FRANCO ZUNINO
I GIORNI
DELL' ORSO BRUNO
Racconto naturalistico
A Marta e Sara e alla loro mamma
Oh, quali distese di silenzio Dio ha creato
per la contemplazione!
Se soltanto gli uomini riuscissero a capire
a che cosa sono veramente destinate
le montagne e le foreste!
Thomas Merton
PRESENTAZIONE
Franco Zunino è nome troppo noto tra i cultori delle scienze naturali e del conservazionismo perché si debba farne qui una presentazione, ma pochi sanno che Zunino è un commosso poeta dell'ampio e misterioso respiro della natura. Ciò che stupisce ancor più è che Zunino riesca a fondere rigore scientifico e afflato poetico in una sorta di singolare eclettismo sì che - quando egli si attarda a descrivere l'inquietante volo di un rapace o il trepido muoversi di una lepre - il lettore ricava un arricchimento dello spirito che è ad un tempo scientifico ed emozionale; il lirismo che pervade il libro si fa poi più vibrante allorché l'Autore indugia nella descrizione delle aurore, dei crepuscoli e delle notti di plenilunio che si dischiudono sull'ampio e sereno scenario del Parco Nazionale d'Abruzzo.
I rapidi flash in cui si suddivide il libro chiudono tutti con notazioni poetiche in cui vibra una nascosta vena di malinconia, come quando si legge: "poi, alte sulla corrente invisibile, le loro nere figure a delta risalirono la valle e andarono a posarsi sulla cresta spazzata dal vento"; oppure "un tubare di colombacci giungeva a tratti da un luogo lontano, cupo sullo stridore senza fine dei fringuelli"; o anche "dalla forra, molto lontano, il suono profondo di un gufo reale ruppe il silenzio"; o ancora "la martora tornò a nascondersi tra i rami folti....... nel silenzio che cadde, il lieve rumore del battere al suolo di altre schegge di legno si udiva giungere da poco lontano"
Mille sono le emozioni che i boschi, le radure, le pietraie e le impervie vette battute dal vento accendono nell'animo di Zunino, ma è l'Orso bruno a grandeggiare sul grande affresco che egli disegna, e ne sovrasta la scena; il grande plantigrado vi è descritto con rigorosa e minuziosa attenzione scientifica, ma pur sembra di cogliere nelle parole dell'Autore una stupefatta ammirazione per un animale che, superbo e maestoso, vedi apparire ad un tratto tra il fogliame del bosco come un risorto dio Pan.
L'EDITORE
INTRODUZIONE
Quando abbassai lo sguardo scrutando l'ampia radura che si apriva sotto di me, infuocata dal dardeggiare del sole di un pomeriggio di luglio, solo la macchia scura di un essere vivo movimentava la scena: un cavallo, pensai, un cavallo al pascolo. Portai il binocolo agli occhi e rimasi esterrefatto; stavo osservando un enorme Orso bruno, il primo in libertà della mia vita!
Fu come se un fantasma si fosse materializzato innanzi ai miei occhi; erano mesi che lo cercavo quel fantasma, che ne seguivo le tracce, che trovavo i segni del suo passare, del suo rovistare tra i sassi, che annusavo l'odore muschiato delle sue fatte, che esploravo le sue tane e i suoi giacigli, che annotavo ogni cosa della sua vita, sulla carte e nella mia mente, ma lui, l'Orso bruno, era sempre sfuggito alle mie osservazioni.
Quel giorno di luglio, era un martedì, il 19, un'orsa con due cuccioli, due mucchietti di pelo scuro grandi poco più di un gatto, stavano davanti a me; e lì stettero per oltre due ore, mentre io li osservavo, li studiavo e, soprattutto, godevo della loro vista in quel panorama grandioso che loro rendevano ancora antico e selvaggio, immutato da generazioni. Li avvicinai, e loro seppero così della mia presenza e mi osservarono, così curiosi come io osservavo loro, ma non fuggirono la mia figura estranea di uomo; ci capimmo e rispettammo, come se le nostre vite fossero state sintonizzate su una stessa onda. Stavo con loro come l'uomo stava ai primordi dell'umanità, essere selvaggi, tutti, di uno stesso mondo selvaggio. Stavo nella loro identica dimensione e nel loro primitivo rapporto con l'ambiente.
Questo avvenne tra le montagne dell'Ortella e dello Schienacavallo, nel cuore del Parco Nazionale d'Abruzzo, nell'ormai lontano 1970. Io stavo svolgendo una ricerca sulla biologia di quest'animale per conto del World Wildlife Fund (Fondo Mondiale per la Natura) e dell'Ente Autonomo del Parco Nazionale d'Abruzzo.
Da allora non smisi più di occuparmi dell'Orso bruno e dei problemi relativi alla sua protezione. Gli incontri con lui sono poi continuati quell'anno e negli anni che seguirono, mentre esploravo e visitavo in lungo e in largo le montagne di calcare e le foreste di faggi del Parco Nazionale, caratterizzate dalla presenza ovunque, di rupi e sassi bianchi. E mi colpirono, quelle pietre e quelle rocce biancastre, tutte uguali, nelle foreste e fin sulle cime più alte; mi affascinarono, perché erano tanto diverse da quelle scure e multiformi delle Alpi da cui venivo. Era l'Appennino, questo. Un altro mondo.
Ero stato per la prima volta nel Parco Nazionale nel maggio dell'anno prima, e ricordo che già allora fui rapito dalla bellezza dei luoghi; dalle immense foreste di faggio tinte di verde pallido per le nuove foglie, in contrasto con le creste dei monti ancora bianche di neve; dalle ampie ondulate radure carsiche colorate dalle sterminate fioriture di viole gialle e azzurre.
Un mondo fantastico, di fiaba. Un Abruzzo antico e pastorale che da allora cominciai a visitare in tutte le stagioni, e in solitudine; in una continua meditazione, più poeta che scienziato. Un mondo vario e selvaggio al quale sono ormai indissolubilmente legato perché trattiene una parte di me; un mondo che ancora oggi riesco pienamente a comprendere ed apprezzare nei suoi reali valori soltanto nella solitudine. E lì viveva l'Orso bruno, sopravvissuto ad altre epoche; lì, unico luogo italiano veramente suo.
L'Orso bruno in Italia è presente in Abruzzo ed in Trentino. Ma mentre in Trentino può considerarsi sull'orlo dell'estinzione, con una popolazione formata da poco più di una decina di individui relegati alle montagne del Brenta e dell'Adamello, in Abruzzo la situazione è decisamente migliore, anche se si è estremamente deteriorata negli ultimi anni.
All'epoca dei miei studi, in Abruzzo era stimata una popolazione formata da oltre un centinaio di individui, distribuiti su un territorio relativamente modesto (circa 1500 kmq) comprendente il Parco Nazionale (istituito nel 1923 a specifica protezione dell'Orso marsicano e dell'altrettanto raro Camoscio d'Abruzzo) e i suoi circondari. Oggi però, quale conseguenza di una discussa ma reale dispersione della popolazione, verificatasi a partire dalla metà degli anni 'Settanta e a causa della conseguente facilitata uccisione (o morte per incidenti di varia natura ma tutti riconducibili alla responsabilità dell'uomo) di diecine e diecine di individui avvenuta in questi anni 'Ottanta, anche l'Orso abruzzese è in serio pericolo di estinzione: ne restano infatti forse solo più una cinquantina di individui, che costituiscono la metà del contingente stimato vent'anni or sono.
Io fui il primo in Abruzzo a studiare sul campo le abitudini e l'ecologia dell'Orso bruno, sostenuto più dall'amore per le cose della natura che non da reali cognizioni scientifiche. Ho comunque aperto una strada ad altri; buttato le basi per gli studi che sono seguiti e che sicuramente seguiranno. Questo è ritenuto giusto da molti, un passo avanti verso la conoscenza sempre più approfondita di questa specie. Io però spesso mi chiedo se questo affannoso esplorare e scoprire, questa sete di conoscenze, non finisca per essere l'inizio dell'apocalisse dell'animo umano. Che sarà di noi quando non vi saranno più misteri e cose sconosciute a farci sognare? E il mondo della natura è quello che più ci ha permesso e ci permette di sognare, immaginare! E mi chiedo anche quali reali funzioni abbiano le conoscenze che si acquisiscono, e che io ho acquisito sull' Orso bruno, ai fini della sua protezione, se da quando io ho iniziato ad interessarmene (e sono passati quasi vent'anni!), nessuno, né tecnico né politico, ha ritenuto opportuno utilizzare queste conoscenze per meglio garantire il futuro a questo animale. Anzi, proprio perché queste conoscenze portano a conclusioni contrarie ai desideri di chi avrebbe il dovere ed ha il potere di prendere gli opportuni provvedimenti in difesa dell'Orso, esse non piacciono, perché evidenziano la necessità di dover prendere decisioni che si ritengono scomode ed inopportune. Significano decisioni impopolari ed antieconomiche, specie a breve termine, che vanno contro gli interessi materiali immediati delle attuali generazioni. Così esse non vengono mai prese e si continuano a rimandare con la scusa della necessità di ulteriori studi e di ancora maggiori conoscenze: l'importante è procrastinare le decisioni impopolari, delegarle ad altre generazioni. Di questo passo, però, stiamo correndo il rischio di ottenere certamente il primo risultato - maggiori conoscenze e conseguentemente l'impoverimento spirituale dell'uomo - senza mai raggiungere il secondo, benché primario - garantire un futuro all'Orso bruno attraverso la sua difesa e la difesa del suo mondo selvaggio dall'invadenza dell'uomo.
Sta di fatto, che nella sua apparente libera esistenza, l'Orso d'Abruzzo in realtà non ha più scampo: potrebbe essere solo una questione di tempo, come l'avvenuta estinzione di tante specie ci ha insegnato. Le pressioni economiche che spingono ad un sempre continuo, e a volte nuovo, sfruttamento ed utilizzo del suo ambiente, sono infinite; strade, tagli boschivi, costruzioni, campi da sci, linee elettriche, rifugi, ecc. ecc. sono tutte opere che di anno in anno restringono e degradano, sia pure di poco, i luoghi in cui vive l'Orso. Lo sviluppo avanza continuamente, a volte in modo lento e quasi impercettibile, quantificabile solo attraverso l'analisi di anni o valutazioni statistiche, ma avanza. E il boom del turismo in natura ha inferto l'ultimo colpo, influendo anche sulla situazione psichica dell'Orso bruno, con disturbi eccessivi dovuti alla presenza di troppi visitatori nel Parco Nazionale: amando la natura essi la stanno "usando" fino a soffocarla, incentivando così un uso ancora una volta sbagliato di questa regione, e ancora una volta a danno dell'Orso bruno, il quale, se veniva indirettamente danneggiato dalla sconfitta speculazione edilizia, neppure sopporta la presenza del turismo escursionistico.
Il turista, l'escursionista, che sia naturalista o semplice ricreazionista, quest'uomo moderno ed invadente, inventato o quasi dalla società d'oggi, quest'uomo che tutto esplora, tutto curiosa, tutto visita, costringendo l'Orso ad abbandonare i primitivi suoi luoghi per spostarsi in altre zone che se pure meno disturbate sono anche meno protette, ha forse fatto più danno a questo fantastico animale nel volgere di un ventennio che non lo sviluppo vero e proprio del territorio nei precedenti cinquant'anni. L'antico equilibrio tra l'Orso e l'uomo pastore e agricoltore che durava da millenni è stato alterato e irreversibilmente sconvolto dal fenomeno turismo. Oggi l'Orso è costretto a cercarsi un nuovo equilibrio, ma è una gara tra la sopravvivenza della specie e l'estinzione. Solo il futuro ci dirà quale dei due fenomeni sarà stato raggiunto per primo. L'augurio è che l'Orso ritrovi un equilibrio in cui vivere, anche se la società d'oggi non lo sta certamente aiutando nella sua corsa verso questo traguardo.
L'area del Parco Nazionale d'Abruzzo è, in Italia, certamente quella più completa, biologicamente parlando, e più vicina allo stato originario. A ciò, che è un valore biogenetico e culturale unico anche a livello europeo (la popolazione dell'Orso d'Abruzzo resta comunque la più consistente e fertile dell'Europa occidentale), si aggiunge la estrema bellezza scenica di queste montagne di calcare. Due aspetti che, per dovere verso i posteri, il popolo italiano, e soprattutto quello abruzzese che ne ha la diretta disponibilità, dovrebbe garantire attraverso una loro duratura conservazione.
Eppure, nonostante questi aspetti siano largamente conosciuti, e riconosciuti come tali per i loro valori, si parla più spesso e più seriamente del Parco Nazionale d'Abruzzo per la sua potenzialità ricreativa ed economica che non come area di ambiente critico per l'orso, per il lupo e per il camoscio o come bellezza naturale d'insieme. Si puntualizza sempre più la sua utilità sociale in senso meramente commerciale (che è in fondo banale ed identica alle prerogative di uso di centinaia e centinaia di altre aree italiane) dimenticando i suoi valori più veri, o sminuendoli, e comunque additandoli quali soggetti di attrazione turistica e quindi solo e sempre per la loro potenziale resa economica. E si prendono provvedimenti e si stanziano fondi solo per incentivare questa capacità produttiva, con l'alibi di devolverli alla tutela ambientale e alla difesa dell'Orso bruno: ma poi di essi ben poche briciole finiscono per venire spese a suo reale favore.
I danni che questa politica ha arrecato e sta arrecando alla natura del Parco Nazionale d'Abruzzo sono spesso indiretti, nascosti, e presi singolarmente, minimi o con effetti a lunga scadenza; ciò purtroppo facilita il suo demagogico perdurare a danno dell'ambiente e a danno dell'Orso bruno. Ancora una volta saranno i posteri a dover emettere l'ardua sentenza contro imputati che non potranno mai essere puniti se non dal giudizio della storia.
Durante i miei lunghi anni di esperienza in campo naturalistico e come attivo conservazionista, pochi fatti mi sono rimasti impressi indelebilmente nella mente, come pietre miliari di una corrente di pensiero che più che acquisito ho sempre sentito dentro. Uno di questi fatti fu quando, agli inizi degli anni '70, disquisendo di problemi conservazionisti con l'allora notissimo e massimo esperto mondiale del lupo, il canadese Douglas H. Pimlott che accompagnavo in visita per il Parco, egli, con tutta onestà ed obiettività, pur potendo omettere la realtà delle cose, non mi nascose, ed anzi enfatizzò, col rischio di sminuire anche se stesso ai miei occhi, che in Canada all'epoca delle sue ricerche sul lupo, per la difesa di questo animale era valso più un libro allora appena uscito che narrava del lupo in forma letteraria e narrativa ("Never Cry The Wolf", poi divenuto famoso anche da noi) pur zeppo di errate nozioni di biologia, etologia ed ecologia, che non tutti i suoi costosissimi studi di alto livello scientifico: questo perché, mi disse, mentre le sue erano solo fredde nozioni rivolte agli addetti ai lavori, il libro fu un successo letterario con amplissima diffusione, e col suo linguaggio comprensibile e affascinante riuscì a far comprendere ciò che loro volevano ottenere con gli studi: ovvero la bellezza del lupo come specie ed il suo diritto all'esistenza.
Forse fu questo fatto a stimolare in me la scelta di scrivere un libro simile sull'Orso, anziché un trattato tecnico-scientifico; ora non ricordo più, però fu in quell'epoca che iniziai a scrivere i primi pezzi di fantasia di questo libro.
Un libro che non fosse, appunto, una fredda analisi scientifica della sua biologia (come per le ricerche, di libri del genere ce ne sono già fin troppi!), che come mi disse Pimlott avrebbe finito per interessare i soli pochi addetti ai lavori ed appassionati (e pertanto ancora una volta facilitato il mascheramento e il ridimensionamento delle primarie esigenze di conservazione per l'Orso, le quali sono e devono restare nettamente disgiunte da qualsiasi discorso economico), ma che potesse coinvolgere la generalità dei lettori.
Ho quindi cercato di scrivere un libro di fantasia che fosse però anche una descrizione reale della vita dell'Orso bruno e del suo mondo naturale, una descrizione solo apparentemente fantastica, dove si esalti piuttosto la bellezza dei luoghi e dei fatti che non i dati e i valori, ciononostante rigorosamente scientifici: ovvero le cose più intuibili e comprensibili da tutti.
Volutamente l'uomo non compare mai nelle descrizioni; una scelta precisa anche questa, che vuole evidenziare la reale appartenenza di questo mondo selvaggio agli animali e alla natura tutta prima che all'uomo, e nello stesso tempo una scelta che è l'illusoria negazione di una realtà che è invece drammatica e della quale sono perfettamente cosciente per la profonda conoscenza che ho del problema, retto dalla ragionevole convinzione che senza un drastico cambiamento di rotta da parte delle autorità, ma anche della società tutta, gli sviluppi sociali, urbanistici e tecnologici dell'ultimo ventennio, finiranno per rivelarsi presto per essere stati l'inizio della fine per l'Orso bruno d'Abruzzo.
Anche per questo ho voluto presentare al passato le descrizioni, come se il mondo che illustro già non esistesse più, come già oggi esso non è più quello di circa quindici-vent'anni fa cui deve intendersi riferito tutto ciò che nel libro è descritto, perché a quell'epoca risale la prima idea del libro, poi rielaborato più volte, fino a questa stesura definitiva.
Il risultato di questo mio lavoro è una raccolta di racconti, e i racconti una raccolta di fatti e situazioni, che possono si intendersi collegati da un filo logico, ma che sono più giustamente solamente dei flash atti a cogliere momenti a caso nella vita dell'Orso. Essi sono però presentati in un ordine logico e nel ciclo di un anno, per dare un'idea, in ogni modo corretta, della vita che, antica come l'Abruzzo, spesso in sordina e ben lungi dagli occhi dell'uomo, ogni momento dell'anno si svolge in questi monti di calcare.
Ho impiegato questo metodo dei flash perché ritengo che sia l'unico modo per rendere credibile la verità che ho cercato di descrivere e raccontare. Di solito nei libri simili a questo si tende ad ammassare fatti e situazioni e a seguire fili d'attività e comportamenti animali molto movimentati, che sono invece del tutto irreali anche se apparentemente logici durante la lettura. La realtà invece è che il mondo della natura è molto scarso di eventi particolari, e che la vita di un animale, quale esso sia, è di una estrema monotonia per la ripetitività degli eventi che la caratterizzano. Ho quindi ritenuto quello dei flash l'unico modo accettabile per rendere plausibile questa varietà, e la più reale possibile, nonché letterariamente accettabile. Perché se il lettore può, alla fine della lettura, avere una impressione di movimento e di incalzante varietà di fatti e soggetti descritti, essa resta in ogni modo una impressione, dovuta al susseguirsi dei flash. La realtà sarà sempre quella che è: staticità e monotonia. I flash, infatti, in quanto tali possono essere riferiti ad un tempo senza limiti.
I racconti sono basati su fatti realistici, e su reali nozioni scientifiche, come reali sono i luoghi descritti. Alcuni racconti sono inventati di sana pianta, e solo i luoghi descritti sono sempre reali; per altri mi sono invece ispirato a fatti osservati direttamente o intuiti attraverso il ritrovamento di tracce di attività animale. Molte delle località indicate portano però volutamente dei nomi fittizi, specie le minori; ciò è per evitare che esse finiscano per divenire delle attrazioni turistiche (nonostante questo, ho cercato di mantenere la poetica toponomastica abruzzese). In quanto alle descrizioni ambientali, spesso dò poche indicazioni di specie d'erbe, fiori o animali minori che corredano i racconti, ma ciò è voluto, per rendere più reali i luoghi: infatti sono quasi sempre le stesse e poche specie a colpirci e a restarci impresse visitando questi luoghi: e sono quasi sempre quelle più vistose.
Infine, ancora una precisazione credo di dover dare ai lettori: il protagonista di questi racconti è l'Orso bruno, ma in quanto specie e non come individuo ben preciso. Nei racconti esso si alterna con altri animali come soggetto principale, e a volte anche con eventi naturali del suo mondo, eventi a volte importanti e salienti, così come lo sono nella semplicità della vita reale. Ma il lettore non si deve illudere di visitare il Parco Nazionale d'Abruzzo e di riuscire ad osservare ovunque e sempre ciò che troverà descritto nel libro, come se si trattasse di osservare le esposizioni statiche di un museo; sono cose vive che descrivo, e quindi sensibili e mutevoli proprio alla presenza dell'uomo; sono cose che spesso neppure entrando in punta di piedi in questo mondo si potrà mai vedere direttamente, ma solo intuire, con la conoscenza dei luoghi e degli animali che li abitano.
La scelta di scrivere un libro fantasioso ma che ritengo lo stesso rigorosamente scientifico per la precisione scientifica dei fatti e degli eventi in esso descritti, è stata quindi fatta proprio per permettere a tutti i lettori di capire l'importante discorso di conservazione naturalistica che il libro vuole indirettamente essere: senza sapere di certi fatti vitali è difficile capire il perché di uno stato conservativo che ne garantisca il loro futuro. Così facendo ho però anche voluto mettere in risalto soprattutto il lato estetico ed emotivo che in primo luogo, e sempre, lega l'uomo alla natura, al mondo naturale; affinché tutti possano meglio capire che garantire le vitali esigenze biologiche e ambientali dell'Orso bruno e della sua terra selvaggia vuole anche dire garantire all'uomo la possibilità di continuare a godere di queste cose.
In pratica, affinché i lettori comprendano, attraverso queste pagine, la bellezza e l'equilibrio che la natura selvaggia racchiude in sé, e quel diritto all'esistenza e alla continuità che essa possiede e che contrasta con quello che troppo spesso crediamo essere il nostro diritto di visitarla. Il lettore dovrebbe meglio capire, con un poco di autocritica, che della natura abbiamo bisogno, ma che bisogna anche saperne godere con rispetto, e che il rispetto viene di per sé se la si visita con umiltà, pronti a rinunciarvi e a rinunciare a quello che egoisticamente sentiamo come un diritto o crediamo sia tale. Spesso dovremmo saperci accontentare dell'idea che essa esiste, e saperne godere spiritualmente attraverso piccoli contatti non distruttivi, o con l'immaginazione, non pretendere sempre tutti di vedere tutto o godere di tutto direttamente e materialmente. Il libro vuole quindi essere anche un contributo a questa forma di uso spirituale della natura.
La quiete e l'equilibrio che il lettore intuirà attraverso le descrizioni delle varie situazioni rappresentate nei brevi racconti che compongono il libro sono tali proprio perché l'uomo in quei momenti non vi appare a rompere l'armonia di uno stato di vita dal quale l'uomo moderno è ormai definitivamente uscito. In conclusione, forse questo libro piuttosto che come un romanzo di natura o un saggio, andrebbe letto come un testo di poesia, e i racconti come fossero poesie. Perché è così che lo ho concepito.
Franco Zunino
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NUOVI GIORNI
Il sole era caldo e la neve scioglieva copiosa; il manto bianco che plasmava le montagne, già rotto da larghe chiazze brune dove i ginepri ne alteravano la compattezza sui versanti esposti a sud, di giorno scintillavano di una brillante patina di neve fusa che poi la notte ghiacciava lucida come specchio.
Dalla cresta frastagliata del Boccanera l'aquila reale vide un muoversi nelle macchie scure del pascolo sotto lo Sterpi d'Alto, e si alzò in volo senza battito d'ali, con gli occhi fissi al suolo. Quando lo stretto delta del rapace fischiò nel vento sulla pendice, in chiusura della precipitosa parabola verso il suolo, la brigata di coturnici frullò gettandosi verso valle, aprendosi a ventaglio sopra i ginepri. L'ombra nera dell'aquila scivolò ampia, bassa sulla dorsale innevata, poi tornò a salire e a rimpicciolirsi, e l'uccello ridivenne un punto nell'azzurro. Aveva sbagliato la presa; si sollevò nel cielo, in alto, prima di lasciarsi cadere sul Colle delle Teste.
* * *
Scendevano dal Vallone dell'Inferno a passo veloce; le forme scure passavano rapide e furtive attorno ai cespugli di salice e nei boschetti di faggio. Quando il disco lucente della luna appariva dietro le nubi che correvano veloci verso il meridione spinte da un forte vento di tramontana, le loro ombre prendevano forma, e allungate strisciavano sulle ghiacciate distese di neve.
Venivano dai reconditi angoli delle montagne di Barrea seguendo un itinerario che per tutto l'inverno li aveva portati alla Camosciara.
Il branco dei lupi scendeva dalla Valle Iannanghera quasi ogni notte in quel tempo di nuovi giorni, correva lungo le pendici boscate della montagna della Valle Grande, passava sotto i balzi del Monte Mavo per poi buttarsi nel Vallone dell'Inferno seguendone il corso fino alle acque fredde dello Scerto.
In quelle notti di tardo inverno i quattro lupi, un grande maschio dal pelo scuro, una femmina bruna, un'altra femmina più giovane, anch'essa bruna, ed un secondo maschio più piccolo e grigio, erano attirati dalla carcassa di un cavallo morto accidentalmente e abbandonata dall'uomo sul bordo del torrente.
Si aggirarono a lungo attorno alla carogna, senza toccarla; la abbandonarono; poi ritornarono ad annusarla altre volte, irresistibilmente attratti, a distanza, con circospezione, infidi; e tornarono ancora e ancora prima di cibarsene, con cautela, dopo che le volpi da tempo avevano intaccato la carne in più punti, spinti dalla fame che soffocava ogni altro istinto di conservazione.
Erano i primi di marzo, vaste stese scure di terreno dominavano ormai la Piana della Camosciara; l'inverno stava terminando. Sulle sponde dello Scerto le cinciallegre di giorno cantavano tra i salici. I gattici germogliavano penduli dai rami spogli; anche le prime fioriture gialle del farfaro e quelle viola e azzurre dell'anemone epatica, pur chiuse nei loro boccioli in attesa della luce del mattino nei posti più caldi e riparati dal vento freddo, erano segno che la primavera si avvicinava.
Quella notte il branco dei lupi sentì il mutare della stagione; la neve si scioglieva più rapidamente; di giorno il chiamare degli uccelli era cambiato e il profumo dell'aria si era fatto diverso. Presto sarebbe cambiato anche qualcosa in quelle loro scorribande notturne. E lo sapevano. L'Orso bruno avrebbe lasciato la sua tana e allora avrebbero dovuto contendergli i resti di quella che ormai ritenevano loro preda.
* * *
La neve che in primavera aveva ricoperto con uno spesso strato tutte le montagne della Valle Iannanghera, che era rovinata con rotolii di valanghe infrangendo cunei di foresta lungo le pendici del Monte Jamiccio e dalla cresta del Boccanera, si era ormai quasi del tutto disciolta dalle zone esposte a sud. Restavano ancora imbiancate le montagne più alte; coperti i circhi glaciali del Monte Petroso, le pendici meno assolate delle altre montagne, e il suolo nei boschi di faggio.
Nella valle, poche chiazze di neve si alternavano a grigie macchie di pascolo fiorite di pallidi crochi.
La quiete dell'inverno che spariva era rotta di continuo dal canto degli uccelli maschi che cercavano una compagna, e col gorgheggiare dei tordi e il chiamare dei numerosi fringuelli che occupavano ogni angolo della foresta, si udiva spesso in pieno giorno anche il lamento dell' allocco, risuonare tra le montagne dai boschi sotto le rupi del Coppo Oscuro.
* * *
La volpe alzò bruscamente il capo dalle spoglie della preda; osservò lontano con occhi vigili e le orecchie tese, poi rassicuratasi continuò il suo pasto.
Aveva catturata la lepre poco prima, dopo un rapido inseguimento, e ora la preda giaceva sulla neve intrisa di sangue, con le interiora aperte e sparse attorno in una macchia scura.
Quando la volpe era giunta nella radura tra i faggi, camminando lesta e silenziosa, risalendo la valle lungo il sentiero eroso dalle acque del disgelo, la lepre stava pascolando in una zona di terreno tra i grossi massi calcarei di un colle scoperto di neve; subito fuori dall'ombra degli alberi la volpe si fermò improvvisamente, attenta ad un effluvio portato dal vento; scrutò la radura oltre la quale il paesaggio si chiudeva alla sua vista col lontano orizzonte delle montagne; presentì qualcosa, scivolò di lato istintivamente, tenendosi bassa sulle gambe, quasi adagiata al terreno; si spostò circospetta aggirando il dosso tra cespugli scarni di ramno, piante d'acero e grossi massi; adocchiò la preda e si buttò in corsa rapida, silenziosa come era giunta. Ma la lepre sentì l'avvicinarsi del pericolo; le sue grandi orecchie percepirono il lieve rumore delle zampe che battevano sulla neve e sul terreno, e prima ancora di capire quale fosse il pericolo, scattò in una fuga disperata zigzagando in direzione opposta, verso il bosco, nel tentativo, inutile ormai, di sfuggire al suo destino di preda.
Corse veloce, con lunghi balzi nervosi; le sue larghe zampe posteriori facevano presa sulla neve ma la sua velocità non seppe vincere l'astuzia della predatrice scaltrita dalla necessità di sopravvivere cacciando altri animali: intuendo quale fosse la direzione di fuga della lepre, la volpe proseguì diretta verso un punto più avanti, oltre un dosso, sbucò improvvisamente al suo fianco e le fu sopra. A nulla valse il repentino scattare di lato della lepre in un ultimo tentativo di fuga. La volpe l'afferrò decisa e sicura, e con uno strappo violento fermò la sua corsa sulla neve.
Il grido acuto che lanciò il roditore cessò improvviso, e la volpe ansante alzò il capo per guardarsi attorno in cerca di presenze estranee che fossero apparse nella radura nel momento in cui si era distratta per dedicarsi alla caccia. Ma nel biancore del primo mattino il mondo attorno era calmo; solo i codirossi svolazzavano spaventati tra i primi pallidi crochi spuntati nella radura. Dalla faggeta il canto dei fringuelli non era cessato.
* * *
Le nevicate si erano sovrapposte alle nevicate; il freddo intenso aveva solidificato quella spessa e inconsistente crosta che ogni inverno veniva a rivestire la terra, e la brutta stagione si era prolungata fino a marzo inoltrato.
L'Orso bruno tornò a destarsi dal suo lungo sonno. Ora c'era qualcosa di diverso dentro al suo istinto, come svanito il desiderio del sonno che in altri momenti lo aveva spinto a raggomitolarsi nell'erba del giaciglio. Non aveva mai abbandonato la tana da quando l'aveva occupata in dicembre; profonda qualche metro e ancora meno ampia, essa era nascosta ai piedi di una faglia di rupi che taglia orizzontalmente le pendici basse dei monti là dove il sole anche in inverno batteva per più tempo che altrove. Nel suo interno, un giaciglio di rami e d'erba aveva accolto l'Orso durante la stagione del freddo, e solo quando le belle giornate avevano infine fatto destare in lui quel qualcosa di sconosciuto ma prepotente che lo aveva svegliato l'ultima volta, la lasciò.
Fuori, di giorno, il sole era già caldo, e il vento meno freddo la notte; un non so che di diverso era nell'aria. Sbadigliando più volte l'Orso bruno si stirò le menbra, annusò l'ambiente della tana roteando la testa, come ad accertarsi del luogo in cui stava, e ricordare perché vi si trovasse. Annaspò poi all'entrata allontanando l'ultima barriera di neve sporca di fango e di muschio sgretolatisi dalle rupi col disgelo. Si aprì la strada verso l'esterno e fu fuori. La neve era quasi sparita del tutto da quel versante dei monti; restavano cumuli soltanto nelle zone d'ombra dei canaloni e chiazze sporche sotto gli alberi. Era giorno, il suo primo giorno quell'anno.
* * *
Poco prima che la luce dell'alba inondasse la valle, il pipistrello ferro-di-cavallo entrò silenzioso nella tana, smuovendo l'aria con lieve battito d'ali, e si aggrappò a testa in giù in una screpolatura della roccia, proprio sopra il giaciglio.
Quando l'ansare dell'Orso bruno che tornava dal suo andare notturno risuonò nel piccolo antro, col vibrare del suo muoversi pesante sulla terra umida del suolo, il rinolofo già dormiva d'un sonno profondo, immobile, chiuso nel guscio delle sue delicate trasparenti ali.
A meno di un metro sotto di lui l'Orso bruno si adagiò nel giaciglio, tra gli sterpi della rozza imbottitura dove aveva trascorso l'inverno, e non si accorse della minuscola presenza dell'intruso che da qualche giorno aveva occupato la sua tana come fosse propria, o non gli interessò che ciò fosse avvenuto.
Il pipistrello e l'Orso bruno convissero come ignari l'uno dell'altro. Ogni sera uscivano quasi contemporaneamente con l'imbrunire, al ritmo dei canti d'uccelli notturni in amore; in caccia di insetti il pipistrello e al pascolo l'Orso bruno. Non furono forse mai coscienti della loro muta compagnia durante il giorno quando l'Orso per istinto tornava ancora al vecchio covo d'inverno, anche se lo faceva sempre più di rado con l'andare dei giorni e con l'allargarsi del suo girovagare in cerca di nuovi alimenti che l'avanzare della primavera portava.
* * *
Schizzò rapida dai piedi del faggio, e piccola macchia scura la donnola saettò sullo sporco biancore della neve, tra gli alberi, verso il solco della Fossa Perrone.
L'acqua della neve che fondeva copiosa ormai anche durante la notte per l'alzarsi della temperatura, scorreva lenta e sinuosa tra l'erba cresciuta subito dopo che le belle giornate di marzo avevano liberato il fosso della sottile patina di ghiaccio che si formava ogni notte.
La donnola percorse a brevi balzi rapidi il corso del fosso, poi saltò dall'altra parte e si arrampicò lesta sul muro di neve che il vento dell'inverno aveva creato a monte, verso la foresta.
Nel silenzio del paesaggio in procinto di esplodere di colori per l'avanzare della bella stagione, due cornacchie grigie si chiamavano dal colle della Cicerana. Nel folto del bosco movimenti furtivi di minuscole arvicole passavano tra la ramaglia raccogliendo e rosicchiando i frammenti di perule, corteccia, fili di muschi e licheni che punteggiavano ovunque la neve.
La donnola sparve in una macchia di faggi, poi ricomparve, tornò a superare il fosso più oltre e corse verso la foresta da dove era venuta come un piccolo folletto. Il muoversi delle arvicole non cessò, e piccole sagome scure apparivano e sparivano tra gli alberi; la donnola si confuse con esse, e rimase il paesaggio immoto lungo il ruscellare dell'acqua.
* * *
Anche la grande Orsa lasciò in quei giorni la tana dove aveva svernato. Ma non la lasciò vuota come quella dei maschi, di altre femmine e dei giovani. In fondo alla cavità, nella morbida imbottitura del giaciglio c'erano due cuccioli: l'orsa li aveva partoriti verso la fine di gennaio, nudi e minuscoli in confronto a lei. Ora erano cresciuti ed erano ricoperti di folti peli grigiastri. Si muovevano già per tutta la tana, ma non avevano ancora la forza di superare il muro di neve sporca di terra che stava a barriera della sua entrata.
Quel primo giorno l'Orsa non si allontanò molto dal luogo, limitandosi a scavare alle radici dei vecchi faggi li attorno per cercare i semi caduti l'autunno prima. Trovò anche frutti di rosa canina e mele selvatiche sotto un albero sul bordo di una radura. Il paesaggio attorno era brullo, e un venticello freddo alitava nei boschi e induriva la neve durante le notti.
Il latte caldo delle mammelle dell'Orsa era l'unico nutrimento per i due cuccioli, sempre ansiosi di vedere comparire la genitrice sulla bocca della tana. Sarebbero dovuti passare ancora molti giorni prima che l'istinto li portasse a lasciare la sicura penombra di quel luogo.
ACQUA DI NEVE
In basso la neve se ne era andata da tempo, e scomparsa era sugli alti versanti esposti al sole. Anche nelle valli e sui monti a nord il manto bianco si stava aprendo giorno dopo giorno.
Erano sempre i dossi i primi a scoprirsi, là dove le bufere invernali li avevano spazzati e rispazzati non permettendo mai l'accumularsi di spessi strati. Nelle conche invece, negli avvallamenti e negli inghiottitoi, quantità del bianco e freddo elemento si erano raccolte, e per tutta la primavera, ed anche per l'estate, persistevano compatte continuando a sciogliersi poco a poco, alimentando torrenti e sorgenti e dando una continua linfa di vita alle piante, all'erba e agli animali della vallata.
Con l'andare della stagione il sole si alzava sempre più nell'arco del cielo, e i raggi creavano miriadi di piccoli rivoli d'acqua di neve che si assorbiva nei prati; un gocciolio continuo sul terreno scoperto, che ogni giorno guadagnava spazio, prendeva vita ai bordi delle chiazze ingrigite dai mille piccoli frammenti di sostanze organiche sparse dal vento durante l'inverno, concentratesi con lo sciogliere della neve e punteggiate dalle perule che cadevano dai faggi col germogliare delle foglie.
Ogni giorno nuove bande d'erba ammuffita e intarsiate dalle gallerie superficiali delle arvicole comparivano alla luce, e subito si punteggiavano di crochi, di scille e di soldanelle, i primi colori di una stagione che iniziava un nuovo ciclo di vita.
* * *
Aveva preparato la tana nel tardo autunno, scavando con forti colpi di unghioni il terreno morbido ai piedi di una rupe nascosta dal bosco. Più in alto la rupe si alzava dalle chiome degli alberi trasformandosi poi in un terreno rotto di spuntoni e canali, con alberi martoriati e contorti di sorbo e di carpino nero e cespugli di ciliegio canino aggrappati alla roccia e alla scarna terra della pendice; più su ancora diveniva per breve tratto pascolo piatto e uniforme d'erbe, poi il pendio si addolciva e la foresta riprendeva il sopravvento.
Aveva impiegato diversi giorni ad approntare la tana, scavando quando tornava dalle sue escursioni in cerca di cibo, ogni volta più in profondità, fino a che l'incavo sotto la roccia divenne abbastanza accogliente per il suo corpo. La terra smossa formò una barriera all'imbocco; dentro, nel punto più basso, preparò la conca del giaciglio. Poi vi trasportò cumuli d'erba che raccolse nei canaloni tra le rupi.
Più tardi nella stagione, quando già la prima neve era caduta in abbondanza, vi si ritirò. Lì, coricato, pervaso da un lungo torpore passò l'inverno. Fuori altra neve venne a sigillare l'ingresso.
L'Orso bruno lasciò la prima volta quella tana all'inizio di aprile. Poi per diversi giorni restò con altri orsi in quella stessa zona, cibandosi di gemme d'alberi, della faggiola e di altri frutti dell'autunno precedente e conservatisi sotto la neve. I frutti li trovava andando a scavare nel fogliame fracido e decomposto ai piedi dei peri, dei meli, dei cornioli e delle rose canine.
All'imbrunire si incontravano, due, tre e anche più orsi, a pascolare l'erba che stava rinverdendosi sulle balze tra i canaloni dove da tempo la neve era sparita, o lungo la valle sotto i meli selvatici nei boschi di cerro. Restavano poi all'aperto fino all'alba, quando la luce scendeva a lambire le montagne là dove essi si aggiravano; a volte prima di tornare a sparire come ombre nella vegetazione si crogiolavano a lungo al sole tiepido del mattino, coricati sulle rupi, immoti punti scuri nel grigiore del paesaggio ancora spento di colori.
* * *
Il falco giunse come dal nulla, e subito gridò allarmato quando l'Orso bruno si mosse nel suo giaciglio. Il grosso animale scuro stava su un passaggio che portava su un altro versante della Serra, e di lì in un canalone e poi in alto nella faggeta. Lungo la cengia generazioni di orsi avevano localizzato i loro giacigli, al riparo delle pareti, in luogo asciutto, scavati nel terriccio e nei detriti caduti dalle rupi, imbottiti di scarni cespi d'erba e rami di maggiociondolo. Lì era sicuro l'Orso bruno, come era sicuro, più in alto, il nido del falco pellegrino.
Il rapace aveva visto l'Orso bruno e manifestò il suo spavento gridando e sorvolando la zona. Scese poi in picchiata veloce verso l'intruso, adocchiando la piccola cengia dove la femmina covava quattro uova brunastre. Stringeva tra gli artigli un colombaccio senza vita, uno dei primi giunti dal sud quell'anno, cibo per la sua compagna.
L'Orso bruno restò indifferente a quell'acuto gridare allarmato, che sentiva essere causato dalla sua presenza e non da altri intrusi. Lasciò il giaciglio dove si era coricato a riposare al tepore accumulato dalle rupi durante le ore del mattino e sprigionato anche quando l'astro incandescente era sparito dietro la cresta boscosa della Serra, e proseguì verso il canalone.
Solo quando la sagoma dell'Orso bruno sparve tra le rupi il terzuolo smise di gridare. Allora la femmina saettò nel cielo lasciando il nido, gridando a sua volta andando incontro al maschio, il quale lasciò cadere nel vuoto la preda: rapida allora la femmina l'artigliò e ridiscese al nido sulla cengia.
Poi il terzuolo tornò ad alzarsi nel cielo ormai grigio della sera ancora a cacciare; questa volta per sfamare se stesso. Quando fece ritorno alla parete il velo della notte stava stendendosi sulla valle, gli alberi e le rupi persero colore e si fusero in un'unica profonda macchia scura.
Dalla forra, molto lontano, il suono profondo di un gufo reale ruppe il silenzio, dando vita ad un nuovo mondo di esseri selvaggi.
* * *
Nugoli di lucherini e di verdoni sciamavano chiassosi nel bosco dei carpini, beccuzzando le gemme gonfie di linfa e la corteccia bruna. I rami dei cornioli, brulli di foglie, erano già fioriti di minuscole gialle corolle; l'anemone epatica contrastava azzurro col rosa dei ciclamini, nel bruno della terra soffice sotto le siepi attorno al colle Pizzuto. L'Orso bruno scavava il gigaro nei boschi ai piedi delle rupi, divorando il rizoma e le foglie verdi splendenti che erano scaturite ai primi tepori. Più avanti nel giorno salì a brucare le erbe tenere nei cespi di graminacee sulla pendice.
La temperatura si fece mite e col trascorrere delle albe anche i pascoli e i boschi nelle parti alte della valle si scoprirono della neve. L'Orso bruno non tornò più alla tana dove aveva svernato. Si spostò a valle, tra i boschi rumorosi del canto degli uccelli, e si approntò un nuovo ricovero per la bella stagione in un luogo selvaggio tra gli enormi macigni di una antica morena ombrata d'alberi secolari e novellame fitto di faggio.
Seguiva il mutare delle stagioni come ogni essere la cui sopravvivenza è legata alle risorse della terra, e con l'avanzare della primavera cambiava quartiere secondo una regola antica quanto la sua specie.
* * *
La giornata era molto calda. Il sole era già alto, splendente nel cielo terso spazzato in continuazione da un vento veloce che trasportava grandi nuvole bianche verso oriente, presagio di pioggia a pochi giorni.
Dagli alberi di faggio le perule cadevano sempre più frequentemente: sbocciavano i germogli, e le nuove foglie della stagione, verde pallido e splendenti, tornavano a tingere la foresta del suo colore primaverile.
Nella parte bassa della Valle dell'Inferno gli alberi di carpino ed anche i faggi erano già del tutto ammantati di foglie nuove e tenere. Su verso il Serrone e lo Jannazzone le perule cominciavano solo allora a cadere, macchiettando di bruno le ultime stese di neve, ormai sporche, grigie per il cumulo di residui vegetali e di licheni caduti dagli alberi durante la stagione invernale; verdi dentarie crescevano dalla lettiera di foglie morte infracidite, con penduli campanelli cerulei, e teneri si ergevano i rossi germogli dell'epilobio.
Sui pascoli e nelle radure dove fiorivano a milioni i crochi e le viole calcarate erano tornati i culbianchi, e i saltimpali già controllavano i loro territori tra le siepi e gli incolti sulle sponde del Lago di Barrea. Nei boschi tutti gli uccelli erano indaffarati a corteggiarsi. Anche le balie dal collare erano arrivate, ed alcune cominciavano a trasportare fili di muschio e crini nelle loro cavità; altre esploravano ancora la foresta, cercando luoghi dove poter nidificare. Nei boschi giunse nuovo il canto del cuculo.
Al suolo, come ogni primavera, le formiche ammassavano con estrema solerzia migliaia e migliaia di perule cadute dalle gemme dei faggi. Le radunavano sui loro formicai dissestati dalla neve dell'inverno, innalzandoli e rinforzandoli contro i loro nemici. Nelle siepi tra i coltivi gli zigoli gialli cantavano dai cespugli di biancospino.
L'Orso bruno uscì dal bosco sopra la Serra, discese un ripido canalone tra carpini e cespugli di maggiociondolo, raggiunse un passaggio tra le rupi e si coricò in un giaciglio scavato da anni nei cumoli dei detriti ai piedi di un'alta parete scaldata dal sole.
* * *
Scendeva nel bosco camminando silenzioso, su una traccia di sentiero nella neve fatto dal passaggio frequente dei camosci e dei cervi; era diretto ai bordi del bosco, in un'ampia radura dove stava nascendo la cicoria e il trifoglio selvatico. Dalla foresta giungeva l'eco del picchio dalmatino che tamburellando sulle cime morte dei faggi dava inizio alla stagione degli amori, attirando le femmine e segnalando agli altri maschi la sua presenza con alte grida squillanti. Il secco suono cristallino rimbalzava nella faggeta ancora spoglia d'aprile, a rompere il quiete cantare del tordo bottaccio e delle tordele che già da marzo s'udivano, suoni lontani e solitari, chiamare la nuova stagione.
Il picchio dalmatino martellava e martellava su un faggio ai bordi del sentiero, lunghe raffiche ritmiche che cessarono al giungere dell'Orso bruno, ora rumoroso nel frascame sul finire del bosco dove s'apriva la radura. Disturbato, con alcune alte note di protesta il picchio dalmatino si tuffò nel bosco con volo ondulato, verso un altro faggio, dove si udì poi di nuovo battere il legno riarso, e chiamare.
Nella radura l'Orso bruno spaventò anche i culbianchi, tra i primi giunti dal sud. Un codirosso spazzacamino sembrò invece ignorarlo, zampettando e scuotendo la coda su sassi poco lontano, ma ne osservava e valutava attento il suo muoversi lento. L'Orso brucò nelle macchie verdi che apparivano tra le coltre d'erba secca della stagione passata, e rivoltò i sassi in cerca di piccoli animali che catturava con mosse rapide del muso.
A metà del mattino lasciò l'area aperta del coppo e riprese il sentiero verso le rupi, dove scavò ai loro piedi le bianche radici del gigaro. Nella radura i maschi dei culbianchi si rincorrevano in brevi contorti voli che sfioravano il suolo, spostandosi di sasso in sasso: il luogo aperto era tornato loro.
* * *
Lungo il ruscello le pennellate delle gemme rossastre dei salici si erano aperte e trasformate in miriadi di penduli soffici gattici. Nel silenzio del mattino giunse nitido un lontano canto di upupa da una pendice brulla di roverelle ammantate di foglie morte, poi il sole irruppe lungo la gola facendo risplendere il pallido verde dei carpini, e, come in risposta ad un evento atteso, una ghiandaia gridò un falso grido di poiana.
Il giovane Orso bruno discese dal carpino che aveva scalato per giungere alle gemme sulle cime dei rami e trotterellò lungo la pendice confondendosi tra la vegetazione. Riapparve poi più a valle, in un ghiaione, dove scavò più volte cercando tuberi prima di riperdersi nella fitta boscaglia di carpino nero ed orniello.
Il lanario lasciò il suo posatoio su uno spuntone di roccia ingrigita dal tempo e tinta di rossi licheni, si allontanò e sparve, punto confuso nel paesaggio. Dal nido su una parete in ombra riempiva la valle il gridare della femmina in cova.
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Le foreste rinverdivano estendendo la tinta dal basso, come una macchia di colore che si dilatava giorno dopo giorno a rivestire gli alberi, ravvivandoli sulla tela bianca della neve che si ritirava sempre più in alto sulle montagne.
Un giorno uno strano richiamo verso la solitudine stimolò l'Orso bruno a lasciare il luogo sulla Serra e gli altri orsi, e si allontanò. Gli orsi che gli erano stati compagni fecero lo stesso nei giorni che seguirono, obbedendo anch'essi allo stesso sconosciuto comando. Solo i giovani restarono assieme, e le femmine con i piccoli che, a quell'epoca, ancora tenevano al riparo delle tane. Gli adulti avrebbero condotto vita raminga e solitaria fino alla tarda primavera, quando i sessi si sarebbero cercati per breve tempo, per accoppiarsi. Poi ancora la solitudine fino all'autunno; dopo, alcuni sarebbero tornati a riunirsi subito prima dell'inverno, in quegli stessi luoghi che avevano abbandonato in primavera.
L'Orso bruno salì nei boschi dell'Acquafredda, verdi di nuove foglie. Lì, dove stentate giungevano la luce ed il calore, restavano brulli solo gli alberi del sottobosco, i più giovani dei quali ancora trattenevano le foglie morte dell'anno prima, delicate e del colore di seppia. Le radure erano vive d'erbe nuove; senza fine era il canto dei fringuelli nella foresta.
* * *
Lontano i picchi dalmatini facevano risuonare ritmicamente le piante morte e l'eco si spegneva nell'ampia distesa dei boschi, rotto dal richiamare acuto di uno degli uccelli.
L'Orso bruno risaliva lento la valle, su per il sentiero, nelle prime luci dell'alba; superò il coppo trasformato in pantano da una sorgente gonfiata da misteriosi rivoli sotterranei alimentati dallo sciogliere dei nevai sui pascoli della Forca di Resuni.
Nel bosco antico di faggi secolari, tra radure già verdi di nascenti epilobi ed intrichi d'alberelli di sorbo e d'acero, l'Orso bruno si fermò quando giunse ad un vecchio giaciglio ai piedi di un enorme macigno muschioso. Con forti colpi di zampa scalzò una parte dell' accumulo di foglie morte, e si adagiò a riposare. Attorno si destava la foresta e nel cielo, oltre le chiome già verdi di foglie pallide, due poiane volteggiavano lanciando lunghe grida lamentose. A sera il piccolo rinolofo tornò ancora a lasciare la tana d'inverno dell'Orso bruno, ormai da tempo rimasta sua.
* * *
Scese alla Camosciara durante la notte. Veniva dalla Val Canneto e raggiunse il valico risalendo uno dei valloni ripidi che scendono ai Tre Confini attraversando la distesa fitta ed intricata dei pini mughi che infestano le pendici meridionali del Monte Capraro.
Era l'inizio della primavera, quando a fine aprile il verde tenue delle nuove foglie dei faggi cominciava a tingere gli alberi di un colore smagliante che contrastava col verde cupo dei pini neri e col biancore degli ultimi nevai, e lì a sud, tra le schegge del bianco calcare dolomitico già spuntavano le macchie azzurre delle genziane dinariche. Superato il valico l'Orso bruno scese poi nel vallone impervio e ripido che porta alla Liscia, seguendo il nevaio che ne colmava l'alveo. La neve vi era stata ammucchiata dalle slavine che in inverno si staccavano dalle creste sradicando alberi, rotolando sassi, estirpando erba sprigionata dall'energia invisibile del calore del sole. Quell'inverno erano cadute di frequente le valanghe e avevano accumulato molta neve in strati compatti nei canaloni della Camosciara.
Più in basso la lingua del nevaio terminava trasformandosi in un torrentello di neve fusa che vi aveva scavato una fantastica galleria azzurra per il riverbero della luce che vi traspariva, e che più in basso rendeva impetuosa l'elegante cascata delle Ninfe. Lì il nevaio era tutto sporco di terra, di cespi d'erba e di foglie, tanto che quasi rimaneva mascherato sotto quello strato di materia organica che le valanghe si erano trascinate dietro e che si era concentrata con lo sciogliere della neve.
L'Orso bruno si aggirò rovistando con gli unghioni entro lo strato di terriccio, ma non trovò nulla di commestibile. Più tardi continuò a scendere spostandosi tra i dirupi e i pini neri, verso il selvaggio vallone della Selva Jancina.
ECHI DI PRIMAVERA
Da giorni nella valle s'udiva il canto del cuculo, e anche nei boschi, lungo le creste, le prime foglie degli alberi erano apparse sui rami spingendo al suolo i minuscoli gusci che contenevano il getto verde; le macchie di terreno scoperto rinverdivano e si tingevano di scille, di gagee e di bianche distese di margherite; la neve scioglieva copiosa a gonfiare il Rio Torto ed il Lago Vivo.
Le chiazze dei nevai erano sparite o si erano sempre più ridotte, e solo nella Valle Lunga e nell'alta Valle Cupella perduravano ancora. Ma anche lassù i delicati petali dei crochi spuntavano già a migliaia a punteggiare il grigiore dei pascoli, spinti dalla loro precoce forza vegetativa, e alcuni irrompevano anche dalla neve nel bisogno di luce e di sole.
Nell'immoto specchio del lago le montagne si stagliavano come una frastagliata fascia scura dominata dall'irta cima del Tartaro. L'Orso bruno pascolava allora nel coppo sopra la sorgente, dove una distesa di cicoria selvatica aveva il sopravvento sull'altra vegetazione.
Quando con l'aurora la luce rossastra del sole nascente cominciò a tingere le montagne sull'azzurra stesa del lago, l'Orso bruno si allontanò verso la boscosa bassura del Serrone tormentata di rupi calcaree.
* * *
I cinque lupi si aggiravano seguendo le piste di un cervo solitario, un vecchio maschio che era salito lassù dalla Costa dei Monaci dove aveva lasciato il branco per andare a brucare le erbe tenere dietro la linea di scioglimento dei nevai.
Quando i predoni incontrarono il grosso cervo, questi pascolava nelle conche sopra Lo Stazzo; lo assalirono senza indugio, ma l'animale aveva fiutato la loro presenza e scattò sui garretti, veloce, irrompendo nel bosco sulle pendici dello Jamiccio, verso la grande dolina del Campo e la selvosa zona del Coppo Oscuro dove il sottobosco era fitto d'aceri e di sorbi novelli.
I lupi lo accerchiarono e lo bloccarono ai bordi della dolina, e a nulla valse la sua possanza e lo scalciare scattante. Aveva perso da poco le ampie pericolose corna e ora solo due teneri gonfi spuntoni adornavano la sua testa. Lo assalirono da ogni parte, famelici, terribili nella loro bramosia di uccidere, mordendolo con furia alle gambe, nella pancia, al muso, al collo. Il cervo si difese scornando impotente, per istinto, ma fu vano ogni sua azione. Ferito, stremato, ben presto si fece atterrare dalla forza brutale e dal peso di un grosso lupo maschio che lo aveva afferrato saldamente alle cosce. Cadde tra gli spasmi e il suo lungo bramito di terrore gli venne mozzato subito dal morso preciso di un secondo lupo che lo afferrò alla gola con strappi violenti.
I cinque lupi continuarono poi a cibarsi saltuariamente della carcassa per altri due giorni prima di abbandonare la zona.
Le nevi si erano sciolte anche nei boschi, ma cumuli sporchi restavano ancora nel fondo dei valloni e nelle conche riparate, a nord delle cime più alte. Sulla pendice che sale dolce verso la Monna Tasseta i faggi esponevano le loro fronde ai venti che risalivano la Vallelonga, frusciando nei boschi primaverili ancora muti del Vallone Ciafassa; e saliva, la brezza, fino ai pascoli alti del Lacerno, irti di sassi vecchi di millenni nei quali antichi abitatori del mare avevano lasciato le loro spoglie come incise sulla pietra.
Tra il muschio folto che rivestiva una parete di rupi che sale verso la cresta sopra la Monna, ricoperta di ginepri in alto, uno scricciolo stava costruendo il nido ammassando crini e piume minute tra la roccia e lo spesso strato di muschio. Il minuscolo uccello aveva sollevato e staccato come fosse una coperta la folta coltre verde, insinuandosi al di sotto. Dopo pochi giorni una strana protuberanza si notava sulla stesa del muschio; vi si accedeva da un foro tondo, simile a quello di un nido di moscardino.
In quel luogo una femmina grigia di scricciolo stava allora deponendo le uova, mentre il maschio cantava con limpide cascatelle di note aggirandosi nella pietraia che dai piedi della rupe scendeva nella foresta, quasi invisibile tra i tronchi sfatti di alberi morti e tra cespugli di ramno e di lonicera.
* * *
Intenso come il profumo della dafne che fioriva in quei giorni, gli giunse alle nari uno strano odore proveniente dalla vicina radura del Campo, e l'Orso bruno si fermò ad annusare più volte il vento. Era odore di carne, carne in putrefazione. Dalla radura il vento portava anche lo schiamazzare di cornacchie. L'Orso bruno cambiò direzione al suo andare, per seguire la pesta.
Sui bordi della dolina, un catino naturale ampio e profondo e senz'alberi, nel cui fondo persisteva un ampio nevaio, striato per uno strano fenomeno di fusione, l'Orso bruno trovò i miseri resti di un cervo ucciso dai lupi qualche giorno prima. Il fetore della carne putrefatta veniva spinto lontano dal vento. Attorno un reticolo di orme di volpi e di cornacchie ricamavano il nevaio; ossa spolpate e peli stavano sparsi in un largo raggio; le cornacchie grigie banchettavano riuscendo ancora a strappare lembi di carne dalla carcassa.
L'Orso bruno si avvicinò ai pochi resti del cervo tra uno svolazzare e gridare irato di cornacchie; annusò attorno come a cercare le parti migliori, e le trovò dove la neve sporca degli umori della carcassa era pesta per le orme e il rotolio dei lupi che lì avevano fatto scempio dell'animale. Anch'esso strappò qualcosa di ciò che restava, ben poca roba, rovistando e staccando le ossa con gli unghioni.
Quando cessò ogni interesse alimentare, prima di lasciare il luogo raspò neve e terriccio sulla carcassa, cercando di mascherarne i resti, spinto da un istinto atavico che gli diceva di celarli contro la voracità di altri animali.
* * *
Bevve e cercò le piante verdi sui lati del ruscello dove fiorivano gli anemoni; lì la finocchiella cominciava a crescere. Lasciò poi la riva per seguire un sentiero verso valle, ma dopo un tratto mutò idea, deviò verso destra nel bosco tra i dirupi. Cercò sotto gli alberi i resti della faggiola caduta l'autunno precedente: ne trovò, semi umidi, fracidi, ma ancora saporiti, alcuni già in germoglio a contatto col terreno, e se ne cibò.
L'Orso bruno risalì poi verso la cresta dei Mortari nel bosco rotto da rocce e canaloni. Sentì più volte il rumoreggiare dei camosci. Li sentì correre in rotolii di frasche e di pietre lungo la montagna impervia.
Alla Selva Bella cercò una tana che sapeva nascosta nell'ombra dei martoriati pini neri che svettavano sulle rupi, tra i mughi intricati e il novellame di faggio e di sorbo; la trovò e vi si nascose a riposare, mentre il giorno prendeva il sopravvento sulla notte.
* * *
Scivolò sulle ali seguendo la forza del vento che discendeva l'aspra vallata. Andava veloce, così, veloce e senza sforzo, trascinato dalla corrente che dopo aver spazzato le cime si incuneava nella gola rumoreggiando tra gli alberi e strappando loro i miseri rami morti che le fronde più grandi avevano soffocato rubando loro la luce; la corrente d'aria trasportava quell'essere vivo come una foglia o come i semi dell'acero in autunno, ma, al contrario, non ne condizionava il volo.
Il falcone arrivò all'altezza delle alte e scoscese pareti e lì abbandonò la scia vorticosa per salire repentinamente in alto con una grande spirale. Gridò alcune volte di lassù, mentre il suo sguardo acuto scrutava il nido su una cengia, mascherato da ginepri contorti e rinsecchiti; vide i piccoli falchi già coperti di piume scure. Chiamò ancora alcune volte per segnalare la sua presenza, poi tornò a scivolare in una lunga parabola concava verso il nido. Negli artigli stringeva una coturnice inerte, con le penne arruffate e sporche di sangue là dove le unghie taglienti e forti del rapace l'avevano colpita a metà del suo volo.
Lo sguardo fiero, la carne stretta tra gli artigli, il pellegrino fissò i quattro nidiacei agitarsi per il suo giungere sulla cengia. Sventrò e spennò a colpi di becco la coturnice, e la distribuì ai nidiacei che la divorarono aspettando quieti il proprio turno.
Più tardi comparve anche il maschio del falco pellegrino, senza preda, e la femmina lo raggiunse nella scia del vento. Le loro grida di richiamo si fusero con quelle dei piccoli dalla parete, poi, alte sulla corrente invisibile, le loro nere figure a delta risalirono la valle e andarono a posarsi sulla cresta spazzata dal vento.
* * *
Il clima si era mitigato. La faggeta era tornata viva e verde, tiepidi i raggi del sole sulle radure colorate ovunque dai crochi.
Nella foresta sotto le rupi un rampichino stava nidificando in un troncone di faggio, tra la spessa corteccia muschiosa e il legno morto, in un luogo precario che poteva durare forse ancora una o due stagioni prima che il deperimento facesse franare qull'inconsistente copertura. Il maschio si sentiva chiamare in sordina lì attorno, vigile, minuscolo e mimetico lungo i tronchi, nella monotonia del canto dei fringuelli esteso a tutta la foresta. I due orsacchiotti erano estremamente vispi quel giorno, nella tana in fondo alla Serra.
Quando l'Orsa lasciò quel luogo verso l'imbrunire, per scendere a pascolare nella valle, i due cuccioli vollero seguirla; tentarono di farlo, ma la paura dell'incognito li pervase a poche decine di metri dalla tana, poi a finire di spaventarli pensò l'Orsa, che voltatasi, rudemente li cacciò indietro soffiando irata verso di loro. I due piccoli corsero nella tana e dal suo imbocco osservarono curiosi e timorosi l'andare della genitrice attraverso gli alberi, fino a che sparve; sentirono poi ancora per un poco il rumore dei suoi passi e il rotolare di pietre smosse lungo la china, poi tutto tacque e scese anche il buio a rendere ancora più pauroso quel vuoto davanti alla tana. I due cuccioli si ritirarono vagendo in fondo alla cavità, e si rannicchiarono a dormire, affiancati come d'abitudine. L'Orsa sarebbe tornata solo molte ore dopo, quasi verso l'alba.
* * *
Il piccolo uccello bianco e nero svolazzava insistente attorno al tronco di un faggio frondoso sulle pendici del Colle dell'Inferno, sotto il Monte Pagano. Frugava nelle crepe più larghe, entrava nelle spaccature e nei cavi, ne usciva e tornava ad entrare. Cercò su altri alberi, e su altri ancora, esplorando cavità e fenditure; infine, alla metà di un tronco rossastro d'acero rugoso e rinsecchito, quasi morto se non per alcuni germogli verdi che spuntavano dai rami più vigorosi, trovò una cavità con un'entrata rotonda, giusta della sua misura e l'interno profondo e asciutto. Vi entrò e riuscì come altre volte, poi rientrò e vi stette più a lungo; quando uscì portava nel becco frammenti di legno morto, e poi così fece altre volte. La balia dal collare aveva infine trovato il luogo dove nidificare anche quella primavera, utilizzando un vecchio nido di picchio muratore.
Nei giorni seguenti venne anche il maschio ad aiutarla nell'incombenza di ripulire l'incavo del putridume e di rivestirlo poi di fili d'erba, piume e di peli d'animali trovati nel bosco con una perizia solo loro e di altri del loro mondo alato in quella stagione d'echi primaverili.
* * *
Nel cielo azzurro e limpido, velato dalla notte che si approssimava, volavano alti i rondoni, lanciando grida stridule che risuonavano fino in fondo alle valli che chiudono a raggera i Prati d'Agro. Sul pero selvatico il gufo comune gridò alla notte che avanzava, poi si librò con soffice volo verso il fondo dei prati; la femmina si acquattò ancor più nel vecchio nido di una cornacchia.
Quando il sole cessò di lanciare i suoi raggi attraverso la cortina d'alberi che riparavano l'Orso bruno adagiato nel suo giaciglio, istintivamente l'animale si destò.
I milioni di piccoli bruchi che durante il giorno rosicchiavano le foglie tenere dei faggi smisero il loro lavorio continuo, e l'invisibile cascata dei minuscoli resti che espellevano cessò di cadere al suolo. Col calare del sole dietro la cresta della Schiena d'Asino, anche il ronzare delle mosche e degli insetti che rumoreggiavano nel sottobosco si affievolì. Le sere erano ancora fredde e il mutare della temperatura e il buio li immobilizzavano nei loro nascondigli sotto le foglie morte e tra i licheni sui tronchi e sui rami degli alberi. La minuta vita diurna della foresta sembrò spegnersi col tramontare del sole, in attesa di una nuova alba.
L'Orso bruno si sollevò dal giaciglio provvisorio nel bosco giovane di faggio e sbadigliò; poi si sedette e si grattò con forza dietro il collo con le zampe posteriori; sbadigliò ancora, annusò attorno, si risollevò e infine si mosse a scendere dal Vallone Acquaro verso i Prati d'Agro. Si inoltrò sicuro sull'ampio pascolo chiuso tra le montagne boscose.
Il sole era ormai un disco rosso tra le brume dell'orizzonte lontano e allungava le ombre delle montagne a coprire le vallate. Anche sui prati ogni piccolo dosso ebbe per una volta al giorno la sua ombra, e tra queste l'ombra viva dell'Orso bruno si muoveva strisciando sulle ondulazioni del terreno diretta alle pendici del Marcolano, e poi oltre, al Camposecco.
Sentiva uno strano ardore bruciargli dentro ed uno strano richiamo lo spingeva lassù. L'istinto ancestrale della sua specie lo spronava ad andare in uno dei luoghi dove già altri anni era stato in quella stessa stagione, per lo stesso motivo ovunque si trovasse ogni trascorrere di primavera. L'estro amoroso lo spingeva a cercare una compagna e l'Orso bruno tornava in uno dei posti dove si era accoppiato negli anni passati.
* * *
I cespugli del ramno si erano già caricati di mille corolle verdognole, quasi confuse col colore pallido delle foglie giunte da poco al loro completo sviluppo, e il loro tenue profumo saliva a fondersi con quello che emanava dai pascoli e che sembrava alzarsi dalla terra come una nebbia invisibile che salisse attratta dai raggi del sole.
Al Coppo del Principe, in una cavità nella parte più alta del tronco di un acero che da centinaia di anni svettava in quella remota conca montana erano schiuse le cinque candide uova che la femmina del picchio rosso minore aveva depositato in aprile.
L'Orso bruno salì da Cesacrivello e giunse ai piedi dell'albero che il sole era alto; si aggirò nel coppo tra il ramno, cercando il finocchio selvatico e i germogli teneri dell'acetosella. Sul limitare della foresta il maschio del picchio rosso cominciò a gridare allarmato. In risposta alla sua nota squillante giunse la femmina, che meno timorosa volò all'acero e a balzi salì il tronco verso il nido, unendo il suo gridare a quello del maschio.
L'Orso bruno continuava a pascolare quieto, con lenti movimenti, indifferente a quegli esseri minuti; così la paura dei due uccelli scemò. La femmina cessò il suo affannoso gridare e si introdusse nel nido scatenando il pigolare dei nidiacei affamati. Anche il maschio si acquietò, e si udì picchiettare poi sul legno morto di un albero.
Quando i due uccelli si allontanarono sparendo nella faggeta in cerca di altre larve, l'Orso bruno smise bruscamente di mangiare, come se solo allora si fosse accorto che ormai da diverse ore il giorno era giunto a schiarire la terra; con decisione si allontanò attraversando dense macchie di ramno e coppi ammantati di ortiche e spinaci selvatici, verso il piccolo valico sotto il Balzo Travagliuso. Lo superò e discese nell'altra valle. In fondo al Coppo del Principe il picchio rosso martellava ancora insistente la cima di un faggio.
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Era tornato il sole, a battere caldo sulle rupi delle creste tra il Boccanera ed il Capraro. Nella scarna vegetazione pioniera di quelle quote i garofani selvatici e le viole, le genziane azzurre e le piante degli adenostili tornarono ad aprire le corolle e a farsi toccare dalla luce, ancora grondanti l'acqua di rugiada. Sotto le rupi e tra le crepe le pendule campanule, i gialli doronici e le primule auricole ripresero vita, mentre un gocciolio nascosto ma continuo manteneva umide le loro radici.
Sul pascolo apparvero i codirossi, i culbianchi e gli spioncelli, indaffarati a cercare insetti per sfamare i piccoli che attendevano nei nidi tra i sassi e sotto le zolle erbose.
I gracchi volavano già alti, a decine, con ampi giri, virate improvvise, in sintonia, obbedendo ad un ordine che nessuno lanciava.
Poi l'aquila apparve, veniva alla volta del Boccanera dalle cime aspre dei Tre Mortari, seguendo la linea dei monti, scura contro l'azzurro. Volò sulla montagna scrutando tra i dirupi con i suoi occhi vigili. Sapeva cosa cercava. Era quella la stagione. Gli altri anni aveva predato lassù e sul Monte Amaro.
Girò e girò abbassandosi quasi a sfiorare la cresta. Vide i camosci agitarsi tra le rocce, e vide i piccoli muoversi tra gli adulti, ma nessuna opportunità di colpire; proseguì superando la Valle Iannaghera verso il Monte Jamiccio e il Petroso.
* * *
Nel silenzio del mattino il canto delle allodole, dei prispoloni e dei saltimpali aumentò gradualmente dai pascoli arborati; nei boschi si destarono i luì ed i rampichini, e dalle cime più alte dei faggi sporgenti sulla radura si udiva dall'alba il canto di una tordela; lontano altri canti facevano eco sulla foresta: il mondo tornava a vivere la sua fase diurna. Tra le creature della notte solo le volpi cacciavano ancora, e non smisero se non per brevi riposi; però abbandonarono le zone aperte e si dispersero nei boschi.
Quando più tardi i raggi del sole superarono la cortina d'alberi e si affacciarono sulla radura di Camposecco rovesciandovi luce vivida e tepore, due poiane volteggiavano basse tra il bosco e il pascolo, dove l'Orso bruno sollevò il capo dall'erba umida.
Anche il brusio del minuscolo mondo dei prati si ridestò col calore del sole; la rugiada evaporava e si schiusero i fiori. I bombi e i piccoli calabroni gialli cominciarono il loro ronzio passando di corolla in corolla, imitati dal muto onnipresente volo delle farfalle e delle zigene.
Al muoversi dell'Orso bruno dall'erba schizzavano le cavallette, mimetiche, grigie come le pietre; ma vampate rosse gli esplodevano dalle ali nell'attimo del volo. Il loro stridore era ovunque nella radura.
Le formiche si affaticavano; ogni palmo di terra era setacciato, esplorato e ripulito di tutti gli organismi commestibili, e le tante varietà di mosche tornarono a tormentare l'Orso bruno, come ogni giorno.
L'Orso aveva pascolato per buona parte della notte e catturato piccoli coleotteri neri sotto i sassi; poi il richiamo incoscio lo riprese, l'istinto di amare, come avviene per tutte le creature della terra, lo sconvolse nuovamente, facendo scemare in lui l'interesse per il cibo. Osservò come attonito la radura; si aggirò senza meta nell'erba alta e umida, fino a che sentì qualcosa nell'aria, qualcosa di indefinibile ma tanto chiaro per il suo istinto primitivo, e con decisione si addentrò nella foresta.
Un tubare di colombacci giungeva a tratti da un luogo lontano, cupo sullo stridore senza fine dei fringuelli.
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Camporotondo era tutto in fiore, la distesa di viole calcarate aveva tinto di giallo le dolci ondulazioni del tormentato terreno carsico.
Le prime viole erano spuntate in aprile, quando ancora nelle doline più profonde stagnavano piccoli nevai e tra gli steli d'erba appassiti e ormai fusi con la terra, spuntavano ovunque i rosati calici dei crochi. Col passare dei giorni la cotica erbosa si era rinverdita di nuove piante e ai crochi si erano uniti i bucaneve sui bordi della radura, e più minuscole fioriture di scille e di gagee. Poi i crochi erano appassiti afflosciando i calici sulla terra bruna, ovunque smossa dalle talpe e dalle arvicole. Allora era tornato il cuculo e far udire il suo verso melanconico nelle faggete dell'altopiano, mentre gli echi dei colombacci e dei tordi da tempo rompevano il silenzio delle foreste. Sulla radura apparvero i codirossi e i codirossoni, ed erano spuntate a milioni le viole gialle e azzurre, assieme agli sterminati minuscoli calici dei non-ti-scordar-di-mé e agli azzurri campanellini dei muscai. Solo allora vennero le pispole e gli spioncelli a ravvivare Camporotondo di voli nuziali. Intanto nella foresta milioni di piccoli bruchi divoravano le foglie tenere dei faggi, e la vegetatività degli alberi più assaliti subì un arresto quell'anno; poi altre foglie spuntarono pallide sotto la possente spinta della linfa; per sopravvivere, l'esigenza degli alberi di assorbire la luce dalle loro pagine tardive aveva il sopravvento.
Era la fine di maggio a Camporotondo.
* * *
La camoscia sgravata stava nascosta nell'ombra di una rupe sotto le balze dello Sterpi d'Alto. Spingeva il piccolo contro la roccia per evitare che cadesse nel vuoto, ancora inesperto del camminare, e lo leccava amorevolmente pulendolo dall'umidità appiccicosa che lo bagnava tutto e che era il liquido del suo ventre.
Il piccolo camoscio era nato poco prima, mentre un temporale imperversava sulla montagna, buia sotto la cappa uggiosa delle nubi grevi d'acqua. Era stato doloroso per quella femmina al suo primo parto. Quando il temporale si era annunziato con un forte vento che saliva dalla Val Canneto, portando avanti il mantello cupo delle nubi e le prime gocce pesanti, essa sentì che era giunto il momento del parto. Si intimorì, capì d'essere sola, seppure là in mezzo al branco che ruminava quieto quasi attendendo la pioggia; nessuna delle altre femmine sentì il panico che la colse. Spinta dall'istinto scese le rupi verso la Valle dello Scerto; sotto la vetta dello Sterpi d'Alto trovò tra i mughi una cengia ampia e riparata dal vento che veniva da Sud, umido di pioggia fredda, e lì si adagiò stremata. Gemette alcune volte, lieve, quasi a sfogare il dolore, tremò e si agitò.
I lampi squarciarono l'ombra buia del temporale; i tuoni echeggiarono a lungo tra le cime, e l'acqua cadde a rovesci con impeto violento. Quando tornò il sole, accanto alla camoscia c'era un piccolo essere bagnato che belava impaurito, spaventato per la prima volta nella sua vita che iniziava. Sulle stesse montagne altri ne erano già nati, ed altri ne nacquero ancora nei giorni che vennero.
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Nel bosco scarno sulla assolata pendice del Monte Calvo, un ammasso di piccoli fragili rametti spiccava nitido contro il tronco del faggio, in alto, sotto la verde cappa delle foglie; minuscole e morbide piume ne rivestivano la conca e si intravedevano chiare nell'ammasso intricato dei rami.
Le quattro uova bianche screziate di bruno erano ancora calde quando la femmina dello sparviero giunse silenziosa tra gli alberi per adagiarvisi a coprirle e proseguire la cova che durava ormai da dieci giorni. Poco lontano, su un altro faggio, una tordela ignorava la sua nemica tanto vicina, e covava anch'essa le sue piccole uova nel nido d'erba e di terra.
L'Orso bruno passò tra gli alberi come un'ombra, seguito dagli occhi vigili dei due uccelli abbassatisi sui nidi. Poi anche il rumore dei suoi passi cessò, e il luogo tornò al silenzio e al vuoto apparente di vita.
AROMI D'ERBE
Sbucò dal bosco dove gli ultimi alberi radi delimitavano la radura. Di là l'Orso bruno dominava tutta l'antica conca glaciale del Coppo. L'erba era folta e profumata, ogni specie era in fiore, le corolle sbocciavano ovunque in quel mese che iniziava l'estate, favorite dalle piogge della primavera che finiva; e appassivano, e altre ne fiorivano in un ciclo che si sarebbe spento coi giorni torridi di luglio.
Verso la cresta che sovrastava il luogo, i balestrucci e i rondoni intrecciavano voli eleganti, scivolando sulle correnti ascensionali, sfruttando ogni spostamento d'aria per evitare battiti d'ala; sbucavano dal nulla ogni alba d'estate col sorgere del sole, come folletti creati dalla luce. Andavano e venivano in continuazione, tenendo vivo il cielo. Alcuni scendevano a sfiorare il declivio del pascolo fin giù dove si univa alla radura; passavano bassi, quasi a toccare le erbe, afferrando col largo becco i moscerini che il calore faceva sollevare in volo sui prati.
L'Orso bruno scrutò con i suoi piccoli occhi scuri in fondo alla radura, nella distesa violacea dei cardi selvatici in fiore che infestavano il centro della dolina; tra l'erba alta si intricavano rami e tronchi d'alberi trascinati là in inverno dalle slavine. C'era quiete; un brusio d'insetti, e radi i canti degli spioncelli attenti ai nidi nascosti tra le erbe. Eppure il grande Orso bruno sentiva la presenza di un altro Orso; l'istinto sessuale gli diceva che aveva trovato una femmina, anche se i suoi occhi non la vedevano e le sue orecchie non la sentivano. Annusò forte l'aria e sbuffò, scendendo nella radura fendendo l'erba alta. A tratti si fermava ed alzava il capo in alto annusando con sempre maggiore insistenza. Incontrò nell'erba le tracce del passaggio di un altro Orso, trovò i gambi mangiati dei sedani dei prati, trovò escrementi e sentì odore di urina: era femmina. L'Orso bruno sbuffò ancora con eccitazione nell'annusare le esalazioni, e la femmina apparve improvvisa là dove prima non c'era che il tronco di un faggio caduto.
Più piccola del maschio e di colore più chiaro, biancastra sul muso e grigia lungo i fianchi, spaventata, la femmina si sollevò ritta sulle zampe posteriori, grugnendo e soffiando anch'essa, a sua volta eccitata, ma dalla paura per la comparsa del grande maschio nero, fissandolo mentre camminava verso di lei. L'Orso bruno ora avanzava con passo lento, guardingo, il pelo che ondeggiava cangiante lungo il filo della schiena. La femmina si abbassò sulle quattro zampe, aggirò il tronco e si diresse verso di lui, ora più quieta. L'estro sessuale da qualche giorno aveva preso anche lei, e anche lei come l'Orso bruno cercava istintivamente un compagno. I due orsi si avvicinarono fino al contatto fisico e si annusarono l'un l'altro a lungo, ovunque, sul muso e poi per tutto il corpo, mentre lentamente l'eccitazione e la paura di entrambi si affievolì fino a placarsi.
Dopo l'incontro la femmina si allontanò nel bosco, perché il sole era ormai alto. Il maschio non l'abbandonò, né lei lo cacciò. Le notti che seguirono tornarono a pascolare nella radura del Coppo, e se la femmina ignorava il compagno questi non la lasciava mai, mangiucchiando qua e là solo il sedano dei prati, ma sempre all'erta ai movimenti di lei. Le si avvicinava spesso, le sfiorava i fianchi, fingeva di aggredirla facendo alternare momenti di eccitazione insostenibili durante i quali diveniva aggressivo e suscitava la sua ribellione violenta, a momenti di calma e quasi di indifferenza.
Vissero così per diversi giorni, spostandosi a volte nella foresta e scendendo fino alla fonte della Fossa Perrone a bere, per poi risalire sempre all'odoroso pascolo del Coppo o al Camposecco.
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Sulla cengia il piccolo camoscio cercava di alzarsi sulle gambe. Doveva essere il suo primo atto, il primo per poter poi sopravvivere alle continue insidie della montagna. Dopo avrebbe mangiato, poppando il latte caldo e nutriente delle mammelle gonfie della camoscia. Il camoscetto sollevò il posteriore con uno sforzo e spinto dal muso della madre si trovò in piedi, brancolante su quei trampoli insicuri che ancora erano le sue lunghe esili gambe, ma si mosse. Istintivamente cercò subito sotto il ventre della madre le mammelle turgide di latte. Tastò più volte per trovarle: prima doveva imparare dove fossero. Cercò tra le gambe anteriori, sotto il ventre, dando testate a caso che la camoscia accusava con piacere, poi la sua bocca avida trovò un capezzolo e il minuscolo codino del camoscetto cominciò a dimenarsi velocemente in un frenetico ritmo di felicità profonda. Poppò, poppò fino a che la camoscia si mosse bruscamente interrompendolo. Doveva lasciare la cengia, farlo camminare subito, insegnargli a correre tra le rocce e sui declivi, altrimenti sarebbe stato presto preda del lupo o dell'aquila.
Il piccolo si incamminò subito dietro la camoscia, prima piano, indeciso, poi a balzi rigidi, verso l'alto; belava sommesso, spaventato da quell'altra novità, ma seguì la figura rassicurante della madre. Traballante sulle lunghe gambe salì le chine erbose e i canaloni, seguendone l'ombra. La camoscia lo aspettava a tratti, lo accompagnava, lasciava che ne sentisse la presenza poi si riallontanava.
Lì le rupi precipitavano in ombra, in faccia al settentrione, fessurizzate ed umide, e dalle screpolature pendevano a cespi le primule auricole. Quando giunsero in cima all'erta, sulla cresta dove il sole batteva caldo e dove era rimasto il branco, il piccolo già sapeva correre tra i dirupi e aveva imparato a seguire ovunque la madre e a fidarsi del suo andare.
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Era venuto dalla valle durante la notte e alle prime luci dell'alba stava pascolando poco distante da una mandria di cavalli lasciati bradi nella parte meridionale della Terradegna.
Col sole la radura prima cupa e appiattita dal buio, scura nelle doline, con i colori dei fiori spenti, sembrò destarsi dal silenzio e dalla piatta uniformità di forme e colori. Gli uccelli dei prati ricominciarono a cantare e a sollevarsi nel cielo lanciando cascatelle di note nell'aria limpida e ancora fresca; i fiori si aprirono piano, a mano a mano che la luce li raggiungeva e li scaldava; infinitesime particelle di polline si spandevano in effluvi dominati da quello intensissimo del fior di stecco. E i dossi e le conche carsiche presero la loro forma ondulata, tormentata di pietre grandi e piccole.
Le ombre dei faggi, alti sui lati della radura verso la Serra, si proiettarono lunghe sul pascolo, e da quell'ombra sbucò un altro Orso. I cavalli bradi non lo videro. L'Orso bruno lo sentì ma non se ne curò.
Più tardi il volo di una poiana che gridava sul limitare della foresta sembrò destare l'Orso bruno dal suo pascolare nel trifoglio di un coppo; alzò il muso e annusò il vento; sentì ancora la presenza dell'altro e dei cavalli, quieti poco lontano. Il giorno era avanzato, la luce era intensa, intenso il profumo dell'aria e caldi i raggi del sole. L'Orso bruno si incamminò verso la valle; attraversò la radura e penetrò la foresta: lento risalì le pendici verso il suo ricovero ombrato da alberi di faggio e d'acero montano, tra massi e rupi aperte in una miriade di fessure dall'azione erosiva delle acque e rivestite di aromatiche macchie di geranio selvatico.
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Nel Fosso di Ciccio, tra i rami dei pini neri uno scoiattolo rosicchiava lesto una pigna roteandola tra le zampe; al suolo cadevano le piccole schegge di legno che l'animale staccava per cercare i pinoli. Apparendo improvvisa da un ramo vicino la martora balzò contro il roditore, e mancò la presa: cadde, si aggrappò ai rami sottostanti e risalì veloce in alto lungo il tronco; ma lo scoiattolo non c'era più; stava fuggendo, macchia scura che rotolava viva, d'albero in albero, sulla cresta irta di pini.
La martora tornò a nascondersi tra i rami folti. Nel silenzio che cadde il lieve rumore del battere al suolo di altre schegge di legno si udiva giungere da poco lontano.
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Una notte nella radura apparve un secondo maschio. Più piccolo e di colore meno scuro. Si fermò annusando innanzi a sé, sentendo l'odore della femmina ma anche quello dell'altro maschio. L'Orso bruno non accettò quella presenza; col pelo irto sulla groppa e lo sguardo torvo, sbuffò e corse incontro al giovane intruso. Si scontrarono con violenza, irosi; le fauci mordevano il folto pelo strappandolo a grossi ciuffi, e le grandi zampe vibravano colpi sui fianchi e sul muso. Ferite sanguinanti si aprirono sulle parti più vulnerabili della testa, dove gli unghioni giungevano più facilmente alla pelle. Le lepri che al chiarore della luna stavano pascolando ai bordi della conca scattarono via veloci perdendosi nel bosco, e gli uccelli notturni smisero di cacciare. Il frastuono della lotta annullò ogni altro segno di vita e ruppe violentemente la quieta della notte. Soltanto le lucciole continuarono a volare sul pascolo, piccoli punti di luce intermittente. Anche la femmina d'Orso si spaventò, e si allontanò verso il fondo della radura.
La lotta durò poco; il giovane maschio accettò subito la supremazia dell'altro e abbandonò il posto con una fuga veloce, tallonato dal grosso maschio vincitore ancora teso per l'eccitazione, superò la cortina degli alberi in un rovinare rumoroso di fogliame e se ne andò.
Il grande maschio nero fermò la sua corsa sul limitare della conca erbosa, poi si voltò e tornò a correre, ma verso la femmina. Dopo la lotta lo assalì la bramosia sessuale. L'orsa lo accolse timorosa, ma accettò le sue effusioni per un desiderio istintivo di essere sfiorata, un desiderio sempre più vivo che aumentò col passare dei giorni. E il cibo perse interesse anche per lei in quel periodo.
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I picchi rossi tornarono spesso al nido sul grande albero in fondo al coppo. Poi un giorno i nidiacei si arrampicarono all'entrata dell'incavo, come a turno già facevano per ricevere l'imbeccata, e uscirono fuori continuando a tenersi aggrappati al tronco con le minuscole unghie. Obbedendo ad uno stimolo innato, superarono la soglia della loro nicchia natia e si trovarono così all'aperto, intimoriti dal mondo esterno che prima era solo una visione sempre uguale oltre il foro della cavità dove erano nati.
Da quel giorno i genitori li imbeccarono cercandoli tra i rami e lungo il tronco, fino a che lo stesso stimolo che li attirò fuori dal nido li spinse a tentare il volo verso altri alberi e poi su altri alberi ancora, sempre più sicuri, seguendo i genitori nella loro continua ricerca del cibo, e, imitandoli, impararono presto a vivere e a sopravvivere.
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Gli approcci del maschio divennero più insistenti. La femmina cominciò a non scacciarlo più con tanta frequenza; cominciò anche lei a mordergli le orecchie e il collo, a leccargli il muso, a lottare come un cucciolo con lui nell'erba della radura e nel sottobosco. Poi una sera, poco prima che il mantello della notte si stendesse completamente sulle montagne, la femmina si concesse all'Orso bruno; si concesse una volta, due volte e poi ancora e ancora nella notte, ormai completamente avvinta dall'estro sessuale.
Trascorsero così diversi giorni e altre notti; si accoppiarono altre volte, poi il loro eccitamento scemò velocemente, fino a cessare del tutto.
Quando il grande Orso bruno prese la via verso i boschi della Selva Piana abbandonando la zona del Coppo e la femmina, questa era ormai fecondata.
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La cerchia delle montagne spiccava nitida contro il cielo limpido e chiaro del tardo pomeriggio; il sole abbassandosi lento verso l'orizzonte allungava sempre più le ombre degli alberi sui bordi della radura. La femmina del tasso e i suoi quattro cuccioli striati di nero lasciarono la tana sulla pietrosa dorsale coperta d'alberi, e comparvero dall'ombra del bosco in una valletta tra le ondulazioni dei Colli Alti. Scesero ai terreni aperti ed incolti e si misero a scavare tra l'erba e i sassi alla ricerca di tuberi ed animaletti del suolo.
Con le piccole zampe da plantigradi scavavano la cotica erbosa costellandola di minuti fori circolari e rivoltavano le pietre, cercando ogni essere animale o vegetale per loro commestibile.
La sera si incupì col calare delle tenebre, e l'aria si inumidì allo scendere della temperatura che condensava il vapore sull'erba; i tassi continuarono a rovistare e ad annusare attorno, con brevi soste, sempre all'erta, perdendosi nella notte buia e senza luna.
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L'acqua scorreva rumoreggiando in una cascatella al centro del fiume, gonfiata dall'abbondanza primaverile. La freccia blu del martin pescatore si staccò da un ramo proteso sull'acqua, e con una secca nota di timore sparve a monte sopra la corrente.
In un punto della riva, tra il groviglio dei salici e delle ampie foglie del farfaro e dei petasites apparve la femmina di germano reale seguita da otto batuffoli gialli. Insicuri nell'ancheggiante camminare, gli anatroccoli la seguivano verso l'acqua del fiume; vi scesero e d'incanto si ressero a galleggiare; poi le gambette palmate si mossero ritmiche a combattere istintivamente la forza della corrente nell'ansa, e i pulcini dell'anatra si avviarono anche in quel liquido elemento dietro la madre.
Gli anatroccoli del germano reale erano nati in un nido tra il falasco di un piccolo stagno oltre la riva del fiume; lo stagno era tenuto vivo tutto l'anno da alcune sorgenti e chiuso tra alberi di salici e di pioppo. Lì, dove l'ululone viveva la sua misteriosa vita di piccolo essere grigio nella melma dello stagno, e dove solo di rado il suo vistoso ventre giallo lanciava specchi di colore a ravvivare la pozza d'acqua assieme ai guizzi dei tritoni e delle rane verdi, le uova del germano erano schiuse in un morbido strato di piume.
Dopo aver conosciuto lo stagno gli anatroccoli dovevano imparare a conoscere la corrente del fiume, dove poi più che altrove avrebbero trascorso i giorni cercando il cibo sul pelo dell'acqua e nella melma del fondo.
L'anatra discese il Sangro e li portò nel fiume chiuso tra il bosco sotto il Colle di Licco, a rovistare nelle acque basse lungo le sponde grigie di fango dove correvano le cutrettole tra le foglie tardive del farfaro.
* * *
La notte si avvicinava sempre più e già ombre scure chiazzavano i Colli Nascosti, dove macchie d'alberi e gruppi di rocce frastagliavano le colline. Non appena il sole sparve dietro le montagne i prati cominciarono a profumare aromi d'erbe notturni, inumiditi dalla rugiada che scendeva invisibile. Comparvero le prime stelle, nitide nel cielo ancora azzurro.
A tarda notte spuntò la luna, splendente di luce riflessa, e affievolì la luminosità delle stelle nel cielo ora nero. Il bianco chiarore si diffuse sulla terra ad illuminare la volpe acquattata nella parte più bassa della Valle Mancina, sotto il sentiero per il Monte Tranquillo. Si sentì un usignolo cantare dal folto dei biancospini da qualche parte nelle vallette, e continuò per ore a cantare nel silenzio, melodioso. Con volo ovattato giunse poi il succiacapre a caccia d'insetti, e anche il suo canto vibrò nella notte.
L'Orso bruno sbucò sulla zona di incolti venendo dalla Valle di Camporotondo dove aveva scavato i tuberi del pancacciolo fin dalla sera. Silenziosa la sua grossa figura apparve sulla collina. Nella valle aperta regnava la quiete; l'Orso bruno lo capì, e rassicurato prese a scendere verso i campi di Valle Mancina dove cresceva abbondante il soffione.
* * *
Col calore dal prato scaturì e salì diffuso un brusio: piccoli esseri iniziarono a muoversi e a vivere; mosche multiformi e ditteri, api e bombi e calabroni passavano ronzando; piccoli coleotteri si aggiravano al suolo nella loro selva di steli; minuscole formiche si indaffaravano senza posa cercando residui organici e sempre più rinforzando le barriere a difesa delle loro uova. Ragni silenziosi tornarono ad acquattarsi nel centro o ai bordi delle tele che il calore del sole stava rendendo nuovamente attive prosciugando le goccioline di umidità come imprigionate dai fili durante la notte. Grilli e cavallette frinivano ovunque in un eco continuo vicino o lontano. Piccole farfalle multicolori, quasi mimetiche nell'arcobaleno dei prati in fiore, si aggiravano aleggiando nella radura e sul pascolo. Accucciato nell'alta vegetazione un cerbiatto assaporava i primi tepori del mattino, mentre attorno le cappellacce e le allodole si alzavano alte a fondersi con l'immensa dimensione del cielo, per poi riscendere vibrando tra cascate di note lunghe ed armoniose nei luoghi delle femmine in cova.
Il sole scaldava la terra e il calore faceva sprigionare intensi profumi ed aromi d'erbe e di fiori che presto saturarono l'aria. Grandi vanesse si spostavano con lunghi voli sui prati, e dal bosco l'eco delle cicale non aveva fine con l'avanzare del giorno verso il meriggio.
Nella radura l'Orso bruno brucava la cicoria, dissetandosi infilando il muso nell'erba fresca e carica di rugiada, il ventre e i fianchi fracidi.
* * *
Da un'erta parete che scende obliqua nei canaloni sotto lo Sterpi d'Alto, tinta di striature nerastre dove un perenne gocciolio d'acqua scorre contro la pietra, la piccola sagoma bruna della rondine montana si librò lieve nell'aria profumata di resina, lasciandosi cadere dalla crepa nella roccia dove aveva il nido.
Una cresta di pini neri coronava in alto la rupe; vecchi alberi con tronchi profondamente fessurizzati e chiome ad ombrello appiattite dalle intemperie e dall'età. Fitti cespugli di pino mugo erano abbarbicati lì attorno, unendosi al verde dei pini neri in una scura macchia nel tenue verde delle foglie dei faggi.
La rondine montana ondeggiava nell'aria, sola e muta nel silenzio profondo ovattato dal continuo eco d'acque che saliva dall'impetuoso torrente più a valle. Poi dal nido si staccò un'altra minuscola cosa bruna e assieme si librarono in su e in giù lungo la rupe, intrecciando i voli, che rompevano al termine d'ogni ondulazione con fremiti d'ali, per ributtarsi in altri volteggi.
Cacciavano minuscoli e invisibili insetti alati, tornando spesso alla crepa, nel nido dove esseri implumi attendevano l'imbeccata nell'oscurità. In alto nubi bianche sfrangiate gettavano a tratti le loro pallide ombre sulle aspre giogaie dei Zappineti dove i due folleti bruni continuavano a passare e ripassare sotto la rupe che da anni avevano scelto a loro solitaria dimora.
* * *
Il frastuono del vento, il tuonare e lo scrosciare furioso della pioggia divennero un fragore assordante; l'alternarsi dei lampi e dei tuoni sembrò scatenare l'apocalisse sulla vallata. Il bosco taceva sotto quell'immane sferza della natura che dissetava la foresta. Anche i luoghi più nascosti del bosco grondavano d'acqua.
La pioggia, spento il suo impeto contro la massa verde dei rami e delle foglie degli alberi venne scaricata al suolo domata: lo strato di materia organica si saturò di umidità. I muschi e i licheni appassiti si imbevvero anch'essi e in un breve volgere di tempo assunsero tonalità di colore vivacissime; parvero tornare a nuova vita.
L'acqua, scorrendo sulle foglie morte del suolo si infiltrò sotto lo spesso strame vegetale in decomposizione e giunse al terreno. Bevvero le radici dei faggi, degli aceri, dei pini, dei sorbi, dei salici; bevvero l'erba e le pianticelle di sottobosco che tornarono a vegetare rigogliose; rifiorirono le dentarie e gli epilobi e le violacee coridalis. Nella lettiera del bosco apparvero abbondanti le sempre elusive salamandre gialle e nere, animali dei temporali e delle notti umide.
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Una coppia di luí gridava incessante e monotona sul bordo della foresta dove aveva il nido, celato al di sotto di una proda erbosa. L'Orso bruno, stanco del lungo vagare notturno, si sdraiò al sole; vicino e lontano s'udiva attorno il chiamare dei cuculi, come l'eco di uno stesso canto: i maschi cercavano le femmine e le femmine i nidi da usurpare. Al coro dei cuculi si univa il tubare sommesso e profondo dei colombacci, e l'ossessivo chiamare dei fringuelli. Cantavano gli zigoli sui bordi della radura e, in alto, i rondoni gridavano riempiendo il cielo.
L'odore muschioso e forte che si levava dalla pelle grassa dell'Orso bruno attirò nugoli di mosche ronzanti che incominciarono ad infastidirlo. L'Orso bruno le scacciava dal muso con scrolloni del capo. Poi il calore del sole aumentò e il plantigrado si sollevò di nuovo; attraversò la radura verso il bosco e scomparve tra gli alberi: il gridare dei luì cessò solo allora, e infine il maschio cantò dalla foresta, dove aveva seguito l'Orso bruno.
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Nel brecciaio grigio di sassi i cespugli di maggiociondolo spiccavano violenti di gialle fioriture che appesantivano i rami. Dalla parete il giovane falco pellegrino si buttò con incerto frenetico battere d'ali, sorvolò la distesa di chiome verdi del bosco che rivestiva la pendice, volteggiò e poi riscese ad altre asperità sulla parete, silenzioso, quasi timoroso del suo ardire, perché solo da pochi giorni aveva abbandonato la cengia dove era nato e cresciuto.
Il giovane falco si mise a gridare solo quando l'ombra dell'adulto si materializzò improvvisa nel cielo, più in alto, dove le rupi tornavano ad unirsi al bosco. E ripartì in volo girando in tondo sulla falesie. Anche l'adulto si librò in voli concentrici, e scese incontro al giovane pellegrino gridando forte e ripetutamente. Il giovane falco capì. Nell'aria immota i due rapaci intrecciarono i voli alcune volte, poi l'adulto tornò ad alzarsi e gettò improvviso la preda che fino ad allora aveva stretto forte negli artigli: una mesta figura di uccello cadde in volo disarticolato di preda senza vita. Subito il giovane falco mutò repentino il suo volo e si proiettò con gli artigli verso l'alto ad afferrare il cadere dell'essere inerte. Poi gridando continuò a volare in tondo sulla pendice prima di dirigersi a posarsi in un luogo tra le rupi a saziare la sua fame.
Dall'ombra scura del bosco tre ghiandaie uscirono schiamazzando, inseguendosi festose con lunghi voli planati verso il fondovalle, sfiorando le chiome degli alberi.
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La volpe camminava lesta e silenziosa seguendo il sentiero che andava alla radura. Aveva lasciato i suoi cuccioli nella profondità di una tana tra i conglomerati affioranti dei Colli Nascosti. Al limitare del bosco si fermò cauta, vigilando con tutti i sensi, poi riprese la sua strada trotterellando sotto la luna.
L'ampia radura carsica butterata di doline si estendeva verso la lontana linea della foresta, cupa d'ombre per le ondulazioni del pascolo. Nell'erba alta, leggermente umida e fragrante, la volpe scivolò fino ad un ampia conca; sentì sul fondo il muoversi di piccoli animali e si acquattò tra i sassi fissando innanzi a sé con le orecchie tese, poi con lenti movimenti tornò ad alzarsi e prese ad avanzare guardinga verso il centro dell'avvallamento dove diversi monticelli di terra smossa denotavano la presenza di una nutrita colonia di piccole arvicole. La volpe aveva udito i loro movimenti appena sotto il livello del suolo e scivolò avanti piano, cercando di individuare la presenza di una delle prede. Si fermò a qualche metro da uno dei monticelli e si accucciò. In alto la luna si stava lentamente spostando verso occidente senza cessare di illuminare fiocamente la terra. Una lieve brezza spazzò l'ampia radura e lontano si udirono stormire le fronde dei faggi.
La volpe stette immobile senza un minimo movimento, e così restò per oltre un'ora. Poi piano si sollevò, tesa, e scattò in un lungo balzo che la portò con le zampe anteriori sull'imbocco della tana. Infilò il muso nel mucchio di terra smossa quasi contemporaneamente alle zampe, con movimento frenetico, poi lo sollevò voltandosi rapida verso il bordo della dolina: tra le fauci stringeva una minuscola arvicola. La depose, ormai senza vita, accanto a sé e tornò ad acquattarsi in attesa, qualche metro più lontano, innanzi ad un altro nero foro d'entrata alle tane dei piccoli roditori.
Nel silenzio della notte nulla si era mosso sulla radura, e solo la brezza scivolava tra l'erba facendo tremolare gli steli più alti.
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Prima che cadesse il silenzio si udì lontano un gridare lamentoso d'allocco, quasi a suggellare la notte. La luce delle stelle si afflievolì mano a mano che il riverbero del sole si allargava a ventaglio nel cielo verso oriente; mentre le stelle si estinsero, il quarto dorato di una luna venne smorzato dall'irrompente luce che si stava propagando sulla terra e restò in cielo, pallido. Poi la quiete dell'aurora venne rotta dal canto di un merlo appollaiato tra i sorbi sotto il Morrone. In un punto attorno cantò un fringuello, e giunse un cuculo improvviso, con volo basso di falco: si tuffò nella faggeta e il suo monotono verso sembrò risvegliare la foresta.
Il sole apparve dietro la cresta della Montagna Grande e proiettò i suoi raggi sulla Valle di Terraegna e più lontano fino ad oltre l'orizzonte. Miliardi di goccioline di rugiada si accesero, si colorarono e sembrarono ingigantirsi mentre scivolavano lente lungo gli steli e i fili d'erba, stillavano dai petali delle viole, delle rose penduline e degli astralaghi. La vasta cappa azzurra del cielo e il verde dei pascoli e della foresta vennero racchiusi in quelle palline iridiscenti, che poi il sole col suo calore asciugò ad una ad una.
GIORNI D'ESTATE
I fiori del ramno, che preannunciavano una abbondante fruttificazione, stavano appassendo. Tra i cespugli avevano il nido i fanelli, e i maschi, dal rosso petto carminio, sorvegliavano il territorio dalle cime rinsecchite delle piante più alte. Nelle zone d'ombra a nord, le primule auricole, aggrappate con le radici alle crepe delle rocce, erano ancora fiorite, come le distese dei gerani selvatici che ricoprivano invadenti le infinite screpolature degli impervi terreni rocciosi frastagliati dall'erosione. Tra le pieghe di quei campi di rocce calcaree della Valle Lunga fiorivano gigli rossi e gigli martagoni, aquilegie, anemoni e campanule, achillee e sassifraghe, rigogliose per l'umidità che lì persisteva più che altrove. Ma l'Orso bruno non li degnò di importanza; cercava il pancacciolo in fiore, cercava i suoi tuberi, e ne trovò abbondanti nella parte più alta del pascolo sotto l'alta parete del Monte Tartaro e nella Valle dei Biscurri.
Scavava nel pascolo fragrante di erbe tenere dove i nevai primaverili avevano resistito fino a tardi prima di estinguersi; raspando con i forti unghioni delle zampe anteriori scalzava larghe fette di cotica erbosa, rovistava tra le radici e la terra bruna, e masticava i piccoli tuberi scartando i gambi e il bianco ombrello fiorito delle pianticelle.
Attorno, le grandi parnassio apollo svolazzavano con i bianchi specchi alari, passando dai gialli doronici alle genziane lutee e ai tassi barbassi, anch'essi ancora in fiore a quella quota.
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Una giornata caldissima si preannunciava con un'alba che tingeva di porpora i fili di nubi all'orizzonte, dove lontano le montagne della Meta sembravano precipitare a picco sulla Val Canneto.
In un'ampia tana ubicata sotto le rupi della Costa Caprara due orsacchiotti giocavano aspettando la genitrice che si era allontanata al giungere della notte. Erano nati durante l'inverno, partoriti mentre all'esterno il bianco mantello invernale celava la tana sotto uno spesso strato di neve che aveva mutato completamente il volto delle montagne e delle foreste. I due cuccioli erano cresciuti succhiando il latte caldo dalle mammelle della madre, una grande orsa col vello fatto di lunghi peli crinosi di colore bruno fulvo, molto scuro sul groppone e quasi giallo sul ventre e sui fianchi, una grande testa sproporzionata alle pur possenti forme del corpo ed un ventre cascante che quasi sfiorava il suolo e che gli arcuava la schiena mettendo in risalto la gibbosità delle spalle. Una vecchia orsa che le maternità e gli anni avevano imbruttito in quel modo così goffo, come è spesso per le femmine dei mammiferi negli ultimi anni della loro vita, dopo aver partorito generazioni di loro simili.
Un antico istinto doveva presto spingere l'Orsa ad allontanare i piccoli dalla tana; un evento importante nella vita degli orsacchiotti, che li avrebbe un giorno portati verso la loro indipendenza dalla madre.
Quando l'Orsa tornò dal suo andare notturno sui pascoli e nell'antica morena giù per il vallone, dove aveva cercato radici e insetti, trovò i cuccioli che sempre più coraggiosi si erano avventurati lontano dalla tana, rincorrendosi e picchiandosi, accanendosi contro pianticelle di faggio con i loro già temibili unghioni, e rotolando gioiosi nelle foglie morte.
All'avvicinarsi dell'Orsa che saliva rumoreggiando nelle foglie riarse del sottobosco, i due cuccioli che stavano lottando animatamente avvinchiati in una apparente furiosa lite, smisero di giocare e si intimorirono; subito arretrarono verso la tana, e vi si nascosero. Poi riconosciuto il passo della madre tornarono fuori e corsero per la china verso la sua sagoma scura, fino a sbattere e ruzzolare tra le sue gambe con continui gemiti di contentezza.
L'Orsa li leccò entrambi sul muso e in altre parti del corpo, come ogni volta quando tornava, e i piccoli cercarono le mammelle per soddisfare la loro fame.
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Il cielo plumbeo si stava aprendo lasciando vedere in alto sprazzi di azzurro tra le nubi ancora spinte da un vento veloce. L'aquila apparve alle spalle del branco, bassa sulla montagna; scaturì da dietro la cresta e nessuno dei camosci si avvide di lei se non quando l'ebbero sopra, in mezzo a loro. I camosci fuggirono a raggiera, terrorizzati, come i cerchi dell'acqua si allontanano dal punto dove cade il sasso.
Quel giorno una femmina restò sola. L'aquila aveva ghermito un camoscetto afferrandolo alla schiena e lo aveva trascinato oltre la cresta scendendo nel vuoto della valle. Dopo poco il piccolo camoscio giaceva inerte tra gli artigli del rapace diretto al grande nido di stecchi su una parete della Camosciara.
In alto un'altra aquila reale, il maschio della coppia, continuò a girare sulla montagna.
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L'erba era ingiallita per la siccità. I lunghi sottili steli erano fioriti velocemente e velocemente i fiori si erano trasformati in semi; il sole, prima tiepido e ristoratore per le piante che del calore avevano bisogno come di una rugiada notturna, divenne una terribile fonte d'arsura, e nel volgere di qualche settimana la campagna si mutò in una gialla arida landa dove solo le fioriture dei cardi resistevano. Le sorgenti primaverili si erano asciugate, la terra argillosa screpolata, e orme d'animali restarono a lungo impresse in quei luoghi. Anche i boschi sentirono l'arsura e in molte zone gli alberi, già sofferenti per l'invasione dei bruchi che a maggio ne avevano divorato le foglie prima di trasformarsi in crisalidi nel loro minuscolo bozzolo, si arrossarono e appassirono anzitempo.
Fino all'imbrunire, nelle faggete inaridite e calde e sulle torride radure abbacinanti di sole al culmine del giorno, la vita tacque, acchetata nell'ombra, sofferente per la gran calura che la terra e il calcare accumulavano.
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L'Orso bruno discese al pendio erboso seguendo un sentiero vecchissimo disseminato di dentarie e di un tappeto di minuscole piante di faggio nate dai semi dell'autunno precedente.
Da alcune sorgenti li appresso un rigagnolo d'acqua si spandeva in una macchia acquitrinosa nella quale prosperavano piante palustri e una rosa distesa di aglio selvatico e di porporine ginnadenie. Sui colli circostanti il pascolo stava sfiorendo per la siccità. Un codirossone, vistoso nei colori del maschio, si alzò in volo al giungere dell'Orso bruno e fuggì in silenzio dall'altra parte della radura, dove si fermò ritto su di un sasso, subito seguito dalla femmina comparsa come dal nulla.
L'Orso bruno si diresse all'acquitrino e bevve; pascolò le erbe grasse d'umidità, poi si allontanò ancora, andando verso il Morrone.
Oltre l'orizzonte d'alberi, attorno alla radura, due sparvieri comparvero sulla brulla pendice dell'Atessa, quasi a cercare la luce prima di rinascondersi nella foresta.
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La Valle Fondillo era ancora immersa nella penombra più profonda. Banchi di nuvole basse grevi d'umidità si addensavano sulle Cese di Giovannantonio e sull'Acquasfranatara; passavano tra gli alberi fitti di quella densa foresta impregnandola di umidità con le infinitesime goccioline che le formavano.
La distesa lattiginosa si alzava lentamente verso il crinale della valle, scoprendo ed esaltando le pieghe e le ondulazioni delle dorsali e delle convalli boscose, ad evidenziare la frastagliata fascia dei pascoli e dei brecciai e poi le rupi, dalla Serra delle Gravare al Monte San Nicola, e poi ancora su, fino a divenire un tutt'uno con la volta bigia del cielo.
Nuvole di bianco vapore in trasparenze di veli trasportati dal vento, si staccavano dalla massa stagnante, scendevano alla terra e salivano verso il cielo come mosse da forze misteriose. Roteavano, trascinate da correnti d'aria ascendenti, e andavano a dissolversi nell'aria sempre più umida.
Su tutto l'arco della vallata, dalla Costa Camosciara al Colle Consolito, grossi nuvoloni neri si affacciarono accumulandosi alle nubi bianche che salivano, e le scavalcavano, unendole in un'unica macchia scura in movimento. A mano a mano che la luce aumentava i nembi divenivano più bianchi, e assumevano forme sempre più ovattate, materializzando l'immensità senza fine verso il cielo.
L'evoluzione era continua, i banchi si aprivano e si chiudevano, si addensavano gli uni agli altri in vortici paurosi e incessanti, con movimenti lenti, spinti da una forza che si sentiva immane. Le nebbie basse che si formavano dal nulla sopra la stesa cupa dei boschi sembravano dissolversi alzandosi verso la oscura plumbea cappa che ormai copriva tutta la valle. Colonne evanescenti di vapori si collegavano al suolo, sfioravano la distesa degli alberi, vorticavano, salivano e tornavano in basso in continuazione.
Mentre il rumore del tuono si fece udire prima lontano e poi sempre più vicino, il presagio del temporale ammutolì la foresta.
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Lo stridore delle cavallette si affievolì non appena il sole, abbassatosi dietro le montagne della Vallelonga, cessò di scaldare il pascolo alto dei Monti della Difesa; le rondini e i balestrucci che durante il giorno avevano cacciato insetti intrecciando voli lungo la cresta sfiorando le erbe dorate per la siccità, erano discesi nella vallata. Dal basso erano invece giunti i rondoni, saettando come frecce in ampi voli che li portarono a sollevarsi sempre più in alto nel cielo ormai smorto.
Verso ponente il sole tingeva di rosso rame i brandelli di nubi che nella nebbia della sera striavano l'orizzonte; si diffuse il calore, come fosse incandescente il cielo, mutevole il rosseggiare, sempre più vivo d'attimo in attimo, per poi rapidamente spegnersi, divenire grigio di perla e portare poi la notte più profonda.
Sui pascoli solo gli spioncelli facevano ancora udire i loro richiami tra l'erba, poi dalla vecchia foresta del Coccoluso il grido di un allocco ruppe la pace della sera.
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Quando caddero i primi goccioloni, radi, trasportati dal vento, era ormai giorno fatto. Nel rifugio dove si era riparato in attesa della notte per rimettersi in movimento, l'Orso bruno sentì prossima la tempesta. Dalla tana avrebbe visto scatenarsi e placarsi l'acquazzone, indifferente a quella manifestazione che in estate a volte scoppiava improvvisa a ridestare la vita nella foresta.
Il temporale cominciò a brontolare sempre più vicino; un lampo scaturì dalle nubi e il rumore possente del tuono rimbombò prolungato tra le montagne. Gli animali si irrigidirono nelle loro tane e la paura istintiva attanagliò i più esposti, come gli uccelli al riparo dei rami, negli incavi degli alberi o nelle crepe delle rupi. I camosci ruminavano inquieti accovacciati tra i pini mughi dei Tre Mortari e sotto i balzi del Monte Amaro. Uno scricciolo lasciò un fitto cespuglio di mugo e si ecclissò nel disordine di una pietraia cercando riparo tra i massi avviluppati di muschio. Nelle tane le arvicole e i topi selvatici si spostarono negli spazi meno soggetti ad inondazioni. Unico segno di vita nella foresta, una ghiandaia passò rapida tra gli alberi cercando riparo tra le fronde di un acero dietro il Colle dell'Orso.
Al primo lampo ne seguirono altri e altri ancora, in una successione senza fine, durante la quale il rumore spaventoso del tuono sembrava non terminare mai. Sulla grande foresta caddero le prime gocce pesanti, battendo ed infrangendosi sulle foglie con rumore scrosciante. Poi aumentarono di intensità; dove ne era caduta una ne seguì un'altra, poi un'altra e un'altra ancora, sempre più vicine, sempre più grandi e fitte, finché divennero un rovescio.
La pioggia andava a morire contro gli alberi, frenata, raccolta e rovesciata al suolo dalle chiome; ogni foglia divenne una coppa che smorzava l'urto, che si riempiva e si scaricava. I muschi, le erbe e i licheni e tutto il sottobosco divennero un'unica grande spugna che si imbeveva.
Verso la metà della mattinata il temporale cessò. La cappa di nubi si aprì ed un primo raggio di sole scese ad illuminare la vallata. La foresta di faggi grondava acqua da tutte le parti; si sentiva ovunque il cadere continuo delle gocce che ancora stillavano dagli alberi ad esaurire la scorta d'umidità raccolta durante il temporale. Nel cielo passavano ancora grandi nuvoloni, ma presto l'azzurro si scoprì completamente e il sole illuminò ancora quel mondo verde, risvegliando la foresta.
* * *
Il tronco spezzato di un acero enorme, cavo all'interno e squarciato da una fenditura, svettava ancora nel Vallone di Cesarello, in alto nella foresta antica, tra massi calcarei spaccati ed irti di lamine affilate per l'azione delle acque. Tra essi si intricava un fitto novellame d'acero, macchie di lamponi e grandi felci verdi; tappeti di gerani selvatici rivestivano quei massi.
Su buona parte del tronco di quel vecchio acero la corteccia rossastra continuava a persistere viva, e pochi scarni rami si ostinavano a gettare foglie ogni anno.
Nell'oscurità del cavo alcuni pipistrelli riposavano aggrappati alle asperità del legno in deperimento. All'imbrunire, con l'infittirsi delle tenebre i pipistrelli lasciarono i loro appoggi e si involarono squittendo attraverso la spaccatura ed uscirono nella notte sparendo nell'intrico della foresta secolare, e i loro ventriloqui suoni e il vellutato frusciare di piccole ali si unì al coro degli animali del buio e ai loro rumori.
Nella notte calda i pipistrelli non cessarono mai di tessere di voli insensati il cielo scuro, catturando insetti nell'oscurità e passando nel fitto dei rami ed oltre le chiome degli alberi con una perizia ed una sicurezza che solo loro possedevano.
I voli terminarono verso l'alba, quando anche le lucciole si spensero e si nascosero tra l'erba in attesa di una nuova notte; ad uno ad uno i pipistrelli tornarono nel bosco del Cesarello e all'acero cavo.
* * *
Quando l'Orsa spinse i cuccioli a seguirla, allontanandoli dalla tana dove erano nati, il sole da tempo scaldava la cresta delle montagne. Si incamminò con passo lesto verso il Lampazzo; sapeva che in quella stagione le fragole e i lamponi erano ormai maturi sui bordi del bosco lungo la valle.
I cuccioli, indecisi e intimoriti da quell'evento che non conoscevano, vagirono e dopo qualche decina di metri tornarono d'istinto alla sicurezza della tana come altre volte avevano fatto all'allontanarsi della genitrice; ma questa volta l'Orsa tornò anch'essa sui suoi passi e li cacciò con violenza verso il bosco. Poi si mosse più piano, ed essi la seguirono standogli quasi tra le gambe, spaventati da quell'esperienza e dal mondo nuovo che vedevano e che non era più quella visione immutabile d'alberi e rocce che conoscevano attorno alla tana.
Attraversarono la fitta faggeta della Valletta del Salice dove grandi alberi svettavano radi su una macchia fittissima di rinnovazione, non ancora abituati a quell'ambiente e ai lunghi spostamenti; i due orsacchiotti più volte restarono indietro, spersi nell'intrico dei sorbi e degli epilobi che con le ortiche e i lamponi infittivano ancora più l'infinita marea di pianticelle di faggio, e l'Orsa paziente tornava sui suoi passi a rassicurarli con la sua presenza.
Oltre il crinale discesero nel Lampazzo, e là la foresta si aprì più rada d'alberi, grandi, e grigi per l'abbondanza dei licheni. Lì un bianco tappeto di asperule odorate rivestiva la lettiera.
Quasi invisibili, nella selva delle chiome, cincie bigie, picchi muratori, luì e rampichini s'udivano a tratti chiamare nella volta verde della foresta; gli uccelli apparivano qua e là quasi a cadere come foglie morte portate dal vento, ma subito tornavano a fondersi coi rami in un altro luogo, e solo i canti e i loro chiamarsi ne segnalava la presenza sui festoni dei licheni appesi ai rami o lungo i tronchi, dove beccuzzavano senza sosta.
Dal tronco di un grosso faggio intarsiato di polipori cinerei, risuonò il battere energico di un picchio rosso. Ai piedi dell'albero cadevano schegge bianche di legno morto che il robusto becco dell'uccello scalzava cercando le larve dei parassiti del legno. Al rumoreggiare degli orsi che scendevano nell'arida lettiera del bosco, il picchio si staccò dall'albero con un prolungato squillante grido, e sparve tra i tronchi della foresta. Solo più tardi, quando gli orsi stavano già assaporando i dolci frutti delle fragole nelle radure della valle, lo sentirono nuovamente martellare, a monte, verso l'Ortella.
* * *
Su un dosso scarsamente rivestito di stentata vegetazione e biancheggiante di sassi stinti dal sole, una vipera stava immobile, quasi senza vita. Nel cielo lattiginoso di foschia due poiane volteggiavano. L'Orso bruno giunse sul pascolo oltre la linea del bosco e lassù cominciò a rivoltare i sassi ad uno ad uno, metodico, leccando gli animaletti che scovava.
Molestato, il rettile si voltò, infilò il capo in un buco nascosto sotto un ciuffo di azzurre globularie e sparì nel terreno.
Più tardi l'Orso bruno proseguì e passò oltre verso Macchiadirose. Nel cielo le due poiane, che avevano notato i movimenti, cominciarono a girare e girare sul dosso, altissime, quasi confuse nella caligine. Attendevano.
Quando il terreno cessò di trasmettere i passi dell'Orso bruno, la vipera si riaffacciò dalla tana, e con movimenti quasi impercettibili ritornò ad adagiarsi dove stava prima. Ma le poiane vigilavano. Si sentì una ventata scendere dall'alto e prima che il rettile potesse presentire il nemico, gli artigli l'avevano afferrata e il rostro colpì preciso la pericolosa testa. Poi la poiana si sollevò, e col rettile che penzolava inerte si diresse al nido, dove voraci i piccoli rapaci banchettarono senza saziarsi.
* * *
I ghiri strillavano dai noccioli, e lo strano latrare della volpe giunse da Camporotondo. L'Orso bruno squarciò con gli unghioni la ceppaia marcia di un faggio, scoprì un formicaio e leccò di lena il legno sfatto, divorando le formiche che come impazzite correvano ovunque, formando un indescrivibile ammasso vivente d'esseri neri che si allargava a macchia d'olio più l'Orso bruno si accaniva contro il cuore del formicaio.
La notte avanzava sui Colli Nascosti. Piccole creature delle tenebre si muovevano sul limitare dei boschi verso i terreni aperti; topi campagnoli, arvicole, minuscoli toporagni e ricci, topi quercini, donnole e puzzole e faine. Ognuno viveva la propria esistenza, a volte a scapito di altre; chi cercava semi e germogli, chi cacciava minuscoli coleotteri; altri fuggivano terrorizzati alla spietata caccia dei predatori.
All'alba tornò la quiete apparente. Poi altri esseri vennero a vivere le ore diurne in quegli stessi luoghi.
Il primo pallido chiarore apparve ad oriente. L'Orso bruno smise di scavare il terreno e di smuovere i sassi e si allontanò nell'ombra della faggeta verso la Valle della Strega e i cespugli dei ciliegi canini carichi di frutti maturi, sparendo prima che il giorno fosse fatto.
* * *
I delta dei due rondoni alpini passarono e ripassarono tutto il pomeriggio, come portati da un vento impetuoso e mutevole sulla cresta che dalla Serra Cappella va al Monte Marsicano, frustando l'aria immobile del pomeriggio. Grandi e solitari possedevano il cielo come nessun altro uccello, padroni assoluti dello spazio sopra la montagna.
Il giorno dopo, il saettare delle loro pance bianche, rette dalle lunghe ali arcuate, era sparito, come spazzato via dalla notte che era seguita; rimasero nel cielo i neri delta dei rondoni comuni che salivano a sciami, rumorosi in quel silenzio di luglio nel pulviscolo che offuscava il paesaggio.
* * *
All'imbrunire nella radura apparve un capriolo. Sbucò dalla foresta a passi leggeri, avanzando piano, timoroso, lo sguardo attento. Sbucò dalla foresta e tese le grandi orecchie aperte alla conca erbosa. Si fermò pochi passi oltre il limitare degli alberi; brucò qualche filo d'erba, ma era inquieto. Presentiva un pericolo e alzava in continuazione la testa facendo roteare le orecchie in cerca di un rumore sospetto, annusando l'aria immota. Non poteva vedere gli orsi perché questi restavano mascherati dalla macchia d'ombra sempre più scura che dall'altra parte della radura si proiettava sul prato, né poteva sentirli, tanto gli orsi erano lenti nei movimenti.
Il capriolo restò immobile fissando il vuoto innanzi a sé, quel vuoto nell'ombra dove stava l'Orso bruno. Nell'aria sentiva solo stridii di grilli e dalla foresta gli giungeva un concerto di uccelli notturni. Erano rumori d'insieme, armonia di quel silenzio, non suoni di pericolo.
Nel cielo le stelle divennero vivide, e più buia la linea della foresta. Gli orsi non si erano accorti della presenza del capriolo; continuarono a pascolare, a scavare, a rivoltare sassi, sicuri, indifferenti alla vita che si svolgeva loro attorno, da dominatori in quel mondo selvaggio.
Prima che la notte si incupisse tetra, si alzò la luna, grande e luminosa, e l'ombra che nascondeva gli orsi venne spazzata via dalla luce. Così apparvero le loro sagome scure: tre figure indistinte nell'erba alta, ferme, nere, ma il capriolo le vide e sentì che non erano immote. Si innervosì, percosse forte la terra coi piccoli zoccoli, quasi contrariato da quella presenza che profanava il suo luogo di pascolo, e avanzò qualche passo ad ogni percossa. Fissava gli orsi timoroso ma curioso nelle stesso tempo, col capo eretto, fiero con le piccole corna aguzze di maschio giovane. Poi spiccò un repentino balzo e scomparve nella vicina foresta da dove era venuto. Gli orsi non si accorsero di nulla e continuarono la loro attività notturna.
IL TEMPO DELL'AFA
Il sole era ancora alto sull'orizzonte, infuocato nella foschia d'estate, e l'Orso bruno riposava nell'ombra delle falesie.
Sopra la frastagliata linea degli ultimi alberi che delimitavano la foresta apparve un gheppio; volteggiò sul Colle Consolito poi andò a fermarsi sulla cima morta di un faggio e di là continuò fino a buio a fissare il pascolo e a cercare dei movimenti nell'erba ingiallita.
Lentamente le tenebre vennero a soffocare i suoni degli insetti che vivevano sotto il sole. Il gheppio ora non stava più sulla cima del faggio.
La cappa celeste si era scurita e sull'orizzonte si fuse col buio delle montagne: stelle vivide si vedevano in alto, al centro del cielo. La notte era giunta calda ed afosa e il canto dei grilli prese il sopravvento nel mondo delle erbe. Solo allora l'Orso bruno si alzò dal giaciglio, si stirò le membra irrigidite, mosse alcuni passi sulla zona aperta del pascolo e annusò verso la Valle Fredda. Poi vi discese seguendo il fondo di un valloncello.
A notte fonda era in vista dello stazzo. Sentì muoversi la massa informe delle pecore in un recinto chiuso con rete di canapa; sentì gli agnelli belare e vide le sagome dei grossi cani bianchi accucciati attorno alla casa dei pastori. L'Orso bruno si avvicinò costeggiando la radura.
Ora una brezza soffiava lieve contro di lui e gli portava forte l'acre odore di letame, e annusò ancora l'aria. Poi aggirò la massa del gregge fino a frapporla tra lui e i cani bianchi, e si inoltrò deciso allo scoperto. La sua sagoma scura scivolò sulla radura verso le pecore. A pochi metri il gregge si destò improvviso, inquieto: le pecore avevano captato il suo odore e visto la sua sagoma oltre la rete. L'Orso bruno si avventò contro la recinzione abbattendola. Il gregge si addossò all'altra parte del recinto in uno strepitare di belati. I cani bianchi saltarono in avanti nel parapiglia del gregge terrorizzato, furiosi, latrando e ringhiando nel buio. Ma non fecero in tempo ad intimorire l'Orso bruno che ormai aveva deciso l'aggressione notturna. Né riuscirono a fermarlo.
L'Orso bruno si avventò contro le pecore e ne atterrò alcune menando zampate nella mischia; ne afferrò poi una e si ritrasse, sempre infierendo colpi d'unghioni attorno per farsi strada tra i cani. Non lasciò la preda. Si difese dall'assalto dei cani sollevandosi in piedi e agitandosi, soffiando e urlando iroso contro di loro. Irruppe infine tra essi e, sempre trascinando la pecora, corse verso il bosco. Le sagome bianche lo inseguirono in una canizza furibonda fin oltre l'alto oscuro muro degli alberi, ma nella foresta la paura del predone li vinse e rinunciarono alla caccia tornando verso il gregge sbandato.
Quella notte l'Orso bruno si fermò nel fitto dei faggi del Monte Dubbio. Mentre divorava la bianca carne della pecora continuò nella valle il gridare di uomini e l'abbaiare dei cani.
* * *
La radura era vuota e silenziosa, immobile l'aria, stagnante nella conca carsica. La foresta con i suoi grandi alberi di faggio svettanti pareva incombere minacciosa, come una morsa che la stringesse lenta ma inesorabile man mano che la luce svaniva. La notte scendeva rapidamente e già i grilli cantavano dall'imboccatura delle loro tane nell'erba inaridita di agosto.
Dalla foresta giunse il tremolio profondo dell'allocco; intermittenti ovunque apparvero le lucciole. Dal centro del coppo la lepre si sollevò sulle zampe posteriori, e le lunghe orecchie parvero scrutare la notte.
Nel cuore della fitta foresta sull'altopiano della Macchiarvana la radura era nuovamente viva come il giorno, ma più quieta.
Dai dossi costellati di pietre grigiastre della Serra di Camporotondo un rumore di sassi smossi intimorì la lepre che smise ancora di pascolare tra i cerasti. Una giovane femmina di Orso bruno cercava piccoli neri coleotteri, e meticolosa non si stancava di rivoltare sassi spostandosi nella notte sui colli e le doline senza bosco dell'altopiano.
* * *
Il sole non era ancora allo zenit quando i due falconi tornarono a librarsi nel cielo lattiginoso. Vampate di calore salivano dalla terra creando correnti ascendenti che essi sfruttavano per alzarsi in alto e poi spostarsi con rapidi colpi d'ala fin sopra la distesa di boschi della Selvapiana. Tornarono però poi a fermarsi sulle rupi che dominano l'ampio scenario della Metuccia, nella Val Pagana.
La terra sembrava vuota quel giorno; in quel tempo d'afa era il calore a tenere celati gli animali. Sui pascoli e nelle radure gli spioncelli e i culbianchi riposavano accovacciati all'ombra dei sassi o nelle erbe folte. Solo nei boschi si udiva rado il chiamare in sordina di cince e di picchi muratori. Poi dalla Selvapiana giunse il battere ritmico di un picchio verde; e il suo "latrare" echeggiò per molto tempo nella radura.
Più tardi due colombacci passarono nella valle, volando bassi sulle chiome degli alberi. Si fermarono poco lontano, tra i rami di un alto faggio solitario. I falchi pellegrini si alzarono in volo quasi subito, rapidi. Le loro figure scure si stagliarono sotto il sole infuocato che proiettò le loro ombre a scivolare sui boschi. I colombacci ripartirono, sempre volando sopra il bosco. Non videro i falconi, e quando un sibilo simile ad una ventata ruppe il silenzio di quel luogo, per uno di loro fu la morte. Il falco pellegrino si era proiettato verso il suolo ad ali chiuse, con un'ampia parabola che lo portò ad intercettare il colombaccio più arretrato. Lo colpì e lo afferrò, poi riprese quota.
Lo sbatacchiare delle ali dell'altro uccello si spense nel sottobosco, dove si era gettato in una fuga disperata a quel pericolo che era giunto dal cielo.
* * *
Le giovani piante di faggio ancora ballavano per gli scossoni ricevuti al passaggio dell'Orso bruno. In quella fitta vegetazione del pianoro boscoso della Polinella un vivo batuffolo dorato rotolò veloce da uno stelo di epilobio, per fermarsi quasi miracolosamente vicino al suolo. Aveva due occhi grandi e lucidi, neri, di animale notturno, che fissavano timidi, e aveva una coda ricca di biondi peli che avvoltolò attorno a sé; esili setole gli ornavano la punta del muso, e si muovevano col naso: il moscardino annusava il pericolo.
Si era costruito il nido con grande impegno, intrecciando fili d'erba e foglie morte sulla cima di una pianticella là dove i rami si aggrovigliavano con gli alti gambi degli epilobi. Dormiva in quel nido il moscardino, quelle ore diurne, quando il passaggio irruente dell'Orso bruno lo destò bruscamente. Il nido era stato sballottato e alcuni fili d'erba strappati via assieme alle piante di epilobio che la zampa dell'Orso bruno aveva schiacciato al suolo. Il piccolo animaletto della notte era sbucato allora veloce dal nido fuggendo quel pericolo improvviso.
Solo quando nel macchione tornò la quiete il moscardino balzò di nuovo in alto lungo la pianticella di faggio fino al suo precario rifugio, tra gli epilobi ancora in fiore in quell'ombrosa frescura del bosco.
* * *
La notte era profonda. Con volo ovattato l'allocco si staccò dal folto di un acero secolare e andò ad appollaiarsi sui rami morti di un faggio scheletrito che dominava la zona aperta tra i ramno, dove stava pascolando l'Orso bruno.
Nell'oscurità soltanto i due occhi gialli del rapace potevano vedere l'ampia sagoma scura del plantigrado, e l'osservavano attentamente.
L'Orso bruno si spostava lento nell'erba umida di rugiada; quando il profumo intenso dei minuscoli fiori bianchi del pancacciolo attiravano la sua attenzione, scavava i saporiti tuberi e li mangiava. L'allocco attendeva invece i movimenti dei topi selvatici. Col buio i piccoli roditori aumentavano la loro attività in cerca di semi, e correvano allo scoperto lasciando le tane.
In fondo alla valle l'assiolo, giunto in quei giorni dal sud, rompeva il silenzio con grida stridule; in tanti rispondevano come echi lontani, dalla macchia scura dei boschi.
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Ai piedi di rupi ombrate, coperte di muschio ed altre piante verdi, la sorgente sgorgava tra pietre e cespi di felci; un piccolo rivolo d'acqua limpida e fresca che poco più a valle si raccoglieva in alcune modeste pozze stagnanti, prima di tornare a perdersi nel suolo carsico e permeabile.
Foglie morte di faggio e d'acero marcivano posate sul fondo delle pozze. Minuscoli esseri vi si vedevano muovere, chiusi in quel mondo d'acqua che era divenuto un'oasi in quel mese afoso.
In fondo al canalone la cerva sbucò tra gli alberi rumoreggiando lievemente nelle fragili foglie riarse; si mosse lenta, con le lunghe orecchie tese. La seguiva un cerbiatto già cresciuto, col nuovo pelame che aveva soffocato le macchie della più tenera età.
I due animali si avvicinarono alla sorgente e bevvero fianco a fianco prima di tornare a sparire nella foresta, in silenzio come erano venuti.
Attorno al punto d'acqua tornò la quiete, e minuscoli ditisci ripresero a vagare nel mistero del loro mondo. Più tardi vennero i colombacci, con forte sbattere d'ali; bevvero e sparvero anch'essi. Nel bosco di faggi assolato, sulla pendice del Monte Turchio, avevano il nido, costruito tardivamente. La femmina tornò a covare.
* * *
Il cielo passò dal nero cupo al grigio e al biancore dell'aurora, poi ridivenne azzurro: era la luce del giorno che tornava. La luna, sorta tardi nella notte, sbiancò e quasi disparve. Nelle vallette nivali dell'ampia stesa morenica dei Biscurri gli orsi pascolavano ancora la cicoria selvatica nel pieno della sua fioritura. Solo quando i caldi raggi del sole li raggiunsero, segnando una lunga linea tra l'ombra e la luce, essi parvero accorgersi che tutta una notte era passata.
Infastidita e intimorita dal chiarore sempre più vivo del giorno, l'Orsa si allontanò seguita dal trotterellare dei due cuccioli oramai quasi indipendenti. Attraversò i pascoli tormentati di dorsi e vallecole ed irti di sassi e di pietraie, diretta al luogo da dove era venuta la sera prima, nella foresta dei Tartari.
L'ombra degli alberi fu un sollievo per gli animali; la siccità aveva reso fragili e rumorose le foglie morte e l'andare degli orsi era segnalato dal gridare insistente di un picchio muratore che li aveva uditi e che notò il loro passare in quei boschi muti d'agosto.
Quando gli orsi si appisolarono nei giacigli, scavati in profondità nell'humus a cercare frescura, il sole era già alto, e l'afa tornò a stagnare tra gli alberi; anche lì, nell'intricata vegetazione arborea delle quote alte, al limitare tra pascolo e foreste. Uniche le mosche e i moscerini ronzavano in continuazione infastidendo gli orsi, mentre le zecche li tormentavano coi pruriti succhiando il sangue, attanagliate alla pelle sotto il folto mantello di pelo bruno.
In quelle ore soltanto il monotono stridore delle cicale s'udiva nell'afoso silenzio della faggeta sull'altopiano dei Tartari.
* * *
Le foglie dei faggi erano scure, butterate dall'azione dei miliardi di piccoli bruchi che se ne erano cibate in maggio e giugno; molte già ingiallite prematuramente coronavano i rami più miseri di linfa; alcune erano cadute al suolo. Il caldo era torrido e l'aria stagnava su quelle chiome inaridite dalla calura.
Una cincia bigia chiamava sommessa, mentre esplorava metodica i grigi e gialli festoni di licheni che lì ovunque pendevano dagli alberi. Al suolo un popolamento di epilobi scendeva nella dolina fino ai bordi di un inghiottitoio che si apriva nel fondo del catino come un grande pozzo naturale. I fiori rosa degli epilobi si erano ormai trasformati in semi, e in lunghi baccelli penduli.
Attorno all'apertura dell'inghiottitoio cespugli verdissimi di felci si protendevano nel vuoto verso il nero mistero del sottosuolo, e più in basso, tra gli anfratti delle pareti, altre felci minori e muschio rivestivano la roccia, e anche altre piante prosperavano ancora vegete per l'umidità e la frescura che saliva da quel buio, e abbondanti erano le gialle corolle dei doronici. Anche gli aceri che dal bordo dell'inghiottitoio ombreggiavano la cavità erano più lussureggianti, meno aride le foglie; e i loro tronchi contorti erano rivestiti da uno spesso manto di muschio.
In fondo a quel pozzo naturale persisteva un mucchio sporco di neve, che mateneva ed aumentava la frescura di quel luogo. Lì, nell'humus accumulato ai tronchi e ai rami degli alberi caduti in un putridume di terra antica, piccoli insetti vivevano, sconosciuti esseri legati al buio perenne.
Da quel luogo di frescura a sera uscirono alcuni pipistrelli, anche loro abitanti dell'inghiottitoio. Squittendo si alzarono tra gli alberi nell'atmosfera immota e calda della notte.
* * *
In quei giorni l'Orso bruno sentì che era giunta la stagione di scendere a valle, di camminare e di arrivare lontano oltre la cresta dello Schiencavallo e giù per le pendici boscose della Vallelonga fino alla pianura coltivata attorno ai paesi dell'uomo.
Il granoturco che i contadini marsi avevano seminato nel mezzo della fioritura di maggio era cresciuto in alte robuste piante che sorreggevano gonfie pannocchie di chicchi gustosi.
L'Orso bruno andava deciso, diretto a quei luoghi a lui noti da anni, come noti gli erano le colonie di formiche e di coleotteri o i luoghi dove crescevano il lampone, il gigaro, il pancacciolo o i cespugli del ramno. Discese la Vallelonga tenendosi sulla pendice boscata di settentrione, oltre il Monte Marcolano. Si spostò nel fitto dei boschi di cerro che dal Colle Pardo rivestono le pendici fino al grande pianoro di Amplero. Lì i boschi erano misti di ornielli, carpini, roverelle e di tante altre specie, e solo in alto tornava il faggio a dominare.
In quei giorni anche altri orsi migrarono verso lo stesso luogo; e altri ancora discesero ad est e a sud e a nord delle montagne, verso altre vallate coltivate col granoturco.
L'Orso bruno si fermò sotto l'Ara dei Merli. Nei boschi di roverella ritrovò vecchi rifugi e li rifece suoi. La stessa notte calò nella piana sottostante e per la prima volta quell'anno riassaggiò il granoturco, tenero e non ancora maturo per l'uomo.
Non si spostò da quel luogo per molti giorni e ogni notte discese ai campi coltivati, incontrandosi anche con altri orsi che venivano dalla stessa pendice montana o dalla Serra Lunga.
Poi coi giorni che passavano il granoturco si indorò, i crini delle pannocchie si avvizzirono e ingiallirono le foglie, e i contadini spogliarono in breve tempo tutti i campi. Allora l'Orso bruno tornò a spostarsi verso monte, ai luoghi natii e ai macchioni di cespugli del ramno e dei ciliegi canini, ricchi di nere bacche dolciastre.
* * *
La nidiata di cornacchie grigie che ogni sera andava a dormire sui salici lungo il fiume tacque e si confuse col buio. Ancora una volta il sole era tornato a sparire dietro le montagne e, quando si spense anche l'ultimo chiarore, l'Orso bruno abbandonò il giaciglio tra i carpini.
Seguendo una traccia di sentiero che generazioni di orsi avevano marcato con il loro passaggio, raggiunse un pianoro dove crescevano alte piante di belladonna ed alberi di salicone.
L'Orso bruno annusò insistente le cortecce dei salici. Erano già stati lì altri orsi quella stagione, soprattutto in primavera. I tronchi erano feriti da morsi e colpi di unghioni. L'animale sentì crescere una furia incontenibile dentro di sé, e la scatenò contro uno degli alberi. Si sollevò in piedi e gli unghioni scesero a scortecciare in lunghe strisce il tronco; i denti morsero con furia incidendolo in più punti, e ad ogni assalto la furia sembrò accrescersi.
Presto gli unghioni sbiancarono il tronco per tutta la sua lunghezza, e quando l'Orso bruno fece forza contro la chioma col suo peso questa si schiantò spezzando l'albero là dove i denti lo avevano inciso più profondamente. Il rumore dello schianto sembrò scatenare ancora ulteriormente la sua ira insensata ed istintiva, ed il fremito dei suoi muscoli si accentuò; come brontolii profondi le urla e i soffi dell'Orso bruno si udirono più alti oltre la cortina degli alberi. Presto la chioma del salicone non fu altro che un ammasso di ramoscelli spezzettati, sparsi intorno assieme alle strisce della corteccia e alle nitide schegge del legno: e il tronco spiccò bianco latteo contro il grigio dei faggi della foresta.
Improvvisa come era iniziata, poi la furia dell'Orso bruno cessò, e l'animale lasciò il pianoro della vecchia aia carbonifera. La sua figura si confuse tra gli alberi, verso i cespuglieti del ramno nelle radure più basse della valle.
* * *
Lontano si sentiva il brontolio profondo di un tuono, mentre le nubi si facevano sempre più nere e il vento aumentava la sua forza. L'Orso bruno sentiva l'avvicinarsi del temporale nell'odore dell'aria che già era pregna d'umidità portata dal vento che passando tra le chiome degli alberi li faceva vibrare in un frastuono che cresceva d'intensità ad ogni nuova folata. Gli alberi si piegavano e ondeggiavano sotto la sferza, e perdevano foglie appassite e rami morti.
Col sole allo zenit nascosto dietro le nubi scure il bosco stesso preannunciava ancora una volta l'acquazzone estivo col suo strano silenzio nel pieno del giorno. Taceva il picchio muratore, di solito rumoroso tra brigate di cincie bigie. Tacevano le ghiandaie, pur chiassose ad ogni evento. Neppure i topi selvatici e le arvicole s'udivano rovistare nella lettiera di foglie morte tra le radici degli alberi; né le volpi e le donnole le cacciavano. Era un silenzio rotto solo dal frusciare del vento tra le foglie e dal lontano brontolio del tuono. Il presagio di tempesta aveva come mozzato il respiro alla foresta. Gli animali sembravano attendere rispettosi che si compisse un rito.
E il rito si compì col fragore di una cataratta, tanto violento quanto breve in quel mondo dove il tempo non aveva senso.
Quando ritornò la quiete l'Orso bruno si sollevò dal sua giaciglio tra il novellame e si sbattè vigorosamente i fianchi per scrollarsi di dosso l'acqua che si era infiltrata nella pelliccia, poi si incamminò in silenzio nella lettiera del sottobosco fracida e morbida. La foresta era stata spolverata e lavata dallo scrosciare della pioggia, e il verde scuro ravvivato degli alberi già tinti da foglie precocemente appassite per la siccità sembrò destarsi dal torpore degli spenti colori estivi.
* * *
Nelle radure e sulle pendici dove le valanghe avevano aperto larghe strisce tra alberi, l'Orsa cominciò a rovistare sotto i sassi e sotto i tronchi caduti, e aprì ceppaie putrescenti cercando i piccoli animali che vivono a contatto col suolo. Gli orsacchiotti la imitavano, ma più spesso cercavano i saporiti frutti selvatici nelle macchie di fragole e di lamponi.
A giorno fatto l'Orsa non si ritirò nell'ombra della foresta, ma proseguì la sua ricerca di cibo. Risalì la valle per raggiungere una radura al limite alto del bosco, divisa dal pascolo solo da una frastagliata striscia d'alberi vetusti e caduti. Una ricca colonia di minuscole formiche del colore dell'oro prosperava nel piatto catino in fondo alla radura, tra altri cardi selvatici e fitti bianchi cerasti.
L'Orsa giunse al margine di quella conca prativa che si apriva lasciando intravedere uno sfondo di montagne selvagge, e si fermò ad annusare il vento, sospettosa, prima di inoltrarsi con i cuccioli allo scoperto in quelle ore diurne abbacinanti di luce.
L'Orsa sentì la quiete del luogo e discese tra i tassi barbassi e le genziane lutee sfiorite, verso la colonia di formiche.
Nell'erba alta e appassita i formicai erano prosperi, e l'Orsa e i suoi cuccioli li sventrarono metodicamente a colpi di unghioni. Le formiche si disperdevano attorno affannose mentre la lingua rasposa degli orsi si infilava nei formicai leccando rapida la massa informe di terra, formiche, uova e altri resti impregnati d'acido formico.
Solo nel tardo pomeriggio gli orsi lasciarono quel luogo, mentre il sole dardeggiava ancora sulle erbe appassite della radura.
* * *
Nella fresca umidità della notte l'arvicola si affacciò da sotto un grosso ramo morto che giaceva al suolo nell'ombra scura dell'albero di faggio dal quale si era staccato; annusò con cura attorno facendo roteare le sue sensibili vibrisse e partì lesta in un girovagare senza meta in cerca di alimenti. I piccoli semi delle erbe, alcuni gambi di vegetali, frutti e bacche cadute dai cespugli, insetti morti, tutto ciò che era commestibile la attraeva.
Nei pressi di un masso coperto di muschio appassito e di licheni grigiastri, attrassero l'arvicola le bacche dorate dell'uva spina, mature e dolci. Il roditore si arrampicò sui rami bassi del cespuglietto intricato e spinoso e staccò le bacche che poi andò a raccogliere e rosicchiare al suolo.
La notte era calda, ed era calma; il cielo sereno e pieno di stelle occhieggianti tra le fronde degli alberi; neppure la brezza spirava nella valle dove l'arvicola di Savi stava saziandosi. Il silenzio del bosco era rotto a tratti dai gridi melanconici e profondi degli uccelli notturni e dallo squittire onnipresente dei ghiri.
Il gridare tremolante di un allocco sugli alberi che sovrastavano la radura spaventò il roditore che corse a nascondersi nella tana sotto il tronco. Quando ne riuscì per continuare a rosicchiare i frutti dell'uva spina, la notte taceva di nuovo. Non fu avvertito dall'arvicola l'ovattato volo di una civetta che si staccò da un albero lì appresso; né i suoi neri vispi occhi poterono avvistare la furia alata che stava abbattendosi su di lei: ma quelli grandi e gialli del rapace avevano visto la preda, e gli artigli protesi calarono sul piccolo essere, pietosi nella loro rapidità.
PRELUDIO D'AUTUNNO
Oscuro fantasma che camminava nel buio, l'Orso bruno stava risalendo le pendici verso i pascoli della Montagna Grande e il valico del Carapale.
Nella Valle di Terraegna gli allocchi avevano cominciato il loro perenne concerto notturno, e la lugubre melodia durò fino all'alba. Gli echi venivano da lontano, sempre più da lontano a mano a mano che l'Orso bruno saliva verso il crinale, e si fondevano col canto interminabile dei grilli; in alto le stelle brillavano fioche nel cielo lattiginoso della notte nera e senza luna.
Sul pascolo della Terratta una cucciolata di volpi cercava le coturnici che si celavano al riparo delle pietre, dove avevano raspato una piccola conca in cui giacevano in un dormiveglia continuo, all'erta ai pericoli che sempre le minacciavano.
Nel pieno della notte l'Orso bruno giunse al valico. Si era fermato più volte lungo la salita a scovare insetti sotto i sassi della vasta pietraia che costellava quei pascoli, bianchi nel riverbero del calcare tra la vegetazione smorta dell'estate, ma il desiderio di altro cibo lo stimolò a continuare a cercare.
Sui pianori della cresta si diresse verso oriente, dove sapeva di poter trovare ancora dell'erba verde e appetitosa in fondo alle doline dove per ultimi si erano spenti i nevai di giugno.
Quando l'alba si annunciò con un velo d'azzurro che divenne gradualmente più intenso con l'aumentare della luce che rischiarava la terra da dietro il lontano orizzonte delle montagne, anche le ombre più confuse divennero nitide, e il punto scuro dell'Orso bruno riprese la sua forma di cosa viva nella bassura dove pascolava la cicoria in fiore.
* * *
Uno sparviero sorvolò le rupi dove l'Orso bruno stava riposando, comparendo improvviso da dietro una cresta, e si gettò nella Valle della Strega; roteò alcune volte sulla valle poi discese più in basso e con le ali tese al vento andò verso Coccoluso sfiorando le chiome della linea dei faggi sulla dorsale; alcune passere scopaiole ripresero a saltellare tra i rami quasi spogli del ramno.
Sul tardi della giornata, l'Orso bruno lasciò il giaciglio. La nebbia stava prendendo il sopravvento sui raggi caldi del sole; il vento si fece più freddo e umido, fili di nubi bianche si formarono lungo le cime gonfiandosi fluttuando; anche i sordoni tacquero, rifugiati tra i sassi sui pascoli, assieme ai fanelli e agli spioncelli. L'Orso bruno seguì la pista verso Cesarello, fermandosi solo a mangiare le nere bacche del ramno maturo e gli odorosi gambi del sedano selvatico che, tenero, ancora trovava al riparo delle pareti in ombra. Penetrò nel bosco già velato di nebbie e odoroso di muffe e d'umidità, confuso tra la vegetazione mentre un picchio muratore gridava allarmato, incurante del presagio di intemperie che si sentiva nell'aria in quel finire di stagione.
* * *
Il secolare faggio era morto da dieci anni e lungo il filare d'alberi possenti che sfrangiava la cresta, con la perdita delle foglie aveva creato un vuoto che già giovani piante stavano colmando, rinvigorite dalla luce che in quegli anni era giunta facilmente al suolo. I rami morti si erano spogliati presto della corteccia, e anche il tronco robusto si raggrinzì col cessare della vita; larghe chiazze di corteccia, erano cadute al suolo sotto l'azione della pioggia e del vento che lo percuotevano liberamente, e anche i rami caddero ad uno ad uno, prima le cime e poi, con schianti sempre maggiori, anche i grossi bracci che avevano retto la poderosa chioma del faggio per centinaia di anni. Il tronco si schiarì per l'azione del sole e della pioggia, si indurì esternamente e prese il colore cinereo e argenteo del legno morto e avvizzito dal calore. Dentro, l'anima del faggio stava invece imputridendo anno dopo anno sotto l'azione di milioni di minuscoli esseri invisibili che lo stavano divorando ed indebolendo. Grigi polipori lo aggredirono campando sulla sua morte.
Il rampichino quella primavera aveva nidificato in una larga screpolatura della corteccia, ma quando il vento impetuoso di settembre, bagnato di pioggia, giunse a scuotere ancora una volta l'albero, il nido era vuoto, e fili di muschio pendevano dalla fessura tra la corteccia e il tronco.
La notte, il vento aumentò con forza e la foresta si spogliò di molte foglie, quelle che per prime patirono l'arsura d'agosto e che erano ingiallite precocemente. Il rumoreggiare di quella potenza invisibile che sembrava scuotere la foresta, percuotendo e storcendo gli alberi con violenza, si udì a lungo, rotto da intervalli di calma assoluta; e sempre tornava impetuosa, ancora a forzare ogni ostacolo, piegando gli alberi al suo volere.
Il vecchio albero scricchiolava sotto la sferza, e perse ancora rami, schiantati dalle folate più impetuose. A metà della notte, quando il vento che aveva preannunciato la pioggia stese una cappa scura di nubi a coprire il cielo, la sua forza aumentò ancora, e le folate si susseguirono impetuose. Improvvisamente nel frastuono della foresta percossa da quella forza immane si udì uno schianto terribile, che sovrastò il rumore della pioggia, e il vecchio faggio cadde nel groviglio del novellame. Al suolo la scheletrita chioma irta di rami morti giacque immobile per sempre, mentre un troncone resistette poi ancora molto tempo alla furia e all'azione degli eventi della natura. La primavera successiva il rampichino cercò un altro luogo per nidificare, e il suo posto venne preso da una coppia di picchi rossi mezzani che si scavarono il nido nel legno fracido del vecchio troncone.
* * *
Nel coppo del Cutino la volpe apparve da dietro un cespo di cardi dove era rimasta a lungo ed invano in agguato innanzi alla tana di un topo selvatico. Trotterellò per il pascolo annusando attorno, attenta ad ogni passo, con le orecchie all'erta ad ogni mutare del vento. Si aggirò insistentemente nel coppo: sentiva la presenza di piccoli roditori nel sottosuolo, tra i monticelli di terra che costellavano il pascolo e i bordi del bosco. Ad un tratto tornò a bloccarsi immobilizzandosi, con lo sguardo fisso ad una biancastra macchia di cerasti appassiti, tra cumoli bruni di terra: stette sospesa nell'interrotto movimento del suo andare, poi con un balzo si proiettò dove l'occhio aveva colto un segno di vita tra le erbe, ma l'astuta, rapida volpe non riuscì nel suo mortale intento: il piccolo roditore colse il pericolo, cessò il rosicchiare dei semi di cardo e guizzò nella tana. La volpe scavò con furia istintiva il terreno dove il piccolo topo grigio era sfuggito, ma desistette subito.
All'imbrunire la volpe trotterellava ancora nella solitaria radura, sempre in caccia.
* * *
Quando cominciò ad albeggiare e le ombre delle nubi a farsi più chiare, l'Orso bruno tornò nella valle; aveva ancora fame.
Le nebbie salirono di nuovo a condensarsi sulla cresta, poi la bruma si adagiò lentamente fino a posarsi come un velo sulla conca del ramno, offuscando l'aurora; così mentre la luce si diffondeva sul resto delle montagne lassù la notte si prolungò per l'animale affamato, protetto da quella cappa fumigosa.
L'Orso bruno discese lungo una traccia di sentiero il bosco dei Campitelli e sbucò nella macchia del ramno che era ormai giorno, anche se la nebbia oscurava il paesaggio. Dai rami di un sorbo montano che sovrastava la zona uno schiamazzare di ghiandaie ruppe il silenzio del luogo, poi le loro ombre sparvero nell'umida foschia verso il bosco di faggi sull'altro versante della valle.
L'Orso bruno scese nelle radure cespugliate proprio quando più a monte comparve come dal nulla un giovane Orso; anch'esso si aggirava pigro tra i cespugli grondanti umidità. Alla sua vista l'Orso bruno sbuffò insospettito e si sollevò sulle zampe posteriori per annusare ed osservare meglio l'intruso, e solamente quando si fu rassicurato tornò ad abbassarsi per addentrarsi anch'esso nella macchia, indifferente al compagno.
I due orsi si aggirarono nella conca satollandosi delle piccole bacche nere, golosi forse più che affamati. Le coglievano abbassando i rami con le zampe per portare i gruppi di frutti alle loro fauci. Lo spostarsi dei due animali da un luogo all'altro e la loro presenza era segnalata dallo scuotersi dei cespugli più che dalle loro figure, confuse tra i rami e dalla nebbia.
Nella tarda mattinata gli orsi abbandonarono il coppo e discesero nell'oscura ombra della faggeta; le nebbie si erano ormai dissolte col calore del sole.
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Tutta l'estate era rimasto in Valle di Corte; ora stava risalendo in alto verso i pascoli inariditi del Monte Marsicano e la cresta che divideva quel luogo dalla più selvaggia Valle Orsara. L'Orso bruno sarebbe poi disceso ancora, verso quella valle, fino ai boschi di querce dove avrebbe trovato i cornioli e i biancospini e mele selvatiche, ma questo più avanti nella stagione, al giungere delle prime nevicate.
Era vissuto tutta l'estate cibandosi di piccoli animali trovati sotto le pietre o nei formicai e nei tronchi in decomposizione; di erbe e di frutti selvatici, e a volta di pecore predate allo stazzo dello Schiappito, sotto il Monte della Corte. Allora aveva il suo rifugio nella foresta che ammanta la valle; ogni giorno un luogo diverso, scegliendo i posti più nascosti ed intricati nella vegetazione tra le rupi, spostandosi da un giaciglio all'altro, ogni volta riattandoli o scavandone di nuovi. Ora stava spostandosi verso quartieri autunnali.
Nugoli di piccoli uccelli migratori passavano rumorosi in un continuo chiamarsi, chiassosi puntolini in movimento che subito si confondevano nel paesaggio. Una leggera fredda brezza spazzava le cime trascinando banchi sottili di nubi a manifestare l'ampiezza del cielo. L'Orso bruno camminò lesto salendo sempre più in alto, superò la distesa di ginepri che tingevano di verde scuro il grande anfiteatro della valle. Nella vasta bianca ondulata pietraia dell'antica morena gli steli ormai secchi delle genziane lutee tremolavano per la brezza, e i piccoli semi cadevano attorno. In quel silenzioso e immoto paesaggio, tra le pieghe della morena, due lupi apparvero d'improvviso innanzi all'Orso bruno, e scattarono in una fuga precipitosa, spaventati. Si fermarono poco lontano e si voltarono ad osservare attenti l'animale che li aveva destati dai loro giacigli al riparo tra i massi, poi trotterellarono via indifferenti, verso la lontana scura linea dei boschi, nella direzione opposta.
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Nell'ispido cespuglio di pruno carico di bacche blu cobalto, il nido del topo quercino si mimetizzava con l'intrico fitto dei rami screziati di licheni biancastri. L'animale lasciò quel rifugio aereo che si era preparato con minuziosa attenzione, trasportandovi muschi e fili d'erba dalla capanna attorna, e scese a terra attraverso i rami e i tronchi del pruno.
Il muso bianco e nero annusava nell'aria oltre la sicura barriera della siepe, poi la sagoma grigia del topo quercino si mosse verso l'albero di mele selvatiche poco distante. Lo squittire d'altri topi quercini gli giunse da quel luogo nell'imbrunire del giorno, e aumentarono col calare delle tenebre.
Le mele selvatiche non erano mature, ma alcune già erano cadute al suolo e si erano ingiallite tra l'erba umida. Il topo quercino raccolse un frutto e lo addentò, rosicchiando veloce la polpa asprigna, poi lo afferrò forte coi denti e corse nel buio verso il vuoto della notte, si alzò intanto il vento e rade gocce di un temporale lontano giunsero col vento a rumoreggiare tra i cespugli, inumidendo le foglie ormai impallidite e la vegetazione secca del prato. Il topo quercino ripartì verso il melo, sparendo nel buio tra l'erba alta.
All'alba il luogo era quieto e immutato nel freddo grigiore della prima luce filtrata tra le nubi ancora cariche di pioggia, ma molti frutti non giacevano più nell'erba sotto il melo selvatico.
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Nella notte, nelle radure e nei coppi, la rugiada a volte già gelava sugli steli. Allora all'alba i raggi del sole filtrati dalla nebbia si disegnavano nell'aria come se trafiggessero i boschi.
Durante il giorno la cappa di nubi non abbandonò mai la vetta delle montagne, anche se, a tratti, lievi pioggerelle sembravano schiarire il paesaggio. Banchi di nebbia continuarono a salire e a scendere lungo le valli, stagnando sul bosco. Sul far della sera scendevano poi fino a lambire l'altopiano di Macchiarvana, trasformando le foreste in un grigio inestricabile labirinto d'alberi che ne esaltava la vastità.
In un anfratto tra le rocce del Vallone Cesarello, nascosto da grovigli di lamponi, epilobi e novellame di faggio, l'Orso bruno si destò dal suo torpore. Si sollevò ed uscì deciso dal ricovero. Nel silenzio ovattato dalla nebbia attraversò la foresta scura di ombre, andando verso la Valle della Strega.
Le foglie degli alberi stavano ormai mutando colore e nei luoghi più freddi molte erano già cadute. Nei boschi la sinfonia dell'autunno era iniziata con quei colori e con primi freddi. Gli aromi erano diversi, diversi i rumori e l'atmosfera: era ovunque odore di muffe e di foglie morte, odore della terra umida, e mutato era il canto degli uccelli, o era sparito.
I rami e le foglie degli alberi stillavano l'umidità che si condensava con la nebbia, e il rumore di grosse gocce che battevano la lettiera morta accompagnava il frastuono dei passi dell'Orso bruno che saliva ai coppi del ramno, dove i grossi cespugli erano ancora carichi di piccole bacche nere mature e dolci. Tutta la notte l'Orso bruno si aggirò pigramente tra i cespugli saziandosi.
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Col sole si destarono i gracchi alpini. Si alzarono in volo a decine dalla Serra di Chiarano, sollevandosi in ampi voli insensati, trascinati dal vento sulle loro ampie ali nere. Gridavano, si chiamavano; poi sparvero improvvisi dietro la cresta dell'alta Valle Cupa.
I gracchi ricomparvero più tardi, ad infastidire uno sparviero che volteggiava sulla foresta, e nei loro giochi aerei scesero poi sotto la balza delle rupi dove ogni primavera andavano a nidificare in oscure cavità. Si buttavano in rapide picchiate ad ali chiuse verso la parete o nell'anfratto, dove si fermavano su precari posatoi, per ripartire subito dopo più chiassosi di prima ad infastidire ancora lo sparviero, che per un momento tornò a sorvolare alto sulle chiome dei faggi. Il falco saettò tra loro per sfuggire alle fastidiose attenzioni e si allontanò scendendo nella valle boscosa. I lucidi neri uccelli continuarono a lanciare i loro schioccanti richiami, poi sparvero anch'essi, verso la cresta, dove scesero a becchettare tra l'erba avvizzita, attratti da un gruppo sgargiante di fringuelli alpini che già rovistavano sul pascolo.
Il sole era ormai alto ma non scaldava la cresta spazzata da un vento freddo; si erano dissolte le nubi estesesi sulla valle durante la notte come una cappa caliginosa; verso sera si sarebbero però riformate, addensandosi col cambiare della temperatura.
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Aveva ripristinato il giaciglio costruito chissà quanti anni prima da altri orsi, assestandolo con erbe, foglie e terriccio, ma soprattutto con resti di legno in decomposizione. Era una conca molto grande e infossata, nascosta ai piedi di un acero opalo tutto contorto e rinsecchito per l'età. Il luogo era tra le rupi calcare del Balzo del Caprio dove prosperavano le rose di macchia, il ciliegio canino, l'uva spina e il caprifoglio.
Prima che il buio fondesse i chiaroscuri del crepuscolo nella grande ombra della notte, l'Orso bruno abbandonò il giaciglio e tornò ancora alle macchie dei cespugli sulla linea tra il bosco e il pascolo.
Dalla cresta frastagliata d'alberi tra Coccoluso e la Rocca, le ombre silenziose degli uccelli notturni sembravano rincorrersi tra i rami mentre l'Orso bruno rivoltava i sassi nelle radure e mangiava le bacche del ramno; e il loro mesto chiamare non smise che a tarda notte.
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Venne il sole ad illuminare la spoglia dorsale della Serra, e le festuche morte si indorarono nei loro colori di tarda stagione, tingendo il pascolo di rosso ruggine in una ultima apparenza di vita. Una coppia di gheppi sorvolava in caccia spostandosi in continuazione, soffermandosi a tratti in stallo contro il vento, ad ali tese scosse da un fremito continuo e la coda aperta a ventaglio.
Nelle prime tenui tinte giallo-rossicce dell'autunno la foresta sembrò appassire attorno al Coppo del Serrone e fin su dove si aprivano i pascoli, sotto la cresta spezzata da aspri balzi rocciosi. Solo un leggero ondeggiare delle fronde mosse dal vento e un lontano chiamarsi di poiane la ravvivavano.
Il vento diminuì verso sera e cessò, e col vento sparvero i gheppi dal cielo.
Quando il sole cominciò a scendere dietro la linea dell'orizzonte, dalla foresta giunse un primo bramire di cervo, poi risposero altri e come un eco il loro chiamare tornò a destarsi ovunque.
A notte fonda l'Orso bruno apparve nella radura venendo anch'esso dalla foresta. In fondo al prato un maschio di cervo caracollava da un punto all'altro e bramiva in continuazione spingendo avanti a se un branco di femmine che pascolavano inquiete.
FOGLIE MORTE
Tra i tronchi alti e spogli degli alberi che radi scendevano verso il Vallone delle Palanche, le tre cime dei Mortari splendevano nitide illuminate dal sole oltre l'orizzonte dei pini della Selva Bella.
Il volo dei crocieri turbinò per un attimo sull'alta chioma del pino nero ai cui piedi stava coricato il camoscio; gli uccelli schiamazzarono e poi ripartirono chiamandosi, e il loro suono si perse lontano. Il camoscio riprese a ruminare lento, con l'occhio vigile alla pendice del Monte Amaro dove un branco di femmine e di piccoli pascolava tra larghe chiazze di ginepri nani. Nell'aria tersa e tiepida di quella giornata senza vento il ronzio delle mosche era ripreso ad infastidire l'animale, che scuoteva il pelo con fremiti della pelle per scacciarle.
Sul pascolo il branco dei camosci si spostava piano verso le cime, brucando magri fili d'erba. Da dietro le rupi che si alzavano più ad occidente altri camosci apparvero, osservarono il paesaggio immoto ed intuirono la quiete degli animali, poi si coricarono anch'essi sulle rocce a ruminare pigramente.
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Le nebbie e le nubi che si erano formate all'alba si dissolsero quando il sole cominciò a scaldare la terra. Tardi in mattinata solamente nelle radure dell'altopiano della Macchiarvana le nebbie stagnavano ancora come nubi sulla terra.
L'Orso bruno abbandonò la valle, salì a destra fino alla cresta frastagliata di alberi che la divide dal Monte Tranquillo, e scomparve nell'umida ombra del bosco; un altro Orso si allontanò verso i Campitelli della Rocca, nascondendosi nella stentata ma intricata vegetazione di quel luogo.
Il sole era caldo, anche se un vento forte si era alzato a spirare dal mare verso l'interno, presagio di altre nebbie e di piogge. Nella vallata i ciuffolotti si chiamavano dagli alberi di sorbo; molti venivano dal nord e scendevano al sud verso più miti dimore di svernamento. Vivevano delle bacche del ramno e dei sorbi, che saccheggiavano nelle fasce più alte dei boschi dove le piante ormai spoglie e con le foglie appassite dei primi freddi erano cariche di frutti rossi in ricchi penduli grappoli.
Sui pascoli ormai vuoti di vita, dove il freddo aveva appassito gli ultimi fiori tardivi e dove anche gli steli delle festuche si erano tinti di giallo ed erano rinsecchiti sulle punte, unici i sordoni facevano ancora udire il loro chiamarsi.
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I primi freddi si fecero sentire in anticipo quell'autunno; già tutte le foglie dei faggi, degli aceri, dei sorbi, dei carpini e degli ornielli avevano mutato il loro verde nelle tinte giallo oro, rossiccio e violaceo delle foglie moribonde, impallidite al tocco del gelo notturno. Sui prati la brina scendeva ogni notte ad increspare la terra umida, e nelle bassure dove il freddo era più intenso la notte un velo di ghiaccio sottilissimo disegnava strani arabeschi sulle pozze d'acqua, disegni che poi ogni giorno il sole cancellava sciogliendoli.
Le erbe dei prati erano ingiallite e morte e i pascoli del Monte di Valle Caprara avevano assunto una tonalità diversa, arrossati anch'essi come l'immensa faggeta della Valle dell'Acquarita. Nei boschi le foglie si indoravano e cadevano in continuazione, scivolando sulle folate di vento freddo fino a posarsi sul terreno con milioni di altre.
Dall'Ortella l'Orso bruno aveva cominciato a scendere verso la valle seguendo la linea del bosco. Lassù il ramno aveva ormai finito il suo ciclo, e le bacche rimaste sui rami erano raggrinzite e rese insapori dal gelo.
Nei boschi la faggiola stava cadendo al suolo, abbondante quell'autunno, a mano a mano che i gherigli si aprivano sotto la forza delle fibre legnose in tensione con l'essiccamento. Disturbato dai cinghiali che presero a razzolare nella lettiera in cerca di quei semi, l'Orso bruno si rifugiò nello sprofondo della Selveta, più in basso sulle montagne, dove i carpini ingialliti sulle pendici più solatìe contrastavano con le fiammeggianti tinte degli aceri opali abbarbicati alle rupi in fondo alla gola.
Gli uccelli migratori stavano lasciando quei monti, e nelle foreste, ad esplorare gli interstizi dei licheni, rimanevano le chiassose brigate delle cince, coi rampichini e i picchi muratori.
A sera in quel triste paesaggio d'autunno solo i pettirossi tornarono a cantare come a primavera.
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Il verde smorto della faggeta si era lentamente sbiadito per divenire bruno dorato: il freddo a quella quota aveva da tempo fatto sentire la sua morsa con virulenza, e le pennellate di colore scendevano sulle pendici fino a giungere ai bordi inferiori della foresta nella vallata di Macrana.
Il sole era sorto da poco da oltre i monti da est e i raggi obliqui avevano subito illuminato la vetta del Turchio indorando il pascolo. L'astro salì poi presto all'orizzonte e la luce scese sulla faggeta, ravvivando ancora una volta le chiome in agonia.
Dalla foresta si levò un primo segno di vita con lo schiamazzare delle ghiandaie dove i frutti dei faggi si stavano aprendo lasciando cadere la faggiola. Volavano di ramo in ramo, irrequiete, chiassose. Quando l'ampia sagoma dell'astore apparve tra esse vi fu prima un silenzio di paura e poi un frenetico sbattere d'ali e acute grida d'allarme; subito dopo il silenzio ridiscese sulla foresta. Al suolo il rapace spennava a colpi di rostro la sua preda per quel giorno.
Sul pascolo ingiallito e vuoto passarono alcuni spioncelli chiamandosi; la stagione era tarda, presto anch'essi sarebbero scesi dalla montagna e non sarebbero tornati che alla primavera successiva. Il cielo bianco e trasparente di foschia presagiva le piogge fredde che si sarebbero poi mutate in nevischio durante le notti; lontano sulla piana del Fucino le nebbie stagnavano ormai ogni mattina, fredde.
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La faina sbucò dal cespuglio di ceduo di faggio, tra il groviglio delle piante verdi con quelle morte e con i rami caduti; lì aveva la tana. A lunghi balzi corse sul dosso tra due campi incolti, andando verso la foresta. Le ombre della sera si allungavano attorno ai boschi e ai cespugli di pruno, d'acero campestre e dell'evonimo rosseggiante di bacche; un vento freddo sfiorava l'erba appassita. La faina si fermò e annusò verso il bosco fissando nell'ombra scura con gli occhi neri e lucidi, e riprese a correre a balzi, sparendo. Si sentì poi muovere tra le foglie secche, come un frusciare smorzarsi lontano; inghiottita dal bosco, misteriosa come era improvvisamente apparsa, la faina sparì.
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Rumoreggiando pesantemente nelle foglie cadute e ancora soffici in spesso strato nella foresta, l'Orso bruno attraversò la boscosa pendice fitta d'alberi scivolando come un fantasma tra i tronchi grigi dei faggi, diretto ad una località a lui ben nota in fondo alla valle. Aveva già soggiornato là in primavera, riposando di giorno in un giaciglio posto ai piedi di un grosso carpino nero cresciuto sopra le rocce.
Avanti nella notte l'Orso bruno ritrovò l'albero e ritrovò il giaciglio: i rami verdi dei faggi che aveva spezzato per costruirsi quel suo strano nido erano ormai secchi e il legno marcescente che aveva staccato dall'albero usando gli unghioni per forzare una larga ferita del vecchio tronco, era stato spazzato via e fuso alla terra dalle violente piogge dell'estate. L'animale riassestò il giaciglio con decisi colpi delle zampe nel terreno, poi tornò ad imbottirlo rozzamente scrostando muschio e altro legno morto dall'albero, e si coricò a riposare.
Altri orsi erano stati in quel luogo, e i giacigli sparsi nella zona ne portavano i segni: mucchi di escrementi odorosi di pere selvatiche e di faggiola erano ammonticchiati ai loro margini, segni di quel riposare. Evidenti erano i passaggi d'animali nella lettiera, che tra rupi e canaloni univano i giacigli gli uni agli altri.
Il sole era ormai alto quando l'Orso bruno si risvegliò cambiando posizione nel giaciglio. I raggi non scaldavano molto, smorzati da un pulviscolo di nubi che ingrigiva il cielo. Un vento freddo soffiava anche dalla montagna e scuoteva il bosco dei carpini sulle creste della serra di rupi, accumulando le foglie morte nei canaloni. E nell'ombra di quella zona impervia la brina notturna durava tutto il giorno. Dove riposava l'Orso bruno, al riparo del vecchio carpino, la temperatura era però mitigata dal pallido sole.
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Quasi ogni mattina dalle pianure salivano banchi di nebbie trasparenti che andavano a stendersi come veli sulle radure, in strati più densi nelle conche e negli avvallamenti. Le giornate si erano accorciate e a sera quando le ombre delle montagne si riversavano nelle vallate al tramontare del sole, la temperatura variava lentamente e il freddo si faceva poi sentire pungente la notte.
Da tempo il verde ormai opaco delle foglie d'estate era appassito, e predominava il giallo, che si mutò poi in oro sui faggi e sugli aceri montani e in rosso carminio sugli aceri opalo. Il colore della ruggine tinse le piccole foglie dei peri corvini abbarbicati alle rocce e nelle pietraie, e quelle della fusaggine nelle siepi, confondendosi con i penduli frutti dello stesso colore; i peri selvatici si indorarono e poi le foglie si annerirono colpite dal gelo. Solo alcuni alberi resistevano più a lungo al freddo delle notti, e le loro chiome verdi spiccarono nitide come quelle spoglie degli alberi colpiti invece per primi dalla forza annientatrice delle gelate; il resto della foresta si ravvivò nelle molteplici sfumature di quei colori d'autunno che nel culmine del processo distruttivo sembrarono incendiare la tormentata vastità degli alberi.
Ogni autunno l'onda dei colori giungeva in crescendo e restava all'acme per pochi giorni, poi improvvisamente si spegneva, tutto si imbruniva in un colore uniforme e le foglie morte aumentavano la loro caduta, lasciandosi strappare dal vento e dai temporali o staccandosi dai rami per il loro stesso peso col cessare del defluire della linfa lungo i piccioli; cadevano al suolo a nascondere quelle dell'anno precedente già fuse alla terra dalla neve e dalle piogge, dando inizio ad altri processi vitali per la foresta.
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All'albeggiare, dalle radure dell'Obbaco ricche di meli selvatici carichi di frutti acri, la femmina dell'Orso bruno prese a salire verso l'alta cresta del Monte Amaro, allontanandosi nella foresta seguita dai piccoli. L'orsa saliva lenta seguendo i ripidi canaloni, quasi incurante dei due cuccioli che arrancavano lesti sulle sue orme. I plantigradi sbucarono sul pascolo dello Stazzo che già il sole scioglieva le gemme di ghiaccio della brina. Ignari della loro presenza un branco di camosci femmine e di piccoli pascolava quieto e riposava sulla dorsale del monte.
La grande orsa fermò il suo passo al limitare del bosco e attese i cuccioli annusando il vento e fissando curiosa con i suoi piccoli occhi attenti il movimento del branco. Un robusto maschio, possente nelle forme e con le lunghe corna uncinate lucide come pece, sbucò improvviso dal bosco provenendo anch'esso dall'Obbaco. Il periodo degli amori era agli inizi per i camosci e il maschio si approssimava euforico al branco delle femmine scornando in direzione di un secondo maschio apparso sul pascolo. I due animali segnalarono la loro bellicosa presenza soffiando dalle narici.
Con i peli irti sulla linea del dorso, il pene ciondoloni dal ventre e il capo abbassato in difesa, il primo maschio scattò e come un fulmine fu addosso all'altro con violenza; impaurito dall'aggressione il maschio più piccolo rinunciò a rivendicare diritti sulle femmine e, inseguito dappresso dall'altro, si voltò in una rapida fuga verso il bosco in direzione dell'Orso bruno confuso tra la vegetazione. I due camosci passarono furiosi lì accanto senza vederlo e si allontanarono in un rumoroso rovistare di foglie morte e di rami.
Nel branco le femmine e i piccoli sollevarono il capo spaventati dal trambusto dei due maschi in lotta, e alcune videro l'Orso bruno e i suoi cuccioli muoversi al limitare del pascolo; in un attimo tutti intuirono la presenza di un nemico e furono in piedi con lo sguardo che cercava il pericolo. Lo scattare di una femmina verso la cresta li mise tutti in movimento, il timore si propagò dall'uno all'altro dei camosci e anche quelli che non avevano visto l'Orso bruno ne furono pervasi e fuggirono per istinto.
Gli orsi attraversarono il breve tratto scoperto del pascolo e scesero sull'altro versante al riparo degli annosi faggi che chiudono in alto la selva della Cacciagrande. Dall'alto della cresta i camosci seguirono attenti i loro movimenti.
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Ampi banchi di nubi si affacciavano sull'orizzonte che dall'Ortella va al Monte Marcolano, e prorompevano lungo il Vallone Lampazzo ed il Camposecco ad adagiarsi sulla macchia dei boschi della Cicerana.
Gocce d'acqua cadevano pesanti a percuotere l'umida lettiera di foglie che rivestiva il suolo, con suoni cupi e continui ovunque nel labirinto d'alberi. I licheni erano vividi sui grigi tronchi dei faggi, e umidi festoni gialli e cinerei pendevano dai rami nei punti più infossati dei valloni, dove l'umidità stagnava tutto l'anno più che altrove. Il muschio ricopriva tutti i tronchi delle parti basse, e saliva molto in alto nell'esposizione a settentrione.
Oltre la montagna del Turchio l'ampia conca del Fucino era un immenso banco lattiginoso e morbido che si gonfiava col passare delle prime ore del giorno; la nebbia si insinuò poi nel taglio profondo della gola Macrana e del Vallone di Lecce Vecchio, e risalì in sfrangiate lingue spinte da una invisibile corrente ad inondare la valle che digrada dal Passo del Diavolo e dall'Aia Mandrilli, quasi ad unirsi alle scure nubi che si intravedevano dietro l'orizzonte del Monte Turchio verso Valle Caprara e l'altopiano della Cicerana.
Nel silenzio uggioso s'udì lieve il chiamare sibillante del rampichino e quello martellante del pettirosso. L'aria era satura d'umidità e l'odore fragrante dei tronchi e del legno in putrefazione sembrava espandersi nella calma tristezza di una lieve pioggia che nasceva dalla nebbia; rado si udiva il cadere delle ultime foglie ingiallite, pesanti d'umidità anch'esse, battere i rami e rotolare al suolo come il cadere di gocce troppo gonfie.
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L'autunno avanzato aveva fatto scendere al suolo buona parte dei frutti selvatici. Lungo le siepi tra i campi incolti i rossi semi della fusaggine, delle rose canine e dei biancospini tingevano di colore le macchie.
Nel bosco del Colle di Licco l'Orso bruno gironzolava passando da un melo selvatico all'altro, pigramente, cogliendo quello che la natura così facilmente gli concedeva in quella stagione che preannunciava l'inverno. Aveva bisogno di mangiare molto, di produrre molto grasso così che durante il lungo sonno invernale lo stimolo della fame non lo svegliasse costringendolo a lasciare la tana in una vana ricerca di cibo.
Altri orsi frequantavano quei boschi in quella stagione; alcuni andavano e venivano dalla Valle Ciavolara e dalla Valle Rapino, dove si sarebbero poi ritirati tutti prima del finire dell'anno.
Col freddo le rosse bacche della rosa selvatica e gli azzurrognoli frutti del pruno, acri prima, si addolcirono toccati dal gelo, e l'Orso bruno li divorò come un'ultima risorsa, iniziando a spostarsi verso le tane d'inverno.
Aveva sentito più volte i cervi bramire quell'autunno, senza sapere che quel bramito segnava il concepimento di altre vite perché i maschi in amore stavano passando quei giorni battendosi tra loro e accoppiandosi con le femmine. Più avanti nella stagione il bramito cessò. I giorni passarono e le ultime foglie dorate si incupirono sugli alberi, divennero brune e caddero poi ad una ad una al suolo, spogliando i boschi e facendo apparire morti gli alberi vivi.
In quei giorni anche i piccoli e silenziosi topi selvatici e le arvicole si sentivano rumoreggiare nello spesso strato di foglie cadute. Poi una sera venne a piovere e l'acqua smorzò tutto quel frusciare, impregnò le foglie, le appiccicò l'una all'altra e le spinse a mischiarsi con la terra per ritornare terra.
Quando giunse la prima neve ad imbiancare la cresta dei monti, l'Orso bruno si allontanò dal Colle di Licco.
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Sui versanti più esposti al sole del mattino, dove anche in inverno la temperatura si manteneva a livelli meno rigidi, il maschio di Orso bruno aveva predisposto le sue tane e i suoi giacigli invernali; erano concentrati in piccole zone ben scelte per il loro aspetto selvaggio, coperte dalla stentata vegetazione arborea dei luoghi rupestri ed aridi. Da generazioni gli orsi utilizzavano quegli stessi ricoveri, nei quali si trovavano ormai accumulati grandi quantità d'erba secca.
Nella Valle di Mezzo i pascoli e i campi coltivati erano ancora ricchi di graminacee verdi, specie dove sgorgavano le sorgenti; e sotto i peri e i meli abbondavano i frutti. Ovunque le rose canine avevano reclinato i frutti, ammorbiditisi e addolcitisi col gelo.
L'Orso bruno passò il giorno nascosto nei boschetti di pioppo tremulo sulle pendici più basse della montagna, al limitare della faggeta; le foglie tardive dei tremoli risplendevano ancora nella loro veste dorata che precedeva la morte, e ogni giorno sembravano accendersi quando il sole le illuminava, contrastante macchia colorata nel bruno della già spoglia faggeta.
All'imbrunire una poiana apparve da dietro la cresta e volteggiò sulle pendici boscate. L'Orso bruno lasciò il suo giaciglio tra il novellame dei tremoli e le ginestrelle, e mentre calava la notte scese nella valle. Nella luce del crepuscolo la nera lucida sagoma dell'animale scivolò verso i campi d'erba medica chiusi tra folte siepi di pruno e di ciliegio canino.
TARDA STAGIONE
Il rumore proveniva dalla parte alta del canalone, verso la cresta a sinistra, tra la Liscia e il Vallone dei Zappineti; un lieve battito ritmico, deciso, a tratti, poi silenzio e di nuovo battere.
Aggrappato al rugoso tronco di un pino nero il picchio rosso gridò concitato, segnalando la sua presenza, quando un rotolare improvviso di sassi giunse dal canalone dove stava passando in quel momento un gruppo di camosci. Il rumore sordo dei sassi smossi dagli animali si acchetò poco più a valle, attutito nello spesso manto di foglie morte che il vento e la pioggia avevano accumulato là in fondo.
Tornato il silenzio, il picchio riprese a battere forti colpi di becco contro la pigna che aveva infisso tra le crepe della corteccia del pino per spezzare i pinoli e per estrarre la loro polpa aromatica. La pigna vacillava sotto i colpi, scivolando dal suo supporto, e il picchio cessava allora di martellarla per rifissarla più tenacemente con forti pressioni del becco prima di riprendere a batterla.
Alcuni regoli apparvero poco dopo sull'albero, minuscoli, assieme alle cince more. Rovistarono tra gli aghi folti chiamandosi in continuazione, sommessamente, poi si allontanarono, e fu come il passare dolce di un lieve colpo di vento tra i rami odorosi di resina. Dai pini lungo la cresta il battere del picchio continuava a giungere ai camosci, che superato il canalone andarono ad adagiarsi al sole contro una rupe, tra faggi ormai spogli e alti cespugli di pino mugo.
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Le acque del Fiume Sangro quel giorno d'autunno scorrevano torbide e gonfie, e trascinavano nella loro furia spumeggiante tronchi, rami e terra strappata alle anse dove la corrente divorava le sponde in un logorio continuo. Cumoli enormi di foglie ferruginose correvano nel ribollire dell'acqua color ocra, mentre nel fondo del fiume i ciotoli e la sabbia rotolavano incessantemente verso valle mutando l'aspetto del letto ad ogni momento.
Pioveva ormai da diversi giorni. La furia delle acque raccolte da tutte le convalli della Foce trascinava verso il corso del fiume grandi masse di detriti e con essi le ultime foglie cadute al suolo sotto la sferza della pioggia insistente dei giorni precedenti, strappate dalla forza distruttiva del vento che correva i canaloni soffiando gelide e umide folate tra gli alberi.
In quei giorni nella gola non si udirono più i fischi delle taccole né le stridule grida del falco pellegrino. Le acque del Sangro si gonfiarono sempre più, si intorbidirono e cominciarono a trascinare tra le loro onde tronchi e rami d'alberi strappati alle rive o disincagliati là dove si erano arenati durante altre piene. Le trote, i granchi, le rane e l'altra minuscola fauna del fiume cercò riparo nelle anse più tranquille; alcuni animali furono trascinati inesorabilmente verso valle, altri furono schiacciati dal rotolio dei ciottoli sospinti dalla forza della corrente; solo le trote sarebbero poi rimontate ai loro lidi nei giorni seguenti la piena.
Dove le lontre avevano la tana, le acque si sollevarono di alcuni metri dal normale livello del fiume, vorticando nelle anse contro le rocce, scendendo in pressione lungo la stretta forra della Foce.
La tana sfociava nel fiume sotto le radici di un enorme albero di pioppo nero cresciuto sulla riva sinistra del fiume, là dove la gola si apre lasciando spazi ad alcuni pianori. Quando giunse la piena ad allagarla, le lontre si tuffarono entro il condotto d'uscita e sbucarono nella melmosa corrente del Sangro in piena, dove l'acqua gorgogliava attorno alle radici del pioppo. Videro il letto del fiume esteso due volte quello che era pochi giorni prima; le acque rossicce mulinavano in numerosi vortici attorno ai massi sul fondo del greto e correvano precipitose rumoreggiando come un tuono continuo verso valle, trascinando cumoli di vegetazione, grovigli di rami e foglie, nella limacciosa corrente. Pioveva a dirotto, e la pioggia batteva con gocce furiose sulla superficie increspata del fiume.
Sotto la pioggia torrenziale il giovane Orso bruno risaliva la gola lungo una traccia antica di sentiero che costeggiava le acque. Girovagò sulla sponda del fiume, ovunque insuperabile; provò alcune volte a scendere in acqua nel tentativo di guadarlo ma la corrente forte e l'acqua alta lo spaventarono ogni volta. Continuava a risalire la gola selvaggia nell'umida bruma dell'acquazzone.
L'uragano non tendeva a diminuire di intensità: i tuoni presero a rimbombare nella forra mentre i lampi squarciavano la penombra che regnava sotto la cappa scura del temporale.
L'Orso bruno incontrò le lontre e sempre queste lo sfuggirono flessuose nell'acqua sporca, paurosa nei suoi mulinelli attorno ai massi. L'Orso lasciò infine la riva e prese a salire i canaloni della gola, rinunciando a superare il fiume.
Pioveva sempre quando sotto lo scroscio continuo dell'acqua, il risuonare dei tuoni e il riverberare dei lampi giunse sull'orlo della grande forra di Barrea, al Colle Zoppo, dove trovò le numerose ghiande del cerro che la pioggia violenta aveva buttato al suolo.
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L'alba arrivò lentamente; si fece giorno a mano a mano che il cielo si tingeva di vitreo biancore verso oriente. Poi apparve un alone rossastro che incendiò le nubi ormai rade, spazzate dalla brezza notturna e dissolte in una nebbia; e sorse il disco rosso del sole. I suoi raggi non erano caldi, soffocati dalla foschia. Il freddo era intenso in quelle prime ore dell'alba, e le pozze d'acqua ghiacciate, solo attorno alle sorgenti i rivoli non gelarono allo scaturire dal sottosuolo, per la loro temperatura più mite.
Alla sorgente Vaccareccia un branco di cervi femmine guidato da un grande maschio con le corna possenti beveva l'acqua limpida, poi incurante del freddo il maschio si rotolò nel fango attorno alla polla sorgiva. L'Orso bruno giunse silenzioso dal bosco e si fermò, ma la presenza di un pericolo destò lo stesso i sensi del grande maschio, che schizzò in piedi e con le froge dilatate osservò per un attimo la sagoma scura dell'Orso bruno tra la vegetazione smorta di colori. Poi tutto il branco fu all'erta e fuggì verso le selvose pendici dell'Obbaco. Il loro passaggio nel folto fu come il rotolio di sassi lungo una china; lo sbattere delle possenti corna del cervo maschio che frustavano i rami e le piccole piante si udì presto lontano, poi ebbe fine e il bosco si chetò.
L'Orso bruno si avvicinò alla fonte e bevve l'acqua imputridita dal gioco dei cervi, ma ciò che lo aveva attirato là più che la sete era l'odore che emanava un tronco di pino nero che emergeva quasi dalla polla d'acqua, martoriato da graffi antichi che generazioni di orsi avevano segnato con i loro forti unghioni ed intriso di peli che la resina tratteneva con tenacia; il suo fiuto gli disse che altri orsi erano stati alla fonte in quel periodo, approssimandosi alle tane d'inverno. Anche l'Orso bruno dopo aver annusato il pino gli si strofinò contro coi fianchi e con la schiena e ferì la corteccia con le unghie e coi denti.
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Dal Vallone Grosso, alti nel cielo, giunsero due gracchi corallini, una coppia. Volavano fianco a fianco verso il Coppo del Campitello e il loro schioccante verso risuonò più volte nella valle; ma l'Orso bruno non li vide nentre entrava nel bosco superando le ombre scheletrite dei faggi ormai spogli delle foglie color rame. Seguì un sentiero tra le rupi ed una vegetazione boschiva accidentata da rami morti e tronchi d'albero rovesciati dalle valanghe, e si perse nel folto della faggeta.
Il tardo autunno lo trascorse in quell'aspra vallata. La faggiola era abbondante e visse di quei piccoli semi piramidali che trovava tra le foglie morte sotto i faggi secolari. Scese alcune volte la valle fino a giungere alle cerrete; mangiò le bacche dei sorbi cogliendole ai piedi degli alberi dove i tordi e i ciuffolotti le facevano cadere mentre saccheggiavano i frutti sui rami; mangiò le mele e le pere selvatiche e i freschi cespi di graminacee novelle che in quella stagione tornavano a spuntare nelle sorgenti. Incontrò altri orsi che come lui abitavano quel luogo, anche una femmina con due cuccioli. Nella valle venne poi a contendergli il cibo un branco di cinghiali, che vi si insediò, violento e rumoroso fino all'inverno.
Abbandonò quel luogo quando il freddo si fece più pungente e quando una notte la neve venne ad imbiancare tutte le montagne fino al fondovalle; salì allora le pendici e raggiunse le vecchie radure del Campo di Mezzo, dove le bacche delle rose selvatiche erano ancora abbondanti.
Più avanti nella stagione scese a nascondersi nei folti boschi di carpino del Vallone, e tempo dopo ancora, si rifugiò in una tana nascosta tra i lecci sotto le rupi calde della Serra.
Nel paesaggio già brullo di alberi spogli soltanto le carminie foglie dell'acero opalo splendevano ancora di colori, e sul limitare della faggeta macchie dorate di pioppo tremulo vibravano come in un ultimo fremito di vita; durante la notte un lieve cadere di neve venne a spennellare le cime dei monti.
L'improvvisa distesa bianca dell'inverno, che era scesa anche nei boschi sotto la frastagliata linea dei pascoli, si spegneva più in basso vinta dal bruno delle faggete e dalle temperature più miti. Il branco dei cervi passò sfrascando nelle foglie, tracciando un sentiero nel lieve candore di quel pulviscolo di neve ghiacciata depositata sulle foglie morte, e scuotendo i rami più bassi degli alberi. Dalla Montagna di Godi scesero diritti verso l'alta Valle Rapino e il loro andare rumoroso si perse nella quiete dell'alba fredda di novembre.
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C'era silenzio nel coppo, pallidamente illuminato dal sole del mattino velato di nebbie. L'immobilità del paesaggio spoglio e bianco di brina cessò però improvviso quando il volo dei ciuffolotti si materializzò sul rosseggiante albero di sorbo.
Gli uccelli svolazzarono a lungo tra i grappoli carichi di bacche; solo quando più tardi giunsero invadenti le tordele e le cesene, i ciuffolotti abbandonarono il sorbo e ripresero il volo sparendo oltre il Balzo Travagliuso.
Di notte venne la volpe a cercare le bacche tra l'erba avvizzita ai piedi dell'albero, con passi furtivi sul tappeto di foglie morte tinte dalla brina.
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Col calare della sera l'ampia foresta aveva assunto una tonalità scura, violacea per il colore di milioni e milioni di minuscole gemme che subito dopo la caduta delle foglie già erano pronte a schiudersi al giungere dei tepori della primavera.
L'Orso bruno discese nella Valle Fondillo dalla Serra delle Gravare, calpestando lo strato di freddo nevischio che si era conservato nella zona d'ombra del pascolo esposto a nord; un volo di coturnici si alzò rumoroso innanzi a lui, e con rapidi colpi delle tozze ali gli uccelli sparirono verso il Monte Irto.
In fondo alla ripida pendice della Serra le valanghe degli inverni precedenti avevano aperto una larga striscia nella foresta, abbattendo gli alberi con la spinta dello spostamento d'aria. Nell'intrico dei tronchi abbattuti la vegetazione pioniera era cresciuta rigogliosa; novelle piante di acero, di sorbo e grovigli di lamponi ed epilobi si intrecciavano agli alberi morti ormai marcescenti, ai ceppi divelti e alle loro radici esposte alla luce, ai rami a ai tronconi schiantati.
La macchia di epilobi rosseggiava nelle tinte del tardo autunno, e la ovattata bianca distesa dei baccelli aperti e traboccanti di piccoli semi spiccava nitida nel grigiore di quel luogo. L'Orso bruno si addentrò nell'intrico dei tronchi e di vegetazione smorta; ciuffi di bianco cotone che pendevano dalle cime secche degli epilobi si attaccarono al ruvido pelo dell'animale tramite morbidi filamenti ovattati, e si spostarono così con l'Orso nella foresta, dove li perse ad uno ad uno sfiorando gli alberi, seminandoli.
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Da tempo le foglie dei faggi erano cadute al suolo a formare strati di una lettiera nuova e frusciante per la terra, e il vento le scompigliava ammucchiandole in soffici strati nelle conche.
Il freddo era oramai intenso la notte e la neve caduta sulle cime più alte durante le ultime perturbazioni dell'autunno non se ne era più andata dai versanti esposti a settentrione. All'imbrunire, mentre le ombre si fondevano col buio, dalla lettiera di foglie morte del sottobosco minuscole argentee falene apparvero come dal nulla a punteggiare di bianco il crepuscolo.
Quando l'uscita delle farfalle dai loro nascondigli tra le foglie divenne una nevicata all'inverso, di esseri vivi che dal suolo salivano alti verso le cime degli alberi, l'Orso bruno stava attraversando la foresta del Prato Maiuri diretto ai coltivi di Lecce Vecchio; l'animale si fermò curioso ad annusare l'aria, come a trovare spiegazione a quello scintillare argenteo di vita, poi proseguì tra gli alberi attratto solo dal desiderio del cibo.
Più le tenebre si infittivano più le miriadi di farfalle si sollevavano andando a posarsi ovunque nella foresta, sugli alberi e sui rami, quasi fossero attratte dal grigiore dei licheni; e lì si addensavano l'una all'altra in un brulichio continuo di ultimi candidi esseri vivi nel crepuscolo di quell'autunno.
Sotto i faggi il miracolo si perpetuò tutta la notte e per altre notti seguenti, fino a quando i freddi più intensi dell'inverno che avanzava non irrigidirono anche quelle minuscole delicate vite, appassendole come i fiori tardivi.
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Sopra di lui un volo di quattro cesene passò basso sulle cime degli alberi, dirette a dormire tra i rami di un grosso faggio al riparo nel coppo boscoso delle Cese. Gli uccelli volavano veloci, battendo le ali in un ritmo rapido che li spingeva come frecce grigie sulla scia del vento freddo che spirava da sud portando banchi oscuri di nubi dense.
L'Orso bruno apparve sulla radura come un'ombra e scese in una vallicella soffice d'erba appassita e costellata di sassi; un melo selvatico cresceva lì, contorto, tra alcuni cespugli di rosa canina, e l'Orso bruno andò a rovistare tra le foglie ai piedi dell'albero cercando i frutti giallastri. Una coppia di merli cessò di strappare le perlacee bacche del vischio che parassitava il melo e fuggì chioccando nell'ombra del bosco.
Nella foresta i rampichini si chiamavano per riunirsi nella spaccatura della corteccia di un vecchio faggio; aggrappati con le unghie ai numerosi licheni che la rivestivano a alle crepe del legno putrescente avrebbero passato la notte addossandosi l'un l'altro in lotta contro il gelo. Le cince more e i regoli trovarono invece rifugio nelle chiome frondose dei pini neri.
La notte scese veloce, oscura, senza luna e senza stelle, nascoste dietro il manto di nubi che ormai rivestiva il cielo; fredda notte, presagio di un inverno ormai incipiente. La sagoma dell'Orso bruno passò tra i cespugli di rosa canina e non apparve più.
SILENZIO BIANCO
Ogni notte la lamina sottile di ghiaccio si stendeva sul Lago di Barrea unendo le rive melmose ai cespugli di salici. Sulle acque, scintillanti al fioco chiarore della luna, si muovevano calmi i germani reali. Alcuni erano giunti all'imbrunire, fendendo l'aria gelida della sera in un continuo ondulare di battiti d'ali. Venivano dalle più fredde contrade del nord per fermarsi tutto l'inverno, come i fischioni, le alzavole ed altre anatre selvatiche.
Lungo la sponda meridionale del lago gli aironi grigi riposavano nelle acque basse, con il flessuoso collo rannicchiato, tra le anatre e le folaghe sempre vigili. Quando i cervi scesero per rotolarsi nel fango della riva, fremiti improvvisi scossero il lago là dove stavano i gruppi di anatre, e gli uccelli si allontanarono nella notte. Anche gli aironi batterono calmi le ampie ali sul pelo dell'acqua illuminata dalla luna, diretti all'altra sponda.
A scuoterli dalla calma notturna, altre notti vennero l'Orso bruno, i lupi o le volpi, ad aggirarsi sulla landa di limo ghiacciata cercando resti d'animali morti.
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In alto la neve imbiancava le creste fino ai limiti dei boschi, preludio di più abbondanti nevicate. Il vento gelido che soffiava dai monti spinse in basso il volo delle cesene. Alcune si fermarono a svernare in quelle foreste. Di giorno mangiavano bacche di rose e di biancospino tra le siepi e nei cespugli, con i merli; di notte salivano a dormire con le cornacchie grigie sui rami alti dei salici sulle rive del Fiume Sangro giù nella piana, dove le piogge autunnali avevano creato pozzanghere ed acquitrini.
Ogni giorno il sole si alzava pallido dietro la cortina di foschia che aleggiava nel cielo di colore azzurro-grigio di gelo. Scaldava tiepido solo i luoghi più assolati e riparati dal vento freddo, dove gli animali selvatici si concentravano e dove la neve si scioglieva presto liberando il terreno. Gli alberi della foresta, spogli ormai del loro manto dorato di foglie autunnali, avevano una colorazione bruna violacea, quasi nera sulle cime dei rami, uno contro l'altro in una massa compatta distesa sulle montagne. Di notte, lungo i ruscelli, le trote risalivano numerose la corrente. Andavano il alto, sempre più alto, nei luoghi dove erano nate, affannandosi contro l'impetuosità delle acque per riprodursi, deponendo migliaia e migliaia di uova nelle anse e sotto il vuoto dei sassi, al sicuro, dove i maschi le fecondavano.
Le freddi notti già attanagliavano in una morsa le acque limpide e all'alba lingue sottili di ghiaccio coronavano le pozze nei punti d'ombra contro le sponde e attorno ai sassi emergenti.
Con l'alzarsi del sole dietro le montagne, tardi in mattinata, la brina bianca che durante la notte aveva rivestito i prati di cristalli iridescenti si sciolse, cedendo acqua al terreno ormai anch'esso gelato in superficie. Da monte un merlo acquaiolo venne veloce e basso sul pelo della corrente; vide l'Orso bruno sulla sponda e gridando piegò verso il bosco, poi tornò al torrente e sparì dietro un'ansa. L'Orso bruno attraversò l'acqua gelata e si allontanò verso la Cacciagrande.
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L'orizzonte si scurì prima verso oriente, poi una cappa uggiosa di nebbie fredde si fermò a coprire tutto il cielo. La foresta parve poco a poco cessare di vivere; il chiamare degli uccelli si affievolì fino a tacere del tutto. Apparve un rampichino che silenzioso piroettò attorno al tronco di un faggio per sparire tra i rami. Il grido lontano di una poiana che volava sugli alberi in cerca di un riparo si perse nel silenzio. E caddero infine, minuti, portati dal vento a rotolare tra i rami fino a posarsi al suolo, milioni di fiocchi di neve. Scendevano vorticando verso il suolo gelato, abbassando la visibilità nella foresta, e presto una spolverata bianca e fredda ammantò il paesaggio che perse la sua tinta bruna.
L'Orso bruno proseguì il suo andare lasciandosi dietro orme sempre più nitide che subito il nevischio cancellava. Scesero le tenebre ma la neve non smise mai di cadere. Nel buio ovattato dal cadere fitto dei fiocchi cristallini, ora larghi e pesanti, uno strano riverbero illuminò la foresta. In quell'atmosfera irreale, ombra silenziosa in movimento, l'Orso bruno scomparve nel candore invernale di quell'immensa distesa d'alberi verso le tane del Colle.
Nei giorni seguenti la neve aumentò, ne cadde altra, e le montagne rimasero bianche fino a primavera.
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L'Orsa aveva fiutato più volte l'aria mentre stava divorando le mele selvatiche cadute dagli alberi, e aveva sentito prossima la venuta della neve. L'odore del vento era diverso, ma sentì anche lo strano impulso cha la invadeva ogni anno in quella stagione allontanando il desiderio del cibo. Anche i piccoli che portava appresso non erano più ingordi dei pur abbondanti frutti selvatici che ancora riuscivano a trovare nei boschi della Vaccareccia.
Molti orsi erano già scesi nelle tane d'inverno. Qualcosa gli diceva che era giunto anche per lei e per i suoi cuccioli l'ora di appartarsi e di dormire aspettando che passassero i lunghi mesi di freddo. All'alba si diresse verso la valle dove aveva partorito i due cuccioli che la seguivano.
Quando la notte seguente scoppiò la bufera che in un breve tempo investì tutta l'alta valle del Sangro ammantandola di bianca neve, la famiglia di orsi si era già ritirata nella tana che la femmina aveva prontamente restaurata durante il giorno mentre i due piccoli facevano le loro ultime scorribande della stagione nel fitto macchione di bosco che celava le rupi.
La tana si trovava ai piedi di un'alta parete che saliva quasi perpendicolare verso la montagna, sotto il pascolo. Di lassù moltissimi anni prima una scossa tellurica aveva staccato un enorme blocco di roccia che era cascato ai piedi della parete e che venne presto mascherato dalla vegetazione rigogliosa e incombente del luogo. Sotto il masso, tra questi e la parete, gli orsi avevano poi scavato la tana.
Quel giorno l'Orsa scavò anch'essa sotto il masso con gli unghioni possenti, raspando il terreno e i detriti che durante l'anno si erano riversati nell'interno; riassettò così il luogo, formando un'ampia conca dove giacere. Raccolse poi nel bosco erba, fogliame e ammassi di vitalba e trasportò il tutto nella cavità, approntando una morbida imbottitura.
Anche gli orsacchiotti vennero pervasi dall'istinto, per loro ancora sconosciuto, che aveva influito sulla madre, e i giochi che fino a pochi giorni prima li entusiasmavano non li interessarono più. Avevano incontrato molti cespugli di rosa canina carichi di frutti nelle radure e sui bordi del bosco, ma neppure quelle dolci bacche li attirarono. Non avevano più fame. Tornarono verso la madre e assieme a lei si introdussero nella tana con desiderio di dormire.
Quando scoppiò la bufera l'Orsa era ancora desta. Pian piano il suolo si imbiancò innanzi all'apertura della tana, e nei giorni che seguirono la neve aumentò fino a chiudere completamente l'entrata; allora con un grugnito sommesso e prolungato, l'Orsa si appisolò in quello che per lei divenne un lungo sonno che durò fino ai giorni di marzo.
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La lepre stava adagiata in un ampio cespuglio di ginepro nano, al suolo, sotto l'intreccio dei rami fitti di piccoli pungenti aghi verdognoli ed argentei. Aveva preparato il giaciglio nel suo modo semplice e primitivo, con movimento del corpo e con l'uso delle zampe; una modesta conca tra i rami secchi alla base del ginepro, in uno spesso tappeto di aghi morti che rendeva meno gelido il contatto col terreno.
Nel pomeriggio, dal cielo scuro di nubi basse, lievi fiocchi di neve cominciarono a cadere, minuscoli, eppure di fantastiche forme l'uno appresso all'altro, fino ad accumularsi in un soffice manto.
A sera la nevicata si infittì e si alzò il vento; il nevischio non cessò di turbinare e di accumularsi. Per tutta la notte la lepre non lasciò il ginepro per correre sul pascolo innevato, rotto di altri ginepri, di rose canine, biancospini e boschetti di faggio. Come lei quella notte non si mossero neppure altre lepri, e anche le volpi stettero accucciate nelle loro tane, così le donnole, le martore, i camosci e i caprioli, ogni animale stava rannicchiato nel proprio covo in attesa del cessare della perturbazione.
La temperatura rigida di quella metà gennaio aveva però annunciato un lungo periodo di maltempo, e la nevicata continuò quasi ininterrottamente per oltre due giorni, trasformandosi in bufera lungo le creste e sui valichi dove si muovevano le correnti d'aria. Il vento sferzava il pascolo trascinando il freddo nevischio che penetrava anche la barriera dei boschi, addossandosi ai tronchi per la loro lunghezza; scuoteva il ginepro dove la lepre stava immobile nel giaciglio, e se un bianco pulviscolo giungeva fino all'animale, fuori la neve si ammonticchiava invece sempre più contro il fitto compatto ammasso di aghi fino a che il cespuglio fu quasi tutto coperto e il luogo dove giaceva la lepre isolato e protetto dal vento gelido.
Nella tarda nottata di due giorni dopo la bufera cessò; le nubi basse si sfilacciarono e si dissolsero rapide come si erano formate. Il giorno dopo il sole risplendette su un paesaggio nitido ed irreale, caldo nei luoghi dove non soffiava il vento; del folto e ampio cespuglio di ginepro isolato sul pascolo che dal Morrone scende alla Culla del Diavolo, compariva solo la parte arborea più centrale, che col calore si spogliò della neve. Quasi un metro sotto, la lepre si sentiva sicura, difesa contro il gelo e contro i suoi nemici, isolata da quella spessa coltre nuova; il tepore del suo corpo la riscaldava nella sua immobilità, anche se la fame cominciava a farsi sentire.
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Aveva scavato la tana pochi giorni prima che le abbondanti nevicate di dicembre venissero a rivestire le montagne rendendo difficile il cammino. Aveva approntato un giaciglio nella parte più asciutta della cavità, una conca dove si sarebbe poi coricato, aveva raspato il suolo con gli unghioni e vi aveva trascinato grandi quantità di erba ingiallita dal freddo, raccolta nella scarpata sotto le rupi.
Una notte al ritorno da una lunga e tortuosa escursione durante la quale aveva mangiato ancora in abbondanza di frutti selvatici e di faggiola, che trovò raspando nella neve sotto gli alberi, si fermò a riposare per ore in un ricovero naturale poco lontano dalla tana; e lì si spurgò espellendo dal suo corpo ogni resto di cibo. Allora l'Orso bruno si avviò verso la tana tra le rupi, dimentico del desiderio del cibo che per tanti mesi era stato il suo unico interesse. Si rotolò nel gran cumulo d'erba che aveva trascinato nella tana, spingendone verso l'entrata una parte quasi a volerla chiudere, e si lasciò andare in un torpore profondo, e giorni dopo si addormentò.
Fuori le nubi scure portatrici di altra neve e di freddo si stavano addensando minacciose; scesero sempre più basse fino a coprire le montagne in una nebbia spessa, poi i fiocchi cominciarono a cadere, prima piccoli e gelati, leggeri, trascinati in turbinii dal vento, poi sempre più fitti e più umidi. Nevicò con abbondanza per tutto il giorno e per tutta la notte seguente; quando cessò gli alberi si spezzavano sotto il peso che si era accumulato, i rami carichi scendevano a lambire il suolo e i cespugli e i cedui divennero tane e rifugi per gli animali che più sfortunati dell'Orso bruno dovevano affrontare all'aperto i rigori dell'inverno.
Nei canaloni dove l'Orso bruno aveva scavato la tana, la neve si accumulò e, quando nei giorni seguenti il sole la inumidì, scivolò a valle in pesanti slavine, trascinando detriti ed alberi. Ma l'Orso bruno addormentato non sentì il loro fragore, né si accorse che da quel luogo la neve sparve nel volgere di pochi giorni scoprendo il suolo sulle pendici più esposte al sole del mattino.
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La lepre spiccò un balzo, un lungo balzo che la portò a cadere ad oltre tre metri dal cespuglio di ginepro, e partì trotterellando verso le uniche macchie scure del paesaggio bianco, a brucare le gemme e i frutti dei cespugli delle rose canine.
All'imbrunire il gelo del tardo pomeriggio aveva consolidato lo strato superiore di neve che il sole aveva squagliato e reso compatto; le larghe e lunghe zampe posteriori della lepre, folte di peli rugginosi, non rompevano la sottile ma solida crosta ghiacciata, e l'animale potè correre libero nella notte, trotterellando silenzioso.
Fino quasi all'alba la lepre si spostò attorno, cercò i cespugli di rosa canina, mangiò le rosse bacche raggrinzite e rese dolci dal gelo, e brucò da essi anche i rametti più teneri, incrociando le sue piste in un tortuoso reticolo da un cespuglio all'altro. Sotto i faggi cercò le gonfie gemme e scortecciò i rami. Saziò la fame di giorni con quelle uniche povere risorse, sempre all'erta con le lunghe orecchie tese, spesso ritta sulle zampe posteriori ad ogni minimo segnale o presentimento di pericolo. Ma quella notte nessuna delle volpi che pure si erano mosse col calare del buio transitò tanto vicina da intimorire la lepre, lasciandola unico essere vivo in quel piccolo angolo freddo di montagna.
Prima che l'alba giungesse a rischiarare il paesaggio, la lepre tornò verso il suo covo nel cespuglio di ginepro; vi giunse da dove se ne era allontanata, e dal punto dove era piombata in uscita spiccò ancora un lungo balzo che la portò a cadere nel ginepro: l'odore del suo passaggio notturno e la sua pista terminavano a diversi metri dal giaciglio al centro del cespuglio, decine di centimetri sotto il livello della coltre nevosa esterna. Nessun lupo e nessuna volpe l'avrebbero mai scovata seguendo le sue piste.
GIORNI D'INVERNO
I camosci apparvero da dietro la cresta che dalla cima del Tartaro scende nella Valle Canneto; erano otto, correvano a corsa pazza verso le pendici del monte Petroso, all'altezza del limitare alto dei boschi. Poi alle loro spalle comparvero i quattro lupi: grandi, scuri e flessuosi come i camosci nella corsa veloce sulla loro pista. Guidava la caccia un lupo bruno col mantello nerastro per una banda che gli correva sulla groppa, la testa grande retta da un collo poderoso e gonfio di muscoli. La lunga vita di cacce lo aveva scaltrito e ne aveva fatto il capo branco.
Avevano incontrato i camosci nel Vallone della Meta; stavano pascolando ciuffi di magre erbe su una brulla pendice della montagna battuta dal vento. Non si accorsero dei lupi se non quando uno di essi segnalò la sua fulva presenza passando furtivo tra le rocce poco lontano. Fu un attimo. Tutto il branco dei camosci si allarmò; gli animali alzarono la testa e drizzarono le orecchie verso il pericolo istintivamente individuato, poi partirono in una precipitosa fuga oltre le rocce della Torretta, diretti al pascolo del Cavallaro.
La Valle Canneto si apriva come un profondo solco ammantato di boschi, in una uniformità grigiastra fino alle cime lontane della Camosciara. Il branco dei camosci seguì la linea di quei boschi, poi ne attraversò una fascia per giungere in un canalone scosceso dove poteva trovare scampo alla banda dei lupi. Nell'intrico degli alberi un camoscio cominciò a perdere terreno e a separarsi dal branco tendendo sempre più ad allontanarsi verso il fondovalle, dove sperava di riuscire ancora a scampare alla terribile caccia dei lupi. Era il più vecchio, il meno resistente, e cedette per primo allo sforzo della stressante corsa nella neve.
I lupi intuirono subito quale fosse la preda più facile; abbandonarono il branco e scesero anch'essi nei boschi sulla pista del camoscio solitario. In basso la neve era più alta e meno gelata, e rallentò ancora più la stanca corsa del vecchio animale. Mentre attraversava un canalone diretto alle rupi sull'altro versante, il grande lupo bruno gli fu addosso. Un attimo dopo il camoscio giaceva con la gola squarciata, inerte sulla neve che cominciò a tingersi di rosso. Giunsero gli altri lupi, trafelati e stanchi, e fecero scempio di quella spoglia.
Quel giorno i lupi non si allontanarono dal canalone, dove poterono mangiare a sazietà; poi quando scese la notte si avviarono verso il fondovalle e poi ancora alla Mandra delle Vacche, l'uno in fila all'altro nella neve alta e soffice per il gelo. Del camoscio non rimanevano che le ossa spolpate, sparse attorno nel bosco tra i giacigli sulla neve dove i predoni avevano riposato.
* * *
L'Orso bruno si mosse nel sonno profondo, ma non si svegliò. Stava adagiato con il muso tra le zampe anteriori, rannicchiato in una tana profonda su una scoscesa scarpata incisa di canaloni, tra fitti cespugli di maggiociondolo e scarni prostrati alberi d'acero, in un labirinto di rocce anfrattuose. Il respiro era appena percepibile, il battere del cuore rallentato.
Fuori della tana il mondo di montagne e di foreste attorno, dall'altopiano dei Tartari alla Selva Bella, era tutto silenzio e morte sotto il freddo biancore cristallino della neve. Di giorno solo il grido stridulo del pellegrino che tra le rupi aveva un posatoio su uno scarno carpino nero rompeva quel silenzio immoto del paesaggio.
Anche i camosci svernavano su quelle rupi scaldate di giorno dal sole e che dopo ogni bufera si scoprivano presto della neve; riposavano indifferenti su strati vecchissimi di letame in quegli stessi luoghi dove a primavera e in autunno andava a coricarsi anche l'Orso bruno. Ma neppure il loro pigro muoversi tra le cengie e nel canalone dove stava la tana, disturbava l'animale profondamente addormentato, seppure i camosci a volte scendessero fin lì davanti, a brucare le gemme dei maggiociondoli.
* * *
Dalla cresta alberata della Serra Traversa i due corvi imperiali scesero sfiorando gli alberi andando verso il Colle delle Rosole, poi si buttarono sulla corrente d'aria che spirava verso Forca d'Acero e la Castelluccia avvitandosi in volteggianti giochi d'ali ed ampie planate. A tratti il loro rauco chiamare giungeva dal cielo, lontano e profondo.
Il sole riverberava sulla distesa innevata, e nell'immobilità del paesaggio la loro ombra scivolava viva e nitida, come nere e brillanti le loro penne spiccavano nel cielo azzurro.
Scesero alla Castelluccia attirati da una macchia scura sulla neve, ma poi si alzarono di nuovo; risalirono i boschi della Serra Traversa e ancora apparvero contro la linea seghettata di boschi della cresta, verso l'altro versante delle Rosole. Lì la neve non tingeva di bianco la montagna sulle pendici più basse; nei boschi di carpino nero, tra le rupi frastagliate che scendono nella Val Comino la temperatura mite manteneva sgombro il suolo tutto l'inverno. I due corvi scivolarono tra i dirupi fondendo le loro sagome scure col grigiore dei boschi e del suolo; fu il volteggiare improvviso di un gheppio a segnalare dove i due neri uccelli scesero a posarsi.
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La neve turbinava in vortici che dalle più alte cime della Camosciara andavano ad esaurirsi verso la Piana della Corte, spazzandola di bianche e gelide folate. La bufera infuriava da giorni. Le ventate soffiavano contro i dirupi, si incuneavano nei canaloni che il gelo aveva trasformato in colate di ghiaccio, e passavano sibilando paurosamente nella foresta. Dalle pareti rocciose poche gocce d'umidità ancora riuscivano a stillare nonostante il freddo, protette dalla terra dalla quale filtravano, ma subito fuori il gelo le trasformava in irreali fantastici effetti nel breve tempo di una notte, fermando in blocchi pesanti di ghiaccio il loro scorrere.
Dove le cascate delle Ninfe e delle Tre Cannelle andavano a schiantarsi polverizzandosi nel greto dello Scerto, ovunque lucidi e freddi ghiaccioli pendevano e si ingrossavano in continuazione per l'apporto di sempre altra umidità. I rami degli alberi che lì attorno si protendevano sul ruscello erano rivestiti anch'essi di ghiaccio, e pendevano pesanti e curvi verso la corrente; e ghiaccio colava dalle pareti muschiose attorno alle cascate.
Il gelo tratteneva l'acqua lungo le sponde dei torrenti e attorno ai sassi, saldando le rive con lo spesso manto di neve leggera e farinosa che la bufera spazzava sulla Piana della Corte. Nessun animale movimentava quella scena di freddo e di bianco gelo. Le volpi non si aggiravano in caccia quella notte; temevano anch'esse la bufera e stavano chiuse nelle loro tane sigillate dalla neve. Gli uccelli notturni rimasero nascosti nelle fenditure delle rocce e nei cavi degli alberi: come le volpi e i lupi anch'essi digiunavano in attesa che la tormenta cessasse di rendere impossibile la vita all'aperto.
Sotto le cappe dei cespugli i pochi uccelli diurni che non avevano lasciato la zona al giungere dell'inverno dormivano intirizziti in attesa del giorno, rannicchiati e con le piume gonfie per mantenere a contatto del corpo una strato d'aria calda per il loro stesso calore. Le lepri stavano accucciate nel folto dei ginepri e nelle siepi dei biancospini. Sulle pendici del Monte Licco dove le rupi sprofondavano in una fitta pineta, anche i camosci si erano adagiati al riparo del vento sotto una balza, tra gli alberi e lo strato di escrementi che accumulatisi nel luogo con l'uso di anni serviva loro da cortina termica contro il freddo.
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Al mattino le nubi erano sparite, dissolte, come se si fossero trasformate in neve ed esaurite al suolo nella spessa coltre che ammantava i monti. Il sole apparve nell'alba ancora rigida, proiettando sul paesaggio una rosseggiante fascia luminosa. In alto le foreste erano d'un biancore immacolato, confuse con le spoglie creste dei monti; solamente lievi tracce scure indicavano gli alberi e i rami. Più a valle il reticolo degli alberi aumentava sul candore della neve, e si intuiva la spossatezza del bosco sotto il grave manto caduto durante la notte.
Poi dai rami esposti alla luce del sole cominciarono a stillare fredde gocce di neve fusa, e blocchi della stessa si staccarono in continuazione dai rami per piombare al suolo con sordi tonfi; i rami ripresero la loro posizione naturale, liberi del peso. Cascate di nevischio rotolavano dagli alberi, ma sulle pendici esposte a nord e alle quote più alte il gelo continuava a bloccare la cappa bianca e a mantenere immota la foresta.
Sui dossi e sui pascoli lo spesso manto si assestò per il suo stesso peso in un movimento impercettibile, e la patina superficiale si inumidì sotto l'accecante riverbero del sole. Il vento era cessato e la temperatura aumentò notevolmente in quei luoghi.
Nel tardo pomeriggio il gelo tornò però improvviso, con lo sparire del sole dietro la cresta dei monti; e la patina di neve resa fracida dal calore durante il giorno si solidificò in ghiaccio nel breve trascorrere del tempo prima del buio.
Un silenzio profondo dominava la bianca scena quando infine la penombra che precede la notte rese confuse le macchie dei boschi. La neve divenne di un biancore plumbeo e il cielo azzurro cobalto, con poche stelle argentee splendenti sull'orizzonte. La volpe lasciò la tana tra le rocce di un canalone boscoso e si avviò sulla landa ghiacciata oltre l'ombra dei boschi. Il vento soffiava di nuovo leggero e freddo, e lontano la linea delle montagne dell'Ortella si stagliava nitida contro gli ultimi chiarori del giorno.
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Cadde altra neve e altra neve ancora. Il freddo intenso imbrigliò i corsi d'acqua in una morsa di ghiaccio. Molti animali perirono di stenti; ma l'Orso bruno continuò a dormire ignaro di tutto ciò.
Si svegliò poi una volta verso la fine di gennaio. Qualcosa di strano lo aveva scosso mettendolo in agitazione, si rivoltò alcune volte nella tana, poi decise di uscire; raspò via l'erba e la neve sporca ammonticchiata all'entrata e sbucò all'aperto nell'abbacinante luce del giorno. Risalì il ripido canalone e si addentrò nel bosco sopra le rocce, dove si aggirò insensatamente. Grattò qua e là nei cerchi di terra bruna attorno ai faggi, cercando i semi degli alberi, più istintivamente che per reale bisogno di cibo. Si spostò inquieto sulla neve umida e sporca di residui vegetali che si erano staccati dagli alberi, ma poi qualcosa lo richiamò, e dopo un largo giro ritornò nel luogo sopra la tana; lì si approntò un rozzo giaciglio staccando a morsi alcuni rami più piccoli ai faggi attorno, e si coricò all'aperto sulla neve.
Nella notte si udirono i lupi ululare oltre la Selva Grande; era la stagione degli amori per loro, e i maschi lottavano per le femmine e per la supremazia sul branco. La primavera era ancora lontana, ma il ciclo di un nuovo anno stava già iniziando per i lupi e per le volpi ed i gatti selvatici.
Nei giorni che seguirono l'Orso bruno restò ancora nel bosco sulle rupi, come in attesa di un evento che sembrava tardare, ma poi ridiscese al dirupo nel canalone e rientrò nella tana, dove si riaddormentò in un nuovo sonno profondo che durò fino a marzo inoltrato.
IL LUNGO SONNO
L'arvicola lasciò il suo nido d'erba e si avviò nel cunicolo sotto la neve; il reticolo di passaggi si diramati nel terreno sotto la spessa bianca coltre gelata imbottito di fili d'erba dal metodico lavorio dei membri della colonia del piccolo roditore.
Sulla cresta la poiana si staccò dalla cima di un vecchio acero montano; volteggiò planando sulle chiome degli alberi lungo il Fosso della Creta Rossa, con lo sguardo vigile al manto bianco della neve e alle macchie scure attorno alle pietre e sotto gli alberi. Il paesaggio era fermo e solo l'ombra del rapace scivolava sui boschi e sulle radure ai lati del torrente. La poiana tornò a posarsi su un altro albero, in un altro luogo, e di lì non smise di scrutare il suolo.
Nel cunicolo l'arvicola si stava pulendo il muso con veloci colpi delle zampette anteriori bagnate di saliva. Afferrò poi alcuni semi di cardo selvatico e li rosicchiò ad uno ad uno velocemente, ed infine ripartì seguendo il girovagare della galleria tra la neve e il suolo, fermandosi a riassestarne l'imbottitura d'erba dove questa era insufficiente ad isolarla.
L'arvicola sbucò infine all'aperto da un piccolo foro nero; di lì partivano numerose minuscole piste che passando sulla neve conducevano ad una proda erbosa dove sbucava un altro cunicolo. Attorno cespi di cardi selvatici e minuscole piante di globularie erano stati saccheggiati dagli uccelli. La chiazza scura dei semi di quelle piante morte attrasse il roditore: scrutò innanzi a sé con i grandi occhi umidi e corse, corse rapido sulla scintillante distesa di minuscoli cristalli rilucenti di viola, di rosso di azzurro e di giallo nell'accecante bagliore del sole mattutino. Le sue zampette lasciavano piccoli segni nella neve, sulla quale l'arvicola sembrava scivolare più che camminare. La poiana era sempre all'erta sull'albero in riva al torrente, e quando si interpose tra l'arvicola e il sole, la sua ombra si proiettò dove correva il roditore. La piccola traccia sulla neve terminò così in un luogo tra la tana e i cardi selvatici: là nella coltre farinosa erano impressi i colpi d'ala del rapace, netti e precisi come precisa era stata la presa.
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Nello splendore riverberante del desolato paesaggio bianco di neve dominato dall'ampia visione del Monte Petroso i tre camosci spiccavano lungo la cresta del Boccanera, macchie scure immobili contro il cielo.
Il sole riluceva sulla distesa fredda, e il suo calore fondeva i minuscoli cristalli della neve in superficie e allargava le chiazze di bruno attorno ai ginepri e alle rocce, sul versante meridionale della montagna, spazzata dal vento durante le bufere. Il gruppo dei camosci raspava con gli zoccoli per giungere ai magri fili d'erba del pascolo, favorendo così lo squagliarsi della neve e l'allargarsi delle macchie scoperte; più tardi corsero lungo la cresta, quasi giocando, assaporando il sole che la riscaldava. Passarono esperti con agili balzi sull'orlo del baratro che precipitava verso nord in un pauroso dirupo dove la neve fredda e farinosa non subiva i raggi caldi del sole. Lo scarto improvviso di uno dei camosci fece però balzare di lato quello che lo seguiva, intimorito e pronto al gioco di corna; uno zoccolo posteriore sprofondò nel bordo del tettuccio di neve creato dalle bufere e l'animale precipitò nel baratro sottostante, sparendo in un polveroso rotolare di neve. Sulla cresta gli altri camosci corsero via, frastornati dall'inaspettata sparizione del loro compagno; stettero all'erta, agitati, guardandosi attorno sospettosi; poi però si acquietarono e indifferenti ricominciarono a brucare i fili d'erba attorno ai ginepri.
Il sole continuava a riverberare sul paesaggio, lasciando in ombra i freddi canaloni a nord del Boccanera.
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La tormenta era passata da due giorni, ma gli alberi erano ancora carichi di neve; il freddo pungente non cessò neppure col calare del vento e col dissolversi delle nubi biancastre che avevano portato altra neve. Di giorno la temperatura saliva quando il sole era alto allo zenit, ma non riusciva a mitigare il clima rigido; solo nei luoghi più riparati e più esposti ai raggi la neve riusciva a sciogliersi; l'acqua creava piccoli ghiaccioli lungo i rami, e a tratti qualche grumo riusciva a staccarsi cadendo al suolo in una cascata di nevischio che trascinava altri grumi di neve dai rami sottostanti.
Nei posti più freddi, in fondo alle vallette boscose, il gelo aveva cristallizzato la neve sulle radure, e lì gli alberi erano candidi di galaverna. Nel sottobosco la neve fredda e farinosa era alta oltre un metro, fragile e inconsistente; nessun animale frequentava quel luogo e soltanto l'occasionale lamentoso stridore dei rampichini rompeva quel lungo silenzio invernale durante il giorno.
Sotto la fascia di rupi, sui bordi alti della valletta la tana della femmina di Orso bruno era invisibile, celata dalla neve che in dicembre e gennaio si era continuamente accumulata. Gli unici segni di vita, i lievi movimenti dell'orsa nel giaciglio di foglie secche, non si udivano all'esterno.
La tana non era umida; faglie di roccia grigiastra scaricavano la poca umidità in altri luoghi; le foglie di faggio abbondanti che il vento vi aveva sospinto in autunno e che l'orsa aveva aumentato raspandole all'esterno, erano secche e soffici. La grande orsa dormiva profondamente in quel ricovero per lei confortevole, mitigato il clima dal suo stesso calore corporeo, ma si agitava nel sonno; e mugolii sommessi si univano al lieve rumoreggiare di foglie secche. Poi qualcosa di più violento la scosse fino a destarla dal torpore. Dolori lancinanti che le straziavano il ventre segnalarono al suo cervello di aprire gli occhi. L'Orsa si ritrovò nella tana e annusò l'ambiente, ma non fece atto di uscire alla luce oltre la bianca ma sporca barriera che chiudeva la fessura di accesso; nessun istinto la chiamò fuori, e anzi desiderò ancor più quel tepore in cui giaceva, perchè l'istinto gli disse cosa gli stava accadendo e perchè si era destata.
Si era ritirata in quel luogo isolato, lasciando la più calda zona dove altri orsi si erano riuniti per svernare e dove la neve era poca e il freddo meno intenso, perchè sapeva cosa doveva succedergli quell'inverno. Sapeva che doveva dare alla luce due cuccioli come già altre volte era successo nella sua vita, e sapeva che doveva scegliersi un luogo ben riparato, confortevole e isolato dai maschi che in primavera subito dopo l'inverno si sarebbero aggirati nella zona dove svernavano con grave pericolo per i nuovi nati che lei avrebbe poi dovuto lasciare soli nella tana per andare in cerca di cibo.
Partorì i due cuccioli senza un lamento, piccoli esseri ignudi che l'orsa asciugò amorevolmente con la lingua calda; i due esseri minuscoli giacquero nella frusciante lettiera di foglie di faggio del giaciglio, riparati tra il ventre soffice e caldo della genitrice e le sue zampe, a contatto con i capezzoli delle mammelle gonfie di latte.
I lievi vagiti non oltrepassarono la barriera di neve innanzi alla tana e presto rasserenarono l'orsa, che si riaddormentò. Ma si destò più spesso da allora, curando i due cuccioli, che premurosa non soffocò mai nei suoi movimenti nel pur ristretto spazio della tana.
Fuori cominciò di nuovo a cadere la neve, e il vento rumoreggiava tra gli alberi come un cadere di acque lontano.
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Stava adagiato sul sasso, immobile; guardava fisso al suolo innanzi a sé, dove al di sotto di un ciuffo di sterpaglie un modesto foro nel terreno segnava la presenza di una tana di topo campagnolo.
Faceva freddo, il cielo era calmo di nubi basse, grigie. Il nevischio gelato cominciò a cadere fitto e fine, in piccoli fiocchi leggeri sospinti da un vento di tramontana gelido che spirava a raffiche impetuose in un turbinio sempre più bianco, ma il gatto selvatico non abbandonò l'immobilità, né mise fine alla sua paziente attesa. Il suo pelo divenne ben presto bianco di neve, e l'animale si confuse col candore circostante.
Due poiane volavano basse nel cielo plumbeo e tinto di nevischio. Sui salici alti lungo il Sangro le cornacchie grigie si chiamavano con versi striduli, soffocati dai milioni di fiocchi che stavano cadendo; negli acquitrini sulle rive stavano immobili le anatre selvatiche e i beccaccini, come punti scuri del terreno. Lontano il Monte Tranquillo appariva e spariva dietro le folate di neve portata dal vento freddo.
Il gatto selvatico continuava a fissare il suolo; solamente gli occhi ogni tanto avevano un movimento, e le orecchie tese a volte si spostavano con rotazione lenta, sempre all'erta ad eventuali pericoli che incombessero su di lui. Nel silenzio ovattato il fine udito del felino sentì infine qualcosa muoversi là sotto terra; sentì squittire più volte, piano; poi un movimento apparve all'imbocco della tana, e il topo selvatico grigio cenere si materializzò sul bianco nevischio appena caduto. I nervi e i muscoli del gatto erano pronti; ogni senso dell'animale aspettava in tensione, gli occhi fissi sulla tana, immobile come una cosa inerte, sasso su sasso. Poi il gatto scattò. Il topo dei boschi era saltato avanti, ma non aveva fatto a tempo a scattare in un secondo balzo che il gatto selvatico gli fu sopra: un attimo, e già il predatore spariva a nascondersi in un ampia e folta macchia di pruno e biancospino. Accovacciato al riparo del vento e della neve in una nicchia sotto i cespugli, il gatto divorò la piccola preda ancora calda. Fuori le poiane continuavano a volare sotto le nubi basse, come fantasmi che apparivano e sparivano nel cadere fitto del nevischio.
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Nevicò ancora, fino alla fine di febbraio e anche in marzo, ma l'Orso bruno non abbandonò più la sua tana, né si svegliò altre volte. Sotto lo spesso manto di neve, avvolto nel grande mucchio d'erba non temè il gelo né l'umidità.
Fuori le volpi eccitate dall'estro sessuale abbaiavano spesso durante le notti. I maschi orinavano contro gli alberi e contro i sassi lungo i sentieri, lasciando una traccia ben identificabile. Le femmine sarebbero poi accorse in cerca del compagno col quale unirsi e procreare. I maschi affrontavano chi per primo aveva lasciato quei segni di dominio su un territorio, o sceglievano altre strade, altri luoghi, altre femmine.
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L'inverno aveva stretto nella sua morsa la foresta e imbrigliato i ruscelli. Gli alberi si screpolavano: il gelo induriva l'umidità dei tronchi e questi si spaccavano. Lunghe crepe correvano fino alle chiome, segni dell'immane forza invisibile. All'alba molti uccelli addormentati sui loro posatoi notturni non vedevano più la luce, irrigiditi nelle loro posizioni. La galaverna rivestiva gli alberi di un soffice mantello freddo farinoso che poi il sole pallido del giorno scioglieva nelle zone più basse e calde. In alto e nel fondo delle doline il gelo perdurava e lì il candore del suolo finiva per confondersi con quella cappa bianca sugli alberi, rigidi sotto i cristalli di ghiaccio.
La foresta taceva; mai come in quella stagione il silenzio dei boschi divenne assoluto, quasi palpabile, ovattato da quella morsa bianca. Solo lo sfavillio dei cristalli di neve esposti alla luce ravvivava di giorno quel mondo selvaggio. Anche i lupi era scesi a luoghi più caldi, e nella tana l'Orso bruno ignorava quel clima e quell'atmosfera di gelo.
Con la sua folta pelliccia invernale la volpe regnava invece incontrastata in quel mondo bianco. Le poche lepri rimaste, la notte correvano sfuggendo alla loro caccia tra sbuffi di polvere di neve; esse vivevano scorticando i rami dei faggi e brucando i magri fili d'erba sui dossi spazzati dal vento e ai piedi dei faggi, uniche chiazze scure nella distesa invernale; unici luoghi vivi in quel luogo d'alberi, su quei monti di calcare stretti dal gelo.
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Quarto di copertina
I "giorni" dell'Orso bruno sono i momenti che l'autore di questo libro ha scelto di narrare, anche nelle sfumature meno appariscenti, descrivendo quello che è in fondo il ciclo della vita che in un anno si svolge con ritmi consueti ed eterni nelle foreste e sulle montagne del Parco Nazionale d'Abruzzo.
Questi "giorni" hanno un significato ed un intendimento cha va al di là della scelta formale della prosa; e sono difatti più poesia che prosa, come lo stesso autore conferma.
Essi sono brevi racconti e descrizioni che creano una frattura narrativa, che non si distanzia comunque da un filo logico e biologico mediante il quale l'autore ha voluto rifarsi al ritmo che regola la vita animale in un ecosistema naturale e in una dimensione spazio-temporale che non corrisponde a quella umana.
Grande assente è infatti l'uomo, la cui presenza avrebbe avuto un effetto destabilizzante nel ciclo armonico del mondo selvaggio che l'autore narra con una trascrizione letteraria, piuttosto che tecnica o scientifica, un mondo i cui ritmi vitali e rigorosamente autentici vengono comunque descritti nella loro realtà biologica, offrendo al lettore una poetica ma veritiera narrazione di quello che egli ha osservato e vissuto. Perchè, come afferma l'autore nella sua introduzione, "la quiete e l'equilibrio che il lettore potrà intuire attraverso la descrizione delle varie situazioni rappresentate, sono tali proprio perchè l'uomo in quei momenti non vi appare a rompere l'armonia di uno stato di vita dal quale è ormai definitivamente uscito".
Durante la sua attenta e prolungata permanenza in quello che può considerarsi uno degli ecosistemi più integri e affascinanti d'Italia, al quale la presenza dell'Orso bruno ha da sempre conferito qualcosa di mitico e di antichissimo, l'autore ha difatti potuto riflettere sui guasti arrecati dall'uomo moderno ma anche sui motivi reali che lo spingono alla natura, e che sono quelli emotivi di una ricerca della bellezza, perciò essenzialmente edonistici.
La scelta dello stile letterario, semplice e di facile comprensione, non sovrasta mai il contenuto, ma al contrario contribuisce ad esaltare il tono lirico che guida l' osservazione naturalistica sulla vita dell'Orso bruno e del suo mondo selvaggio.