Guido Dalla Casa
Appunti sparsi
Illustrazione di Elzbieta Mielczarek
IL MITO DELLE ORIGINI
Quando noi indiani uccidiamo, la carne la mangiamo tutta. Quando estraiamo le radici facciamo piccoli fori: quando costruiamo case facciamo piccoli buchi nel terreno. Non abbattiamo gli alberi: usiamo solo legno già morto. Ma quest’altra razza di uomo ara il terreno, abbatte gli alberi, uccide tutti gli animali. L’albero dice: “Non farlo. Mi fai male. Non ferirmi”. Ma l’uomo bianco lo abbatte e lo taglia in pezzi. Come può lo Spirito della Terra amare quest’uomo? Dovunque egli ha toccato, la Terra ne è rimasta ferita.
Una pellerossa Wintu
Grande Mistero,
la Tua Voce odo nei venti. Il Tuo Respiro è vita in tutte le cose. Ascoltami! Io sono una creatura minuscola e debole. Ho bisogno della Tua Forza e della Tua Saggezza. Lasciami camminare nella bellezza. Consentimi di osservare, fino in fondo, il rosso porpora del tramonto.
Rendimi saggio, così che io possa capire fino in fondo gli insegnamenti che hai lasciato al mio popolo.
Dammi l’umiltà necessaria per imparare i messaggi che hai affidato ai venti, alle foglie, alle rocce.
Fa che io sia sempre pronto, in qualsiasi momento, a raggiungerTi con mani pulite e occhi che non guardano in basso.
Quando la mia vita, come la luce del tramonto, svanirà, fa che il mio spirito possa volare verso di Te senza ombre né vergogna.
(Preghiera dei Lakota)
L’uomo bianco pensa che gli alberi, il fiume, gli animali siano tutte “cose” senz’anima, di cui può disporre. Noi indiani invece pensiamo che abbiano un’anima, una vita spirituale propria densa di significato. Questa è la differenza.
Un vecchio Lakota
Premesse
Sulla Terra sono esistite circa cinquemila culture diverse: una di queste è l’Occidente, cioè la nostra.
Quasi tutte le culture hanno un racconto mitico delle proprie origini, che di solito ne influenza profondamente il comportamento: ogni cultura mantiene vivo il proprio mito e lo “mette continuamente in pratica”.
Alcune culture umane sono etnocentriche, cioè considerano come “popolo degli uomini” solo coloro che vivono secondo il proprio schema. L’Occidente è una di queste ed ha inoltre la pretesa di essere universale.
Parlerò di “culture” e di “visioni del mondo”, non di religioni, cercando di evitare pareri sulla dimensione religiosa, anche se la cultura e la religione sono campi non separabili.
Il mito delle origini serve spesso a dare “realtà” alle azioni quotidiane e ai riti di una cultura. Per una concezione che si ritrova spesso nelle civiltà tradizionali un atto diventa reale solo nella misura in cui imita o ripete un archetipo, cioè la realtà si acquista in virtù di ripetizione e partecipazione. Nella misura in cui un atto acquista realtà con la ripetizione di gesti simbolici, vi è l’abolizione di quella che noi chiamiamo “storia”; chi riproduce il gesto esemplare viene trasportato nell’epoca mitica della rivelazione: qui la persona è veramente sé stessa, nel momento dei rituali, nell’”essere”. Il resto della vita scorre nel tempo profano, nel “divenire”.
Comunque l’atteggiamento delle varie culture nei confronti del resto della Natura, cioè delle altre specie e degli ecosistemi, dipende in gran parte dalla loro visione del mondo, ovvero dalle loro concezioni metafisiche, spesso ispirate al mito delle origini.
Ma vediamo qualche esempio, tratto qua e là da continenti diversi.
I Dogon (Africa)
I Dogon sono una popolazione vissuta con una cultura propria fino a pochi decenni orsono, nell’Africa occidentale a sud del Sahara (attuale Mali), attorno alle rupi di Bandiagara.
Si rifugiarono qualche secolo fa su quell’altopiano roccioso compreso nell’arco del Niger per salvare la loro cultura dall’invadenza islamica.
Ciò che conosciamo della complessa cosmogonia dei Dogon ci perviene soprattutto dai vent’anni di studi sul posto dell’antropologo francese Marcel Griaule che descrisse nel suo libro Dio d’Acqua tutti i segreti del pensiero di quel popolo, spiegati dal cacciatore cieco Ogotemmeli durante trentatre giorni di incontri quotidiani. Il racconto di Ogotemmeli riempie un libro di centinaia di pagine: non si capisce in che cosa sia inferiore a qualsiasi testo “fondamentale” della nostra cultura.
E’ interessante notare come dal racconto cosmogonico, complesso e pieno di dettagli, consegue tutta la vita dei villaggi Dogon, anche se il popolo non conosce i segreti e la complicata rete di simbolismi di Ogotemmeli.
La pianta del villaggio e perfino i disegni delle coperte trovano la loro ragione d’essere nel mito originario del popolo, conosciuto dagli iniziati. L’orientamento delle case e gli spazi comuni non sono mai disposti a caso; anche i granai riproducono minuziosamente il sistema del mondo.
Nella vita Dogon tutto ha riferimento a quel racconto mitico di creazione-manifestazione del dio Amma, all’origine del sistema: la vita sociale, il valore numerico delle dita, ogni condizione umana e naturale nel più piccolo dettaglio rispecchiano il racconto mitico. I tamburi, i telai, le attrezzature, il vasellame dei Dogon hanno significato in quanto tutte le forme riproducono l’archetipo, sono collegate al mito fondamentale.
Gli Asmat (Nuova Guinea)
Gli Asmat vivono nell’odierno Irian Occidentale, o Nuova Guinea Indonesiana, nelle paludi presso la costa del Mare degli Arafura.
Sono i “cacciatori di teste” di ottocentesca memoria, descritti come truci e selvaggi: in realtà la “caccia alle teste” costituisce un rituale che viene compiuto in determinate stagioni e circostanze.
Il significato di questi riti è il sottofondo culturale degli Asmat, senza il quale la società tende a disgregarsi e gli individui che la costituiscono perdono ogni ragione di mantenersi in vita.
Ma vediamo il mito delle origini degli Asmat:
Il primo cacciatore di teste fu un antenato divino, così come la prima vittima. Essi furono anche i primi uomini a popolare la terra, ed erano fratelli.
Dei due fratelli divini l’uno è ferito, debole ed è il più anziano. L’altro è un giovane e valente cacciatore. (…)
Il fratello minore ha cacciato un maiale selvatico e ne prepara la testa per il rito di iniziazione. Ma il più anziano lo ferma: come può un giovane ricevere la forza che lo renderà uomo dalla testa di un maiale selvatico? L’alternativa è tremenda ma è l’anziano a proporla offrendo spontaneamente la propria testa affinchè il rito possa adempiersi. Il fratello minore non vorrebbe a nessun costo accettare la proposta, ma la fermezza del maggiore lo accompagna a vincere l’istintiva repulsione: il sacrificio è necessario.
Tale necessità è un mistero. Risale alle tradizioni arcaiche del popolo Asmat; per innumerevoli generazioni ha costituito il nerbo vitale del suo temperamento, della sua educazione, del suo inconfondibile stile di esistenza, della sua “arte” esuberante e originalissima, il nucleo ispiratore dell’intera vita sociale. E’ questo un fatto che non si può negare, né ammorbidire con attenuanti di nessun genere e tantomeno “spiegare”. (12)
Per questo mito gli Asmat hanno bisogno periodicamente di scontri fra i gruppi che cessano solo dopo avere ottenuto “la testa”, che diviene oggetto di venerazione e di riti particolari e che ridà vigore alle tribù sia del tagliatore sia del morto (In realtà ci sono spesso più “tagliatori” e più morti).
L’uccisore viene poi adottato dalla famiglia dell’ucciso, come una necessità del mondo: questo dimostra che si tratta di una guerra rituale, di un modo di essere, anche se a noi può sembrare assurdo.
Oggi la caccia alle teste è stata vietata dalle autorità governative che, come tali, sono di derivazione occidentale.
Gli Asmat si stanno estinguendo non trovando più alcun significato nella vita.
I Bororo (America del Sud)
Di questo popolo riporto la descrizione di Levy-Strauss.
Sono nel mezzo di una radura, limitata da una parte dal fiume e da tutte le altre da lembi di foresta che nascondono i giardini, e lasciano scorgere fra gli alberi uno sfondo di colline dai fianchi scoscesi di rossa arenaria. Tutto intorno sono disposte le capanne - 26 esattamente – simili alla mia e disposte in cerchio, su una sola fila. Al centro, una capanna lunga circa venti metri e larga otto, quindi molto più grande delle altre: è il baitemmannageo, casa degli uomini, dove dormono i celibi e dove la popolazione maschile passa la giornata quando non è occupata alla pesca o alla caccia, o in qualche pubblica cerimonia sul terreno di danza, spazio ovale delimitato da pioli, sul fianco ovest della casa degli uomini. L’accesso di quest’ultima è rigorosamente vietato alle donne; queste occupano le case più periferiche e i loro mariti fanno più volte al giorno la spola fra il loro club e il domicilio coniugale, lungo il sentiero che li collega l’uno all’altro attraverso la sterpaglia della radura. Visto dall’alto di un albero o di un tetto, il villaggio bororo è simile a una ruota di carro di cui le case familiari disegnano il cerchio, i sentieri i raggi; e al centro del quale la casa degli uomini costituisce il mozzo.
La disposizione circolare delle capanne attorno alla casa degli uomini è di una tale importanza per quanto concerne la vita sociale e la pratica del culto, che i missionari salesiani della regione del Rio das Garcas, hanno capito subito che il mezzo più sicuro per convertire i Bororo, consisteva nel far loro abbandonare il villaggio per un altro in cui le case fossero disposte in ranghi paralleli.
Disorientati in rapporto ai punti cardinali, privati del piano sul quale si basavano le loro nozioni, gli indigeni perdono rapidamente il senso delle tradizioni, come se i loro sistemi sociali e religiosi fossero troppo complicati per poter fare a meno dello schema reso evidente dalla pianta del villaggio, la cui fisionomia è perpetuamente vivificata dalle loro azioni quotidiane.
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Il villaggio circolare di Kejara è tangente alla riva sinistra del Rio Vermelho. Questo scorre approssimativamente in direzione est-ovest. Un diametro del villaggio, teoricamente parallelo al fiume, divide la popolazione in due gruppi: al nord i Cera, al sud i Tugarè. Sembra che il primo termine significhi “debole” e il secondo “forte”. Comunque sia, la divisione è essenziale per due ragioni: in primo luogo un individuo appartiene sempre alla stessa metà di sua madre; in secondo luogo, egli non può sposare che un membro dell’altra metà. Se mia madre è Cera, lo sono anch’io e mia moglie sarà Tugarè.
Le donne abitano ed ereditano la casa dove sono nate. Al momento del suo matrimonio un indigeno maschio attraversa dunque la radura, supera il diametro ideale che separa le due metà, e va a stabilirsi dall’altra parte. La casa degli uomini tempera questo distacco perché la sua posizione si estende sul territorio delle due metà. Ma le regole di residenza spiegano che la porta che dà in territorio tugarè si chiama porta Cera. In effetti il loro uso è riservato agli uomini e tutti coloro che risiedono in un settore sono originari dell’altro e inversamente.
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Il principio delle metà non regola soltanto il matrimonio, ma anche altri aspetti della vita sociale. Ogni volta che un membro di una metà si trova ad esercitare o a compiere un dovere, ciò avviene a profitto o con l’aiuto dell’altra metà. Così, i funerali di un Cera sono a carico dei Tugarè e reciprocamente. Le due metà del villaggio sono dunque compagne nella stessa partita, e tutti gli atti sociali e religiosi implicano l’assistenza dell’altra parte la quale svolge il ruolo complementare a quello da esso sostenuto. Questa collaborazione non esclude la rivalità: c’è un orgoglio della metà alla quale si appartiene e ci sono gelosie reciproche.
Immaginiamo dunque una vita sociale sull’esempio di due squadre di football che, invece di cercare di contrastare le loro rispettive strategie, si applicassero a servirsi l’una con l’altra e misurassero il vantaggio dal grado di perfezione e di generosità che ciascuna di esse riuscisse a raggiungere.
Passiamo ora a un nuovo aspetto: un secondo diametro, perpendicolare al precedente, taglia ancora la metà secondo un asse nord-sud. Tutta la popolazione nata a est di questo asse è detta “a monte”, e quella nata a ovest è detta “a valle”. Invece di due metà abbiamo dunque quattro sezioni, i Cera, i Tugarè appartenendo allo stesso titolo metà ad una parte e metà all’altra.
Inoltre la popolazione è raggruppata in clan. Sono gruppi di famiglie che si considerano parenti per via femminile, partendo da un comune antenato di natura mitologica.
Come se le cose non fossero abbastanza complicate, ogni clan comprende dei sottogruppi ereditari, sempre in linea femminile. Così ci sono in ogni clan delle famiglie “rosse” ed altre “nere”. Oltre a ciò, sembra che un tempo ogni clan fosse diviso in tre gradi: superiore, medio e inferiore.
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Pochi popoli sono tanto profondamente religiosi quanto i Bororo, e pochi hanno un sistema metafisico così elaborato.
Ma le loro credenze spirituali e le abitudini di tutti i giorni si mescolano intimamente, e non sembra che gli indigeni si rendano conto del passaggio da un sistema all’altro.
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Per i Bororo un uomo non è un individuo, ma una persona.
Egli fa parte di un universo sociologico: il villaggio, il quale esiste dall’eternità, a fianco dell’universo fisico, esso stesso composto di altri sistemi animati come i corpi celesti o i fenomeni meteorologici. Tutto ciò, a dispetto del carattere temporaneo dei villaggi concreti, i quali (in conseguenza dell’esaurimento dei terreni coltivabili) raramente resistono nello stesso luogo per più di trenta anni. Quello che costituisce il villaggio non è dunque né il suo terreno né le sue capanne; bensì una determinata struttura che ho già descritto e che tutto il villaggio riproduce, Si capisce dunque, perché, alterando la disposizione tradizionale dei villaggi, i missionari distruggono tutto.
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La società Bororo dà una lezione al moralista; ascolti gli informatori indigeni: gli descriveranno quel balletto in cui le due metà del villaggio si insegnano a vivere e respirare l’una per l’altra, l’una a mezzo dell’altra; scambiandosi le donne, i beni e i servizi in fervido impegno di reciprocità; sposando i loro figli fra loro; seppellendo mutualmente i loro morti; assicurandosi l’un l’altro che la vita è eterna, il mondo soccorrevole e la società giusta. Per testimoniare queste verità e sostenere queste convinzioni, i loro saggi hanno elaborato una cosmologia grandiosa e l’hanno espressa nel piano dei loro villaggi e nelle distribuzioni delle abitazioni. (13)
I Lakota (America del Nord)
E’ in gran parte il popolo che gli Europei hanno chiamato indiani Sioux e che viveva nell’area delle grandi praterie degli attuali Stati Uniti.
Ecco il mito delle origini dei Lakota:
Ci fu, c’è e ci sarà sempre Wakan Tanka, il Grande Mistero.
Egli è uno solo, e tuttavia è molti, Egli è il Dio Capo, il Grande Spirito, il Creatore e l’Esecutore. Egli è gli dèi buoni e gli dèi cattivi, è il visibile e l’invisibile, il fisico e l’immateriale, perché è tutto quanto in uno solo.
Immediatamente al di sotto di Wakan Tanka c’è il gruppo degli Dèi Superiori: la Roccia, la Terra, il Cielo, il Sole, ai quali corrispondono i quattro colori fondamentali: giallo, verde, blu, rosso.
Ognuno di essi aveva una responsabilità rispetto all’universo. La Roccia era l’antenato di tutte le cose e il patrono delle arti. La Terra era la madre di tutti i viventi. Il Cielo, fonte di tutto il potere, era il giudice supremo. Il Sole era il Grande Dio con tutti i poteri, patrono delle quattro virtù: coraggio, forza d’animo, generosità, fedeltà.
Ad essi erano associati gli Dèi aggiunti: l’Alato, la Bella, il Vento, la Luna.
Ad essi imparentati e loro figli erano gli Dèi subordinati: il Bisonte, l’Orso, i Quattro Venti, il Turbine.
E da ultimi nella scala gerarchica gli Dèi Inferiori: lo Spirito, l’Anima, il Simile-a-Spirito, la Potenza.
Tutti questi dèi erano benigni.
Gli dèi maligni erano molti ed erano figli degli dèi benigni, ma avendo disobbedito all’ordine dell’universo erano stati puniti e declassati. Essi non erano perciò uniti in una gerarchia, ma ciascuno era indipendente dall’altro.
Un tempo gli uomini vivevano sottoterra, mentre i soli esseri che vivevano sulla superficie della terra erano alcune divinità: il Briccone, il Vecchio, Sua moglie, la Strega, e la loro figlia, la Donna Bifronte, la quale aveva un duplice aspetto: una metà era bellissima e l’altra metà era orripilante.
Queste divinità, poiché si erano ribellate, furono confinate per punizione sulla terra, dove vagavano sole.
Ma la Donna Bifronte desiderava riunirsi alla gente che viveva sottoterra. Allora, con l’aiuto di un lupo, fecero avere un pacco di doni a Tokahe (“il Primo”), un giovane forte e coraggioso che viveva con la moglie e il resto del popolo nel sottosuolo.
L’involto conteneva carne gustosa e bellissimi vestiti.
Si decise allora che Tokahe insieme ad altri tre giovani valorosi andassero a scoprire da dove provenissero quelle buone cose.
I quattro uomini guidati dal lupo giunsero sulla terra fino al luogo in cui viveva nella sua tenda la Donna Bifronte. Tutto intorno era bello e rigoglioso, e pieno di selvaggina. Ella mostrò loro il suo aspetto migliore e apparve come una bellissima donna. Mentre il Briccone si mostrò come un giovane affabile e simpatico. La donna diede ai giovani carne saporita e donò cibo e vestiti per il loro popolo. Inoltre gli dèi dissero che essi in realtà erano molto vecchi ma che nutrendosi con il cibo della terra rimanevano giovani ed attraenti.
I quattro giovani, tornati sottoterra, descrissero quello che avevano visto. Nel popolo si accese una discussione. Alcuni volevano salire sulla terra, altri invece, i più saggi, li misero in guardia. Il capo li avvertì che chi fosse salito non sarebbe mai più potuto ritornare.
Ciò nonostante Tokahe insieme ad altri sei uomini con mogli e figli abbandonarono il mondo sotterraneo e salirono sulla terra. La terra però era mutata, sembrava strana. Faceva molto freddo. Si smarrirono, patirono fame e freddo e caddero nella disperazione. La Donna Bifronte corse in loro aiuto, ma si dimenticò di coprirsi con il mantello e così essi videro il suo volto terribile e corsero via terrorizzati. Anche il Briccone apparve come realmente era e rise delle loro disgrazie. Tokahe provò una grande vergogna.
Ma ecco che presi da misericordia e tenerezza apparvero il Vecchio e la Strega portando cibo e acqua a quegli uomini disperati. Guidarono il piccolo gruppo alla terra dei pini, mostrarono loro come si caccia, come si fanno i vestiti e le tende, e a vivere come adesso fanno gli uomini. Così Tokahe e i suoi seguaci furono i primi abitanti della terra. I progenitori dei Lakota. (14)
Nelle tende e negli alloggi in terra dei Lakota viene segnato ancora oggi un buco (il sipapu) a ricordo del passaggio dal mondo sotterraneo al mondo esterno.
Tahiti (Polinesia) e Australia
Ecco in breve il mito delle origini tahitiano:
Apparve – Taaroa era il suo nome.
Intorno a lui era vuoto:
In nessun luogo terra, in nessun luogo cielo,
in nessun luogo mare, in nessun luogo uomini.
Chiama Taaroa senza eco –
Allora nella sua solitudine trasformò sé nel mondo.
Queste radici – queste sono Taaroa.
Le rocce – sono Lui.
Taaroa: la sabbia del mare!
Taaroa: la chiarezza.
Taaroa: il germe.
Taaroa: il sottosuolo.
Taaroa: l’imperituro.
Taaroa: il potente.
Il grande e sacro Universo,
il guscio di Taaroa. (15)
Un accenno merita anche il pensiero degli Aborigeni dell’Australia, che vedono il mondo intessuto da una rete di “vie fatte di canti” che lo rendono vitale. Cantando in determinati modi si portano alla realtà le vie corrispondenti che si collegano in una trama universale.
Forse è opportuno ricordare che vi è stato un periodo, alla fine dell’Ottocento, in cui non solo l’uccisione degli Aborigeni da parte degli invasori europei era perfettamente legale, ma l’eliminazione fisica dei nativi veniva addirittura incoraggiata dalle autorità ufficiali.
Ricordo inoltre che sono esistite almeno cento culture umane che non hanno mai fatto guerre e che non erano neppure in grado di concepire una guerra.
L’Occidente
E’ la nostra cultura, che in questo periodo sta imponendosi a tutto il mondo con violenza materiale e psicologica, perché ha ottenuto - a causa dei suoi presupposti di pensiero - una potenza materiale mai raggiunta da altri e perché ha fra i suoi fondamenti l’idea dell’espansione.
E’ nata dalle antiche culture greca, romana ed ebraica e si è poi stabilita per secoli nelle terre europee e circostanti. E’ chiamata anche cultura ebraico-cristiana.
Il suo mito delle origini è la Genesi dell’Antico Testamento, che così inizia:
In principio Dio creò il cielo e la terra. Ma la terra era disadorna e deserta, c’erano tenebre sulla superficie dell’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque. Dio disse: “Vi sia luce!” e vi fu luce. E Dio vide che la luce era buona. E Dio separò la luce dalle tenebre. E Dio chiamò giorno la luce e chiamò notte le tenebre. E fu sera, e fu mattina: il primo giorno.
Dio disse: “Vi sia un firmamento in mezzo alle acque e separi le acque dalle acque”. E così avvenne: Dio fece il firmamento e separò le acque che sono sotto il firmamento dalle acque che sono sopra il firmamento. Dio chiamò cielo il firmamento. Dio vide che ciò era buono. E fu sera, e fu mattina: il secondo giorno.
Dio disse: “Le acque, che sono sotto il cielo, si ammassino in una sola massa e appaia l’asciutto”. E così avvenne: le acque, che sono sotto il cielo, si ammassarono nelle loro masse e apparve l’asciutto. E Dio chiamò terra l’asciutto e chiamò mare la massa delle acque. E Dio vide che ciò era buono.
Dio disse: “La terra verdeggi di verzura, di graminacee che producano semente e di alberi da frutto, che facciano sulla terra, ciascuno secondo la sua specie, un frutto contenente il seme”. E così avvenne: la terra fece spuntare verzura, graminacee che producono semente, ciascuna secondo la propria specie, e alberi che fanno ciascuno un frutto contenente il seme secondo la propria specie. E Dio vide che ciò era buono. E fu sera, e fu mattina: il terzo giorno.
Dio disse: “Vi siano luminari nel firmamento del cielo per separare il giorno dalla notte e divengano segni per le feste, per i giorni e per gli anni e divengano luminari nel firmamento del cielo per fare luce sulla terra”. E così avvenne: Dio fece i due luminari maggiori, il luminare grande per il governo del giorno e il luminare piccolo per il governo della notte e le stelle. E Dio li pose nel firmamento del cielo per fare luce sulla terra e per governare il giorno e la notte e per separare la luce dalle tenebre. E Dio vide che ciò era buono. E fu sera, e fu mattina: il quarto giorno.
Dio disse: “Le acque brulichino di esseri vivi e volatili volino sopra la terra, sullo sfondo del firmamento del cielo”. E così avvenne: Dio creò i grandi cetacei e tutti gli esseri vivi guizzanti di cui brulicarono le acque, secondo la loro specie, e tutti i volatili alati secondo la loro specie. E Dio vide che ciò era buono. E Dio li benedisse dicendo: “Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; i volatili poi si moltiplichino sulla terra”.
E fu sera, e fu mattina: il quinto giorno.
Dio disse: “La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: bestiame e rettili e fiere della terra secondo la loro specie”. E così avvenne: Dio fece le fiere della terra secondo la loro specie e il bestiame secondo la sua specie e tutti i rettili del suolo secondo la loro specie. E Dio vide che ciò era buono.
Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza, e abbia dominio sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sul bestiame, su tutte le fiere della terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”.
Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò.
Dio li benedisse e Dio disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela e abbiate dominio sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sul bestiame e su tutte le fiere che strisciano sulla terra”.
Poi Dio disse: “Ecco, io vi do ogni sorta di graminacee produttrici di semente, che sono sulla superficie di tutta la terra, e anche ogni sorta di alberi in cui vi sono frutti portatori di seme: costituiranno il vostro nutrimento. Ma a tutte le fiere della terra, a tutti i volatili del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è l’alito di vita, io do come nutrimento le erbe verdi”. E così avvenne. E Dio vide tutto ciò che aveva fatto ed, ecco, era molto buono. E fu sera, e fu mattina: il sesto giorno.
Così furono terminati il cielo e la terra e tutto il loro esercito.
Allora Dio nel settimo giorno volle concluso il lavoro che aveva fatto e cessò da ogni lavoro.
Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò. (16)
Questo racconto delle origini fa da sottofondo anche alla cultura del mondo mussulmano, soprattutto quello di più antica islamizzazione.
L’Occidente, come gli altri modelli culturali, ha impostato la vita sul proprio mito delle origini.
Infatti derivano da quel racconto le seguenti caratteristiche del mondo moderno:
- il rapporto di sopraffazione verso tutti gli altri esseri viventi e verso la Natura in generale, vista esclusivamente in funzione umana, quindi al nostro servizio (antropocentrismo);
- il rapporto di sopraffazione nei riguardi delle altre culture umane, che vengono fagocitate e distrutte: questo deriva dalla presenza nel racconto di un “popolo eletto”, privilegiato rispetto a tutti gli altri;
- la divisione netta fra dovere-lavoro e tempo libero-divertimento, che non si ritrova quasi mai nelle altre culture umane, dove ogni atto ha un significato sacro in sé stesso, senza bisogno di separazioni;
- la presenza universale del ciclo settimanale che scandisce ormai ogni attività: lavoro, week-end, traffico stradale, ecc.;
- l’esaltazione permanente della crescita, dello sviluppo, dell’espansione, da cui discende anche la pretesa dell’Occidente di essere universale, facendo sparire le altre culture perché “sbagliate, arretrate, primitive”: secondo l’Occidente occorre aiutarle a conoscere “la verità” e a vivere meglio.
A proposito dell’andamento settimanale di tutta la vita sociale organizzata, è interessante riportare una pagina stampata, probabilmente come pubblicità a pagamento, sul quotidiano La Notte del 20 novembre 1990.
SIG. CAPO DEL GOVERNO!
PER DECONGESTIONARE IL TRAFFICO VIABILISTICO
ED ELIMINARE INFLAZIONE, DROGA, DISAGI, MALATTIE, STRESS, DISOCCUPAZIONE, INQUINAMENTI, SPERPERI ENERGETICI, DELINQUENZA, IMBECILLITA’ ED INCIDENTI STRADALI, C’E’ UN SOLO MODO:
DOBBIAMO SMETTERE
SIA DI FARE CHE DI NON FARE LE MEDESIME COSE TUTTI INSIEME, OSSIA DI LAVORARE E DI NON LAVORARE TUTTI NEGLI STESSI ORARI E NEI MEDESIMI GIORNI; QUINDI
DOBBIAMO ABOLIRE
FERIE ESTIVE, FESTE E SETTIMANE ED ORGANIZZARE IL NOSTRO LAVORO A TURNI OD A ROTAZIONI FISIOLOGICHE MENSILI (P.ES. 20 GIORNI + 10) E GIORNALIERE (P. ES. 6 ORE + 18): LA LUNA RUOTA IN CONTINUAZIONE, OVVERO CAMBIA OGNI MESE ED OGNI GIORNO E NON OGNI SETTE GIORNI! – LE ROTAZIONI E LE ALTERNANZE INTELLIGENTI SONO MECCANISMI ASSOLUTAMENTE FISIOLOGICI, SIA COSMICI, CHE SOCIALI, CHE INDIVIDUALI. – ABOLIRE LE DOMENICHE NON SIGNIFICA ELIMINARE LE PARTITE DI CALCIO! – PERTANTO
DOBBIAMO IMPARARE
AD UTILIZZARE POCHE MACCHINE ED IMPIANTI, POCHI LOCALI E SERVIZI ININTERROTTAMENTE ANZICHE’ UTILIZZARNE E SFRUTTARNE PARECCHI MA A PERIODI ALTERNATI O DISCONTINUI, ANTIECONOMICI, STRESSANTI E PORTATORI DI CAOS. - SIG. CAPO DEL GOVERNO FAVORISCA PROVVEDERE!
L’ESSERE UMANO CON IL SUO PIANETA NON E’ IL CENTRO DELL’UNIVERSO, MA UNA SFERA PIU’ FREDDA DI EX ENERGIA SOLARE CHE RUOTA ATTORNO AL SOLE E DESTINATA A RIUNIRSI ED A RIFONDERSI CON ESSO A PATTO CHE NOI UMANITA’ NON LA DEVASTEREMO, DERUBEREMO E SQUILIBREREMO CON CRIMINALE FOLLIA; NEL QUAL CASO (PER ALTERAZIONE DELLA MASSA DEL GLOBO) FINIREMO RIPUGNATI DAL SOLE STESSO ED ESPULSI DALLA SUA ORBITA IRRIMEDIABILMENTE DANNATI PER L’ETERNITA’ A RUOTARE LENTISSIMAMENTE E SBILANCIATI NEGLI SPAZI SIDERALI OD INTERGALATTICI, OPPURE ESPLOSI E POI INGOIATI DA UN BUCO NERO.
I.I.D.F.
(organo scientifico per la lotta civile alla imbecillità dottrinale ed istituzionalizzata)
- MORIRE NEL SOLE MA E’ PROPRIO MORIRE?
Questa pagina è imbevuta di fede positivista e razionalista ed ha un tono profetico e metafisico, oltre alla pretesa di distribuire “certezze”. L’illusione di eliminare droga e delinquenza solo con un provvedimento del genere si commenta da sola. Richiama alla mente la convinzione ottocentesca che i furti e la criminalità sarebbero scomparsi con l’avvento dell’illuminazione pubblica.
Comunque, se l’Occidente fosse razionale come pretende di essere e non ispirato a un mito come le altre culture umane, si avrebbe davvero un andamento a turni delle attività umane, anziché l’attuale ciclo settimanale: è infatti evidente che con i turni si utilizzerebbe meglio qualunque struttura.
E’ appena il caso di ricordare che l’Occidente compie ogni tanto dei discutibili “riti” con conseguenti sacrifici: uno molto grosso - verso la metà del ventesimo secolo - ha avuto come risultato oltre cinquanta milioni di morti.
Riassunto e conclusioni
Se ci limitiamo alle culture più recenti e che si sono maggiormente diffuse, notiamo che le più gravi distruzioni e degradazioni di ecosistemi provengono da modelli che fanno capo ai filoni ebraico-cristiano e mussulmano, cioè a quelle culture che si ispirano, in modo più o meno evidente, all’Antico Testamento.
Sarà bene chiarire subito che con l’espressione “cultura ebraico-cristiana” si intende indicare la tradizione quale si è sviluppata negli ultimi quindici secoli dando luogo alla civiltà occidentale, senza assolutamente convalidare l’idea che questa cultura si sia ispirata all’insegnamento di Cristo. Al contrario, l’insegnamento di Cristo ha contestato profondamente e radicalmente le concezioni del Vecchio Testamento: la prova più evidente è che Egli fu condannato a morte proprio per questo. L’aver fatto apparire le parole di Gesù come una specie di continuazione della tradizione precedente di quelle terre medio-orientali è stata una interpretazione particolare dei secoli successivi.
L’insegnamento di Cristo assomiglia molto alle filosofie di derivazione orientale, con le quali ha in comune idee fondamentali, come l’accettazione, il distacco dalle cose del mondo, l’amore universale, l’inutilità delle istituzioni, l’estinzione del desiderio, e così via. (17) Perfino il Suo aspetto esteriore, pervenutoci dalla tradizione, ricorda molto quello di un indiano. In particolare la parità fra le persone (abolizione delle caste e inutilità di ogni gerarchia), come pure l’abolizione dei sacrifici, ricordano il Buddhismo. Inoltre - come sopra detto - l’Antico Testamento è il mito di una etnìa particolare (il “popolo eletto”), mentre l’insegnamento di Cristo è a-etnico e universale, come quello del Buddha.
Qualcosa traspare ancora della Sua filosofia naturale, come ad esempio nell’espressione: Guardate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Tuttavia vi dico che neppure Salomone, in tutto il suo splendore, fu mai vestito come uno di loro. (18) Questa è una serena accettazione della Natura e una constatazione dell’assurdità di voler “modificare” il mondo. C’è un contrasto evidente fra la ricerca della serenità interiore predicata da Cristo e dal Buddha e il substrato biblico-ebraico su cui si è poi fondata la cultura occidentale.
In una visione buddhista, Cristo sarebbe considerato un bodhisattva, cioè un Buddha che, pur avendo raggiunto la condizione nirvanica, sceglie di restare nel mondo per amore di tutti gli esseri senzienti, che non sono solo gli umani e gli altri animali, ma anche gli alberi, l’erba e la terra stessa.
La locuzione “Figlio di Dio” è probabilmente la traduzione in una lingua semitica del termine sanscrito “Buddha” (Illuminato).
Anche l’espressione “gli ultimi saranno i primi” non significa che gli ultimi in questa vita saranno i primi in quell’altra, ma più semplicemente che i concetti di “primo” e di “ultimo” sono privi di significato. Oppure, se più vi piace, potete rileggere l’immagine dei lemmings riportata nel secondo capitolo, dato che sono gli ultimi animaletti di quella migrazione folle che si salvano accorgendosi in tempo di dove vanno a finire “i primi”. Quelli che tornano vivi a monte del fiordo sono gli ultimi della corsa, o quelli che restano al margine della migrazione suicida.
E’ chiaro che tutto questo mette in crisi alcuni concetti entrati nella formazione occidentale, come quelli di:
- un Dio personale che governa il mondo;
- un’anima unita al corpo alla nascita o al concepimento;
- un unico Salvatore, incarnatosi in un solo punto dello spazio e in un solo momento del tempo.
Un’altra interpretazione particolare è la distinzione fra le religioni “monoteiste”, che sarebbero le tre del filone medio-orientale, e le altre definite “politeiste”. A quanto risulta, non esiste alcun pensiero veramente “politeista”, anche se per i filoni non-biblici sarebbe meglio parlare di “monismo” anziché di monoteismo. Anzi, di norma le culture che si ispirano a queste metafisiche conoscono benissimo l’Unità del Tutto e l’impossibilità di separare i fenomeni spezzettando l’Universale. Piuttosto, anche agli effetti delle conseguenze pratiche o di atteggiamento, si potrà fare una distinzione fra le tradizioni che diffondono l’idea di una Divinità esterna che agisce sul mondo (creando un dualismo) e quelle che considerano il Divino immanente alla Natura, o comunque superano ogni distinzione fra immanenza e trascendenza.
Per quanto riguarda le molte divinità dei cosiddetti politeisti, esse sono semplicemente le forze psichiche inconsce, archetipiche, o come si vogliano chiamare.
Riportando Bateson:
Se mettete Dio all’esterno e lo ponete di fronte alla sua creazione, e avete l’idea di essere stati creati a sua immagine, voi vi vedrete logicamente e naturalmente come fuori e contro le cose che vi circondano. E nel momento in cui vi arrogherete tutta la mente, tutto il mondo circostante vi apparirà senza mente e quindi senza diritto a considerazione morale o etica. L’ambiente vi sembrerà da sfruttare a vostro vantaggio. La vostra unità di sopravvivenza sarete voi e la vostra gente o gli individui della vostra specie in antitesi con l’ambiente formato da altre unità sociali, da altre razze, dagli altri animali e dalle piante.
Se questa è l’opinione che avete sul vostro rapporto con la natura e se possedete una tecnica progredita, la probabilità che avete di sopravvivere sarà quella di una palla di neve all’inferno. Voi morrete a causa dei sottoprodotti tossici del vostro stesso odio o, semplicemente, per il sovrappopolamento e l’esagerato sfruttamento delle risorse. (19)
Per oltre mille anni si è consolidata la concezione della Genesi, che vuole la nostra specie “signora e padrona del Creato”, che risulterebbe addirittura “fatto per noi”! Dal “Crescete e moltiplicatevi” è poi nata l’odierna manìa ossessiva dell’espansione, che in una cultura con altri fondamenti apparirebbe come una crescita patologica in un Organismo.
Così, dall’idea biblica sempre ripetuta di “popolo eletto”, da quel racconto che manifestamente privilegia un gruppo etnico, si è sviluppato il concetto occidentale di “essere la civiltà”, di possedere la “verità” e il “benessere” e di imporli a tutti gli altri, è nata insomma l’immensa superbia dell’Occidente, che si manifesta in modi del tutto simili nelle due parti, cosiddette “credente” e “atea”, in cui si è oggi apparentemente diviso.
Si è atteso soltanto di “possedere un potere tecnico” per dare il via alla distruzione dell’equilibrio naturale.
Può essere utile notare che le concezioni nate dalla Genesi si sono poi sviluppate soprattutto in aree geografiche dove erano scarsissime o assenti le altre specie di scimmie, quindi mancava la constatazione più immediata dell’esistenza di esseri a noi molto simili. In particolare erano assenti gli altri grandi Primati, come gorilla, oranghi e scimpanzè, che avrebbero reso evidente la mancanza di discontinuità fra noi e tutte le altre specie.
Così pure, ad esempio, il motivo più semplice per un’alimentazione in gran parte vegetariana dovrebbe essere il confronto con la dieta degli altri Mammiferi Primati, cioè delle altre scimmie, il cui fisico è assai simile al nostro.
Ritorniamo all’andamento nel tempo delle nostre attività.
Tutta la Vita è scandita dagli eterni cicli della Natura. La nostra cultura se ne è distaccata e segue periodi suoi propri, come il ritmo settimanale di lavoro e tempo libero, che proviene dal racconto della Genesi. Invece di operare secondo questo ritmo artificiale e festeggiare battaglie, repubbliche e santi, potremmo seguire le fasi lunari, fare festa all’inizio o alla fine delle stagioni, seguire il Sole, la Luna e le stelle.
Ci sarebbe più serenità. E sarebbero feste che uniscono l’umanità, mentre quelle attuali la dividono: nelle battaglie c’è chi vince e c’è chi perde. Invece il Sole è allo Zenit dell’Equatore per tutti.
Ma anche nella nostra cultura, fanaticamente legata alla “storia”, ci sono ancora tracce di Natura, tanto è vero che la maggiore festività ha dovuto essere fissata il 25 dicembre, perché nelle profondità dell’inconscio c’è ancora il ricordo lontano di quando, alle nostre latitudini, si faceva gran festa accorgendosi che la notte aveva smesso di avanzare sul giorno e la luce aveva iniziato la sua risalita. Ci volevano appunto tre o quattro giorni dopo il solstizio d’inverno per esserne certi.
Anche la notte di Capodanno non ha alcun riferimento cosmico, ma deriva da un calendario del tutto convenzionale, che ha lo stesso valore di qualunque altro si volesse inventare.
Note al Capitolo 4
(12) P. Grossi – Asmat. Uccidere per essere – Ed. Pesce d’Oro, 1987.
(13) Claude Levy-Strauss – Tristi Tropici – Ed. Il Saggiatore, 1994.
(14) Riassunto da: Royal B. Hassrick – I Sioux – Ed. Mursia, 1987.
(15) E. von Sydow – Poesia dei popoli primitivi – Ed. Guanda, 1951.
(16) Genesi, 1-31. La Sacra Bibbia, Ed. Marietti, 1970.
(17) Così si esprime Schroedinger: “La scintilla dell’antichissima sapienza indiana che il meraviglioso rabbi del Giordano aveva riacceso a nuovo ardore, e che era giunta fino a noi attraverso la notte fonda del Medioevo, lenta e inosservata si spense: impallidì così anche il raggio del rinato sole dei Greci, al quale i frutti che noi oggi godiamo erano maturati” (il corsivo è aggiunto). (Erwin Schroedinger - La mia visione del mondo - Ed. Garzanti, 1987).
(18) Vangelo secondo Matteo, Cap. VI – 28-29.
(19) Gregory Bateson - Verso un’ecologia della mente – Ed. Adelphi, 1976.
TENDENZE DEL PENSIERO ATTUALE
1- Biologia – Psicoanalisi – Antropologia
L’idea che l’uomo sia sin dall’inizio dei tempi la meta prestabilita di ogni evoluzione naturale mi sembra il paradigma della cieca superbia che precede la caduta. Se dovessi credere che un Dio onnipotente ha creato intenzionalmente l’uomo attuale così come è rappresentato dall’esponente medio della nostra specie, allora sì che dubiterei dell’esistenza di Dio.
Konrad Lorenz
La nostra scienza ha bisogno di una biologia dell’immateriale.
Jean Servier
Le forze psichiche non hanno certamente niente a che fare con la coscienza; per quanto ci piaccia trastullarci con il pensiero che coscienza e psiche siano identiche, la nostra non è altro che una presunzione dell’intelletto. La nostra manìa di spiegare tutto razionalmente trova una base sufficiente nel timore metafisico, perché illuminismo e metafisica sono sempre stati due fratelli ostili. Le “forze psichiche” hanno piuttosto a che fare con l’anima inconscia; per questo tutto ciò che si fa improvvisamente incontro all’uomo uscendo da quell’oscura regione è considerato o come proveniente dall’esterno e perciò reale, o come un’allucinazione e perciò non reale. Ma la possibilità che esistano cose vere che non provengano dall’esterno è finora a malapena balenata alla mente dell’uomo del nostro tempo.
Carl Gustav Jung
Nessuna verità sembra a me più evidente di quella che gli animali sono dotati di pensiero e di ragione al pari degli uomini. Gli argomenti sono a questo proposito così chiari, che non sfuggono neppure agli stupidi e agli ignoranti.
David Hume
Premesse
Nei prossimi due capitoli passerò in rassegna alcune tendenze che si sono manifestate in vari campi della scienza nel secolo ventesimo. Si tratta di idee di minoranza, ma che sono decisamente diverse dalla corrente principale di pensiero affermatasi in Occidente soprattutto nell’Ottocento e che costituisce la matrice della civiltà industriale.
Questo capitolo è dedicato alle premesse generali e ai campi della biologia, della psicoanalisi e dell’antropologia, mentre il capitolo successivo è dedicato essenzialmente alla fisica.
Partirò da alcuni secoli orsono, cioè da Copernico. Sarà bene premettere che, quando si parla dei vari Autori, non ci si riferisce alla loro personale visione del mondo, ma ad interpretazioni nate alla luce di passaggi ed ampliamenti successivi, cioè ad estensioni sorte in seguito, anche per fusione col pensiero di altri. Infatti assai spesso le novità del pensiero sembrano poi diffondersi quasi in contrasto con le intenzioni coscienti di alcuni fra i maggiori loro iniziatori.
Come segno di speranza, si può notare che, proprio nel periodo in cui le concezioni meccaniciste nate dall’Antico Testamento e dalla filosofia di Cartesio si stanno diffondendo come “moderne” sull’onda della potenza materiale dell’Occidente, esse vengono sottoposte a critiche sempre più numerose e serrate da parte degli stessi studiosi occidentali, fino al punto di poter dire che, alla luce delle conoscenze attuali, sono pressochè insostenibili.
Ma per una modifica profonda della filosofia di base di larghi strati di persone c’è bisogno di qualche secolo, dopo i primi segni di cambiamento. Purtroppo oggi non abbiamo a disposizione neppure qualche decennio per evitare che l’espansione demografica ed economico-industriale trascini il mondo verso la catastrofe per la rottura di ogni equilibrio vitale: le specie e gli ecosistemi distrutti non sono riproducibili.
Secondo Fritjof Capra, la metafisica di un’epoca discende dalla fisica dell’epoca precedente: si tratta di accelerare al massimo il “punto di svolta”.
Con la rivoluzione copernicana il centro dell’Universo passa dalla Terra al Sole: si tratta del primo passo per mettere in discussione il rapporto uomo-natura, di un primo spostamento dalla posizione centrale, anche se ci vorranno secoli per percepirne l’effettiva portata. Tuttavia l’esclusiva spirituale della nostra specie non viene ancora minimamente intaccata.
Biologia
Nell’Ottocento si era ormai affermato il pensiero cartesiano, cui abbiamo già accennato. La corrente principale della biologia considerava gli animali e lo stesso corpo umano come macchine, automi da sezionare in parti sempre più piccole, specie di orologi da smontare pezzo a pezzo per comprenderne il funzionamento. I fenomeni spirituali ed emotivi erano considerati appannaggio del solo essere umano e completamente separati dal corpo.
Sono noti i danni - ancora oggi ben visibili - apportati dalla visione cartesiana alla medicina, che considera il corpo come un automa smontabile dotato di un funzionamento suo proprio.
Solo recentemente sono nati diversi dubbi che hanno dato luogo a correnti di minoranza che tentano una visione unitaria della salute. Tale approccio è stato all’inizio indicato riduttivamente con il nome di “medicina psicosomatica” e ora tende a prendere la denominazione di “medicina olistica”.
Vediamo, ad esempio, il parere di Servier che confronta la medicina occidentale con le medicine tradizionali di altre culture umane:
Nelle civiltà tradizionali il corpo umano è concepito come un fascio di princìpi: il disordine dell’uno porta squilibrio nell’altro. La malattia è un disordine del corpo legato al male dell’anima. Dopo molto tempo siamo arrivati anche noi ad ammettere questo principio, e lo abbiamo coperto con il nome di medicina psicosomatica, che è più rassicurante per la ragione. Soltanto l’Occidente ritiene che il corpo abbia una vita propria e che le sue malattie non dipendano anche dai principi immateriali della persona umana. Nelle altre civiltà che ci circondano, al contrario, l’uomo ha pensato che ogni malattia del corpo proviene da un disordine dell’anima, che va guarito prima di curare il corpo.
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L’uomo delle civiltà tradizionali colpito dalla malattia cercherà di scoprire in che cosa ha offeso l’Invisibile. Se la causa del suo male non è metafisica - psicosomatica, se si vuole - cercherà di procurarsi i migliori rimedi materiali, compresi quelli dell’uomo bianco. L’occidentale utilizza prima tutti i rimedi materiali che conosce, per finire poi tra le mani dei guaritori, ripetendo ancora: “Non si sa mai”. Ma non cerca mai in sè stesso la causa del proprio male. (35)
Ma torniamo alla biologia dell’Ottocento.
L’evoluzione biologica, espressa in forma completa soprattutto per opera di Carlo Darwin, intaccò decisamente l’idea che l’umanità fosse “speciale”, “frutto di creazione separata”, qualcosa di “staccato dalla Natura”.
Tuttavia, quando comparve il pensiero di Darwin, si perse un’ottima occasione per una vera svolta culturale: invece di mettere in evidenza il fatto essenziale, cioè l’appartenenza della nostra specie alla Natura e quindi la necessità di seguirne le grandi leggi cicliche, l’evoluzione fu inquadrata in pieno nel meccanicismo imperante: venne evidenziata soprattutto l’idea di “selezione naturale e sopravvivenza del più adatto” con ogni sorta di estensione arbitraria.
L’evoluzione poteva soppiantare ben più a fondo la concezione precedente: ma questo non è avvenuto, o forse non ancora. Al contrario, alcuni degli aspetti superficiali della teoria di Darwin sono stati assimilati immediatamente e sfruttati in modo da legittimare ancora di più la visione meccanicistica del mondo. Le sue implicazioni profonde non sono state mai veramente esplorate, almeno fino a tempi molto recenti.
Infatti, il clima di pensiero dominante nell’Ottocento ha prodotto un’idea dell’evoluzione biologica in cui si poneva soprattutto l’accento, come sopra detto, sulla selezione naturale basata sulla lotta per la vita e la sopravvivenza del più adatto.
Tali idee, subito recepite ed esportate in altri campi (dove a volte hanno dato luogo a espressioni come la “sopravvivenza del migliore”) perché nate appunto in un determinato clima culturale-sociale, sono state addirittura prese come il principale fondamento dell’evoluzione biologica, fino al punto di sovrastare l’idea di “appartenenza della specie umana alla Natura” che doveva essere la percezione essenziale.
Il mondo economico-industriale di oggi si regge soprattutto su quelle concezioni nate nell’Ottocento.
Come esempio di qualche segno di passaggio ad un’altra visione anche in quel campo, citerò il biologo Laborit che scrive:
…Ogni cellula, coinvolgendosi nelle funzioni di un organo, si affida a quelle di altri organi dell’organismo per assicurarsi quelle funzioni cui non deve più assolvere. La sua esistenza diventa dipendente dall’insieme e l’esistenza dell’insieme diventa dipendente dal lavoro di ciascuna di esse. Ecco un’altra tappa dell’evoluzione che non sembra essere stata ricordata né da Darwin, né dai suoi “neo” epigoni, durante la quale non sono la competizione, né la sopravvivenza del più forte ad essere stati gli obiettivi principali, ma, al contrario, proprio l’accordo, il mutuo appoggio, la cooperazione. …
All’inizio del secolo P.A.Krapotkin aveva già avanzato l’idea che l’evoluzione fosse dovuta più al mutuo appoggio che alla lotta competitiva.(36).
In sostanza, l’evoluzione, anziché essere vista come il fatto essenziale e cioè che noi siamo Natura, è stata vista nel suo svolgersi nel tempo come “progresso” solo perché questo punto di vista era molto utile alla nascente società industriale. Competizione e selezione non erano i punti essenziali, erano solo l’espressione di una cultura umana.
Come esponente del ventesimo secolo del pensiero biologico meccanicista, possiamo citare Jacques Monod, fondatore della biologia molecolare, che negli anni Sessanta così concludeva il suo pensiero:
L’antica alleanza è rotta. L’uomo sa finalmente di essere solo nell’immensità indifferente dell’Universo, da cui è emerso per caso. Il suo dovere e il suo destino non sono scritti in nessun luogo. (37)
Qui siamo al massimo dell’angoscia metafisica, appena attenuata da una forma di etica della conoscenza. Niente ha un senso.
Perché siamo qui noi, eventi così estremamente improbabili?
Per puro caso, anche se il “caso” non ha un significato del tutto chiaro. Secondo Monod, noi siamo qui perché “il nostro numero è uscito sulla ruota di Montecarlo”.
Per questo tipo di materialismo, la vita si riduce a cadere in un Universo non fatto per accoglierla, restare aggrappati a un granello di sabbia sino a che la morte non ci dissolva, pavoneggiarci per un tempo brevissimo su un piccolissimo teatro, ben sapendo che tutto quanto facciamo o pensiamo è condannato a uno scacco finale e che tutto perirà con la nostra specie o col nostro sistema solare, lasciando l’Universo come se non fossimo mai esistiti. E’ assolutamente vano cercare uno scopo o una continuità nella storia: quando il Sole, seguendo la sua evoluzione stellare, sarà diventato una stella gigante rossa estendendo il suo volume fino all’orbita di Marte, non resterà nulla di tutto quanto è avvenuto sulla Terra.
Ma già François Jacob, collega di Monod, parla di “logica del vivente”. (38)
Il vivente ha una sua logica, c’è una forma di immanenza.
Come vedremo nel prossimo capitolo, alla scuola di Bruxelles, il gruppo condotto da Ilya Prigogine, studiando le “strutture dissipative” o lontane dall’equilibrio, come sono anche i sistemi viventi, parla di una tendenza a strutturarsi, ad auto-organizzarsi. (39) Anche qui compare una spinta interiore, un immanente “desiderio” di creare strutture.
Nel determinismo biologico non si tiene conto della creatività del caos, dell’indeterminazione creativa delle strutture dissipative, del fatto che c’è una sorta di libero arbitrio, o proto-intelligenza, nell’energia-materia. Anche il DNA è intrinsecamente indeterminato, così come tutte le influenze ambientali non sono mai identiche, perché basta una differenza infinitamente piccola per provocare divergenze macroscopiche dopo tempi finiti. L’instabilità è creativa e genera differenze.
Occorre poi rivedere il concetto di ambiente. Infatti, secondo Bateson:
Ora cominciamo a scorgere alcuni degli errori epistemologici della civiltà occidentale. In armonia col clima di pensiero che predominava verso la metà dell’Ottocento in Inghilterra, Darwin formulò una teoria della selezione naturale e dell’evoluzione in cui l’unità di sopravvivenza era o la famiglia o la specie o la sottospecie o qualcosa del genere. Ma oggi è pacifico che non è questa l’unità di sopravvivenza del mondo biologico reale: l’unità di sopravvivenza è il complesso “organismo più ambiente” (cioè non è una unità delimitabile). Stiamo imparando sulla nostra pelle che l’organismo che distrugge il suo ambiente distrugge sé stesso. (40)
Più avanti si legge che l’unità di sopravvivenza evolutiva risulta coincidente con l’unità mentale.
Ma se si sceglie l’unità sbagliata, si finisce col contrapporre una specie a un’altra che la circonda o all’ambiente in cui vive: uomo contro Natura.
Richiamando un insegnamento morale già citato (“Non danneggiare alcun essere senziente”), è chiaro che si può intendere come “essere senziente” una tale unità mentale. Anziché il termine mente, forse sarebbe meglio usare, con Jung, la parola psiche per ricordare chiaramente che non si tratta solo della parte cosciente, ma soprattutto di “inconscio più coscienza”, in cui il primo è preponderante. Non si intende insomma il concetto restrittivo proprio del pensiero corrente dell’Occidente moderno. Quindi, anche con le concezioni di Bateson, sono dotati di “mente” o “psichismo” un ecosistema, una specie, una collettività di viventi legati da relazioni di reciprocità o simbiosi multipla.
Per un confronto con le concezioni orientali, l’unità mentale coincide con l’entità soggetto del karma (41): non si tratta soltanto dell’individuo in senso fisico o meccanicista. I Complessi di Viventi costituiscono, con le loro interrelazioni, fenomeni e soggetti mentali.
Quindi l’invito a “Non danneggiare alcun essere senziente” può essere inteso come una prescrizione sommamente ecologica e non come un semplice invito a diventare vegetariani; a parte che naturalmente anche i vegetali e i complessi di vegetali e animali sono da intendersi come “senzienti”, anche se il grado di coscienza di tutte queste entità può essere notevolmente diverso.
Osserva Fritjof Capra:
Secondo Bateson la mente è una conseguenza necessaria e inevitabile di una certa complessità, la quale ha inizio molto tempo prima che degli organismi viventi sviluppino un cervello e un sistema nervoso superiore. Egli sottolineò anche che caratteristiche mentali sono manifeste non solo in singoli organismi, ma anche in sistemi sociali e in ecosistemi, che la mente è immanente non solo nel corpo ma anche nelle vie e nei messaggi fuori dal corpo. Una mente senza un sistema nervoso? La mente si manifesterebbe in tutti i sistemi che soddisfano certi criteri? La mente sarebbe immanente in vie e messaggi fuori dal corpo? Queste idee erano così nuove per me che, a tutta prima, non riuscii a dar loro un senso. La nozione di mente di Bateson non sembrava aver nulla a che fare con le cose da me associate alla parola “mente”.(42).
Gaia
Fra le forme diverse di pensiero emergenti in questi anni è degna di nota anche la concezione di James Lovelock, che con la sua teoria della Terra vivente, o Gaia, mette in evidenza che gli individui - o le specie - non si evolvono nell’ambiente (per contrasto o adattamento), ma che organismi ed ambiente formano un complesso unico in continua evoluzione: si noti l’analogia, su questo punto, con la visione di Bateson. In tale contesto la “lotta per la vita” perde molto del suo significato.
La Gaia di Lovelock è un’entità anche metafisica, è una “divinità”: la limitazione ai confini del Pianeta è dovuta solo al fatto che non si ipotizza un collegamento con il resto dell’Universo.
Ma con la concezione dell’astronomo inglese Fred Hoyle la vita viaggia largamente attraverso gli spazi interstellari. In tal modo si ritrova l’idea dell’Universale Divino, non solo centrato sulla vita in senso biologico. Naturalmente anche la terra, le rocce, i torrenti sono Gaia.
A questo punto è utile riportare qualche brano di Rupert Sheldrake, naturalista e filosofo:
Da qualche secolo una minoranza colta dell’Occidente ritiene che il nostro pianeta sia morto, sia una semplice sfera nebulosa di pietre inanimate che ruota attorno al Sole seguendo le leggi meccaniche. Questa è un’opinione molto azzardata, ove la si consideri in un contesto umano più ampio. Nel corso della storia quasi tutta l’umanità ha ritenuto che la Terra fosse viva.
………………………….
L’ipotesi di Gaia è indubbiamente un notevole passo avanti verso un nuovo animismo; proprio per questo motivo è così discussa. D’altro canto suscita molto interesse perché ci ricollega agli schemi di pensiero del pre-meccanicismo e del pre-umanesimo.
…………………………..
Se Gaia è in qualche modo animata, allora deve possedere qualcosa di simile a un’anima, un principio organizzatore con fini e obiettivi propri. Ma non dobbiamo supporre che la Terra sia cosciente solo perché sembra viva e provvista di intenzionalità. Potrebbe essere cosciente, ma se lo fosse la sua coscienza probabilmente sarebbe incredibilmente diversa dalla nostra, che è inevitabilmente influenzata dalla cultura e dal linguaggio degli uomini. D’altro canto potrebbe anche essere completamente inconscia. Oppure potrebbe, come noi, essere una creatura dalle abitudini inconsce provvista, a volte, di una certa dose di coscienza. Questo interrogativo deve restare aperto.
……………………………
Che cosa cambia se consideriamo la natura viva piuttosto che inanimata? Primo, mettiamo in crisi le ipotesi umanistiche su cui la civiltà moderna è basata. Secondo, instauriamo un rapporto diverso con il mondo naturale e acquistiamo una prospettiva diversa della natura umana, Terzo, diventa possibile una nuova sacralizzazione della natura. (43).
Etologia
Faremo qualche cenno al moderno campo dell’etologia: anche qui è stata messa in evidenza la non-distinguibilità qualitativa fra la nostra specie e le altre specie animali. Ricordiamo soprattutto il pensiero di Konrad Lorenz, come appare in un breve articolo di Anacleto Verrecchia pubblicato sul quotidiano La Stampa dell’8 settembre 1986. Ne riportiamo qualche brano:
Einstein diceva che è più facile spezzare un atomo che un luogo comune. Chi mai riuscirà a spezzare il luogo comune che nega agli animali non solo l’intelligenza, ma anche la capacità di soffrire o di amare? Dinanzi al commovente episodio del gorilla che accarezza il bambino caduto nella sua gabbia non si sa fare altro che parlare di istinto, come se le scimmie fossero degli automatismi per la salvaguardia dei ragazzini sbadati. E se nella gabbia fosse caduto un adulto, per esempio un teologo o un filosofo dell’istinto, il gorilla si sarebbe comportato in maniera altrettanto gentile?
Ho conversato a lungo, su questi argomenti, con Konrad Lorenz, padre dell’etologia moderna. Alla domanda se anche gli animali siano consapevoli, con il tono passionale e affascinante che lo distingue, risponde: “Nessuna persona seria dovrebbe dubitare di questo. Sono pienamente convinto, dico pienamente, che gli animali hanno una coscienza. L’uomo non è il solo ad avere una vita interiore soggettiva”. E aggiunge che l’uomo è troppo presuntuoso, troppo preso di sé. Naturalmente, dice ancora il grande scienziato, il fatto che gli animali abbiano una coscienza “solleva dei problemi”. Forse l’uomo ha paura di fare altri passi in questa logica: riconoscendo una vita interiore agli animali, sarebbe costretto a inorridire per il modo con cui li tratta.
Lorenz mi ha parlato anche dell’infallibilità con cui gli animali conoscono subito le intenzioni di chi sta loro di fronte. Ma non c’è bisogno di scomodare tanta autorità, per commentare l’episodio del gorilla in questione. Solo una mente rozza o malata di dogmatismi, potrebbe dubitare delle buone intenzioni dell’animale. E i cani di Vienna, compresi quelli di Lorenz, non sono mai minacciosi per istinto o perché capiscono che la gente li ama e non farebbe loro mai del male?
In fondo l’etologia va confermando quello che Giordano Bruno aveva intuito con il suo genio filosofico, e cioè che tutti gli esseri viventi sono fenomeni diversi di un’unica sostanza universale. Traggono dalla stessa radice metafisica e la loro differenza è quantitativa non qualitativa o, per usare il linguaggio di Kant, fenomenica non noumenica. L’intelletto, che serve a intuire la relazione delle cose tra di loro, è comune, sia pure proporzionato ai bisogni, a tutti gli esseri viventi. Questo insegnano i grandi pensatori, a incominciare da Schopenhauer, e questo sostiene, in ultima analisi, Lorenz.
Sarebbe pura cecità considerare l’uomo come qualche cosa di completamente avulso dal resto del regno animale. La scoperta che gli animali mentono - per esempio i gracchi alpini e corallini, ma Lorenz mi ha parlato anche di altri animali - e quindi sono capaci di astrazione ha fatto cadere perfino il dogma che solo l’uomo avesse la facoltà di riflettere in abstracto.
La filosofia occidentale è troppo impregnata di teologia. Lo riconosceva perfino Nietzsche, che pure parlava e predicava come un prete capovolto. Il male è già all’inizio: “Crescete e moltiplicatevi, e popolate la terra, ed assoggettatevela, e signoreggiate i pesci del mare e i volatili del cielo, e tutti gli animali che si muovono sulla terra.” Signoreggiate, cioè opprimete, tormentate e uccidete tutti gli altri esseri viventi: parla così, un Dio? E non poteva anche risparmiarsi queste parole, dopo aver creato un essere malvagio come l’uomo? Lorenz, sia pure dopo una disamina di carattere storico, definisce “satanico” un simile comandamento.
Quale penoso contrasto con le sublimi parole che Buddha rivolse al suo cavallo quando lo lasciò libero: “Và! Anche tu, un giorno, sei destinato al nirvana”.
Questo episodio faceva tremare di commozione Schopenhauer e Wagner, ma non impressiona minimamente la corteccia cerebrale dei nostri filosofi-teologi. A loro è più congeniale Cartesio, che considerava gli animali delle semplici macchine.
Vicino a Lorenz si respira meglio sia scientificamente che moralmente. Proprio perché ha scandagliato come nessun altro la vita interiore degli animali, sa anche quale responsabilità morale questo comporti….(44)
Da un’intervista al mensile Natur del novembre 1988, tre mesi prima della sua morte, riportiamo queste parole di Lorenz:
Una volta lei ha detto di avere paura di un nuovo tipo di uomo circondato solo da cose brutte e tecnologiche. Arriviamo così alla questione della formazione culturale.
“Sì, io non vedo come sia possibile che una persona nata e cresciuta a New York possa capire la bellezza di una pulce d’acqua o di una salamandra maculata. La cosa più bella che ha visto è una Cadillac; quindi desidera una Cadillac. E non sa che esistono cose che incutono rispetto. Bisogna mettere i giovani nelle condizioni di poter provare rispetto….
Se vedo un essere vivente o addirittura una varietà di esseri viventi - per esempio una dafnia, una leptodora e altri tipi di pulci d’acqua - intuisco che sono membri di un unico albero genealogico, che incorporano un divenire. In tal modo mi è possibile un’intuizione dei milioni di anni passati. E questo è un fatto che suscita in me il più profondo rispetto”.
Rispetto per che cosa?
“Per il buon Dio, se vuole”
Ma allora lei è un credente…
“In un certo senso si è panteisti per natura. Il sistema periodico degli elementi è costituito in modo tale che la vita doveva nascere. Ma non credo nel “buon Dio” e meno ancora nel “Padre dei cieli”, non voglio fare parte di una Chiesa…” (45)
Psicoanalisi
Veniamo alla psicoanalisi. Dopo Copernico e Darwin, la specie umana non è più staccata dalla Natura, né al centro dell’Universo; almeno così doveva essere. Ma dopo la rivoluzione di pensiero iniziata da Freud, l’uomo non è più padrone neanche di sé stesso. Ci sono in noi forze, pulsioni, spinte di cui non siamo coscienti. Tutto ciò che ci accade o che facciamo risente di eventi che non ricordiamo minimamente.
Tuttavia il fondatore della psicoanalisi parlava sempre solo della persona umana come individuo autonomo e definito. Pensava che l’inconscio fosse individuale e cominciasse a “formarsi” alla nascita, o al concepimento.
Solo con la più profonda svolta operata soprattutto da Carl Gustav Jung si comincia a manifestare, anche nella cultura occidentale, l’idea dell’inconscio collettivo, di qualcosa che collega interiormente le varie individualità.
Più si va nel profondo, più la psiche si espande, più diventa collettiva e generalizzata, ancestrale o “archetipica”; comprende comunità sempre più ampie, classificazioni animali sempre più vaste, tutta la Vita, probabilmente la Totalità Universale.
Jung, pur usando le categorie concettuali dell’Occidente, aveva una profonda conoscenza delle filosofie orientali. Si comincia a parlare di fenomeni sincroni non-causali e a considerare altre dimensioni che non siano soltanto la sfera razionale e cosciente. Il concetto di persona autonoma che agisce sul mondo vacilla sempre più. Qualunque cosa facciamo, manipoliamo anche noi stessi: non c’è nessun “mondo esterno”.
Del resto l’idea che l’”io cosciente” sia un’entità autonoma e permanente è soltanto un pregiudizio. Il nostro ego non ha più potere sul complesso universale di quanto abbia un gabbiano in fuga di influenzare i venti e le tempeste. Questo non significa che siamo come fuscelli nel turbine. Il gabbiano può volare assecondando il vento e non contro di esso: può rifugiarsi nelle cavità delle rocce e non farsi sbattere contro la costa. Non siamo né “predestinati” né signori di noi stessi. Possiamo assecondare o meno il fluire universale, che ha una vita propria.
Per quanto riguarda alcuni studi recenti di psicologia transpersonale, riporto come esempio un brano di Stanislav Grof:
L’esistenza delle esperienze transpersonali viola alcuni dei presupposti e principi più basilari della scienza meccanicistica. Esse implicano concetti apparentemente assurdi, quali la natura arbitraria e relativa di tutte le barriere fisiche, le connessioni dell’universo di natura non spaziale, la comunicazione tramite mezzi e canali ignoti, la memoria senza substrato materiale, la non linearità del tempo, o la coscienza associata a tutte le forme di vita (compresi gli organismi unicellulari e le piante) e persino alla materia inorganica. (46)
Antropologia
La corrente principale degli studi di etnologia delineatasi negli ultimi secoli vedeva le altre culture come “primitive”, in attesa di raggiungere il livello della civiltà occidentale attraverso il progresso, fenomeno inarrestabile ed evidente per l’intera umanità. Tutte le culture umane erano destinate a progredire e quindi a diventare “occidentali”: per questo scopo occorreva aiutarle, insegnare loro come si fa a vivere bene.
Anche il pensiero corrente è in generale su queste posizioni. Non è stata ancora superata la concezione ottocentesca dell’europeo “civile” che va a studiare i “selvaggi” e ad aiutare “i primitivi”.
Fra le idee di minoranza, nate negli ultimi decenni e in fase di risalita, oltre a citare il pensiero di Levy-Strauss, di cui abbiamo già avuto occasione di riportare qualche brano e che non ha lesinato critiche alla superbia culturale dell’Occidente, indicherò la corrente di Marcel Griaule e Jean Servier, in cui il quadro di parità fra i modelli culturali umani acquista una connotazione ancora più definita, come si nota da qualche pagina conclusiva di un libro di Servier (anno 1967):
Il secolo 18° è stato il Secolo dei Lumi, nel quale pensatori di buona volontà hanno fatto progetti per migliorare il destino dell’umanità, credendo che fosse sufficiente educare “quelli là” per condurli a una condizione migliore.
Il secolo 19° l’ha seguito e gli eredi di quei pensatori hanno voluto migliorare la condizione dei popoli che sfuggivano ancora all’Occidente, senza chiedere il loro parere, rinnovando i tentativi, peraltro sempre votati all’insuccesso, dei despoti illuminati.
Come ha detto Madame de Genlis, “per civilizzare i selvaggi bisognerà sempre cominciare col dominarli, come bisogna cominciare col governare dispoticamente i fanciulli”.
Ogni secolo ha avuto i propri Enciclopedisti; il nostro ha gli economisti. Essi si sono chinati gravemente su questi Paesi considerati sottosviluppati, offrendo le proprie consulenze con il tono sentenzioso di un medico chiamato al capezzale di un malato. Poi è venuto l’ultimo missionario: l’Intellettuale, che vuol fare entrare i “Paesi sottosviluppati” nella Storia, senza mai essersi domandato, nel suo sciocco orgoglio, quale posto occupa l’Occidente nella storia dei Bambara, dei Moi o degli Eschimesi. Anche l’Intellettuale vuole civilizzare i selvaggi, cioè renderli simili a sé; anche lui tenta di dominarli, come può. In fondo, disprezza i popoli del “Terzo Mondo” così come sono: li accetta solo nella misura in cui si sottomettono e capitolano ancora una volta davanti al pensiero occidentale più intransigente che mai.
Nessuno di questi “eroi civilizzatori”, ingenui oppure odiosi, si è domandato se non sia ridicolo proporre la civiltà occidentale come la sola possibile, se questo non sia tanto assurdo quanto offrire all’eremita del Monte Athos un posto in una fabbrica e due stanze più servizi, per una esistenza più “razionale”, “progressista” e “civile”.
Nessuno di questi professionisti del pensiero riesce ad ammettere che la macchina, come il nostro sistema di produzione e di consumo, è un criterio esclusivo della civiltà occidentale in un dato momento della sua esistenza: un criterio relativo, come la ruota, il tornio del vasaio, il boomerang o il gioco delle carte, che non sono mai l’indice innegabile di un punto d’arrivo del pensiero umano.
Vi è anche il “Quarto Mondo”, quello di cui nessuno si cura, così come agli Stati Generali i signori del Terzo Stato non si preoccupavano degli interessi dei contadini che lavoravano le loro terre. Vi sono i tatuati, i piumati, i nudi, messi ai margini dell’umanità, sfruttati da tutti, anche dal “Terzo Mondo”; popoli i cui nomi compaiono soltanto nei musei di etnografia. Questi non hanno altra scelta che quella di morire: si spengono a poco a poco inesorabilmente, davanti alla civiltà occidentale, come sono scomparsi certi animali senza difesa o troppo ornati.
Così l’Occidente ritaglia l’umanità secondo la propria struttura, stroncando civiltà in fiore, gettando via deliberatamente tesori di conoscenza e di pensiero. Non abbiamo mai compreso che questo sottosviluppo ostinato di interi continenti o anche di regioni europee è in realtà la grossa valvola di sicurezza dell’umanità, una valvola che protegge i soli uomini capaci di sopravvivere quando gli ascensori si bloccano e le panetterie sono chiuse.
Molti casi della nostra civiltà dovrebbero farci misurare l’orgoglio dell’Occidente, che ammette soltanto il sottosviluppo materiale.
Mi domando quale sociologo accetterebbe di studiare il sottosviluppo intellettuale e morale della civiltà occidentale in questa fine del secolo ventesimo. Saremmo disposti ad accettare che filosofi oceaniani, africani o asiatici si preoccupassero per l’aumento delle malattie mentali e della criminalità in Occidente o che ci proponessero un piano metodico che tendesse a fare di noi delle popolazioni “in via di sviluppo”?
Abbiamo deciso di ignorare il nostro enorme passivo, per proporci come modello al resto del mondo, un po’ per vanità, ma soprattutto per interesse. Siamo i “benestanti” e per questo abbiamo tutti i diritti sul resto dell’umanità. Abbiamo deliberatamente falsato l’equilibrio economico e umano delle civiltà tradizionali e abbiamo trascinato il resto dell’umanità dietro a noi, nella nostra lotta senza fine per conquistare i beni di questo mondo.
Nessun moralista ha mai posto il problema della responsabilità dell’Occidente in questa creazione di bisogni artificiali, che mascheriamo sotto il nome di “civiltà” o di “tenore di vita”, che ha l’unico scopo di far lavorare le nostre fabbriche.
Sul piano umano ci siamo imposti come esempio al resto del mondo. La colonizzazione è stata sempre soltanto la volontà di provocare deliberatamente dei mutanti intellettuali sotto l’etichetta del progresso morale: essa prosegue la sua opera inesorabilmente, molto dopo che le armi sono state deposte…
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Il Grande Consiglio d’Onondaga non riuscì più a imporre la sua autorità e le strutture tradizionali affondarono, minate dall’oro dell’uomo bianco. Nel 1666 i missionari gesuiti si lamentano perché gli irochesi percorrono fino a ottocento chilometri per ottenere un bidone di “acqua-di-fuoco”. I villaggi sono abbandonati, i campi restano incolti. La guerra al servizio dell’uomo bianco è diventata un mestiere in cui si perde una popolazione intera.
Altrove, è stata la carità dell’uomo bianco ad essere mortale.
“Il bianco fornisce tutto e risponde a tutto. Distribuisce prodotti già fatti. Gli uomini, pigiati in capanne sempre più ripugnanti, muoiono aspettando la distribuzione successiva. Ciò che resta del gruppo non è che morte e malattia, ciò che resta di speranza è tutto rivolto verso l’esterno”.
A ciò si aggiunga il desiderio di uguagliare gli occidentali, che costringe al lavoro e all’umiliazione (sempre meno sentita con il passare del tempo) delle distribuzioni, dei doni, del mantenimento gratuito.
“Trovando più facile domandare che cercare, si degradano progressivamente alla condizione di mendicanti”. Questo atteggiamento, mal sopportato all’inizio, è diventato un’abitudine e poi una politica.
Lo spirito di conquista, la volontà di potenza, sono la misura di una qualsiasi riuscita?
Se gli oceaniani avessero avuto un’ambizione analoga alla nostra, nessuno avrebbe loro impedito di sbarcare in Europa come dei nuovi vichinghi, sulle loro piroghe a bilanciere. Quale rinascimento avrebbe potuto resistere alle frecce intinte nel curaro, lanciate con cerbottane venute dall’Amazzonia?
La nostra civiltà avrebbe indietreggiato davanti alla minaccia nascosta nelle foreste dell’Europa abitate da strane popolazioni capaci di viverci. Le nostre alte mura non ci avrebbero protetto per molto tempo contro uomini nudi, silenziosi, agili e affamati.
La storia classica ha conservato il ricordo di periodi durante i quali un sovrano ha potuto imporre la propria dominazione grazie a una casta guerriera omogenea. Questo dominio in genere ha toccato rapidamente i propri limiti nello spazio e nel tempo.
Gli imperi di Ninive, d’Assur, di Micene o d’Egitto hanno oscillato attorno a un medesimo centro di gravità geografico, coprendo periodi più o meno lunghi.
Gli imperi persiani e l’impero di Alessandro sembrano i primi a essere usciti dalle loro aree di civiltà e ad avere vissuto solo pochi anni, talvolta, come l’impero di Alessandro, lo spazio di una vita umana.
Tutti erano già prefigurazioni della civiltà occidentale per la loro volontà di egemonia, e anche per la loro profonda coscienza di essere dei punti di arrivo, di possedere tutte le tecniche, tutte le raffinatezze, tutta la “civiltà” di un’epoca.
Ogni volta, questi regni della materia hanno trascinato con sè un indebolimento dei valori spirituali, dando all’uomo la conquista dei beni di questo mondo come unico scopo della vita terrena.
In ciò l’Occidente del secolo ventesimo non è che un punto culminante, non un fenomeno nuovo. Esso è andato più lontano di tutti gli altri imperi, asservendo l’intera umanità, dominando il mondo materiale, perpetuandosi nel tempo, realizzando i più folli e crudeli sogni di potenza assopiti nell’uomo e finora repressi.
Il ricordo delle stragi di massa perpetrate in Occidente e dall’Occidente in questo secolo ventesimo è ancora in ogni memoria; è inutile ricordare i fatti.
Nessun popolo tecnicamente arretrato, nessun “selvaggio” nudo e tatuato ha mai concepito che si possa calpestare la dignità umana al punto di arrivare all’abominio delle camere a gas, ai campi di concentramento, ai corpi umani trasformati in concime o in sapone.
L’Occidente è stato trascinato dalla guerra nel più profondo dell’abisso, verso il compimento della spirale discendente, il fondo della materia. E’ difficile sostenere ancora le teorie secondo cui la civiltà occidentale segna una qualche evoluzione cronologica verso il bene o verso una presa di coscienza della persona umana moralmente più efficace.
Ripensando a questo dramma, le cui tracce sono ancora sensibili nel nostro ricordo, è difficile affermare che la civiltà occidentale è il bene supremo dell’umanità, il suo logico punto d’arrivo, materiale e metafisico. E’ impensabile fare della guerra voluta dall’uomo l’agente di un qualsiasi perfezionamento, a meno di vedere il mondo a rovescio e di considerare la caduta come un’ascesa….
Immaginiamo che domani i nostri scienziati sbarchino sulla Luna, navighino da un pianeta all’altro, realizzino la sintesi della vita e scoprano contemporaneamente, con l’elisir di giovinezza, un rimedio contro tutte le malattie: che cosa ne guadagneremmo? Uomini che non sono capaci di collocare un’eccedenza di patate come sapranno impiegare il soprappiù di vita umana che verrà loro offerto? (47)
Forse queste pagine di Servier sono eccessivamente dure verso la civiltà occidentale, che deve considerarsi un modello culturale alla pari degli altri e non qualcosa di diverso, né superiore, né inferiore. Ma si può comunque farne qualche considerazione.
Come abbiamo visto, non esistono “primitivi” ma solo modelli diversi: non ci sono i “selvaggi” che passano le giornate pensando solo a procurarsi il cibo e a far l’amore, ma culture dedite soprattutto alla percezione dell’”invisibile”, cioè dell’unità spirituale con la Vita e con tutta la Natura. Le concezioni europee degli ultimi secoli, derivate dai Greci, dai Romani e dal mondo ebraico, sono soltanto l’espressione della superbia dell’Occidente, al seguito della sua schiacciante potenza materiale, ottenuta a prezzo di un’estrema povertà di percezione cosmica e causa di nevrosi e di angosce.
In sostanza, la causa dei nostri guai è il distacco psicofisico dalla Natura, alla quale apparteniamo.
Anche l’attuale problema razziale viene abitualmente visto con un’ottica che non può portare ad alcun risultato. Infatti il razzismo e l’antirazzismo hanno in sostanza la stessa matrice, cioè l’idea di fondo che si tratti di razze diverse che possono, o non possono, convivere nel mondo “moderno”.
Ma se guardiamo il fenomeno sotto un’angolazione più ampia e in un arco temporale di qualche secolo, l’arrivo di “razze diverse” appare come il riflusso di individui sbandati le cui culture originarie sono state distrutte.
Si tratta cioè dei residui di scontri squilibrati fra modelli di vita: l’Occidente ha distrutto le culture originarie in Asia, in Africa e nelle Americhe; i figli di queste ex-culture, occidentalizzati, vanno a cercare di soddisfare i nuovi “bisogni”, o i nuovi non-valori, al margine del modello loro imposto.
L’Occidente ha portato uno spaventoso eccesso di popolazione umana sulle ceneri delle altre culture, e questa eccedenza di persone, occidentalizzate, si riversa dove può. Un africano con in mano un accendino costruito in serie in una fabbrica o un mitra che esce da una catena di montaggio non è più un Bantù o un Bambara, è l’Occidente.
Anche le Nazioni e i Governi del cosiddetto Terzo Mondo sono già l’Occidente, essendo istituzioni tipiche di questa cultura: è anche così che l’Occidente distrugge quanto resta delle civiltà tradizionali di quelle terre.
Il problema cosiddetto razziale non esisterebbe se si fossero conservate la diversità e la distribuzione geografica e ambientale delle culture umane e non ci fosse stata l’espansione mondiale di un’unica cultura egemone.
Nel cosiddetto Terzo Mondo la degradazione che vediamo non è dovuta, come si vuol far credere, “al sottosviluppo e alla povertà”, che sono concetti esclusivi della civiltà occidentale, ma è causata dalla distruzione delle culture originarie.
Tutto questo naturalmente non deve far pensare che vi sia necessariamente “colpa” intenzionale e cosciente da parte di qualcuno, ma solo un fluire incessante di eventi dovuti al prevalere o meno di determinate scuole di pensiero.
Note
(35) Jean Servier – L’uomo e l’Invisibile – Ed. Rusconi, 1973.
(36) Henry Laborit – Dio non gioca a dadi – Ed. Eleuthera, 1989.
(37) Jacques Monod – Il caso e la necessità – Ed. Mondadori, 1970.
(38) François Jacob – La logica del vivente – Ed. Einaudi, 1971.
(39) I.Prigogine e I.Stengers – La Nuova Alleanza – Ed. Einaudi, 1981.
(40) Gregory Bateson – Verso un’ecologia della mente – Ed. Adelphi, 1976.
(41) Termine sanscrito intraducibile, che significa “l’azione” o “la conseguenza delle azioni”. E’ una specie di “destino” ma dovuto ad azioni compiute in precedenza e non imposto dall’esterno. Il karma è una forza naturale, essenzialmente inconscia e non pianificata. Il modello e la natura di qualsiasi complesso dipenderebbero dal karma collettivo degli esseri senzienti e delle loro relazioni. Il karma si può definire come il processo causale che lega ogni azione a cause precedenti e ai risultati che devono derivare da esse.
(42) Fritjof Capra – Verso una nuova saggezza – Ed. Feltrinelli, 1988.
(43) Rupert Sheldrake – La rinascita della Natura – Ed. Corbaccio, 1994.
(44) Anacleto Verrecchia – Lorenz: anche le bestie hanno un’anima – articolo pubblicato sul quotidiano La Stampa dell’8 settembre 1986.
(45) Traduzione dal periodico Natur, novembre 1988.
(46) Stanislav Grof – Oltre il cervello – Ed. Cittadella, Assisi, 1988.
(47) Jean Servier – L’uomo e l’Invisibile – Ed. Rusconi, 1973.
TENDENZE DEL PENSIERO ATTUALE
2 – Fisica – Cosmologia
Qualunque cosa io dica, Vi prego di interpretarla come una domanda.
Niels Bohr
Non è l’Universo fatto secondo la nostra logica. Siamo noi fatti secondo la logica dell’Universo.
Fred Hoyle
Non sono sicuro che l’individualità che noi sentiamo come persona, come individuo, sia reale, che essa non sia un’illusione. E’ in ogni caso un’idea diffusa in Oriente, presso i maestri delle Upanishad, che si tratti di un’illusione, che noi non siamo realmente individui spirituali, ma “parte” di una stessa Entità.
Erwin Schroedinger
Credo che vi sia un’Intelligenza nell’Universo. Badi, ho detto nell’Universo. L’idea giudaico-cristiana è quella di un Dio che, dal di fuori, fabbrica l’Universo come si fabbrica un oggetto in uno stabilimento. E’ un’idea che non mi attira. Io penso che l’Intelligenza sia nell’Universo. Che sia l’Universo.
Fred Hoyle
Prima della relatività, se toglievate la materia restavano il tempo e lo spazio, dopo la relatività se togliete la materia se ne vanno anche il tempo e lo spazio.
Albert Einstein
Premesse
Secondo la visione del mondo attualmente dominante, consolidata soprattutto nell’Ottocento, tutte le scienze che studiano il mondo cosiddetto oggettivo o reale sono riconducibili alla fisica, cioè all’esame del comportamento di qualche componente “elementare” o “mattone fondamentale”.
Secondo questo paradigma, le modifiche di pensiero che riguardano la fisica sono quelle che avranno maggiore influenza anche sull’evoluzione futura. Perciò dedicherò un intero capitolo ad alcune idee sorte nella fisica nel ventesimo secolo.
Fisica classica
La fase iniziale della fisica, più o meno ai tempi di Galileo e Newton, ha riguardato soprattutto la meccanica: come già accennato, la “forza” newtoniana, causa del movimento, era qualcosa di esterno al punto materiale su cui agiva, che veniva quantificato come “massa” e considerato come inerte.
Secondo la scienza ufficiale del 19° secolo, tutto è riconducibile alla meccanica, le cui equazioni sono simmetriche rispetto al tempo, non riconoscono cioè alcuna “freccia preferenziale del tempo”.
I primi accenni di idee meno meccaniche vennero con la termodinamica, dove il secondo principio introduce una direzione del tempo, quella che porta verso la massima entropia. (48) Tuttavia la termodinamica restava una scienza interpretata in modo newtoniano perché l’irreversibilità era considerata il frutto statistico di una somma di moltissimi processi elementari di natura meccanica, cioè il movimento di atomi e di molecole: anche i fenomeni relativi ai gas e al calore erano riconducibili a urti e movimenti di tante “palline”.
Successivamente fu introdotta l’idea del campo; nacque tuttavia l’obiezione che si poteva fare a meno del concetto di campo, solo rendendo molto più complicata la descrizione matematica.
In realtà, solo con la teoria della propagazione delle onde elettromagnetiche (equazioni di Maxwell) si cominciò a intravedere qualcosa di non-meccanico nel mondo materiale, anche se detta propagazione venne in seguito interpretata come “movimento di fotoni”.
Malgrado queste piccole ombre sul modello, l’idea dominante era che il mondo fosse in sostanza comprensibile in via meccanica: il massimo del meccanicismo, derivato dalla concezione di Newton per cui l’Universo è come un gigantesco Orologio e tutte le sue parti dei “meccanismi” separabili in pezzi sempre più piccoli, è stato raggiunto alla fine dell’Ottocento, quando imperava inoltre la convinzione di “avvicinarsi sempre più alla verità”. Infatti non veniva mai messo in dubbio il dualismo cartesiano, in base al quale si stava studiando qualcosa di vero, reale, esterno.
Anche gli esseri viventi erano considerati “macchine” straordinariamente complicate.
C’erano i 92 atomi, specie di palline indivisibili, che costituivano tutta la realtà fisica, in cui agivano anche i campi. Lo spazio e il tempo erano realtà assolute e in essi si svolgevano tutti i processi. I fenomeni spirituali venivano tenuti completamente separati o considerati “immaginari” e negati.
Il pensiero corrente si basa in generale ancora su queste posizioni.
Vale la pena vedere, con una descrizione semplificata, come queste idee si sono radicalmente modificate nel corso del Novecento, almeno in alcune correnti, che potrebbero un giorno influenzare anche il pensiero generale, tuttora dominato dalla visione cartesiana-newtoniana.
La relatività speciale (o ristretta)
Il primo dubbio sull’indivisibilità degli atomi venne con la scoperta della radioattività da parte di Becquerel negli ultimi anni dell’Ottocento.
Di lì a poco si affermò il modello di Rutherford, in cui l’atomo appariva come un sistema solare in miniatura, cioè era fatto di “palline” ancora più piccole. La concezione restava ancora quella di Democrito: esistevano le particelle elementari e il vuoto, attraverso il quale si propagavano le forze che le tenevano unite.
Con la relatività speciale o ristretta, enunciata da Einstein nel 1905, la fisica meccanicista o classica ha cominciato a vacillare: spazio e tempo hanno perduto ogni connotazione assoluta, materia ed energia sono diventate la stessa cosa.
La constatazione dell’invarianza della velocità della luce nel vuoto ha portato a rivedere i concetti di spazio e tempo, ora non più assoluti. Il fatto che spazio e tempo siano relativi ha spinto a ricercare un modo di descrivere i fenomeni indipendente dal sistema di riferimento e questo ha portato a definire il continuo spaziotempo.
Vale la pena accennare a un piccolo esempio classico.
Si consideri il seguente esperimento ideale:
Un ambiente mobile, limitato dalle pareti A e B, si sta spostando con velocità uniforme v rispetto a un sistema di riferimento considerato fisso. Una sorgente luminosa S è posta al centro dell’ambiente in movimento. Confrontiamo il punto di vista di un osservatore posto all’interno del locale con quello di un osservatore “fisso”.
1. Per l’osservatore nel locale, la luce deve percorrere due distanze uguali per raggiungere le due pareti: quindi arriva su A e su B nello stesso istante.
2. Per l’osservatore considerato fisso, la luce deve percorrere verso B una distanza maggiore, dato che, durante il viaggio della luce da S a B, la parete si è allontanata. Analogamente la parete A si è avvicinata e quindi la luce deve percorrere una distanza minore per arrivare su A.
Nel caso 2):
- Secondo gli schemi della fisica classica:
La velocità della luce fra S e B è maggiore di quella fra S e A (perché risente della velocità di S) e la differenza fra le due velocità compensa la differenza fra le due distanze da percorrere. Pertanto i due eventi “luce che tocca la parete A” e “luce che tocca la parete B” sono ancora contemporanei. Infatti la fisica classica postula l’esistenza di un tempo assoluto, indipendente dall’osservatore: perciò i due eventi devono essere contemporanei per tutti gli osservatori.
Ma la luce ha una velocità costante che non dipende dalla velocità della sorgente né dal sistema di riferimento (dato sperimentale).
Quindi il ragionamento della fisica classica non è più possibile.
Secondo la relatività speciale:
Poiché la velocità della luce è costante, per l’osservatore cosiddetto fisso i due eventi “luce che tocca la parete A” e “luce che tocca la parete B” non sono più simultanei, ma la parete A viene raggiunta prima della parete B. Invece per l’osservatore posto nel locale i due eventi sono ancora contemporanei (distanze uguali).
Per riuscire a descrivere i fenomeni, si deve rinunciare al concetto di tempo indipendente dall’osservatore: ogni sistema di riferimento ha il suo proprio tempo e la sua propria successione degli eventi (prima-poi) e quindi una “sua” sequenza di cause-effetti.
La descrizione dei fenomeni diviene possibile solo in uno spaziotempo a quattro dimensioni dove il tempo è una coordinata variabile come le tre coordinate spaziali. In tal modo si è ricostituito uno schema concettuale in cui è possibile descrivere i fenomeni per tutti gli osservatori in moto rettilineo uniforme fra loro.
La relatività (speciale) è un modo di descrivere i fenomeni in maniera indipendente dal sistema di riferimento (osservatore): la descrizione classica vale soltanto per un dato sistema, perché spazio e tempo sono relativi, cioè variabili.
Su di un piano interiore, la relatività può significare il bisogno di recuperare un concetto di tempo che non sia quella freccia unidirezionale in avanti che caratterizzava la fisica classica.
La relatività generale
Con la relatività generale, formulata da Einstein nel 1916, la gravitazione, vista da Newton e seguaci come un “campo”, diventa la “geometria dello spaziotempo”.
Vediamo un piccolo esempio molto semplificato.
Si tratta di estendere il problema della relatività speciale a tutti i sistemi di riferimento in moto anche accelerato uno rispetto all’altro, cioè con velocità relativa variabile e non solo uniforme.
Si consideri il seguente esperimento ideale.
1. – Astronave ferma in un campo gravitazionale, ad esempio sulla Terra. La massa m cade a terra, cioè sulla parete A, con l’accelerazione di gravità.
2 – Astronave che si muove con un’accelerazione pari a quella di gravità (accelerando in direzione da A a m) al di fuori di ogni campo gravitazionale, cioè in spazio vuoto a distanza infinita. In tal caso la parete di fondo A si muove verso m con un’accelerazione uguale a quella del caso 1, dove m andava verso A.
Un osservatore posto all’interno dell’astronave non ha alcun modo per stabilire se si trova nella situazione 1) o nella situazione 2).
Quindi le due situazioni sono equivalenti, il che significa che si può rinunciare al concetto di campo gravitazionale, sostituendolo con qualcosa che comprenda sia la situazione “gravità” sia la situazione “moto accelerato”.
La descrizione ridiventa possibile, per tutti i sistemi di riferimento in moto relativo qualsiasi (uniforme e accelerato) se si suppone che lo spaziotempo citato nella relatività speciale sia “curvo”, dove la curvatura è dovuta alla presenza di masse e sostituisce il vecchio “campo gravitazionale”.
Secondo le parole di Einstein, la materia dice allo spaziotempo come deve curvarsi e lo spaziotempo dice alla materia come deve muoversi.
Questo schema concettuale supera anche il problema della necessità di chiedersi rispetto “a cosa” ci si muove.
E’ interessante notare che, nella costruzione teorica della relatività, esiste un operatore matematico (chiamato i, cioè la radice quadrata di -1) che sembra avere la proprietà di “trasformare” il tempo in spazio. Ciò porta a considerare che si tratta comunque di creazioni mentali, come lo stesso operatore i.
Tutto quanto è stato accennato finora, pur abbastanza lontano dal cosiddetto “senso comune”, non ha mai intaccato il principio cartesiano fondamentale di netta separazione fra un osservatore (spirito, o mente) e un osservato (materia, o materia-energia). Anzi, con la relatività generale si pensava di essere riusciti ad ottenere una formulazione matematica in grado di descrivere la “realtà oggettiva” in modo valido per tutti gli osservatori in movimento reciproco, uniforme e accelerato.
Il principio di indeterminazione
Già nei primissimi anni del Novecento Max Planck aveva dovuto introdurre il concetto di “quanto” per giustificare un fenomeno altrimenti inspiegabile: l’elettrone, essendo in rotazione ed elettricamente carico, avrebbe dovuto irradiare nel vuoto, perdere energia e quindi precipitare rapidamente sul nucleo dell’atomo.
A seguito della descrizione quantistica, fu necessario successivamente introdurre il principio di indeterminazione, formulato per la prima volta da Werner Heisenberg nel 1927.
L’interpretazione di Copenhagen di questo principio, sostenuta soprattutto da Niels Bohr e confermata nei decenni successivi, nega l’idea di “realtà oggettiva” e la possibilità di separare, anche solo concettualmente, il fenomeno dalla sua osservazione. Ne parleremo in seguito.
Come dire, è impossibile distinguere lo spirito dalla materia. Ovvero, senza una forma “mentale”, non si può parlare di alcunchè, se non come fantomatica onda di probabilità. Con un’ardita ma concisa estensione, ciò significa che lo psichismo deve essere universale. Altrimenti, quali sono i sistemi con lo status di “osservatore”?
Come noto, la prima formulazione del principio di indeterminazione riguardava l’imprecisione con cui sono definibili due grandezze relative a una particella, come la posizione e la quantità di moto (per chiarezza, diremo la velocità).
Più precisamente, come conseguenza del fatto che i “costituenti della materia” si comportano ora come onde, ora come particelle (cioè non “sono” niente di definito) risulta che il prodotto dell’indeterminazione di due grandezze (ad es. posizione e velocità, come sopra) è sempre superiore a una quantità fissa e calcolabile. Da un punto di vista concettuale non ha alcuna importanza che tale quantità sia molto piccola, anche se questo fatto rende possibile il mondo macroscopico.
Inoltre, se una delle due imprecisioni tende a zero (cioè cerchiamo la posizione esatta), l’altra imprecisione tende all’infinito: non si può sapere nulla della velocità, anzi non è definibile in alcun modo. Solo l’osservazione (cioè l’aspetto mentale) può stabilire una delle due grandezze, ma non entrambe contemporaneamente: l’altra risulta indeterminata.
Dopo il 1927 i fisici si schierarono grosso modo in due correnti di pensiero (a parte quelli che non si interessarono della questione):
- una corrente (49) sosteneva che quanto sopra detto è dovuto all’imprecisione “congenita” dei nostri strumenti e dei nostri sensi, e solo per questo non riusciamo a cogliere la realtà oggettiva, comunque considerata esistente. E’ nota l’esclamazione di Einstein: “Dio non può aver giocato a dadi con l’Universo”.
- l’altra corrente (50), con ragionamenti molto sottili e successivamente confermati, sosteneva che l’indeterminazione è intrinseca nella natura delle cose, cioè la particella-onda non ha una posizione e una velocità, anzi non è alcunchè di definibile a priori.
Un famoso congresso, alla fine degli anni Venti, si concluse con una certa “dimostrazione” della seconda ipotesi, chiamata da allora “interpretazione di Copenhagen”. Tutti gli esperimenti successivi, di solito molto sofisticati, hanno confermato l’interpretazione di Copenhagen.
Il fatto stesso che ci siano stati due “schieramenti” fa pensare a quali resistenze interiori potevano nascere in chi scopriva in sé e nel mondo una tale rivoluzione concettuale: alcuni sostenitori della prima ipotesi erano stati addirittura gli involontari iniziatori della seconda.
E’ chiaro che quanto sopra detto significa la fine dell’idea che il mondo materiale sia costituito di “particelle” e di “vuoto”, concezione che era in sostanza ancora quella di Democrito. Al suo posto sta subentrando un’idea di vuoto-pieno eternamente e “contemporaneamente” pulsante, una specie di vacuità creativa, che ricorda quanto scritto in un sutra 2500 anni orsono:
Questa sostanza immateriale e priva di forma contiene funzioni innumerevoli come le sabbie del Gange, funzioni che corrispondono infallibilmente alle circostanze, cosicchè è descritta come non-vuota. (51)
Così pure, nel Sutra del Cuore:
O Sariputra, la forma è vacuità e la vacuità è forma. La vacuità non differisce dalla forma, la forma non differisce dalla vacuità. Qualunque cosa sia forma, quella è vacuità; qualunque cosa sia vacuità, quella è forma. (52)
La contrapposizione fra vuoto e pieno perde significato.
Il gatto di Schroedinger
Come divertente esempio della nuova fisica quantistica, citiamo un famoso esperimento mentale.
In una scatola si collocano:
- un piccolo campione di radio, scelto in modo tale che vi sia una probabilità del 50% che nel tempo di un’ora si verifichi un decadimento;
- un rivelatore che segnala ogni decadimento dei nuclei di radio;
- un circuito tale che si chiuda al verificarsi di un decadimento mettendo in funzione un meccanismo che rompe una fiala contenente un liquido che sprigiona vapori mortali;
- un gatto.
Si chiude il coperchio e si lascia passare un’ora.
Poi l’osservatore apre la scatola e guarda il rivelatore e il gatto.
Solo in quel momento il sistema entrerà in uno stato particolare (gatto vivo o morto), dato che è l’osservazione a determinare se il decadimento è avvenuto oppure no.
In quell’ora il gatto è stato in una situazione indeterminata di vivo-morto.
Questa è la storia del felice-infelice gatto di Schroedinger.
Il vuoto quantistico e il concetto di esistenza
Fra le coppie di grandezze soggette al principio di indeterminazione c’è, ad esempio, la coppia energia-tempo che, per la nota relazione relativistica (E=mc2), si può interpretare come coppia massa-tempo. Cioè il prodotto delle indeterminazioni dell’energia e del tempo è maggiore di una quantità costante e calcolabile:
^E . ^t > k
Questo significa che, con tempi molto precisi (durate molto piccole), l’indeterminazione di E (o m) è molto grande, cioè ad esempio dell’ordine della massa di una data particella. Quindi non ha alcun senso dire che una particella “esiste” o “non esiste” al di sotto di una certa durata di tempo. Se si assume un istante preciso (indeterminazione del tempo nulla), la cosiddetta particella non ha alcuna massa-energia definibile in alcun modo: l’indeterminazione della massa è infinita. Quindi il concetto di “esistere” è privo di significato.
Ciò vuol dire che il cosiddetto “vuoto” è “pieno” di miriadi di particelle che nascono e muoiono in continuazione, vivendo meno del tempo massimo loro concesso.
A questo vuoto-non vuoto pulsante di energia si dà il nome di vuoto quantistico: partendo da considerazioni di questo tipo è apparsa in cosmologia l’affermazione che “l’Universo potrebbe essere nato da una fluttuazione quantistica del nulla”, dove le parole vanno meditate, in quanto spesso permeate di un significato “classico”. Alcuni hanno usato l’espressione “fluttuazione spontanea del vuoto”.
Qualunque fenomeno avvenga nel vuoto quantistico, è possibile “prendere a prestito” energia dal vuoto purchè il prestito abbia durata breve: tanto più è grande l’energia (o la massa) temporaneamente “nata dal nulla”, tanto più è piccola la durata del prestito e urgente la sua “restituzione” al vuoto. Così è pure possibile “far sparire” nel vuoto una massa-energia pur di farla ricomparire prima della scadenza del tempo assegnato (o indeterminazione del tempo).
Tutto si riconduce al vuoto quantistico, cioè a una meravigliosa danza di energie che continuamente nascono nell’essere e svaniscono nel nulla.
Tutto questo significa che non è possibile definire lo stato di qualcosa in un tempo “fermo” o vedere il mondo come una successione di “stati”, ma che ha senso solo la variazione: si tratta di un passaggio dall’essere al divenire. Il mondo non ha “esistenza” in un determinato “istante”.
Queste considerazioni hanno fatto cadere il concetto di oggetti esistenti per lasciare posto a una rete di processi senza alcunchè di autonomo.
In sostanza l’impossibilità di ragionare “per opposti” si estende anche alla contrapposizione esistenza/non-esistenza.
Le teorie realistiche locali
Vi sono alcune ipotesi che vengono considerate “evidenti” non solo dalla scienza classica, ma anche dalla fisica relativistica; esse sono:
- che un esperimento sia esattamente ripetibile, almeno su un piano ideale, cioè che il risultato consegua in modo univoco dalle condizioni “oggettive” dell’esperimento;
- che esista una realtà oggettiva “esterna”, che noi andiamo via via scoprendo (come già accennato);
- che non vi possano essere influenze istantanee a distanza, cioè che nessun “segnale” possa superare la velocità della luce (relatività).
Le teorie che si basano su queste ipotesi sono dette “teorie realistiche locali”. Tutta la scienza – fino a tempi molto recenti – le considerava “acquisite”.
Vi sono parecchi indizi per dire che oggi, in qualche pensiero d’avanguardia, le tre ipotesi sono venute meno. Con l’interpretazione di Copenhagen della fisica quantistica e i successivi sofisticati esperimenti, malgrado la forte resistenza del mondo ufficiale, anche scientifico, non si sa più che senso dare alle tre ipotesi citate.
Infatti, secondo una corrente del pensiero attuale:
- la ripetibilità viene meno, dato che lo “psichismo” di cui è imbevuto ogni esperimento ne modifica il risultato;
- la realtà oggettiva esterna ha perso significato con l’interpretazione di Copenhagen;
- le particelle-onde che si separano da un unico punto restano indissolubilmente legate, dato che l’“osservazione” anche di una sola di esse influenza istantaneamente il comportamento delle altre, a qualunque distanza si trovino.
Come esempio, accennerò a un esperimento ideale di informazione “istantanea”: se in un processo microfisico, una particella-onda viene “colpita” e spezzata in due, le due “particelle” uscenti si allontanano e “hanno” certe caratteristiche che sono funzione una dell’altra. Ad esempio, se lo spin di una ha un determinato valore, lo spin dell’altra ne risulta definito.
Ma lo spin, come qualunque altra caratteristica, ha un valore definito solo all’atto dell’osservazione, altrimenti è in uno stato indeterminato. Quindi, “osservando” una delle due particelle uscenti, viene istantaneamente determinato anche lo spin dell’altra, a qualunque distanza essa si trovi. Naturalmente la caratteristica della seconda particella viene determinata anch’essa all’atto di un’osservazione, ma risulta sempre collegata all’osservazione della prima.
Questo porta alla considerazione che nulla è separabile nell’Universo e qualunque processo (o “oggetto”) ha influenza su qualunque altro, su un piano psicofisico, dato che è necessario l’intervento dell’aspetto mentale.
Una delle conseguenze pratiche più notevoli della visione “quantistica” sull’idea di “realtà” può essere il tramonto di concetti contrapposti come ragione-torto, giusto-sbagliato, verità-errore, e così via. Questo dovrebbe togliere progressivamente ogni base logica-razionale al litigio e alla contrapposizione e portare alla fine delle forme “razionalizzate” di competizione e quindi dei fondamenti della civiltà industriale odierna.
Inoltre l’indistinguibilità fra soggetto e oggetto, fra io e mondo “esterno” dovrebbe portare alla fine dell’aggressività della nostra specie verso la Natura. Manipolare il mondo significa manipolare noi stessi.
Bootstrap (53)
Per sostituire l’immagine meccanicista che considerava la materia come costituita di “mattoni fondamentali” è in corso un tentativo di descrivere i fenomeni in termini non di “particelle elementari”, ma di processi, esaminando solo la “coerenza interna” di ogni processo ed eliminando il concetto di entità stabili o fondamentali.
In tale elaborazione teorica l’Universo è visto come una rete dinamica di eventi interconnessi: nessuna proprietà di una parte della rete è fondamentale, ma ciascuna deriva dalle proprietà delle altre parti e la coerenza delle reciproche connessioni determina la struttura della rete.
Un formalismo matematico con cui si è sviluppata la teoria è quello della “matrice S” (o di scattering), dove le cosiddette particelle non ci sono più, sostituite da entità matematiche, che ne evidenziano maggiormente il contenuto mentale.
Inoltre una “matrice S” dovrebbe essere illimitata, altrimenti si introduce un’approssimazione:ci si imbatte ancora nell’impossibilità di spezzettare l’universale.
In un completamento dell’ipotesi bootstrap si evidenzia che la coscienza è necessaria per la coerenza interna del tutto, dato che la struttura della matrice S dipende dall’atteggiamento di osservazione.
Teorie cosmologiche
Premettiamo alcune definizioni:
Principio cosmologico: l’Universo si presenta allo stesso modo (su grandi estensioni) in qualunque punto di esso ci troviamo, anche se non in qualunque istante: cioè può esserci variazione nel tempo ma non nello spazio.
Principio cosmologico perfetto: l’Universo si presenta nello stesso modo (su grandi estensioni) in qualunque punto di esso ci troviamo e in qualunque istante di tempo da sempre e per sempre. E’ senza origine e senza fine.
Nel ventesimo secolo le ipotesi cosmologiche più accreditate sono state (trascurando quella cosiddetta dell’”Universo elettrico”):
1. L’ipotesi dello “stato stazionario”, detta anche della “creazione continua”, che rispetta il principio cosmologico perfetto, cioè l’Universo è dinamicamente sempre lo stesso. L’espansione viene compensata dal continuo apparire di nuovi atomi di idrogeno (ne bastano circa due o tre per Kmc ogni anno). Si ha cioè l’uscita di galassie alla velocità della luce e la comparsa di atomi di idrogeno per compensarla.
Ha perso credito dopo la “scoperta” della radiazione di fondo a 3 °K (54)
Con questa ipotesi è evidente che:
ï La densità di materia è costante;
ï Il punto di origine del tempo è inutile;
ï Non c’è inizio né fine.
2. L’ipotesi del Big Bang, che presuppone l’origine in una singolarità (55) avvenuta circa quindici miliardi di anni orsono, seguita da una fase di espansione fino ad oggi. L’ipotesi è suffragata dalla presenza della radiazione residua (Penzies e Wilson, 1965), completamente isotropa (56) e corrispondente a una radiazione di corpo nero a 3° K ai giorni nostri.
La fase espansiva potrebbe non continuare per sempre, essendo l’Universo attuale sotto l’azione di due tendenze complementari:
ï l’espansione iniziale
ï la contrazione gravitazionale.
L’ipotesi del Big Bang si è poi suddivisa in altre ipotesi:
a) Universo aperto:
la gravitazione non riuscirà mai a compensare l’espansione che continuerà per sempre, lasciando l’Universo sempre meno denso e più “vuoto”.
b) Universo piatto:
la gravitazione compenserà esattamente l’espansione e l’Universo tenderà asintoticamente (57) a una dimensione stabile.
c) Universo chiuso:
la gravitazione finirà col prevalere sull’espansione; in questo caso alla fase attuale espansiva seguirà una fase di contrazione fino a tornare a dimensioni estremamente piccole (Big Crunch), cioè l’Universo si riporterà a una quasi-singolarità puntiforme.
Quest’ultima ipotesi si è suddivisa in ulteriori varianti, di cui la più notevole è quella che prevede infiniti cicli tutti uguali di Big Bang e Big Crunch.
In questo caso, anche se non si rispetta completamente il principio cosmologico perfetto, il punto-origine perde significato e si ha un’oscillazione pulsante da sempre e per sempre. Di nuovo non c’è inizio né fine.
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Qualunque ipotesi venga adottata per l’origine, solo gli elementi molto leggeri possono essersi creati nei primi tempi dopo la singolarità iniziale. Per gli elementi medi e pesanti devono essersi formate prima stelle e galassie. Infatti solo nel corso successivo dell’evoluzione stellare si può arrivare alle temperature e durate necessarie per ottenere gli elementi più pesanti.
Le stelle che hanno una massa compresa entro certi valori evolvono verso uno stato di esplosione (supernove): gli elementi pesanti vengono così proiettati nello spazio; poi si possono raccogliere, per gravità, a formare sistemi planetari, gli unici dove può sorgere la vita, che richiede elementi come carbonio, ossigeno, azoto, ecc.
Quindi noi, come gli alberi e i fiumi, gli insetti e le montagne, siamo tutti polvere di stelle.
Il principio antropico
L’evoluzione dell’Universo così come si presenta e che ha consentito la formazione di atomi, molecole, galassie, stelle e pianeti dipende in modo assai stretto dal valore di alcune costanti universali, quali – ad esempio – la costante di gravitazione, la velocità della luce, la costante di Planck, la costante dell’interazione forte, e così via.
Da un punto di vista classico, ciascuna di tali costanti avrebbe potuto essere diversa: non era necessariamente legata ad altre grandezze.
Sarebbe bastata la variazione dell’uno o due per cento in una sola di esse per non consentire la vita: quindi l’Universo di oggi potrebbe sembrare un avvenimento estremamente “improbabile”.
Questa estrema improbabilità dell’Universo come lo conosciamo ha dato luogo a molte considerazioni, fra cui abbastanza interessante il principio antropico (che ha diverse formulazioni) e che forse sarebbe meglio chiamare principio osservazionale.
In base a tale principio, è perfettamente logico – anzi, necessario – che troviamo “quelle” costanti: non potrebbe essere diversamente perché, dato che siamo qui, possiamo soltanto trovarci in un universo che consente la nostra esistenza. (58)
Secondo John Archibald Wheeler, fisico teorico, “la fisica quantistica ci ha condotto a considerare seriamente e ad esplorare l’opinione che l’osservatore sia altrettanto essenziale per la creazione dell’Universo quanto l’Universo è per la creazione dell’osservatore”.
C’è anche la versione “a molti mondi” che suppone l’esistenza di infiniti Universi, di cui noi possiamo osservare solo quello che consente la nostra esistenza: quindi “deve” avere quelle costanti. Oppure è l’osservazione (o l’aspetto mentale) che dà a quel particolare Universo la prerogativa di essere “reale”.
Abbiamo riportato queste tendenze solo per renderci conto di quanto ci stiamo allontanando dalla visione classica, anche se appare evidente come in certe interpretazioni ricompaiano sia l’antropocentrismo sia alcune forme di finalismo, ma occorre fare attenzione a non considerare il tempo in modo newtoniano soprattutto quando si esaminano eventi prossimi a singolarità. Aver fatto risorgere un “principio antropico” denota una certa nostalgia di riportare l’uomo “al centro”: infatti la considerazione dell’improbabilità delle costanti universali è valida non solo per l’uomo, ma anche per l’abete rosso, la marmotta, una montagna o un torrente. Ognuno vede l’universo come “fatto per sé”. Vedremo in seguito che, per alcune correnti, non serve un osservatore umano, ma si tratta di fenomeni auto-organizzativi della sostanza universale. Così ricompare l’Anima del mondo e sparisce la megalomania dell’osservatore-uomo.
Comunque il fatto che le costanti universali siano rimaste invariate nel tempo e nello spazio – ovunque e da sempre – è un puro atto di fede.
I tachioni
Solo come ulteriore esempio di allontanamento dal pensiero meccanicista, ricordiamo anche le ricerche sui cosiddetti tachioni, particelle-onde sempre più veloci della luce, studiati teoricamente da una ventina d’anni, e che attendono di essere “scoperti”. (59)
Secondo questi studi, un tachione:
- non porta energia se è a velocità infinita;
- non è in alcun modo localizzabile, neanche su un piano puramente ideale; quindi invade tutto lo spazio e può interagire con sorgenti remote.
Queste proprietà dei tachioni comportano un’influenza “istantanea” su tutto l’universale. Inoltre il comportamento dei tachioni rispetto al tempo è, in certo modo, rovesciato. Non c’è più il tempo unidirezionale del nostro pensiero attuale.
A cosa corrispondono queste novità scientifiche, anche se non ancora recepite dalla scienza ufficiale, sul piano emotivo?
Forse ad una esigenza di universalità e non-separabilità e ad una speranza inconscia di abbandonare la concezione del tempo come fluire unidirezionale “verso il futuro”, propria della cultura occidentale.
Forse c’è sotto una esigenza emotiva-inconscia di ritrovare il tempo ciclico e non lineare e di non “separarsi” più dal mondo. Può esserci anche un bisogno-desiderio di “magico” per attenuare gli eccessi della sfera razionale degli ultimi due secoli.
In sostanza, i tachioni contribuirebbero a quella tendenza del pensiero “nuovo” ad allontanarsi dalle concezioni che stanno alla base della civiltà industriale: manipolazione del mondo esterno, idea del progresso materiale come avanzare indefinito nel tempo.
Se queste tendenze si rafforzeranno, è molto probabile che i tachioni vengano prima o poi “scoperti” e diventino perciò “esistenti”.
Le leggi del caos
Secondo la fisica classica, l’Universo si evolve dall’ordine al disordine, dalla varietà all’uniformità: è destinato alla morte termica, cioè a uno stato “definitivo” dovuto al raggiungimento del massimo dell’entropia. (60)
Questo consegue dal fatto di considerare l’Universo come un sistema chiuso, in quanto comprende tutto, ma il ragionamento è valido solo se l’Universo è statico.
L’Universo in espansione è invece un sistema sempre aperto, dove l’aumento di entropia può essere allontanato continuamente verso l’infinito.
Negli ultimi decenni, soprattutto alla scuola di Bruxelles per opera del gruppo guidato da Ilya Prigogine, lo studio delle “strutture dissipative” o lontane dall’equilibrio ha evidenziato che in tale situazione di non-equilibrio si manifesta un “desiderio” immanente di “creare strutture”, una spinta alla diversificazione e alla creazione.
I sistemi viventi sono un caso particolare molto vivace di strutture dissipative, ma anche nella sostanza cosiddetta “inerte” tali strutture risultano creative.
Lo studio classico era basato su una successione di stati di equilibrio e considerava le condizioni che se ne discostano quasi come una specie di disturbo da eliminare. Si studiava una serie di condizioni statiche evitando lo studio del dinamismo stesso. Per la visione classica i sistemi stabili erano la regola e i sistemi instabili delle eccezioni, mentre qui tale prospettiva viene capovolta.
Anche dal punto di vista quantistico, questa recente corrente di studi porta a una visione del mondo in cui i fenomeni possono essere descritti senza bisogno dell’osservatore-uomo, solo partendo da un approccio diverso: quello delle biforcazioni e dell’instabilità.
La descrizione quantistica tipo Schroedinger è fatta in termini di funzione d’onda e di “collasso del vettore di stato” ad opera dell’osservatore: invece la descrizione in termini di instabilità ha in sé il suo psichismo e la sua freccia del tempo.
Con questo approccio, si parte dalla constatazione che i fenomeni sono quasi sempre “non-lineari” e quindi completamente indeterminati nella loro evoluzione: una variazione infinitamente piccola, anche in senso matematico, fa prendere al processo vie completamente diverse. Cioè il sistema può “scegliere” una via anziché un’altra (biforcazione) ed avere tutt’altra evoluzione. Tali fenomeni sono intrinsecamente aleatori ed ammettono quelli che vengono chiamati “attrattori strani”, geometricamente frattali. Si noti che nei disegni frattali, molto simili alle strutture che si trovano nel mondo naturale, non compaiono mai linee rette.
Il fatto di parlare di caso e aleatorietà quando il sistema prende una via anziché un’altra al momento di una biforcazione-instabilità e parlare di scelta o volontà quando c’è di mezzo l’uomo è dovuto esclusivamente all’attuale sottofondo culturale: come fenomeno, non c’è alcuna differenza fra i due casi e si può dire benissimo che il sistema sceglie la sua via fra le varie possibili, attribuendo così uno psichismo immanente a tutti i processi. Cioè il sistema sceglie fra tutti i suoi tipi di futuro possibili. La creazione non è più avvenuta in un momento remoto del passato, ma è un processo continuo.
Un tempo le leggi della natura erano associate all’irreversibilità nel tempo, mentre ora per i sistemi instabili diventano probabilistiche ed esprimono ciò che è possibile e non ciò che è “sicuro”. Contengono sempre un certo grado di libertà o, se si vuole, un certo “libero arbitrio” o aspetto mentale.
Ripetiamo questi cenni in altro modo.
Il comportamento di un sistema si dice caotico se le traiettorie nate da punti infinitamente vicini si allontanano fra loro in modo esponenziale. In altre parole, uno spostamento infinitamente piccolo provoca nel processo modifiche macroscopiche e divergenti: c’è sempre un orizzonte temporale oltre il quale il comportamento del sistema è assolutamente indefinibile. Per usare un esempio preso dalla meteorologia: “Il battito d’ali di una farfalla nella campagna inglese può provocare un ciclone nei Caraibi”, da cui la denominazione di effetto-farfalla data alla conseguenza di una biforcazione in questo tipo di processi.
Non si tratta della nostra incapacità o impossibilità di conoscere tutte le variabili, ma della natura intrinseca dei fenomeni. Queste considerazioni fanno perdere all’idea di causa ogni portata cognitiva. Le influenze probabilistiche, caotiche e non-locali prendono il posto del determinismo della scienza classica.
Si dice che queste considerazioni disorientano e fanno “mancare la terra sotto i piedi”. Trovo invece che la mancanza di certezze non risulta affatto preoccupante né pessimista: anzi, un mondo governato dall’indeterminazione universale, dall’effetto-farfalla e dagli “attrattori caotici” sembra molto più interessante di un mondo deterministico e causale.
Se è consentita un’analogia, il desiderio di appoggiarsi a “punti fermi” assomiglia al tentativo di un nuotatore di aggrapparsi all’acqua in cui sta nuotando.
Anche se non ha niente a cui aggrapparsi, il nuotatore – se si rende conto della sua posizione – si troverà molto meglio senza tentare di stringere l’acqua come un “sostegno”, ma semplicemente muovendosi e sincronizzando i movimenti.
Il tempo è il risultato di un’instabilità.
Le leggi universali sono quelle del caos, dove l’irreversibilità e le risonanze creano strutture. La megalomania dell’osservatore è scomparsa.
Il non-equilibrio e l’irreversibilità non sono più fastidi negativi come nella visione classica, ma hanno una funzione creatrice imprevedibile, sono l’origine della varietà e della molteplicità.
Da un libro di Laborit già citato riportiamo il brano seguente:
Questo stato di non-equilibrio di cui parla Prigogine, che caratterizza l’organizzazione della materia in un organismo vivente, questo non-equilibrio fragile mantiene così le proprie caratteristiche originarie solo attraverso ciò che chiamiamo il pensiero. (61)
Le antenne della materia
La visione corrente sulla struttura della materia (su scala atomica e non nucleare) fa riferimento a particelle tenute unite da forze elettrostatiche (coulombiane) che, analogamente alla gravità, diminuiscono rapidamente con la distanza. La formula di Coulomb è formalmente analoga a quella di Newton che regola, nella fisica classica, le attrazioni gravitazionali e quindi il moto dei pianeti. Le forze di Coulomb trattengono gli elettroni in rotazione attorno al nucleo atomico. Così è fatta la materia nell’immaginario collettivo dell’Occidente.
Se però consideriamo che una carica in movimento irradia, cioè trasmette energia a varie frequenze, possiamo vedere la materia come una rete di forze elettrodinamiche di irraggiamento-trasmissione: una materia fatta di “antenne”. Con questo approccio si può immaginare che vengano trasferite energie coerenti a grandi distanze: si dovrebbe esplorare soprattutto l’interazione elettrodinamica, anche all’interno della materia condensata, “governata” non soltanto dalla formula di Coulomb, ma soprattutto dalle equazioni di Maxwell.
L’affinità energetica non è più dovuta alla vicinanza spaziale, ma alla sintonia o quasi-identità di frequenze. In questo quadro si possono creare risonanze e quindi attivare trasferimenti di strutture energetiche che si amplificano: in altre parole, si auto-organizzano. In tal modo, più che vedere particelle individuali, si vedono collettività strutturate di energia. Attraverso l’approccio elettrodinamico accennato l’energia può essere resa coerente da analogie strutturali di campo anche a distanze di ben altri ordini di grandezza rispetto ai valori iniziali. I fenomeni diventano anche qui essenzialmente non-locali. La psiche, che era vista come apporto dell’osservatore-umano nella prima versione dell’interpretazione di Copenhagen, è ora nella materia-energia, facendola diventare un ente trinario.
Invece di un nucleo statico e tante “palline” che gli ruotano attorno, si ha un insieme dinamico di relazioni che costituisce la materia, così come una foresta, un torrente o una specie vivente. I “modelli di sintonia” si chiamano fra loro, non ubbidiscono a un comando “esterno”.
Considerazioni riassuntive
L’evoluzione del pensiero cui abbiamo accennato scegliendo una certa sequenza di idee ha portato ad allontanarsi sempre più dalla concezione cartesiana, quindi dal cuore stesso dell’Occidente degli ultimi tre secoli: e tutto questo si è originato dal metodo scientifico, che è il più accettato dall’Occidente stesso.
La sequenza di allontanamento può essere individuata nella successione: relatività-fisica quantistica e indeterminazione-leggi del caos.
Il mondo non è un orologio, ma un grande Pensiero in cui dominano l’instabilità, il non-equilibrio, le biforcazioni e l’effetto-farfalla. Qualunque ente o processo ha il suo grado di libertà. Il mondo è creativo, imprevedibile, indeterminato, come il Grande Spirito.
Non è possibile sapere se nei prossimi decenni, o secoli, queste tendenze si estenderanno nel pensiero corrente provocando la fine della civiltà industriale e del suo sviluppo, oppure resteranno in qualche biblioteca come spinte di minoranza. Le abbiamo riportate come segno di speranza.
La concezione che tutta la Natura è anche Mente, che richiama le idee panteiste-animiste di tante culture umane, è infatti incompatibile con l’attuale civiltà industriale, che richiede la manipolazione di una materia che non c’è più. Anche se nulla “ritorna” in senso stretto, verrebbero di nuovo in luce quelle concezioni di pensatori come Bruno, Leibniz e Spinoza che non si sono diffuse qualche secolo fa e non hanno avuto conseguenze pratiche sulla vita successiva.
Torniamo per un attimo alla fisica degli anni Trenta.
Spesso si sente dire che la fisica quantistica va contro il senso comune. Ma il cosiddetto “senso comune” (o “buon senso”) è semplicemente formato dai paradigmi e dalle cornici concettuali – cioè dai pregiudizi – della cultura in cui siamo nati e che quindi abbiamo sempre respirato.
Secondo il parere di un noto scienziato del Novecento:
Oggi c’è una concordanza di vedute molto vasta – che tra i fisici raggiunge quasi l’unanimità – sul fatto che la corrente delle conoscenze si sta dirigendo verso una realtà non meccanica: l’Universo comincia ad assomigliare ad un grande Pensiero piuttosto che ad una grande macchina. (62)
E’ sintomatico che gli stessi risultati sul piano fisico-matematico siano stati interpretati in modo diverso sul piano filosofico:
- Einstein, di formazione culturale ebraica, non riuscì a rinunciare al concetto di “realtà oggettiva esterna” e non si convinse mai completamente della fisica quantistica; in sostanza, anche se a livello intellettuale si dichiarò favorevole al “Dio di Spinoza”, non potè mai rinunciare alla sua posizione “occidentale” nei riguardi del mondo fisico;
- Schroedinger, profondo conoscitore della filosofia vedica, non accettò che il mondo “reale” fosse inconoscibile in quanto riteneva che la mente umana fosse un riflesso, un “ologramma” della Mente Universale, e quindi doveva poter conoscere fino in fondo;
- Bohr, che conosceva anche il Tao, accettò in pieno le conseguenze delle formulazioni fisico-matematiche di Heisenberg e dello stesso Schroedinger, rinunciando senza traumi al concetto di “realtà oggettiva” e considerando gli aspetti apparentemente contradditori (tipo onda-corpuscolo) come complementari e necessari; estese quindi ad altri “opposti” il concetto di complementarietà.
Come si è visto, anche nella fisica vi sono state interpretazioni, da parte di qualcuno degli stessi fondatori, tendenti a mantenere le nuove concezioni in una visione antropocentrica, a conferma della tendenza a inquadrare nuove idee nei vecchi schemi, almeno per qualche decina di anni.
Ma l’impostazione della scuola di Bruxelles non ha più il rischio dell’antropocentrismo.
Però la scienza ufficiale resta sulle posizioni tradizionali, come ha sempre fatto. Ciò che esce dal paradigma dominante non viene preso in considerazione: solo i fenomeni ripetibili e inquadrabili nello schema di pensiero ufficiale sono riconosciuti, gli altri vengono scartati, negati.
Così non si può toccare il campo dei fenomeni parapsicologici, o di indistinguibilità macroscopica fra psiche e materia, cioè di quei fenomeni che la scienza ufficiale cartesiana è costretta ad accantonare o negare per non vedere intaccate le sue premesse.
Davanti a un fenomeno che mette in discussione la cornice concettuale vigente, non resta che la negazione, tipica reazione della psiche alle novità sgradite. Ad esempio, la constatazione che il pensiero o l’emozione influiscono sullo sviluppo di una pianta viene “dimenticata”, o tutt’al più interpretata come intervento di una forza “esterna” che “agisce” sulla pianta stessa.
Così pure, se lo scienziato francese Benveniste scopre la “memoria dell’acqua” cioè si accorge che l’acqua “è cambiata” se ha avuto con sé una sostanza di cui poi è stata tolta anche l’ultima molecola, la cosa viene accantonata, lo scienziato viene deriso, non si fanno ulteriori indagini. Tanta è la forza del paradigma dominante: se non c’è più nessuna molecola, si è tolta anche l’ultima “pallina”, la sostanza non c’è più, l’acqua ritorna quella di prima; quindi la medicina omeopatica non può esistere, anche quando funziona.
Credo invece che in realtà ci stiamo avvicinando al pensiero “selvaggio”, nei cui simboli è probabilmente nascosta la metafora di una scienza indipendente.
Ricordo che negli ultimi sviluppi della fisica sono stati messi in dubbio i presupposti delle già citate “teorie realistiche locali”, cioè i pilastri su cui poggiano non solo la fisica classica, ma anche la relatività prequantistica, che riportiamo di nuovo:
- l’esistenza di un mondo oggettivo reale e materiale (ipotesi cartesiana-newtoniana);
- la ripetibilità dei fenomeni, secondo la quale dalle stesse cause e con le stesse premesse, si ottengono gli stessi effetti. Ma se è sufficiente una variazione infinitamente piccola per far evolvere il fenomeno in direzioni completamente diverse, allora il concetto di “stesso” scompare;
- l’impossibilità di azioni istantanee a distanza, cioè la necessità che qualunque “messaggio” debba viaggiare a velocità inferiore o uguale a quella della luce.
Qualunque azione, o modifica, o fenomeno ha effetti istantanei su tutto l’universale. Non si può isolare alcun fenomeno, né separare alcunchè.
Pertanto, con la caduta delle teorie realistiche locali e della distinguibilità fra mente e materia, diventa possibile esplorare campi di conoscenza come l’astrologia e la parapsicologia (precognizione, chiaroveggenza, azioni a distanza), con un notevole riavvicinamento al pensiero magico.
A seguito degli studi e delle teorie della scuola di Bruxelles, qualche commentatore ha parlato di proto-intelligenza della materia: anche se la definizione è affascinante, occorre tenere presente che la parola “materia” è per noi carica di significato cartesiano e ci evoca l’idea di qualcosa di inerte. Sarebbe meglio cambiare il termine.
L’immersione nel divenire offre una variabilità imprevedibile: un ente trino, la mente-energia-materia, si evolve senza schemi fissi: è la Natura stessa. Non solo il vuoto quantistico pulsa di vitalità, ma il tempo è divenuto una forza creativa.
E’ infine interessante notare che molte tradizioni metafisiche e religiose pongono l’accento su aspetti dell’universale che troviamo anche nella fisica. In particolare:
- l’aspetto unitario (collegamento totale istantaneo) è più o meno presente in tutte le tradizioni;
- l’aspetto binario di complementarietà degli opposti (fisica di Bohr) si trova nel Taoismo e nello Shintoismo;
- l’aspetto trinario (mente-energia-materia) è ben presente nelle religioni cristiana e induista;
- l’aspetto della molteplicità delle manifestazioni dell’Uno è presente in generale nelle religioni animiste, oltre che in qualche tradizione indù;
- la Vacuità (vuoto quantistico) o sunyata è essenziale nella tradizione buddhista, con il superamento del dualismo Essere-Nulla e l’impermanenza di qualunque entità.
Note
(48) Il termine entropia indica una grandezza fisica cha dà una misura del grado di “disordine” o “uniformità” in cui si trova un sistema.
(49) Einstein, De Broglie, Planck, Schroedinger.
(50) Bohr, Heisenberg, Max Born, Wolfgang Pauli.
(51) John Blofeld – L’insegnamento Zen di Hui Hai - Ed. Ubaldini, 1977.
(52) Edward Conze – Sutra del Diamante e Sutra del Cuore – Ed. Ubaldini, 1976.
(53) Il significato del termine bootstrap è quello di “reggersi ai tiranti dei propri stivali” ovvero “stivale che si regge sui suoi propri tiranti”, cioè che ha in sé stesso i motivi della propria esistenza.
(54) 3 gradi Kelvin è una temperatura che corrisponde a 270 gradi sotto zero secondo la scala Celsius.
(55) Una situazione di volume zero e densità infinita, cioè Universo puntiforme, è detta matematicamente una singolarità. La singolarità viene “coperta” e resa indeterminata da fenomeni quantistici.
(56) Isotropa significa uguale in tutte le direzioni dello spazio.
(57) Si dice asintotico l’andamento di una grandezza che si avvicina sempre più a un valore finito senza raggiungerlo mai.
(58) Analogamente, alcuni millenni orsono, a un Faraone egiziano che aveva chiesto “Perché esiste il Nilo?” fu risposto “Perché il Nilo rende possibile la vita dell’Egitto”. La non-esistenza del Nilo era intrinsecamente non osservabile.
(59) A proposito dei tachioni, uno dei primi a ipotizzarli è stato il fisico indiano Sudarshan, che così illustrava le sue considerazioni: “Supponiamo che un demografo, che studi i popoli dell’India, se ne esca con l’ingenua affermazione che non c’è nessuno a nord dell’Himalaya, dato che mai alcuno è riuscito a valicare tali montagne. Questa sarebbe una conclusione assurda. I popoli dell’Asia Centrale sono nati e vivono al di là dell’Himalaya: essi non hanno avuto bisogno di nascere in India e poi scavalcare i monti. Analogamente per le particelle più veloci della luce”. Sui tachioni sono stati pubblicati diversi articoli sulle riviste Le Scienze, Scientia e sul Bollettino della Società Italiana di Fisica, soprattutto ad opera del fisico italiano Erasmo Recami. Cito in particolare: E. Recami – M.Fracastoro Decker – I tachioni – Il Nuovo Saggiatore, maggio-giugno 1986.
(60) Il termine entropia indica una grandezza fisica che dà una misura del grado di “disordine” o “uniformità” in cui si trova un sistema.
(61) Henry Laborit – Dio non gioca ai dadi – Ed. Eleuthera, 1989.
(62) James Jeans – I nuovi orizzonti della scienza – Ed. Sansoni.
Un’affermazione analoga è stata espressa anche dal fisico inglese Arthur Stanley Eddington ed è riportata in numerose pubblicazioni.