrarsi non secondo pricipi relativistici e incasellati in archetipi dogmatici scanditi da visioni unilaterali e miopi, ma occorre mettere in campo una larga gamma di modelli che portano con estrema chiarezza a quel chiarimento che potremmo tradurre anche con il termine “consapevolezza”. E’infatti fondamentale rendere consapevoli i cittadini del mondo per ricondurli, sia pure per gradi, verso quei valori etici e pratici che una volta erano insiti nella visione del quotidiano. Unire le forze, moltiplicare gli sforzi, ma ogni azione deve tendere con fermezza all’affermazione di una olistica etica della terra. Forse il compito e gli intenti potranno sembrare ardui e quasi utopistici, ma almeno un tentativo occorre farlo prima che il mondo degeneri nella catastrofe che è già in essere ed è ad un passo da essere completata!
“Quando si parla di ecologia e protezione della Natura, occuparsi di ‘visioni del mondo’ sembra una cosa più astratta, o meno pratica, rispetto a dare consigli sullo smaltimento dei rifiuti o la conservazione delle foreste, ma è soltanto perché parlare di ‘visioni del mondo’ ha effetti a scadenza molto più lunga. Sono però aspetti che toccano molto più in profondità il comportamento e gli atteggiamenti, rispetto ai più immediati consigli pratici di ecologia spicciola” (Dalla Casa, 1996).
Disse una volta WA-SHA-QUON-ASIN:“Questa non è la voce di Gufo Grigio che parla, ma la voce di un esercito potente e che aumenta in continuazione: i difensori della fauna selvaggia, le cui voci dovranno essere ascoltate. Che le vostre orecchie stiano aperte” (Dickson, 1999). E poi, come già citato in questo libro, per concludere, una sua
bellissma quanto eloquente affermazione: “ Voi siete stanchi di questi anni di civilizzazione. Io vengo, e cosa vi offro? Una singola foglia verde”.
L’etica della terra
di Guido Dalla Casa
Premesse
Oggi sappiamo abbastanza bene che cosa è l’uomo: è un animale, fa parte in tutto e per tutto dei cicli naturali, si nutre, si sviluppa, si riproduce e muore come gli altri mammiferi. Anche il suo comportamento è qualitativamente riconducibile a quello degli altri animali più simili. La differenza di informazione genetica rispetto a uno scimpanzé è di poco superiore all’uno per cento.
La percezione dell’appartenenza della nostra specie alla Natura avrebbe dovuto essere accolta con grande serenità; era come liberarsi da un peso inutile. Invece non è stato così, o forse non ancora, almeno nella cultura occidentale. Nel linguaggio corrente, nell’etica, nel diritto, l’uomo è ancora considerato in contrapposizione con l’idea di animale. Per inciso, quanto sopra detto non significa necessariamente che l’uomo sia soltanto un animale.
Nella cultura occidentale, e quindi ormai in tutto il mondo, ancora oggi la nostra specie non è di fatto considerata una parte della Biosfera, ma come un elemento esterno rispetto al quale si misura ogni valore. Tanto è vero che l’espressione “l’ambiente” sottintende spesso “l’ambiente dell’uomo”, che resta l’unico riferimento per tutte le considerazioni etiche. Anche i cosiddetti ambientalisti parlano di solito di “tenere pulita la nostra casa”, conservare il “patrimonio di tutti”, consegnare la Terra in buono stato alle generazioni future. Il riferimento costante, considerato ovvio, è l’uomo. Oggi invece sappiamo che l’uomo non è nella posizione di “abitante di una casa”, ma è come un gruppo di cellule di un Organismo, da cui dipende totalmente. Infatti l’ecosistema globale è un Organismo e non “l’ambiente dell’uomo”: questa posizione della nostra specie deve ancora essere recepita dalle correnti filosofiche occidentali, oltre che da tutte le istituzioni.
La posizione “esterna” dell’uomo, esportata in tutto il mondo sull’onda della tumultuosa espansione dell’Occidente, è il sottofondo di pensiero che ha provocato i grossi guai in cui ci troviamo. Considerare l’uomo al di sopra o al di fuori dell’ecosistema ha causato anche il drammatico aumento di popolazione umana e la spaventosa crescita dei consumi che hanno caratterizzato gli ultimi due secoli.
Il funzionamento della Biosfera
Per usare il linguaggio della teoria dei sistemi, un essere vivente è un sistema che si mantiene in situazione stazionaria lontana dall’equilibrio termodinamico. In altre parole, vive finché un flusso di energia lo attraversa continuamente senza che si alterino le sue condizioni generali, se si trascurano le piccole oscillazioni attorno ai valori standard. Il vivente è un sistema omeostatico, cioè è in grado di mantenersi nelle condizioni vitali autocorreggendo le variazioni accidentali non troppo grandi attraverso interazioni fra tutti i suoi sottosistemi, componenti e flussi energetici.
La Biosfera nel suo complesso si comporta come un sistema vivente, anche se in generale su tempi più lunghi. Si noti che questo discorso è indipendente dalle considerazioni, di natura metafisica, se sia un essere vivente (Gaia), se sia sede di fenomeni mentali e -in tal caso- fino a che punto sia cosciente.
Anche un ecosistema, ad esempio una porzione abbastanza grande ed inalterata di foresta pluviale equatoriale, si comporta come un sistema stazionario lontano dall’equilibrio, cioè come un essere vivente.
Quando uno di questi sistemi perde le sue capacità di omeostasi per un intervento esterno troppo drastico, si ha la morte dell’essere vivente, o comunque la fine del sistema in quanto tale. I tempi e la gravità degli interventi in grado di provocare fenomeni di questo tipo sono naturalmente molto diversi a seconda del sistema interessato.
La cultura occidentale, considerando l’uomo al di fuori della Biosfera, ha reso possibile l’aggressione alla Natura che è iniziata da un paio di secoli, cioè da quando si è data il potere tecnico per farlo. A causa del modo di funzionare di questo modello culturale che sta invadendo tutta la Terra, le capacità omeostatiche complessive del Pianeta non sono più in grado di riportarlo in condizioni stazionarie. Inoltre molti ecosistemi vengono distrutti e non possono essere sostituiti con altri “artificiali”, perché questi ultimi dipendono spesso da interventi permanenti esterni per essere mantenuti in condizioni vitali. Come esempio, non possiamo illuderci che la riforestazione riporti in vita la foresta originaria: è meglio di niente, ma non può sostituire la ricchezza di vita e di spiritualità di una foresta naturale.
In realtà la Terra è stazionaria solo se si considerano tempi dell’ordine di decenni, o secoli, non lo è più se consideriamo tempi dell’ordine di milioni di anni: il problema sta nel fatto che le modifiche causate dalla civiltà industriale nei cicli naturali hanno velocità dieci- centomila volte più grandi di quelle normali, che consentono alla vita di adattarsi gradualmente alle nuove situazioni. Usando un linguaggio non rigoroso, in natura è come se si passasse da una situazione stazionaria ad un’altra, senza transitori “pericolosi”. Comunque, agli effetti delle considerazioni qui esposte, è come se la Terra vivesse in situazione realmente stazionaria.
Oggi ci troviamo durante un transitorio “veloce”: il modo di procedere attuale non può durare a lungo. Quindi è probabile che molti parametri che caratterizzano ora il sistema globale non possano essere mantenuti se la Terra si riporta in situazione vitale. In particolare è abbastanza evidente che l’attuale popolazione umana esistente sul Pianeta è eccessiva per consentire alla Biosfera di funzionare, con un livello medio di consumi pro- capite pari a quello attuale.
Sistema economico e popolazione umana
Il sistema economico, cioè il processo di produrre-vendere-consumare, si può ricondurre ad un’unica variabile, il denaro. Il sottosistema economico non può funzionare in un sistema complesso e stazionario lontano dall’equilibrio, come la Biosfera, che dipende da un gran numero di variabili. In sostanza il processo economico impedisce l’omeostasi della Biosfera: il sistema complessivo cessa di essere stazionario. In un vivente questo corrisponde alla morte dell’organismo. Se poi consideriamo che il sistema economico attuale per mantenersi deve essere in crescita, a maggior ragione risulta chiaro che è incompatibile con il funzionamento del sistema più grande di cui fa parte.
Un’economia complessivamente in crescita può soltanto essere un transitorio, un fenomeno patologico nella Biosfera, che porta necessariamente verso un punto “di catastrofe”. Questo è un elemento di ottimismo: il vero pessimismo è prevedere la continuazione degli andamenti attuali, che portano ad un mondo degradato, alla scomparsa della biodiversità, a psicopatie e criminalità, alla fine della varietà e della bellezza del mondo.
L’uomo non evita mai le catastrofi, ma ne guarisce: speriamo che sia vero.
È sorprendente notare che esistono ben poche ricerche su un problema come quello del numero massimo di umani che la Terra può sopportare: ad esempio, nello studio riportato nel libro Assalto al pianeta di Pignatti e Trezza (Bollati Boringhieri, 2000) si parla di una popolazione ammissibile inferiore ai due miliardi di individui, in accordo con i valori di una ricerca effettuata all’Università Cornell. In una delle proiezioni ipotizzate nel famoso rapporto I limiti dello sviluppo si perveniva ad una situazione stazionaria solo stabilizzando la popolazione mondiale attorno al 1975, il che corrispondeva ad un numero di umani di poco inferiore a quattro miliardi, con un livello di consumi medio pro-capite minore di quello attuale. Sei miliardi di umani possono stare sul pianeta solo per tempi molto limitati, perché vivono e consumano “divorando” la Terra.
Al di là di considerazioni numeriche, è comunque abbastanza evidente che, se si vogliono aumentare i consumi pro-capite, è necessario diminuire la densità di popolazione umana. Potrebbe essere un compito della scienza valutare se un prodotto può essere realizzato e in quale quantità senza mettere in pericolo il funzionamento vitale della Terra. Come esempio, è presumibile che, se si vogliono costruire e far circolare auto private con motore a scoppio, la popolazione mondiale debba essere molto inferiore al miliardo di abitanti, ipotizzando un’auto per famiglia.
Competizione e selezione
Una delle concezioni di fondo della nostra società è l’idea che competizione e selezione siano una specie di “molla del progresso”, anzi siano addirittura il modo di evolversi della vita. Quando, verso la metà dell’Ottocento, comparve l’idea dell’evoluzione biologica, furono messe in grande evidenza, come fattori quasi esclusivi dell’evoluzione, la lotta per la vita e la sopravvivenza del più adatto. Invece la novità principale era l’appartenenza della nostra specie alla Natura, con tutte le conseguenze che questo comporta. L’idea della sopravvivenza del più adatto come fattore di “progresso” non era una constatazione biologica, ma un bisogno della nascente civiltà industriale. I recenti studi di Lynn Margulis hanno evidenziato che l’evoluzione biologica è stata in gran parte frutto della cooperazione e della simbiosi fra organismi unicellulari durante almeno un miliardo di anni.
Con questo non si vuol dire che la competizione in natura non esista: è un fattore fra tanti.
La sacralità della Terra
Assieme all’operazione di essersi tirato fuori dalla Biosfera, ponendosi “al di sopra” di essa, l’uomo occidentale ha tolto l’anima al mondo. Ma oggi, anche senza uscire dalla nostra cultura, alcuni pensatori hanno ampliato il concetto di mente fino a renderlo indipendente dal supporto di un sistema nervoso centrale: la mente sarebbe semplicemente frutto di una certa complessità (Gregory Bateson). Anche lo psichiatra junghiano James Hillmann insiste spesso sull’idea di “Anima del mondo”. Da vie diverse ricompare la mente nella Natura, anche se per ora si tratta di idee con scarsa diffusione, sempre limitandosi alla cultura occidentale.
Ricordiamo che, oltre alle filosofie di spiriti più o meno isolati, ci sono le religioni, che hanno un’influenza ben maggiore sulle moltitudini.
Uno dei compiti principali delle religioni potrebbe essere quello di fornire una visione del mondo in cui inquadrare i fenomeni e di dare prescrizioni morali che non riguardino qualche problema immediato o a breve termine o solo questioni umane, ma che preservino la salute della Terra, in quanto bene in sé: questo compito non può essere affidato né alla politica, né ad istituzioni “pratiche”.
Le religioni, più che pensare a quale sia “la verità”, potrebbero diffondere sentimenti di empatia e di amore verso tutti gli esseri senzienti, cioè verso tutte le entità naturali.
A questo riguardo le tradizioni filosofico-religiose che maggiormente si sono preoccupate
del bene del complesso naturale a tempo indefinito sono state alcune tradizioni di origine orientale (Buddhismo, Jainismo, Taoismo) e alcune culture animiste, soprattutto quelle native del continente americano. Spesso la percezione che si trattava di prescrizioni “ecologiche” non era molto evidente, almeno agli europei.
Ho citato prima alcuni pensatori di formazione occidentale, a cui aggiungerò il biochimico e filosofo Rupert Sheldrake, che scrive:
Che cosa cambia se consideriamo la Natura viva piuttosto che inanimata? Primo, mettiamo in crisi le ipotesi umanistiche su cui la civiltà moderna è basata. Secondo, instauriamo un rapporto diverso con il mondo naturale e acquistiamo una prospettiva diversa della natura umana. Terzo, diventa possibile una nuova sacralizzazione della natura. (La rinascita della Natura, Ed. Corbaccio, 1993).
Mi sono limitato agli scritti più recenti: si tratta di casi isolati, che non hanno avuto in pratica molto seguito, ma che comunque esistono.
Se non altro, riescono a mettere in evidenza che, perché sia presente il senso del sacro, non è assolutamente necessario postulare l’esistenza di un Dio personale ed esterno al mondo e che si occupa esclusivamente degli umani, come nelle tradizioni originarie del Medio Oriente e diffuse nella cultura occidentale.
Per quanto riguarda questi fondamenti religiosi dell’Occidente (anche della parte laica), una modifica positiva dell’atteggiamento verso il mondo naturale si avrebbe se venisse riconosciuta la matrice indiana-buddhista, e non giudaica, dell’insegnamento di Cristo.
Conclusioni
Ci possono essere innumerevoli scale di valori, ma da quanto accennato è evidente che il primo valore dovrebbe essere quello di consentire la vita della Biosfera, da cui dipendiamo: la sopravvivenza della Terra è essenziale.
L’etica della Terra non è solo una posizione filosofica, è soprattutto una necessità per mantenere in vita e in salute l’Organismo cui apparteniamo, assieme alle altre specie, agli ecosistemi, all’atmosfera, al mare, ai fiumi, alle montagne.
Se poi invece della logica sistemica vogliamo ascoltare la voce del cuore o dell’anima, ecco un’espressione di una cultura nativa del continente americano (etnìa Wintu, che si trovava nel nord-ovest degli attuali Stati Uniti):
Quando noi indiani uccidiamo, la carne la mangiamo tutta. Quando estraiamo le radici facciamo piccoli fori: quando costruiamo case facciamo piccoli buchi nel terreno. Non abbattiamo gli alberi: usiamo solo legno già morto. Ma quest’altra razza di uomo ara il terreno, abbatte gli alberi, uccide tutti gli animali. L’albero dice: “Non farlo. Mi fai male. Non ferirmi”. Ma l’uomo bianco lo abbatte e lo taglia in pezzi. Come può lo Spirito della Terra amare quest’uomo? Dovunque egli ha toccato, la Terra ne è rimasta ferita.
(articolo pubblicato sul numero di marzo 2003 della Rivista ALDAI)
La conservazione della natura
"Quando avrete inquinato l'ultimo fiume, catturato l'ultimo pesce, tagliato l'ultimo albero, capirete, solo allora, che non potrete mangiare il vostro denaro" (profezia degli indiani Cree).
La materia che concerne la conservazione della natura può essere definita una vera e propria scienza filosofica che ha stretti legami con l’ecologia. Occorre però avvertire che, quantunque un siffatto legame appaia intrinseco, sarebbe erroneo considerare la conservazione della natura un’esigenza che si esaurisce nella pura sfera scientifica, poiché essa ha una connotazione ben più ampia che spazia dalle implicazioni etiche, spirituali a quelle sociali e politiche. D’altra parte una tale puntualizzazione giova anche all’ecologia in sé stessa, che, operando già in una sfera tanto vasta, non può sopportare altre sovrapposizioni.
La scienza ecologica offre senza dubbio le basi alla conservazione dell’ambiente, ma questa dovrà poi percorrere una propria strada che è irta di ostacoli spesso difficilmente superabili. Infatti, la protezione della natura, entrando inevitabilmente in conflitto con le attività umane che turbano l’equilibrio dell’ecosistema, trova spesso una opposizione totalizzante e tenace, come sa esserlo solo quella connessa a interessi economici.
Il degrado ambientale è arrivato a sì alto livello che a volte l’animo del naturalista ne rimane sopraffatto al punto da non essere più in grado di appellarsi al rigore mentale, senza il quale non può impostare le direttive per la soluzione dei problemi. Accade invece altre volte che il naturalista abbia la ventura di portare i propri passi in zone, sempre più rare, non ancora ferite dal degrado, e allora l’incessante spirituale dialogare della natura lo affascina, ora con l’apparire delle tenui luci del sottobosco, ora con il bagliore di grandi distese di ghiaccio, ora col nitido stagliarsi di vette immacolate, ora col rosseggiare della faggeta in autunno.
“Una foresta ininterotta si stende da tutte le parti della capanna in cui scrivo, fluisce innanzi, in un cupo fiotto ondeggiante, verso settentrione, fino all’Oceano Artico. Nessuna ferrovia la traversa, per bruciare e distruggere, nessun colonizzatore la rovina col fuoco e con l’ascia. Da ogni eminenza, si possono contemplare leghe innumerevoli di Foresta, che non nutrirà mai le fauci affamate del commercio.
Questo è un posto differente, è un’altra giornata.
In nessun luogo qui la vista delle ceppaie e delle nobili vette abbattute offende l’occhio o rattrista lo spirito; ne la bellezza strana, selvaggia, inimmaginabile di questi tramonti nordici è sfigurata da filari e filari di alberi scheletrici ed orrendi......... Ritorno alle origini? Forse sì; ma ci hanno portato fortuna.
Tutti i sogni sono diventati veri, e anche più. Scomparsa è la paura assillante di una mano vandalica. La vita selvatica in tutte le sue numerose varietà, animali ritenuti timidi ed elusivi ci passano ora quasi a portata di mano, e a volte si fermano presso la capanna, ed osservano. Ed uccelli, e bestie minute e grosse, e creature piccole e grandi, si sono raccolti qui intorno, e frequentano il posto, e volano e nuotano o camminano corrono secondo la loro natura.
Piomba la Morte, come deve pure talvolta, e sorge la Vita al suo posto. La natura vive e procede e fluisce tutto intorno nel suo assetto armonioso e metodico.
Le cicatrici degli antichi incendi pian piano scompaiono; gli alti alberi diventano ancora più grandi. Si riaffollano le città dei castori. Il ciclo continua.... “. WA-SHA-QUON-ASIN (Grey Owl, 1940)
A questo punto un interrogativo si fa pressante: la civiltà potrà avere un avvenire? La risposta parrebbe essere negativa, perché l’uomo è ormai prigioniero di un modello di sviluppo che comporta irreparabili squilibri ambientali ed è, per di più, protagonista di una paurosa esplosione demografica che gli ha fatto quasi raggiungere il potenziale biotico massimo che può essere attinto alla natura dalla specie umana. A ciò si aggiunge che una gran parte della popolazione del pianeta conduce un tenore di vita che comporta l’uso di una quantità enorme di energia nonché il consumo di preziosi metalli che si avviano al totale esaurimento.
In verità, gli interventi umani sul territorio sono devastanti e non risparmiano nessun elemento dell’ambiente naturale: l’acqua, l’aria, la flora, la fauna, l’assetto della cosiddetta materia inerte, ecc. L’uomo sfrutta la natura in mille modi, quasi sempre per il volgare ed inutile accumulo delle ricchezze e del potere. Ciò che una volta, nel piccolo e nell’episodico, poteva essere sostenibile (p.e. la caccia sportiva, il prelievo di risorse non rinnovabili, la pesca, l’emissione di sostanze relativamente inquinanti, ecc.), anche perché molte attività venivano adeguatamente filtrate e degradate dai sistemi naturali (per esempio l’autodepurazione dei fiumi o dei piccoli mari), ora, con i mezzi tecnologici, con l’eccessivo uso delle “cose” e con il dramma della sovrappopolazione, molte attività umane non lo sono più e ciascuna di esse esercita un forte impatto sull’economia della natura. Se una o due persone persone raccolgono un fiore in un prato, il prato non ne risente affatto, ma se quella operazione viene svolta da migliaia di persone il prato perderà tutti i fiori che
possiede. Questo deve far riflettere sulle continue pretese che l’uomo contemporaneo accampa continuamente anche in riferimento ad attività dei tempi andati. Si ricorda inoltre che anche nel passato, fenomeni sistematici e capillari, anche se esercitati con mezzi ridotti e da una popolazione meno esigente, hanno prodotto risultati deleteri per la natura (si pensi al massiccio disboscamento della Gran Bretagna, all’estinzione del lupo nell’arco alpino, alla scomparsa della popolazione Maia o a quella dll’isola di Pasqua). Un altro esempio ci viene offerto dal fenomeno del turismo di massa. Favorire al giorno di oggi la frequentazione turistica di luoghi naturali, vuol significare alterare completamente quei territori. Per esempio, gli ultimi luoghi abitati dall’orso bruno in territorio italiano (Abruzzo e Trentino), dovrebbero essere gelosamente tutelati dalla perniciosa presenza massiva delle persone, altrimenti nel volgere di un brevissimo tempo il plantigrado resterà un lontano ricordo della fauna autoctona.
Dinanzi ad un siffatto degrado la difesa dell’ambiente deve divenire un obiettivo primario e globale. “La visione dell’uomo ‘signore del creato’, in pieno diritto di distruggere o alterare tutto, è dura a morire. Certe culture, più di altre, hanno manifestato addirittura una profonda ostilità verso qualsiasi cosa naturale: questo spiega perché in alcuni paesi industrializzati la degradazione e l’alterazione dell’ambiente siano maggiori che in altri” (Storer et al., 1984).
Ma occorre comunque considerare che i problemi ambientali sono a tal punto complessi
che ipotizzare una loro soluzione all’interno di un solo Paese significa consumarsi in uno sforzo velleitario, giacché il degrado è, per così dire, ecumenico e non s’arresta davvero innanzi alle barriere doganali. Infatti è necessario osservare che il degrado non è uniformemente distribuito sul pianeta, in quanto esso presenta una distribuzione che potremmo definire a “macchia di leopardo”; sarebbe comunque una fallace speranza quella che intendesse ricostituire l’equilibrio ecologico generale mediante provvedimenti che curino le “macchie” caso per caso, poiché occorre al contrario che l’influenza negativa esercitata dalle attività umane sull’equilibrio ambientale venga drasticamente ridotta dappertutto. “Gli uomini devono trovare la soluzione ai problemi attuali in un contesto universale” (Dorst, 1990).
Occorre poi sgombrare il campo degli studi naturalistici o del pensiero comune da una pregiudiziale che è di un tale rilievo da assumere il valore di una contraddizione in termini, poiché tale è appunto la pretesa di chi si ostina a considerare il problema ambientale esclusivamente in funzione dell’uomo. L’uomo è una parte, un tassello dell’ecosistema, non è l’ombelico della natura, perciò cade in un grave errore chi subordina la salvaguardia dell’ambiente al primato dell’uomo, cade in grave errore chi dice, ad esempio, “ se
continua la distruzione delle foreste il danno si ripercuoterà sull’uomo”...” se si continua ad avvelenare i campi anche l’uomo ne resterà avvelenato”. C’è insomma il rischio che nei nostri discorsi si ripresenti ognora il nostro inveterato antropocentrismo, tutto e sempre per l’uomo. Occorre ribaltare una siffatta concezione per porre al centro di tutto gli interessi globali della vita e non, sulla Terra (ecocentrismo). La regola deve tendere a salvare un bosco secolare non per l’uomo, ma per il bosco stesso; alla fine anche l’uomo se ne avvantaggerà (spiritualmente e materialmente), ma sarà un riflesso, non lo scopo di quel salvataggio. Dobbiamo invertire il pensiero di salvaguardare una “valle selvaggia” per poter poi provare emozioni e profonde sensazioni dinanzi a quello scenario naturale incontaminato. La “valle selvaggia” va mantenuta tale per se stessa, per il suo essere libero, poi se il nostro spirito ne troverà giovamento sarà solo una eventuale positiva conseguenza e non la molla che ci ha spinto ad operare per il mantenimento di quello status incontaminato. Sono andato alla fine della terra, sono andato alla fine delle acque, sono andato alla fine del cielo, sono andato alla fine delle montagne, non ho trovato nessuno che non fosse mio amico. (Canto per il Dio della Piccola Guerra, Navajo - in AA. VV., 1995). Il valore in sé delle cose indipendentemente da noi e da tutto è il pensiero più elevato che la mente umana possa concepire. E’ anche possibile giustificare l’antropocentrismo come “istinto” della specie umana per una efficace autoconservazione. In fondo ogni specie è un po’ “egocentrica” verso se stessa per sopravvivere nella natura. Ma negli altri esseri viventi l’egocentrismo porta in genere ad un indubbio vantaggio per la specie e un ancor più grande vantaggio per la natura tutta. L’egocentrismo umano invece porta distruzione e morte sia nell’uomo stesso che in tutto il mondo naturale. Tra l’altro gli atteggiamenti degli altri viventi non sono affatto premeditati e consapevoli delle conseguenze, mentre l’uomo è pienamente cosciente dei propri abusi, della propria superbia e delle proprie distruzioni e prevaricazioni. Una bella differenza dunque tra le due forme di egocentrismo! Scrive Santayana (1944): “Un californiano che ho recentemente avuto il piacere di conoscere mi diceva che se i filosofi vivessero tra i suoi monti, i loro sistemi sarebbero diversi da quello che sono i sistemi che la tradizione europea della buona creanza ci ha tramandati dai tempi di Socrate, perché questi sistemi erano egoistici; direttamente o indirettamente erano antropocentrici, e ispirati dalla fatua nozione che l’uomo o l’umana ragione, o l’umana distinzione tra il bene e il male, siano il centro e il perno dell’universo. Questo è ciò che i monti e le foreste dovrebbero farvi vergognare d’asserire”. Santayana con questo suo discorso presentato nel 1911 a Berkeley è stato uno dei pochi filosofi occidentali a sferrare un significativo attacco all’antropocentrismo e alla visione egocentrica del cristianesimo. Infatti “rappresentò una svolta storica nello
sviluppo dell’indagine contemporanea su una visione del mondo alternativa e un’etica ambientale non soggettivistiche, antropocentriche ed essenzialmente materialiste.
Nel suo discorso Santayana affermava che acquisire consapevolezza ecologica per
mezzo di un contatto profondo e spirituale con la natura ci avrebbe aiutato ad abbandonare la zavorra del nostro sciovinismo umano” (Devall & Sessions, 1989). Gli aspetti di una siffatta esiziale commistione di ruoli sono focalizzati con grande chiarezza da Franco Zunino (fondatore dell'Associazione Italiana per la Wilderness) quando dice che ".... L'uomo deve rispettare la natura per il suo valore in sé, e deve sapersi tirare indietro non appena la sua presenza vi incide negativamente, non trovare cavilli e rimedi provvisori per giustificare la necessità o, peggio, il 'diritto' della sua presenza". Scrive poi Pavan (1988): “...stiamo traversando una fase di confusione dell’uomo, dei suoi valori morali, dei suoi diritti e doveri, del suo ruolo e delle prospettive; siamo in una fase di scoperta degli errori che abbiamo fatto e stiamo facendo, ma abbiamo ancora la facoltà di corregerci.” Occorre domandarci: siamo realmente in grado di corregerci ? I dubbi sono tanti, troppi. Le nostre azioni distruttive sono molteplici e quasi mai si comprendono appieno le implicazioni connesse agli interventi che turbano l’equilibrio naturale: se, ad esempio, l’uccisione di un orso da parte di un bracconiere costituisce una drammatica ferita all’ambiente, una turbativa ancora maggiore è insita in quegli atti che, nel modificare l’ambiente in sé stesso, determina, col tempo, la scomparsa di tutti gli orsi nel territorio. Scrive Thoreau “Se vogliamo proteggere gli animali selvatici dobbiamo garantire loro una foresta in cui possano vivere e a cui possano far ricorso”.
Queste considerazioni sull’orso bruno ci portano a riflettere ancora sull’interconnessione dei problemi ambientali. In natura non esistono fenomeni vitali che esauriscono in sé stessi la ragione di essere; tutti i fenomeni sono concatenati tra loro, un po’ come accade per le singole scansioni musicali di una sinfonia. Tenuto fermo tale principio, è del tutto intuitivo che in un siffatto concerto naturale l’assetto territoriale eserciti un’incidenza che sovrasta gli altri fattori, a simiglianza di quanto accade col “leit-motiv” di un testo musicale. L’esempio sul quale ci siamo poc’anzi intrattenuti, ipotizzando la scomparsa dell’orso bruno in seguito al sovvertimento del suo “habitat”, trova un riscontro, portando a paragone un altro esempio, nella scomparsa dell’Aquila di mare da alcune zone del suo areale anche in seguito alla distruzione del proprio “habitat” rappresentato dalle coste marine che l’attività antropica ha profondamente modificato ed inquinato. Occorre tra l’altro puntualizzare che la conservazione di un territorio (valle, grotta, costa marina, ecc.) deve essere sempre paritetica alla conservazione di una specie animale o vegetale anche se un dato ambiente è di minime dimensioni (distruggere un territorio perché piccolo è come
uccidere gli ultimi orsi del trentino ritenendo inutile la loro sopravvivenza in quanto ormai troppo pochi). Anzi, spesso, la salvaguardia dei “luoghi” è un atto ancora più importante. Le ultime aree selvagge hanno una grande importanza in quanto complessi integri o unitari e rari come tali; conservandoli salvaguarderemo anche i loro “capitali” di specie animali e vegetali salvaguarderemo il paesaggio, l’ambiente, l’intera struttura: tutto questo in un unico atto di azione. Animali e piante infatti sono solo una parte di un territorio, sia pur saliente ed inalienabile. “Un fiore senza giardino è condannato a morte anche se trova sopravvivenza nel limitato spazio di un vaso grazie alla seminazione artificiale” (F. Zunino). Scrive ancora Pavan (1967): “ La natura è costituita da innumerevoli fattori legati fra di loro da fini, azioni e reazioni che costituiscono un equilibrio dinamico in continuo spostamento: l’uomo si getta a capofitto in azioni di disturbo, di alterazioni, e provoca profonde modificazioni e rotture di equilibri di cui raramente si preoccupa di prevedere l’evoluzione e il destino Lo sviluppo storico dell’umanità, presa nel suo insieme, è avvenuto in modo
molto disarmonico e così procede tuttora, mantenendo molti squilibri, talora aggravandoli e
creandone nuovi.”
In natura ogni specie svolge la propria parte all’interno di un processo dialettico che tende al conseguimento di uno stato di equilibrio; questo non è ovviamente perenne, ed ha in sé stesso la capacità di assestarsi sui parametri che via via si presenteranno. E' da notare che ogni singola specificità biologica, allorché entra nel processo dialettico che determinerà poi il punto di equilibrio dell’ecosistema, assume un proprio assetto unitario. In teoria anche l’uomo dovrebbe partecipare al processo dialettico a parità di diritto con le altre specie, sia animali che vegetali, ma ciò in realtà non accade perché l’uomo, a causa del suo sviluppo intellettivo è, tra l’altro, in grado di modificare e stravolgere l’assetto della cosiddetta materia inerte mediante opere gigantesche, come - ad esempio - le dighe che sbarrano i fiumi, le autostrade lunghe migliaia di chilometri, il prosciugamento dei laghi, la costruzione di nuove città; a ciò si aggiunga che, forte della sua sofisticata tecnologia, l’uomo ha la possibilità di sterminare, nel volgere di un breve arco di tempo, qualsiasi altra forma vivente. Su tali problemi si intrattengono Galiano & Marchino (1990), che annotano “...il grande ‘peccato’ dell’uomo occidentale è di essersi staccato dalla natura, dal suo ambiente. Per lui il sole, la luna, le stelle, i fiori, le piante, gli animali, non sono più né ‘sorelle’ né ‘fratelli’. Dal cosmocentrismo è passato al teocentrismo ed è finito nell’antropocentrismo. La conseguenza ‘perversa’ è stata chiara: se l’uomo è centro di tutto, egli allora diventa despota, può imporre senza remora le sue leggi, può esercitare violenza sulla natura e oppressione sui fratelli. Ma la natura espropriata e manipolata manifesta tutti gli effetti boomerang di un tale intervento”. Con queste considerazioni G.
Galiano e M. Marchino focalizzano icasticamente la dimensione dell’uomo di oggi che sembra drammaticamente vocato all’autodistruzione.
Il progresso rappresenta, secondo il Rousseau, qualcosa di esteriore rispetto all’uomo,
qualcosa che non tocca ciò che v’è di più intimo nel nostro essere, cioè l’istinto naturale (Geymonat, 1971). Se poi il pensatore ginevrino sembra cadere nel paradosso quando proclama la superiorità della vita primitiva rispetto a quella realizzata dai popoli cosiddetti “civili”, è pur vero che uno degli aspetti più significativi della crisi dell’uomo moderno è proprio il suo distacco dalla natura. Ed è stato un distacco particolarmente cruento quello verificatosi negli anni che segnano l’inizio della rivoluzione industriale, quando il saccheggio dell’ambiente assunse una capacità distruttiva fino ad allora inimmaginabile. “L’umanità è un cancro nell’universo della vita” (David Foreman). L’uomo occidentale è infatti un vero e proprio “cancro” nell’organismo natura e, a similitudine delle cellule maligne, porta solo morte e distruzione.“La conservazione dell’ambiente manca il suo obiettivo perché è incompatibile con il concetto di terra che ci è stato tramandato dai tempi di Abramo: noi violentiamo la terra perché la consideriamo un articolo che ci appartiene. Solo quando la vediamo come una casa comune, a cui apparteniamo, possiamo cominciare a servircene con amore e rispetto” (Leopold, 1949-1997).
La necessità di trattare la questione ambientale prevalentemente dal punto di vista etico/ filosofico, è mossa dalla constatazione che nell’occidente tutta la speculazione filosofica è stata praticamente priva, dalle origini ai giorni nostri, di argomentazioni sostanziali sulla materia (gli esempi sono pochi: J. Muir, A. Leopold, H.D. Thoreau, ecc.). Scrive infatti Hargrove (1990): “Nonostante i molti risultati monumentali della filosofia, essa non è mai riuscita, in tutto l’Occidente, a fornire una base per il pensiero ambientale. Questo insuccesso coinvolge tutte le branche maggiori: metafisica, epistemologia, etica, filosofia sociale e politica, filosofia della scienza e, naturalmente, estetica......
L’etica ambientale rappresenta per la filosofia l’occasione per correggere il suo maggiore errore, il rifiuto del mondo naturale qual è sperimentato concretamente nella vita reale...... Ci auguriamo che i preservazionisti e i conservazionisti della natura dell’inizio del prossimo secolo dispongano di teorie filosofiche migliori fra cui operare una scelta ”.
La mancanza di questa base filosofica ha senz’altro determinato tutti i sostanziali atteggiamenti negativi che l’uomo ha sviluppato nella sua visione del mondo (antropocentrismo, dualismo, ecc.). Ne sono testimonianza le ottuse speculazioni religiose scissionistiche e prevaricatrici proprie dell’Occidente o il rigido meccanicismo del razionalismo cartesiano. Scrisse A. Leopold (1949-1997): “Non esiste tuttora un’etica che consideri il rapporto dell’uomo con la terra, e con gli animali e le piante che crescono su di
essa. Proprio come le schiave di Ulisse, la terra è considerata ancora una proprietà. Il rapporto con la terra è tuttora strettamente economico e prevede diritti ma non doveri.....
In breve, un’etica terrestre modifica il ruolo dell’Homo sapiens da conquistatore della terra
a semplice membro e cittadino della sua comunità. Implica rispetto per gli altri membri e per la stessa comunità, in quanto tale”.
Integra molto bene il discorso Capra quando scrive (1997): “Tutti gli esseri viventi sono membri di comunità ecologiche legate l’una all’altra in una rete di rapporti di interdipendenza. Quando questa percezione ecologica profonda diventa parte della nostra consapevolezza di ogni giorno, emerge un sistema etico radicalmente nuovo.
Oggi la necessità di una tale etica ecologica profonda è urgente, soprattutto nella scienza, dato che gran parte di ciò che fanno gli scienziati non serve a promuovere la vita né a preservarla, ma a distruggerla. Con i fisici che progettano sistemi di armamenti che minacciano di cancellare la vita sul pianeta, con i chimici che contaminano l’ambiente mondiale, con i biologi che mettono in circolazione tipi nuovi e sconosciuti di microrganismi senza poter prevederne le conseguenze, con gli psicologici e altri scienziati che torturano animali nel nome del progresso scientifico, con tutte queste attività che continuano, appare urgentissimo introdurre nella scienza delle norme di ‘eco-etica’”.
Vittorio Hosle nella sua interessante opera “Filosofia della crisi ecologica” (1992) evidenzia l’importanza che assume il pensiero etico/filosofico per una nuova responsabilità collettiva verso la natura. “Le catastrofi ecologiche sono la sciagura che incombe su di noi in un futuro non più lontano; nonostante tutti gli sforzi collettivi per rimuovere tale prospettiva, nonostante tutte le strategie sviluppate per rassicurarci e tranquillizzarci, nel frattempo questa convinzione si è consolidata nelle coscienze della maggior parte delle persone e costituisce il cupo sottofondo del senso della vita per la giovane generazione dei paesi sviluppati. Da un lato la prassi di coltivare questo sentimento ha in sé qualcosa di ripugnante, in quanto è fin troppo facile che essa porti alla rassegnazione e all’apatia, o addirittura, cosa ancor peggiore, che induca le masse a un edonismo frenetico e gli intellettuali a un cinismo morboso che si rassegna a ciò che sembra inevitabile e che desidera soltanto sorbire le ultime gocce dal calice del mondo, prima di mandarlo in frantumi. D’altro canto però questo pericolo non può servire a giustificare la rimozione e quindi l’imperterrita, folle corsa suicida verso l’abisso: ciò vale per ognuno di noi, e innanzitutto per la filosofia. Questa infatti mal si concilia con le rimozioni. perché la filosofia si occupa della verità, e precisamente non di questo o quel singolo momento di essa, ma della verità che concerna la totalità dell’essere La filosofia non può restare indifferente
di fronte al suo destino. Nessuno dei grandi filosofi si è sottratto alle emergenze del
proprio tempo......; quindi nel momento in cui è in gioco non solo il destino del proprio popolo, ma anche quello dell’umanità e di gran parte della natura inanimata, essere indifferente significa tradire la causa della filosofia......
Come è arrivato l’uomo a minacciare il proprio pianeta nel modo che oggi stiamo sperimentando? E di fronte a questa situazione ha ancora senso l’idea del progresso? ......... Non è sufficiente riconoscere il pericolo in cui ci si trova quando, nel mezzo di un lago gelato, il ghiaccio scricchiola sotto i nostri piedi; bisogna cercare delle scappatoie per sfuggire al pericolo. E anche se tutt’intorno siamo avvolti dalla nebbia, la filosofia può comunque sperare di scorgere la spiaggia di salvezza grazie alla luce che irradia; può forse indicare la direzione nella quale è necessario procedere “.
Kaiser (1992) mette bene a fuoco gli aspetti estremamente negativi della visione dualistica della vita in quattro relazioni fondamentali (Io-Sé; Io-Tu; Io-mondo; Io-Dio). Scrive infatti: “(Io-Sé) Il dualismo divide l’uomo dalla natura, separandolo così da se stesso, in quanto anch’egli è natura. Frutto di questa scissione l’esperienza di una profonda contraddizione, di una lacerazione interiore, è la sensazione di non essere uno con se stesso, di non vivere in armonia con la propria persona - (Io-Tu) Una concezione dualistica della relazione dell’uomo con il suo prossimo implica che l’individuo si senta innanzi tutto separato dall’altro, contrapposto a lui. Ne sono un eloquente esempio le tendenze polarizzatrici nella vita politica e sociale - (Io-mondo) Il pensiero dualistico divisore vede l’uomo come opposto alla natura, in quanto sostanzialmente diverso da essa. Anche qui solo un passo ci separa dalle conseguenze dell’imperialismo, per cui l’uomo sarebbe chiamato a dominare sulla natura, sottomettendola al proprio volere - (Io-Dio) Nella relazione dell’uomo con il divino, il dualismo porta al concetto di un Dio personale e trascendente (e pertanto teistico), separato nettamente dall’uomo e dal mondo. Dio è ‘totalmente altro’, non confrontabile con alcuna cosa terrena. Conseguenza di questa concezione dualistica di Dio è la dissacrazione del mondo.... che sta alla base dell’imperialismo cosmico ”.
Scrive G. Snyder (1992): “La società americana (come tutte le società) ha un proprio sistema di assunti sulla realtà che vengono dati per scontati. Continua a nutrire una fede in gran parte acritica nel concetto di progresso. E’ attaccata all’idea che possa esservi un’immacolata obiettività scientifica. E, ancora più importante, funziona in base all’illusione che ciascuno di noi sia come una specie di ‘conoscitore solitario’, una pura intelligenza sradicata, senza numerosi strati di contesti locali: l’illusione che ci sia un ‘sé’ e il ‘mondo’”. Una filosofia della conservazione deve dunque ispirarsi ad una profonda visione unitaria della vita, dove i particolarismi divisori lascino il posto all’universalità e all’impersonale:
“L’esame delle parti non porta mai alla comprensione del tutto” (Fukuoka, 2001). Solo così il valore in sé delle cose potrà essere acquisito gradatamente dal pensiero collettivo facendo leva, nella fase iniziale, sulle persone più sensibili e profonde che avendo compreso tale idea si impegnino a diffonderla.
“C’è solo una speranza di respingere la tirannica ambizione della civiltà di conquistare ogni luogo della terra. Questa speranza è l’organizzazione delle genti più sensibili ai valori dello spirito, affinché combattano per la libera continuità della natura selvaggia” (Robert Marshall).
“Non facendo nulla, non c’è nulla che non venga fatto” (Lao-Tze).
“La natura deve essere rispettata e salvaguardata per il suo valore in sé. E’ l'uomo che deve adattarsi alle sue esigenze e non viceversa. Se è possibile, si deve fare in modo che il mondo selvaggio viva nella sua libera continuità e nella sua fierezza, quella libertà e quella fierezza che l'uomo, prigioniero e schiavo delle proprie convenzioni, forse inconsciamente invidia"