domenica 29 giugno 2025

ANTOLOGIA L'UOMO NATURALE

Wild Nahani

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L’Uomo naturale

Sul concetto del valore in sé della natura

 

Appunti sparsi per una ecologia sociale 

ed una ecologia della conservazione

 













In loving memory of Elzbieta Mielczarek (1963-2014)

I  will always love you!

Rest in Peace 










“Voi siete stanchi di questi anni di civilizzazione.

Io vengo, e cosa vi offro? Una singola foglia verde”.

Grey Owl


 “Remember you

belong to Nature

not it to you” 

Grey Owl


La natura è morta, ma prima 

che venga sepolta e gettata su di essa 

l’ultima manciata di terra,

 è bene dire qualcosa

Mario Spinetti


Vi è un incanto nei boschi senza sentiero,

Vi è un’estasi sulla spiaggia solitaria,

Vi è un asilo dove nessun importuno penetra,

in riva all’acqua del mare profondo;

e vi è un’armonia nel frangersi delle onde.


Non amo meno gli uomini, ma più la Natura

E in questi miei colloqui con Lei

io mi libero da tutto quello che sono

e da quel che ero prima

per confondermi con l’Universo.

E sento ciò che non so esprimere

e che pure non so del tutto nascondere.

George Gordon Byron




A quel che resta del mondo selvaggio

e alla sua libera continuità



Prefazione


“Mentre state leggendo queste parole, branchi di lupi stanno correndo a lunghi balzi attraverso le foreste e nelle lande selvagge dell’America settentrionale. Fiutando il vento, cacciano e giocano, si nutrono e riposano, proprio come hanno fatto i loro antenati per milioni di anni. Ce ne sono ancora migliaia di esemplari, selvaggi come le immense regioni in cui vagano......

Il lupo, Canis lupus, un tempo era il mammifero terrestre più ampiamente distribuito nel mondo, e si poteva trovare in tutto l’emisfero settentrionale, ovunque fossero presenti i grandi mammiferi che è in grado di cacciare. Ora la specie è estinta, o quasi, in gran parte del suo habitat naturale....” (Savage, 1989).


“C’è solo una speranza di respingere la tirannica ambizione della civiltà di conquistare ogni luogo della terra. Questa speranza è l’organizzazione delle genti più sensibili ai valori dello spirito, affinché combattano per la libera continuità della natura selvaggia” (Robert Marshall).


La vasta entità del problema ecologico, venuto ormai palesemente alla ribalta nel XX° secolo, mi ha spinto a questa opera che raccoglie miei scritti e pensieri sull’ecologia e sulla natura in genere, visti anche negli aspetti o risvolti sociali, nel tentativo di contribuire, sia pur minimamente, allo sviluppo di una diversa concezione filosofica del problema ambientale. Aldo Leopold, acuto conservazionista americano, affermava, infatti, che i problemi ambientali sono fondamentalmente di matrice filosofica nella quale va ricercata la soluzione di un nuovo rapporto con la natura (Hargrove, 1990). La necessità di trattare la questione ambientale prevalentemente dal punto di vista etico/filosofico, è mossa dalla constatazione che nell’occidente tutta la speculazione filosofica è stata praticamente priva, dalle origini ai giorni nostri, di argomentazioni sostanziali sulla materia (le eccezioni si contano sulle dita di una mano). Scrive infatti Hargrove (1990): “Nonostante i molti risultati monumentali della filosofia, essa non è mai riuscita, in tutto l’Occidente, a fornire una base per il pensiero ambientale. Questo insuccesso coinvolge tutte le branche maggiori: metafisica, epistemologia, etica, filosofia sociale e politica, filosofia della scienza e, naturalmente, estetica......

L’etica ambientale rappresenta per la filosofia l’occasione per correggere il suo maggiore errore, il rifiuto del mondo naturale qual è sperimentato concretamente nella vita reale......

Ci auguriamo che i preservazionisti e i conservazionisti della natura dell’inizio del prossimo secolo dispongano di teorie filosofiche migliori fra cui operare una scelta.....”. 

L’intento dell’opera è anche quello di divulgare il concetto del valore in sé della natura affinché si comincino a diffondere, sia pure in forma embrionale, dei “veri” argomenti sulla conservazione. Gli scritti, pur in un apparente ordine logico, non devono intendersi strettamente tali, né hanno la pretesa di completare il discorso che aprono, ma caso mai di suscitare nel lettore certe riflessioni ed idee sullo stesso tema.

Il lavoro è arricchito da numerose citazioni tratte da opere di qualificati autori che hanno approfondito molte delle tematiche trattate tanto da far diventare la pubblicazione quasi un’antologia (su gentile concessione ho inserito anche alcuni esaustivi capitoli di Guido Dalla Casa). Una nuova etica ambientale non si riconosce con i dogmi e con le rigidità scientifiche specialistiche, ma soprattutto con una maturazione dello spirito, delle sensazioni e quindi del pensiero. Hargrove (1990) risponde all’interrogativo di Darwin sulla perdita, da parte dell’evoluzionista, dei gusti estetici verso la natura, affermando che tale perdita “è una conseguenza naturale dei suoi tentativi d’essere scientifico, di trattare coi soli fatti”. Lo sviluppo della specializzazione scientifica ha portato ad una sorta di “sordità specialistica” (Boulding in Pignatti 1994), cioè l’incapacità di percepire i caratteri generali di un sistema a causa della concentrazione ossessiva dell’attenzione sui particolari (Pignatti, 1994). La nozione olistica di paesaggio (natura) tende invece a superare questa particolare “sordità” ricercando una rappresentazione globale del sistema (Pignatti, 1994). Infatti Kuhn ci ricorda che “la scienza normale è un tentativo strenuo e determinato di costringere la natura nelle caselle concettuali fornite dall’istruzione professionale”.

Tuttavia quanto scritto nell’opera non ha la pretesa di essere assolutistico e unilaterale, ma semplicemente indicativo e relativo. In ogni settore ci sono sempre le eccezioni e le diversità. Tra l’altro, per motivi di chiarezza, alcune delle cause ipotizzate nel testo che si ritengono all’origine della distorsione del rapporto uomo-natura, sono riferite a pochi fattori fondamentali, anche se in realtà le variabili sull’argomento sono quanto mai numerose, spesso antitetiche e quasi sempre intrecciate tra loro. Il lavoro dunque, come detto, vuole solo tracciare una linea indicativa di pensiero e non certo un solco universale ed onnicomprensivo. Tuttavia credo che la parte più importante è quella che non è stata scritta....... Wittgenstein disse infatti (Hargrove, 1990) che “le cose di cui non possiamo parlare sono più importanti di quelle di cui possiamo parlare”.

Forse l’infinita battaglia per la conservazione della natura è una battaglia già persa in partenza, ma nulla e nessuno ci impedirà, parafrasando Rousseau, di gridare al mondo che il fossato è troppo profondo per uscirne fuori, ma eravamo stati fatti abbastanza forti affinché non potessimo cadervi!


Prima che l’uomo civilizzato facesse la sua “apparizione” sulla terra, tutto il mondo era “wilderness”, un’immensa area selvaggia dove regnava solo la verità naturale. Poi è arrivato l’uomo civilizzato e, poco a poco, ha sottratto al mondo e a se stesso l’armonia imprevedibile e “caotica” della natura che era lo spirito della vita.

All’uomo risale dunque la responsabilità di provvedere alla conservazione della natura (perché è l’uomo che la distrugge e quindi è lui che deve conservarla); a meno che non lo si voglia considerare alla stregua di un semplice componente del materialismo dialettico, cui sarebbe stato affidato il compito di sovvertire integralmente l’ambiente naturale: solo questo potrebbe essere, in chiave ironica, l’essenza della filosofia androcentrica. In verità gli interventi umani sul territorio sono devastanti e non risparmiano nessun elemento della natura: l’acqua, l’aria, la flora, la fauna, la materia inerte, ecc. Dinanzi ad un siffatto degrado la difesa dell’ambiente, tramite una visione wilderness, deve divenire un obiettivo primario e globale. Ma nella conservazione del mondo naturale occorre sgombrare il campo da una pregiudiziale che è di un tale rilievo da assumere il valore di una contraddizione in termini, poiché tale è appunto la pretesa di chi si ostina a considerare il problema ambientale esclusivamente in funzione dell’uomo. L’uomo è una parte, un tassello dell’ecosistema, non è l’ombelico della natura, perciò cade in grave errore chi subordina la salvaguardia dell’ambiente al primato dell’uomo. C’è insomma il rischio che nei nostri discorsi si presenti ognora il nostro inveterato androcentrismo, tutto e sempre per l’uomo. Occorre ribaltare una siffatta concezione per porre al centro di tutto gli interessi globali della natura (ecocentrismo). La regola deve tendere a conservare la natura per il suo valore in sé: alla fine anche l’uomo se ne avvantaggerà ma sarà un riflesso, non lo scopo di quel salvataggio. Una visione ecocentrica porterebbe enormi vantaggi e riequilibri anche dal punto di vista sociale. La civiltà non può prescindere dalla wilderness, la natura selvaggia ed incorrotta! (John Muir).

Ma elaborare il profondo dissidio dell’uomo con la natura è un compito tutt’altro che facile, anche se si vuole arrivare semplicemente alla pura consapevolezza del fatto. E’ in parte come voler ricomporre un complicatissimo puzzle fatto di tanti elementi diseguali senza averne davanti l’immagine guida. Questo è dovuto anche dal fatto che occorre eradicare una forma di pensiero che negli ultimi secoli si è indirizzata, progressivamente, verso una disgiunzione totalizzante dove le monoculture mentali, improntate sul profondo solco del dualismo (l’uomo da una parte e la natura, ben distinta, dall’altra), si sono fortemente arroccate in una visione unilateralmente volta verso la sola verità ed esistenza del genere umano. Un nuovo pensiero, libertario e di ampie vedute, deve dunque affrontare un duplice ostacolo; il primo è quello di eradicare il pensiero globalizzato sulla dominanza e unilateralità dell’uomo (pensiero che anche in forma inconscia è ora insito nelle menti), il secondo sarà quello di disarcionare le false certezze così fortemente incastonate per intravedere, sia pure in lontananza, una visione olistica del tutto. Quanti autorevoli personaggi con il loro dire ed il loro agire hanno cercato di svolgere questo immane compito, ma, almeno in prima battuta, si sono visti nella difficoltà di farsi metabolizzare da “monoculture mentali” volte all’esatto opposto. Ma forse un giorno quello che per ora, sotto certi aspetti, appare ancora distante, sarà compreso e praticato in totale consapevolezza e comprensione. All’inizio gli acuti “profeti” di un profondo cambiamento non sono stati capiti o addirittura del tutto ignorati, ma pur se il tempo è ormai molto ristretto, un cauto ottimismo sull’inversione anche parziale della rotta, potrebbe aleggiarsi nell’aria (?!). Comprendere, capire, autoesaminarsi sembrano terminologie e concetti difficili da digerire, ma non è escluso che facciano invece il loro giusto percorso per arrivare, alla fine, ad essere acquisiti. La speranza, pur se flebile, è sempre l’ultima a morire. Ma per il momento finché lo sfruttamento, il saccheggio e la distruzione del pianeta terra (sotto tutti i fronti) rappresenterà ancora un enorme vantaggio economico, estremamente arduo apparirà il modo di procedere verso la giusta operatività e visione delle cose. Sin’ora infatti l’uomo dalla sua cecità ha cominciato a vedere qualcosa, ma solo i resti fumanti lasciati dietro al suo devastante cammino e sarà così saggio e lungimirante da invertire la rotta? I dubbi rimangono molti e in gran parte irrisolti. Molteplici azioni che ora paiono positive sono ancora una piccola goccia d’acqua in un grande oceano eccessivamente sporco di “petrolio”!

“Quando non può più lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l’andatura di cappa (il fiocco a collo e la barra sottovento) che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela. La fuga è spesso, quando si è lontani dalla costa, il solo modo di salvare la barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all’orizzonte delle acque tornate calme. Rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l’illusoria fortuna di poter seguire la rotta dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione ... “ (Laborit, 1990).

 

“La battaglia per la conservazione della natura continuerà indefinitivamente,

perché essa è parte dell’universale battaglia tra il giusto e l’errore”.

J. Muir



PARTE PRIMA

Per un’ecologia sociale




Ecco la morale di tutte le storie umane; non è che la stessa prova del passato; prima la Libertà e la Gloria - quando ciò viene a mancare Ricchezza, Vizio, Corruzione - Barbarie infine - e la Storia con tutti i suoi volumi non ha che un’unica pagina.


G.G. Byron




 Il contratto sociale



“In questo mondo, il migliore dei mondi possibili, ogni evento è interconnesso” (Candide, Voltaire).”L’uomo ha perduto la capacità di prevedere e di prevenire. Andrà a finire che distruggerà la terra” (Albert Schweitzer, in Rachel Carson, 1963, una precorritrice delle problematiche attinenti alle distruzioni ambientali).

Se, come dice l’Hegel, la creazione dello stato è l’ingresso di Dio nel mondo, è pur vera l’affermazione dell’Hobbes che individua la matrice statale nel reciproco timore che spinge gli uomini ad associarsi, inducendoli a rinunciare al diritto naturale. Rousseau osserva: “Il primo che avendo cintato un terreno pensò di dire “questo è mio” e trovò delle persone abbastanza stupide per credervi, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, guerre, assassinii, quante miserie e errori avrebbe risparmiato al genere umano chi, strappando i pioli e colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: “Guardatevi dal credere a questo impostore! Se dimenticate che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno siete perduti!”...........Dal momento in cui un uomo ebbe bisogno dell’aiuto di un altro, dal momento in cui si accorse che era utile ad uno solo aver provviste per due, l’uguaglianza disparve, si introdusse la proprietà, il lavoro divenne necessario, le vaste foreste si cambiarono in ridenti campagne che gli uomini dovettero bagnare con il loro sudore e nelle quali si videro presto germogliare e crescere, insieme alle messi, la schiavitù e la miseria..........Da libero e indipendente che era prima ecco l’uomo, a causa di una moltitudine di nuovi bisogni, asservito, per così dire, ai suoi simili, di cui in un certo senso diventa schiavo anche quando sembra diventarne il padrone. Se è ricco ha bisogno dei loro servizi, se è povero ha bisogno del loro aiuto, e la mediocrità non lo mette affatto in condizione di poter fare a meno di loro........”. Siamo dunque innanzi ad un contratto sociale che non discende da valori assoluti ma che ha invece la propria fonte nel reciproco timore e nell’istinto di “conservazione”. Questi scopi, è vero, appaiono conseguiti, almeno nella loro essenza, nell’aggregazione statuale, ma non possiamo esimerci dal ricordare le lacerazioni che nel corso della storia sono avvenute all’interno stesso degli stati, tra le quali vogliamo emblematicamente ricordare la lotta tra Cesare e Pompeo, o quella tra Ottaviano e Antonio. Ma il fallimento più clamoroso della costituzione dello stato è rappresentato dalla sua incapacità di trasferire i propri principi etici ai rapporti con gli altri stati. E’ con orrore che lo studioso deve soffermarsi a considerare quanto è avvenuto nel corso della storia, contrassegnata com’è dalla violenza, dalle guerre, dai massacri, dalle sopraffazioni, sì che essa appare scritta col sangue, perché troppe Arbie si sono tinte di rosso. Quale ottimismo può germogliare innanzi a simili orrori? E’, in essenza, il trasferimento dello “homo hominis lupus” dell’Hobbes, dall’ambito dei rapporti individuali a quello dei rapporti tra gli stati che si affrontano in conflitti immani (come quello che Benedetto XV° definì “l’inutile strage”, o come l’altro conflitto mondiale, a noi ancora vicino, ma non abbastanza ammonitore. Vedasi poi le tante guerre sparse per il mondo). Com’è possibile accettare il pensiero del Locke e del suo “homo homini deus”?. Sovviene a questo punto l’ironia del Voltaire che nel Candide tratteggia dal par suo il naufragio dell’ottimismo leibniziano innanzi alla dura realtà del mondo.

Il pessimismo non deve tuttavia identificarsi con la filosofia della disperazione, ma deve anzi impegnarci a ricercare nuovi modi di vivere, una nuova “Weltanschaung”. Ma in realtà non si può lottare contro la gente di oggi. Le lacerazioni dell’uomo sull’uomo hanno compreso anche il rapporto uomo-natura, e il pessimismo prende inevitabilmente il sopravvento. “La società e le leggi…. Posero nuovi ostacoli al debole e dettero nuove energie al ricco, distrussero definitivamente la libertà naturale, fissarono per sempre la legge della proprietà e dell’ineguaglianza… e, per il profitto di qualche ambizioso, assoggettarono il genere umano al lavoro, alla servitù e alla miseria” (J.J. Rousseau).

La lotta di classe, la sopraffazione dell’uomo sull’uomo, sviluppa la sopraffazione dell’uomo sull’ambiente. Concepire il valore in sé della natura, in una visione non utilitaristica, otterrebbe una riconnessione con la natura e, conseguentemente, la nascita di una società egalitaria e “umana”: “..la maggior parte dei nostri problemi ecologici ha le sue radici in problemi sociali e che l’attuale disarmonia tra umanità e natura può essere ricondotta essenzialmente ai conflitti sociali. Non credo che si possa giungere ad un equilibrio tra umanità e natura se non si trova un nuovo equilibrio - basato sulla libertà dal dominio e dalla gerarchia - in seno alla società” (Bookchin, 1989). Incalza Hosle (1992): “... lo Stato di diritto sociale e democratico dev’essere al contempo uno Stato ecologico. Con ciò intendo dire che uno dei più importanti compiti dello Stato deve consistere nel conservare i fondamenti naturali della vita......”.

Ma purtroppo, le classi egemoni “orientano” integralmente il pensiero delle masse, con i mezzi più subdoli e penetranti. L’ideologia della cieca logica del profitto è la caratteristica mentale dei nostri tempi, ormai saldamente radicata in ampi strati dell’opinione pubblica e del tessuto sociale. Questo rende ancor più difficile la proposta e la successiva affermazione di una nuova quanto antica ideologia estremamente pratica basata, come detto, sulla riconnessione dell’uomo con l’uomo e dell’uomo con la natura, intima unione ed un tempo vera essenza della vita. Un totalizzante contrasto viene dalle forze scatenanti e prevaricatrici del capitalismo e quindi dell’occidentalismo, tutte proiettate verso l’illimitato accumulo del denaro e del potere decisionale. A proposito del capitalismo scrive Bookchin (1989): “Una cosa comunque deve essere ben chiara: è un sistema che deve espandersi continuamente fino a distruggere tutti i vincoli tra società e natura, come dimostrano i buchi nello strato di ozono e l’aumento dell’effetto serra. E’ letteralmente il cancro della vita sociale”.

Un’ideologia del valore intrinseco delle cose deve dunque confrontarsi, in una lotta impari, con il valore utilitaristico del pensiero corrente occidentale, valore sorretto dalle forti spinte economiche. Tra l’altro occorre ricordare che il contratto sociale fortemente articolato ha progressivamente ridotto la “vera” libertà individuale. Kaczynskj (1997) ci ricorda che “Libertà significa essere in grado di controllare (sia come individuo che come membro di un piccolo gruppo) tutti gli aspetti relativi alla propria vita-morte; cibo, vestiti, riparo e difesa contro qualsiasi pericolo ci possa essere nel proprio circondario. Libertà significa avere il potere; non il potere di controllare altre persone ma il potere di controllare le circostanze della propria vita. Nessuno è libero se qualcun altro (specialmente una grossa organizzazione) lo ha in suo potere, non importa con quanta benevolenza, tolleranza e permissivismo questo potere sia esercitato... “.

In questa immane dialettica, lo sviluppo economico-sociale, dapprima limitato, necessario e controllato, assume poco alla volta un carattere invadente e prevaricatore. Le necessità economiche delle classi lavoratrici, ormai inserite in un tessuto sociale degenerante, spingono gli Stati e ancor più gli imprenditori privati (in società o in proprio), ad “investire” i capitali nella produzione di beni, spesso inutili, con la sola logica del profitto. La società allora affonda progressivamente in una illusione “produttivistica” con l’intento di avere e di accumulare sempre di più. Le classi borghesi si assicurano l’”avere”, mentre quelle imprenditoriali l’accumulo. La logica è quella del profitto, come sappiamo, ed allora i parametri del buon senso e della mediazione perdono ogni significato. La società consumistica, con l’ideologia delle false necessità, spinge il singolo a chiedere le cose, che il sistema partorisce a ritmo incalzante (il concetto di sviluppo è una definizione che viene ripetuta incessantemente come un disco incantato). Ma la parabola dapprima illusoriamente ascendente piega la sua curva, perché la logica perversa del capitalismo pone le sue fondamenta nel saccheggio dell’ambiente, sia nel senso dei prelevamenti (energia, materie prime, ecc.) che in quello dei rilasci (inquinamento dei rifiuti). Il cerchio si chiude ed il sistema umano affonda nella palude e purtroppo con esso anche gli elementi della natura. Marx asseriva che lo sfruttamento della natura è una delle contraddizioni del capitalismo; più in generale direi che la distruzione della natura è il risultato della società umana “civilizzata”! L’uomo è capace di rovinare tutto ciò che tocca perché in fondo la “civiltà” ha in sé il germe della propria distruzione e della distruzione del mondo.

Scrive ancora Murray Bookchin (1995): “La ‘civiltà’ come noi la conosciamo oggi è più muta di quella natura per la quale pretende di parlare e più cieca di quelle forze elementari che pretende di controllare. In realtà, questa ‘civiltà’ vive nell’odio per il mondo che la circonda e nell’odio per se stessa. Le sue città sventrate, le terre rovinate, l’acqua e l’aria avvelenate, la sua meschina ingordigia sono un’accusa quotidiana alla suo odiosa immoralità. Un mondo così ridotto è forse irrecuperabile, per lo meno nel quadro delle sue attuali strutture istituzionali ed etiche......... Questo pianeta si merita un destino migliore di quello che sembra attenderlo nel futuro, se non altro perché la storia, compresa la storia umana, è stata così ricca di promesse, di speranze, di creatività”.

Paradossalmente si potrebbe considerare che anche le opere dell’uomo (città, macchine, tecnologia, ecc.) siano in una qualche misura cose “naturali”, frutto dell’ingegno e dell’evoluzione di un essere senziente. Ciò potrebbe anche essere vero, ma questa “natura umana” è in netto contrasto con tutte le “cose naturali” non umane. Il mondo antropico non solo si oppone e si scinde da quello della natura, ma determina la totale distruzione e prevaricazione di quest’ultimo. In sintesi nessun accordo armonico è possibile stabilire tra le parti perché la scissione determina sempre contrasto e antitesi. Scrisse J. Muir (1995) “Chiamo Carlo e per tornare a casa, ripercorro il disagevole tratto di Indian Canon, lieto di essere dove sono e compatendo in cuor mio il povero professore e il generale, vincolati da orologi, calendari, ordini, doveri e quanti altri legami e sempre  costretti a vivere gli affanni della vita di pianura, la polvere e il rumore, mentre il povero, insignificante vagabondo gode la libertà e la grandiosità della divina natura selvaggia”.

Il concetto di globalizzazione, oggi tanto diffuso e popolare, è un concetto che rende le società umane sempre più dipendenti le une dalle altre, causando un indebolimento dello spirito di “sopravvivenza” tanto che ognuno di noi è sempre più schiavo dei meccanismi infernali della vita quotidiana. Se un tempo, per esempio, un piccolo borgo di montagna rimaneva isolato per mesi durante il lungo inverno, la popolazione era perfettamente in grado di sopravvivere grazie ad una buona dose di autarchia che regnava sia nello spirito che nella pratica quotidiana. Oggi, un borgo, se perde per qualche giorno la strada di accesso, entra in una profonda crisi sia materiale che spirituale. Ecco il risultato delle catene sociali che stiamo amplificando sempre più. Una dipendenza ormai irrinunciabile. Il contratto sociale dovrebbe stipularsi tra piccoli gruppi autonomi senza creare immani strutture sociali fortemente dipendenti le une dalle altre, non libertarie e sempre più ingovernabili. Ovviamente non ci riferiamo alle dipendenze ecologiche proprie degli ecosistemi, ma a quelle catene non cicliche ed inutili che permeano sempre più i rapporti sociali. Lo sviluppo enorme del terziario e dell’industria ha contribuito definitivamente all’asservimento e alla vulnerabilità delle masse.

Scrive Bookchin (1989): “Affinché la tendenza venga invertita, il capitalismo deve essere sostituito da una società ecologica fondata su relazioni non gerarchiche, su comunità decentrate, su ecotecnologie come l’energia solare, sull’agricoltura organica e su industrie a misura umana, insomma forme di insediamento veramente democratiche, economicamente e strutturalmente coerenti con l’ecosistema in cui si trovano collocate”. Ma una società ecologica non può nascere all’interno del sistema attuale, ma solo da un atto “rivoluzionario”, radicale e totalizzante. Afferma infatti Bookchin (1989): “.... Esso è fondato sull’opinione decisamente errata che la nuova società debba nascere nel seno stesso della vecchia, crescendovi e sviluppandosi come un figlio vigoroso capace di imporsi ai suoi genitori o distruggerli”.

Il contratto sociale sebbene abbia una genesi di positività si è trasformato in una multiforme varietà dove giganteggiano esclusivamente il potere quanto più illimitato possibile, la sopraffazione, le disparità sociali, le menzogne, le mere illusioni, le distruzioni, le discriminazioni, le guerre e chi più ne ha ne metta. Non sembra affatto un buon “contratto”. Riflettiamoci un po’! Concludiamo con una massima di E. B. White, citata dalla Carson nell’epigrafe del suo capolavoro Primavera silenziosa (1963): “Sono pessimista sulla sorte della razza umana perché essa ha troppo più ingegno di quanto ne occorra al suo benessere. Noi ci accostiamo alla natura solo per sottometterla. Se ci adattassimo a questo pianeta e lo apprezzassimo, invece di considerarlo in modo scettico e dittatoriale, avremmo migliori probabilità di sopravvivere”.


La globalizzazione e la sua vulnerabilità



Le società umane sempre più ingigantite e mostruosamente diseguali, si sono progressivamente sviluppate con il denominatore comune di una crescita illimitata, a qualunque costo, non importa se il conto debba essere pagato dalle vite umane (sia in senso fisico che qualitativo) o dall’ambiente naturale. Il liberismo dei mercati ormai sempre più senza freno, il produttivismo crescente in buona parte di beni inutili o in ogni caso non strettamente necessari, crea ricchezza come al solito solo ai paesi della fascia ricca (si ricorda che nel mondo milioni di persone vivono nella miseria più cupa con un effimero o forse sarebbe meglio dire irrisorio reddito giornaliero; per loro la singola giornata deve essere interamente dedicata a “racimolare” il minimo indispensabile per non morire di fame e non sempre ciò riesce!), e libera continuamente diseguaglianze economiche e impoverimento drammatico delle risorse naturali. Ci troviamo di fronte ad una situazione simile ad una valanga che iniziata la sua discesa con un piccolo fronte va man mano allargandosi e ingigantendosi (acquista insomma progressivamente sempre più energia) nel suo precipitare a valle provocando una distruzione totale di tutte le cose che si frappongono al suo rovinoso cammino. La cecità dei mercati capitalistici non ignora questo pesante prezzo, ma se ne disinteressa completamente perché lo fa pagare ad altri (ma in fondo anche a se). Ovviamente questo solo per una visione miope perché ci si illude che la crescita, pur se con la consapevolezza che avrà qualche battuta d’arresto, sarà sempre illimitata e linearmente in salita. Ora sappiamo dagli insegnamenti ecologici che ciò non è strutturalmente possibile e, superato il limite di rottura, il crollo vertiginoso non sarà solo una certezza ma ineluttabilmente inevitabile. I grandi imperi finanziari governati dalle nazioni opulenti e ricche hanno pianificato sagacemente questo irresponsabile sviluppo ma dopo lungo tempo si sono resi conto che la demoniaca pianificazione presentava ad un certo punto dei forti limiti di saturazione e di espansione oltre ad una debolezza basata sul continuo consumo e sullo spreco. Ed ecco l’illusoria “formula magica”: globalizzare in un unico corpo il mercato ed i costumi del consumo e della voluttà. Ovviamente sempre con la decisa distinzione tra i “governanti” della situazione (in altri termini coloro che tessono la tela) e i sottomessi a causa degli eventi. I potenti del mercato, incalzati da coloro che contestano la globalizzazione, si dipingono la bocca con apparenti astute politiche “universali” ed “umanitarie” facendo credere alle masse ignare (ignare perché attingono acriticamente ciò che gli viene inculcato con un sagace e sottile “lavaggio del cervello”) che tutti gli esseri umani, paesi ricchi e paesi poveri, potranno attingere liberamente e “illimitatamente” ai nuovi beni che saranno raccolti da ogni parte e da ogni ceto. Il gigante si ingrandisce sempre più, si lega sempre più, cercando di giungere ad una società paurosamente piatta dove solo il Dio economico apparentemente unisce e rafforza. Ben sanno i paesi ricchi che è loro avido interesse mettere nelle migliori condizioni i paesi poveri per creare improvvisamente immensi nuovi mercati dove convogliare la loro ricchezza produttivistica e far diventare le società del pianeta terra le une unite alle altre per diffondere il consumo. E, se il piano riesce, ecco ancora una volta i due pesi e le due misure: i paesi poveri si illudono dell’improvvisa ed apparente “manna” che cade dal cielo (ma che in ogni caso pagano sempre a caro prezzo), mentre quelli ricchi rimpinguano il loro salvadanaio e soprattutto salvano, almeno per un po’, la loro ormai traballante società consumistica/capitalistica. Quando si vede il baratro si cerca di voltare lo sguardo e si punta a qualcos’altro sperando che funzioni. Ma la globalizzazione, così come è stata concepita, ha dei piedi ancor più fragili dell’argilla: sono piedi poggiati su delle sabbie mobili, sono quindi totalmente instabili e fortemente dipendenti (vedasi per esempio la sudditanza energetica). Ma per argomentare con maggior rigore descrittivo è bene ragionare sulle riflessioni di Luciano Gallino (2001) che sono quanto mai eloquenti e sufficientemente complete per una più lineare comprensione del discorso pur breve che sia (la parte in corsivo sono le sue testuali parole). Gli errori strutturali della globalizzazione sono facilmente riscontrabili nell’aver voluto focalizzare la sua costruzione su sistemi tecnologici e sociali che debbono essere giganteschi, in grado di abbracciare ogni recondito recesso del pianeta sempre con il medesimo leimotiv, sempre funzionanti a ciclo continuo ora per ora, giorno per giorno, sette giorni su sette. Si è in altri termini puntato a fare del tutto come una sorta di orologio d’immane grandezza, automatico, estremamente preciso e controllato. Così com’è stato impostato esso contiene nella sua genesi tutti gli elementi della sua facile vulnerabilità. Questo super orologio si può anche fermare, chi può dire il contrario, ed anche per cause estranee ad esso (leggasi guerre, rivoluzioni, ecc.), ma le vere cause sono insite all’interno stesso del suo meccanismo e non certo fuori. “Sistemi di trasporto di merci e persone, sistemi di comunicazione, sistemi produttivi, con le loro componenti sociali e tecnologiche: più si globalizzano, più tendono a diventare vulnerabili. Una prima causa di vulnerabilità è identificabile nel fatto che qualsiasi sitema socio-tecnico è formato necessariamente da tanti pezzi, ovvero da una molteplicità di sottosistemi. A mano a mano che i sottosistemi diventano più numerosi, perché si vuole che il sistema che li comprende arrivi a coprire tutto il globo, aumenta la probabilità che tra di essi ve ne sia qualcuno che funziona male, o si rompe. Oppure che saltino i collegamenti tra l’uno e l’altro. In ambedue i casi l’intero sistema può andare in crisi, e mandarne subito in crisi altri…….. Una seconda causa di vulnerabilità dei sistemi globali è la perdita della capacità di adattamento ai mutamenti locali, di qualsivoglia natura: sociali, economici, ambientali. Essa consegue sia dalla riduzione della varietà della natura e dei comportamenti che i costruttori di sistemi globali tenacemente perseguono, sia dalla perdita di autonomia decisionale che i soggetti locali subiscono perché i centri di decisione sono stati trasferiti altrove. In ampie regioni del globo, Europa compresa, i sistemi economici locali sono stati de-costruiti e poi ricostruiti in un modo tale che le decisioni attinenti i modi di produrre beni d’uso o alimenti, l’occupazione, i consumi, la distribuzione delle popolazioni sul territorio, che un tempo erano prese sul luogo da artigiani, piccoli imprenditori, coltivatori, amministratori locali, sono ora prese da qualcuno che sta a migliaia di chilometri di distanza. Un decisore lontano non è necessariamente un decisore malvagio. E’ però un decisore al quale della regione in cui le sue decisioni ricadranno importa probabilmente poco, non foss’altro perché nel suo ordine di priorità globali quella regione magari occupa il decimo posto. Nel migliore dei casi finirà per prendere decisioni tardive o inadeguate…….”.

Infiniti eventi tra i più disparati metteranno in risalto la facile vulnerabilità del sistema globale, vulnerabilità che così commenta, per concludere, Gallino (2001) ”…. Essa comporta sin da ora costi umani addizionali, come una decina di milioni di nuovi poveri, quelli che vivono con meno di un dollaro al giorno. Potrebbe essere giunto il momento per cercare di comprendere perché il mondo sembra rifiutarsi di funzionare come un orologio. E per provare eventualmente a cambiare disegno”.   

E per completare si ricorda che la globalizzazione dei mercati porta inscindibilmente con sé il risvolto negativo della propria medaglia. Se cade un grosso paese, cadono tutti! Questo crollo alla fine potrebbe anche essere “vantaggioso” per la natura anche se purtroppo avverrà in un contesto umano disastroso, iniquo e disperato. D’altronde chi male semina, male raccoglie.


Problemi del Sud del mondo



La mirabile fioritura della civiltà greca testimoniata da Democrito e Socrate, da Aristotele e Platone, si estese attraverso le città della Magna Grecia in gran parte del bacino del Mediterraneo, per proiettarsi poi, sulle ali dell’ellenismo, in ogni contrada del mondo antico. L’eredità culturale greca si trasferì successivamente a Roma che, dapprima nel periodo repubblicano, poi in quello imperiale, si fece portatrice di civiltà nei paesi iberici, nelle Gallie, in Britannia, e nell’Illiria e nella Dacia. La decadenza e la caduta dell’impero dettero poi inizio ad una sorta di “lunga età di mezzo” finché, il Rinascimento prima, e l’Illuminismo poi, dischiusero le porte della “civiltà” moderna. La maturazione culturale di cui abbiamo fatto appena cenno, estendendosi in un arco di circa tremila anni, ebbe un unico, grande teatro: l’Europa. E si comprende allora come la “ventura” di nascere in un tale continente possa essere per gli europei (almeno secondo il loro punto di vista), “presunto” motivo di orgoglio e titolo di nobiltà. Da qui scaturisce quello che si suole chiamare eurocentrismo, cioè una visione del mondo che si riconosce e si esalta in quei valori spirituali e culturali. Ma lo sviluppo di questa “civiltà” ha causato un grande impatto sull’ambiente, alterando dapprima lentamente, poi rapidamente, la fisionomia naturale del continente europeo trasformandolo in una sorta di grande giardino addomesticato e manipolato. La “conquista” del nuovo mondo e il successivo straordinario sviluppo dei mezzi di trasporto sollevarono il velo su nuovi popoli e nuovi continenti ed ampliarono il respiro della storia e delle distruzioni ambientali fino a ridurre l’immagine dell’Europa a quelli di una provincia del nostro pianeta. Tuttavia l’Europa, culla dello sviluppo capitalistico che seguì alla rivoluzione francese, affermò il suo primato anche nella opulenza della società industriale, e ne trasferì il modello ai paesi americani, mentre, attraverso la maturazione del pensiero di Hegel e di Feuerbach, fu ancora l’Europa che, teorizzando il superamento del capitalismo per mezzo del marxismo, rese possibile l’industrializzazione delle immense pianure sarmatiche, rimaste per secoli esclusivo appannaggio di una antica quanto salubre società contadina.

Ebbene, quali effetti ambientali ed economici sono derivati dall’eurocentrismo e del suo irradiarsi in alcune parti del globo? Dal punto di vista ambientale i danni sono stati progressivi e incalcolabili e allo stato attuale è possibile osservare gli ultimi territori wilderness solo dove l’uomo “bianco” non è arrivato. La “civiltà” europea, invece, forte della propria cultura e della propria tecnologia, ha amplificato enormemente il potenziale distruttivo arrecando devastazioni, oppressioni e prevaricazioni. Gli effetti esiziali di una tale invadenza non hanno toccato però solo gli scenari naturali (si pensi alla Nuova Zelanda, completamente trasformata nella sua fisionomia ambientale o alle poche aree selvagge che sono rimaste negli Stati Uniti - Alaska esclusa - malgrado la grande estensione del territorio), ma anche le popolazioni umane residenti da epoche immemorabili in quei luoghi di conquista. Lo sterminio e il soggiogamento dei popoli pellerossa del Nord America o degli aborigeni australiani valga come esempio per tutti. 

Dal punto di vista economico le statistiche ci forniscono in proposito un dato quanto mai allarmante ed è questo: i paesi collocati nella fascia nordatlantica, cioè il Nord America, l’Europa e la parte Europea della Russia, rappresentano demograficamente il 15% della popolazione mondiale, mentre le loro risorse economiche costituiscono il 75% di quelle disponibili nel globo. Questa drammatica divaricazione del benessere è all’origine dei gravi problemi emersi in questi ultimi anni ed appare ormai evidente che i paesi ricchi non potranno ulteriormente richiudersi nel loro egoismo senza porre a repentaglio la stabilità e la pace del mondo. L’eurocentrismo ci condiziona e ci porta ad analizzare i problemi mondiali da un’ottica culturale e scientifica tipicamente europea, ma è ormai tempo di rovesciare un cosiffatto punto di osservazione per privilegiare quello che si diparte da tre immensi continenti quali il Sud America, l’Africa e il sud asiatico, pur gravidi di pericolose contraddizioni, segnati, in gran parte, dal tragico spettro della fame e della sovrappopolazione (il fenomenale “sviluppo” della Cina e dell’India valga come esempio). E’ necessario convincersi che lo straordinario sviluppo dei mezzi di comunicazione e dei trasporti ha ormai ridotto le dimensioni del nostro pianeta a quelle di una provincia, che deve essere governata al di fuori di ogni dicotomia, eliminando per sempre i persistenti effetti dei lati più negativi del colonialismo. Occorre affermare che non potrà mai esservi stabilità nel mondo sociale finché accanto all’opulenza dei paesi ricchi sopravviverà, con drammatico contrasto, la fame di una grande fetta della popolazione umana. Nessuno può nutrire l’illusione di potersi rinchiudere nel proprio benessere, perché esso, come la libertà, è indivisibile. Non possiamo sentirci veramente liberi se non assicuriamo agli altri la propria libertà, così non potremmo considerarci interamente affrancati dalla schiavitù del bisogno se ad altri fosse invece negato finanche la speranza di sopravvivere: “finché un uomo è in catene nessun essere umano è libero” (Che Guevara).

La questione però appare più problematica di quanto sembra. Occorre rinegoziare il tutto per ridimensionare la società capitalistica secondo una economia stazionaria corrisposta anche dagli altri paesi. Occorre insomma universalizzarsi non con il modello capitalistico attuale della fascia ricca, ma secondo una logica intermedia ispirata all’economia degli equilibri naturali. Se ogni cittadino dello stato cinese o indiano riuscisse (e la cosa non appare poi tanto lontana) a vivere come vive oggi un americano od un europeo, le ultime risorse della terra, ormai già grandemente depauperate, sarebbero bastevoli solo per pochissimi anni. Quindi, universalizzare il modello economico del vivere secondo i parametri del profitto e del consumismo/liberismo attuale, significa proiettarsi verso l’immediata fine della vita sociale e finanche di quella naturale. E’ necessario riorganizzarsi invece secondo principi fisiocratici, stazionari, ciclici e soprattutto con un basso indice demografico (e non solo nel sud del mondo), che possa ricondurci ad una nuova dimensione in grado di durare nel tempo. Occorre universalizzare e globalizzare la semplicità e non la logica del profitto e dell’accumulo (profitto e accumulo per pochi, sperequazione per molti altri). Se si vuole far salire fortemente le economie dei paesi più poveri lo si vuole fare esclusivamente per creare nuovi immensi mercati di consumo per far straripare i prodotti di quei paesi ricchi che al loro interno incominciano fortemente a saturarsi. Apparentemente più ricco tu (prima povero e sempre povero), realmente ed enormemente più ricchi noi (sempre ricchi e ancora più ricchi)!


Le fonti energetiche



Fin dagli albori della sua storia l’uomo si è posto in rapporto dialettico con le forze della natura, e lo svolgersi di tale confronto, a volte esaltante, spesso drammatico, sembra protendersi idealmente dal mito di Prometeo fino all’apocalittica deflagrazione di Hiroshima. L’attività dello spirito, nell’ansia di penetrare la misteriosa essenza della materia, ha elaborato - nel corso dei millenni - innumerevoli costruzioni filosofiche e scientifiche che, a partire dal XVII° secolo, con una singolare improvvisa fioritura, dettero vita a scoperte susseguitesi, con incessante progressione, dal campo della fisica a quello della chimica, dalla matematica alla biologia, alla genetica. Ma un sì gran numero di originali intuizioni non avrebbe potuto conseguire risultati pratici ed esecutivi se le strutture sociali e i rapporti di produzione non si fossero sottratti, per effetto della svolta storica determinata dalla rivoluzione del 1789, alle mortificanti condizioni del mondo feudale. E’, infatti, il terzo stato che, appropriandosi della somma delle scoperte scientifiche, diviene protagonista della rivoluzione industriale e realizza grandi opere d’ingegneria che appaiono ancora oggi titaniche, quali lo scavo del canale di Suez o il taglio dell’istmo di Panama. E’ grazie allo spirito di intraprendenza della borghesia che grandi flotte solcano gli oceani, o che si dà vita ai grandi impianti siderurgici, o ai colossi dell’industria meccanica. L’incessante crescita della società industriale è tuttavia interamente condizionata dalle fonti energetiche, e il carbon fossile appare per circa un secolo il miracoloso motore dell’immane meccanismo. Ma il carbone non è inesauribile ed ecco che si dà inizio alla frenetica ricerca del petrolio, fonte energetica che, ricca di calorie e facile da trasportare, diventa ben presto strumento di potenza delle grandi compagnie monopolistiche internazionali (e nel contempo una devastante fonte di inquinamento diretto ed indiretto come, per esempio, il riversamento in mare della massa oleosa a causa del naufragio di un numero sempre crescente di petroliere). Ma il declino del mondo coloniale e il progressivo esaurirsi dei giacimenti petroliferi, fanno insorgere a loro volta drammatici problemi che mettono in pericolo la preminenza economica e politica di potenti nazioni industrializzate. Tali fattori spingono le ricerche verso l’energia nucleare che da puro strumento di morte sembra trasformarsi, attraverso una singolare catarsi, in fonte di “benessere e di pace”. Si dà così inizio alla costruzione di centrali nucleari per la produzione di energia elettrica che l’apparato industriale, insaziabile consumatore, domanda in quantità assai superiore a quella che si può ottenere dalle forze idriche. Ma l’innalzarsi delle cattedrali atomiche riconduce il ricordo all’invocazione che il Croce pronunciò subito dopo l’olocausto di Hiroshima, quando auspicò che, a simiglianza del tesoro dei Nibelunghi, la formula dell’equazione nucleare fosse gettata per sempre nelle acque del Reno. Invocazione che appare in vero sempre attuale perché quella forma di energia ha in sé qualcosa di demoniaco e di terrificante che sembra quasi sfidare, con sovrumana protervia, la struttura stessa della natura, ed è per questo che essa - anche se usata per scopi di pace - implica angoscianti interrogativi che si riferiscono, oltre tutto, all’irrisolto problema della conservazione delle scorie o all’olocausto degli incidenti nelle centrali: l’esempio di Chernobyl valga per tutti. Ma se le forze economiche, sollecitate dall’incessante espansione dei consumi, non sembrano ritrarsi innanzi a interrogativi tanto angoscianti, è necessario che l’umanità compia uno sforzo per determinare nuovi modelli di vita che abbiano alla loro base l’esempio dell’economia naturale, un’economia dallo sviluppo stazionario. Le fonti energetiche alternative, generate da forze naturali (solare, geotermica, biomasse, ecc.), perennemente rinnovabili, possono integrare o sostituire i sistemi in via di esaurimento o estremamente pericolosi, ma in fondo al problema rimane un interrogativo: che le teorie maltusiane abbiano ancora una loro validità? Non può infatti negarsi che l’insaziabile domanda di energia, collegata allo sfrenato sviluppo e abuso dei consumi, è intimamente collegata alla spinta demografica che, nell’immediato futuro, perverrà al preoccupante traguardo di una popolazione mondiale assai vicina agli otto-dieci miliardi. Si sta alterando l’intero pianeta terra anche per la sete continua di energia, in gran parte utilizzata per lo spreco, l’inutile, il superfluo. Si costruiscono centrali nucleari, si sbarrano i fiumi, si attivano centrali a carbone e così via, per poi dissipare nel vuoto gran parte di quella forza. E anche le fonti energetiche rinnovabili hanno spesso in se il loro risvolto della medaglia: interi territori regionali sottratti alla natura per far spazio ad aberranti centrali eoliche che oltre ad una deturpazione permanente del paesaggio comportano tutta un’altra serie di negatività: costruzioni di strade, innalzamento di veri e propri grattacieli rotanti di oltre centro metri di altezza, a volte locali mutamenti climatici, una strage continua ed apocalittica degli uccelli che vengono colpiti dalle “invisibili” pale (nelle grosse centrali si contano centinaia se non migliaia di uccelli uccisi a settimana!) o lo sbarramento dei fiumi per l’energia idroelettrica che snatura completamente i corsi d’acqua alterando permanentemente il ciclo vitale che per secoli si è dispiegato liberamente (non contando ovviamente l’inquinamento domestico ed industriale delle acque o la cementificazione delle sponde che già si fanno carico di morte e di sterilità), ecc. Quindi anche per la cosiddetta energia pulita occorre vagliare con molta attenzione anche gli elementi di impatto ambientale, inevitabilmente presenti, e non arrivare mai ad una generalizzazione dei nuovi sistemi; anzi è doveroso ed opportuno analizzare caso per caso. Ma, paradossalmente, se la società contemporanea, come probabilmente avverrà, avrà a disposizione forme illimitate di energia pulita (p.e. l’idrogeno) e perennemente rinnovabile, sembrerà strano a dirlo ma l’atto finale ed immane della distruzione sarà completato, perché (la riflessione è sin troppo ovvia), l’uomo avrà così la possibilità di svilupparsi ancor più, sempre più, avrà la possibilità di allargarsi come vuole con la sottomissione di tutta la madre terra. Un paradosso apparentemente apocalittico ma purtroppo fortemente realistico. Energia illimitata significa infatti poter superare o aggirare agevolmente qualunque altro fattore limitante dell’ambiente e, con una forza senza precedenti, gli esseri umani potranno disporre e “creare” ogni cosa che più gli sembra “utile” (è come avere alla spalle un infinito accumulo finanziario che potrà essere speso senza freni e senza alcuna remora, anche se un limite sarà quello dell’esaurimento delle materie prime). E, poiché la storia dell’umanità ci ha sin troppo ben insegnato che per andare “avanti” deve accrescersi e “svilupparsi” sempre più, cosa mai la potrà fermare? La propria inesistente autocoscienza? O la sua smisurata ingordigia? O il suo radicato senso accentratore? Lo scetticismo è d’obbligo, anzi si dovrebbe dire che lo scetticismo si trasforma in una amara certezza. Anche con questo atto il genere umano dimostrerà il suo definitivo declino e con esso tutto ciò che gli pulsa intorno. Sembrano affermazioni paradossali? Non credo: esse sono la vera “morale” del genere umano contemporaneo. E per concludere occorre però ricordare un altro elemento fondamentale: anche nel caso di poter disporre di una energia pulita ed illimitata, essa avrà alle sue fondamenta sempre un supporto tecnologico e, come ci insegna la storia del capitale, ci saranno come al solito due pesi e due misure: paesi che “governeranno” il nuovo sistema e saranno quindi sempre più ricchi e potenti e paesi che potranno avere anche accesso alla grande innovazione, ma sempre in forma subordinata e subalterna. Il divario delle “ricchezze” sarà così anche in questo caso una costante realtà. Possiamo quindi dire facilmente: energia pulita e perennemente rinnovabile, ma non potremmo certamente dire energia pulita e perennemente rinnovabile uguale per tutti.

Torniamo, per completare meglio, a quello che si esaminava pocànzi; insomma, siamo come sempre all’assurdo: si cerca avidamente una continua energia e non si parla mai di ridurre drasticamente il consumo soventemente collegato con il superfluo, con lo spreco, con l’abbondanza (si vuole sempre di più): il tutto invece facilmente riducibile (con il semplice buon senso). Si pensi, per fare solo un piccolo esempio, che se ognuno per la sua parte riducesse dell’1% gli utilizzi inutili o eccessivi delle cose e quindi dell’energia, avremmo un risparmio mondiale tale che la cifra verrebbe difficilmente letta. Ma l’imperativo di questa società consumistica è sempre quello: “comsumare sempre più” altrimenti il sistema si inceppa. E torniamo ad un ennesimo paradosso: risparmiare seriamente, rendere la vita più semplice, consapevolizzarsi su cosa c’è dietro ogni nostro consumo soprattutto se superfluo…… di questo non si “dovrebbe” esserne cosciente,  altrimenti gli indici della crescita delle nazioni ricche si “abbasserebbero” e tutti griderebbero alla catastrofe, alla recessione e la paura, da ogni lato, si diffonderebbe nell’aria. E’ da tempo ormai che la combustione interna dei motori è superata, ma per il momento la sua eliminazione non è economicamente “sostenibile” perché metterebbe in crisi la reggente finanza del petrolio e delle grandi nazioni ricche: e intanto si continua ad inquinare, a saccheggiare, a distruggere, ad annientare. L’aria non “respira” quasi più, ma i conti economici si gonfiano ancora e allora perché ridurli al giusto equilibrio? Anche un pazzo osservatore esterno proveniente chissà da quale galassia ne rimarrebbe allibito, ma gli viene detto che così funziona l’economia del mondo contemporaneo e non c’è “nulla da fare”. Fin quando lo sfruttamento e la distruzione della natura (suolo, acqua, aria) rappresenta ancora un malefico guadagno, nulla cambierà. Un giorno, e forse quando sarà troppo tardi, se l’attuale sistema di sviluppo lo si reputerà non più redditizio, quasi certamente si cambierà rotta, sia per necessità estrema e sia perché anche in una nuova dimensione si cercherà di aleggiare ad una nuova forma di profitto. L’economia sarà quindi sempre al fianco dell’uomo contemporaneo e del futuro e nessun’altra causa vera potrà muovere le cose perché l’imperativo inappellabile è e sarà sempre ed esclusivamente quello del grosso tornaconto economico (se guardiamo i giornali o le televisioni le notizie principali sono sempre quelle economiche, il PIL, la crescita delle finanze, ecc.; mai un rigo, se non come fattore del tutto secondario e trascurabile, sullo stato del pianeta gravemente malato per causa nostra. Quando se ne parla sembra di assistere a mere informazioni “folcloristiche” frutto della mente di qualche “fissato” dell’ambiente! Non manca telegiornale che non riporti quotidianamente l’indice delle borse. Perché non lo fa invece sull’indice del disastro ecologico? Non occorre aggiungere altro). Il tutto ovviamente a definitiva spesa della natura e delle classi più povere del mondo umano. Pensate a cosa accade, se ognuno risparmia le cose, si accontenta del fin troppo che ha, sta attento a non farsi ingannare e fagocitare dalle pubblicità e mantiene una vita decorosa ma essenziale e non consuma come un essere famelico: bene, pur se sembra incredibile, vacilla tutto il sistema economico del mondo e in breve crolla tutto. Bel modo ci siamo scelti per “governare” la nostra esistenza. Riflettiamoci almeno un po’ e poi chi vuol essere veramente sincero con se stesso tragga le conclusioni. Ma è importante non meravigliarsi più di tanto se non abbiamo più aria da respirare, paesaggi incontaminati da osservare, fiumi e mari puliti da ammirare, foreste silenti ed ininterrotte da percorrere, acque da bere non contaminate, luoghi selvaggi lasciati al loro libero sviluppo, ecc. (e come abbiamo visto la distruzione avverrà ugualmente anche con energie rinnovabili e pulite, perché grazie alla loro illimitatezza, toglierà gli ultimi freni all’“apocalittico” pensiero umano). In fondo se ci meravigliamo o ci lamentiamo ricordiamoci di guardarci nel nostro dentro. Interrompiamo un attimo la nostra pazzia distruttrice, la nostra bramosia e facciamoci un profondo esame di coscienza e chi non ha peccati scagli la prima pietra; ma attenzione: non dobbiamo autoingannarci, tanto alla fine imbrogliamo noi stessi!


L’urbanesimo



L’umanesimo, affermando la centralità dell’uomo all’interno della socialità, è nella sua essenza un fatto rivoluzionario che, non solo modifica profondamente la struttura della società nella quale si afferma, ma rappresenta anche la premessa di quel rinnovamento radicale del pensiero che attraverso l’illuminismo pone le basi della società moderna. La rottura che l’umanesimo provoca tra mondo medievale e mondo moderno appare non solo con evidente contrapposizione nella pittura che, liberatasi dagli immobili archetipi dell’arte bizantina, spazia in visioni, a volte drammatiche, della vita e del destino dell’uomo, non si afferma solo nella letteratura che, riappropriatasi dei modelli classici, si libera dei condizionamenti del misticismo, ma è forse nel tessuto urbanistico della città che esso irride in modo più innovatore e determinante. Si pensi a Siena, a Firenze, si pensi alla serenità e all’essenzialità delle loro piazze, delle loro strade, fatte per l’uomo e a misura d’uomo, ai loro monumenti, ai palazzi e alle chiese in cui l’arte non è sovrapposizione di elementi estranei all’uomo e al cittadino ma è l’espressione stessa dei valori più alti di una società civile e concorde.

Quale contrasto tra quel mondo, pur non tanto remoto, e le metropoli che, sorte dalla rivoluzione industriale, si ergono oggi come monumenti di una civiltà alienata! E’ l’alienazione che Marcuse ravvisa sia nelle società di tipo capitalistico che in quelle di tipo marxista, ed è un’alienazione da cui non si esce se non si riafferma la centralità dell’uomo (sempre in senso sociale e non naturale), se non si pone la tecnologia a servizio dell’uomo e non l’uomo a servizio della tecnologia (cosa purtroppo del tutto improbabile). Le metropoli, le megalopoli sono disumane filiazioni degli accentramenti produttivi, e i grattacieli che esse innalzano, quasi a rinnovare la sfida che i titani lanciarono a Giove, incombono su di noi come se volessero annullare la nostra misura di uomini, e le allucinanti strade sopraelevate sembrano schiacciare la città sotto il peso delle loro imponenti strutture. La natura mortificata e oppressa dall’asfalto, il verde dei prati e lo stormire delle foglie ricacciate sempre più indietro da una colata di cemento che avanza come un Moloch mai sazio di vittime sacrificali. La distruzione sembra inarrestabile. Occorre fermarsi finché si è in tempo, e l’impegno deve essere di tutti: politici, industriali, ingegneri, architetti. Ah, se si fosse ascoltata la lezione di Wright! Essa aveva indicato, con profetica tempestività, la via che poteva salvarci dalle mostruosità urbanistiche: costruire a misura d’uomo, adeguare la struttura degli edifici agli elementi del paesaggio, sin quasi a realizzare una mimesi della natura stessa. Quale il modello di una città che si riappropria dei valori umani? E’ certo quello che ci ha indicato l’umanesimo, ma cadrebbe nell’utopia chi pensasse di poterlo ripetere e imitare senza che addivenga a profonde trasformazioni del modello sociale. Chi ci ridarà altrimenti il verde soffocato dal cemento, chi si assumerà il compito di abbattere gli enormi caseggiati, desolati ed anonimi? Forse l’inizio della rinascita di una città più umana potrebbe essere conseguito anche attraverso la riappropriazione dei valori di civiltà portati da una società contadina, che nel secolo trascorso sono stati annientati da altri valori che nutrono nel proprio seno le forze che li distruggono.



L’assenza dei valori



“Voi siete stanchi di questi anni di civilizzazione. Io vengo, e cosa vi offro? Una singola foglia verde (Grey Owl).

Forse mai nel corso dei secoli la società ha assunto aspetti tanto contraddittori come quelli che attualmente la distinguono. Ciò è causato, a nostro avviso, dalla persistente influenza di concezioni filosofiche che, sovrapponendosi, si contraddicono, si escludono, si contrastano e ci pervengono sia da tempi lontani, come il razionalismo cartesiano, sia da movimenti più a noi vicini, come il positivismo ancora non del tutto spento, o come la intuizione antintellettualistica bergsoniana, o l’idealismo crociano, o l’angoscia esistenziale, o il materialismo storico e il materialismo dialettico. La società attuale è dunque governata dall’instabilità, nonché dall’assenza di valori assoluti e permanenti e da una fluidità di situazioni perennemente cangianti. Non v’é, in sostanza, una certezza filosofica, una ecologia sociale in grado di rassicurare l’uomo e di definirne il destino, e tale precarietà si riflette sul problema ambientale e, mentre vediamo che alcuni lo rigettano totalmente, non mancano d’altra parte i segni di una nuova attenzione rivolta alla natura, attenzione che non è tuttavia scevra dai dubbi e dalle incertezze proprie della società in cui la natura deve riconnettersi. Ecco perché la scienza ufficiale e i movimenti ecologisti sono da oltre un trentennio alla ricerca di una chiave interpretativa della crisi ambientale, e se le conferenze sui problemi ecologici o la nascita di forti movimenti di massa per la conservazione rappresentano un’alta testimonianza di tale ricerca, dobbiamo pur constatare che le solenni attenzioni di principio da essi proclamati sono tuttora oggetto di contestazione o addirittura rigettate. L’inquietudine è attestata dal dibattito di molteplici problemi non risolti (si pensi, per esempio, alle emissioni di anidride carbonica o alla deforestazione dell’Amazzonia) e si manifesta in modo evidente nella nascita di pensieri più radicali e penetranti che cercano di proporre la più alta filosofia della conservazione (l’ecologia profonda, il concetto di wilderness, il bioregionalismo, ecc.). La spinta ecologica appare dunque condizionata dalle forze totalizzanti e prevaricanti delle società attuali che, volontariamente, non vogliono appropriarsi di nuovi modelli e di nuovi valori assoluti ispirati alla natura e ad una dimensione ugualitaria ed armonica. Il capitalismo, con la sua aberrante logica del profitto, non vuole in alcun modo mutare la propria rotta di navigazione anche se essa lo porterà, nell’immediato futuro, ad una crisi socio-ambientale catastrofica. La società attuale deve perciò calarsi nella realtà naturale, con ciò superando l’apparente antinomia vita umana - natura, perché se l’uomo si auto ridimensiona diventa egli stesso natura, come d’altronde ci attesta il lontano passato di uomini selvaggi, pur non rifiutando tutti i valori positivi di una società che ha in sé ancora qualcosa di buono. Tuttavia un’efficace ecologia sociale deve sempre muoversi al di fuori dell’antropocentrismo per abbracciare il biocentrismo; solo in tal modo le strutture sociali porranno le fondamenta per un sistema universale ed equilibrato. A noi sembra, per concludere, che attraverso la riconnessione dell’uomo con la natura si può costruire una società “umanizzata”, una società che mediante l’azione può ricondurre l’uomo ad una serena visione monistica della vita. Scrive A. Herzen: “Noi non edifichiamo; noi distruggiamo; noi non facciamo nuove rivelazioni; noi rinneghiamo la vecchia menzogna. L’uomo di oggi, triste pontifex maximus, può soltanto erigere il ponte; un altro, che sorgerà in avvenire, l’attraverserà.....” . Concludiamo con una riflessione di Della Casa (1996): “Lo stesso termine ‘civiltà’ è inutile e pericoloso, perché sottindente un giudizio di merito basato su una scala di valori particolare, considerata ovvia.

‘Civile’ significa oggi infatti ‘conforme ai principi dell’Occidente’ e niente di più. Non c’è nessun motivo per considerare la civiltà occidentale migliore della civiltà degli Yanomani, dei Papua, degli Eschimesi, dei Dogon, o delle mille altre culture comparse sulla Terra”.

“Vivificate dalla natura col suo abito di nozze, in mezzo a corsi d’acqua e a canti degli uccelli, la Terra offre all’uomo, nell’armonia dei tre regni, uno spettacolo pieno di vita, d’interesse e di fascino, l’unico spettacolo del quale occhi e cuore non si stancano mai. (Jean Jacques Rousseau).



La rivolta del ‘68



“Per non lottare ci saranno sempre moltissimi pretesti in ogni epoca e in ogni circostanza, ma mai, senza la lotta, si potrà avere la libertà” (Fidel Castro).

I fermenti del ‘68 coinvolsero i giovani in Europa e nel mondo. La “rivolta” nacque all’interno della borghesia, con un netto rifiuto dei valori tradizionali pur non contrapponendo ad essi una precisa scelta. Il rigetto della società in cui essi vivono ha in sé il desiderio di una autodistruzione derivante da una angoscia di tipo esistenziale. Infatti, essi si fanno portatori di una antitesi che si esaurisce in sé, perché non mediata dal terzo termine dialettico. L’antitesi propugnata dai giovani del ‘68 si volse contro la società dei consumi, si ribellò all’alienazione insita nei rapporti di produzione, tentò di sottrarsi all’anonima convivenza delle masse. La crisi dei valori fu profonda. Investì la famiglia e il suo principio di autorità; coinvolse la scuola e il suo ordinamento gerarchico; toccò le dispotiche certezze del clero; fu insomma un movimento dissacrante mosso dal desiderio di una catarsi confusa e indefinita. Il profeta del movimento fu Marcuse, ma la sua filosofia fu spesso fraintesa, perché il filosofo tedesco non intendeva farsi soltanto assertore di una demolizione del sistema borghese, ma prospettò anche nella sua “Weltanschauung” il ritorno ad un nuovo umanesimo in cui l’uomo avrebbe potuto accendere fermenti destinati a disgregare sia il modello capitalistico, sia il modello del comunismo reale dell’epoca. Il ‘68 gettò una montagna nell’oceano, ma il gesto, pur dissacratore e provocatore, non sollevò un’onda eccezionalmente devastante, anche se non fu irrilevante il suo contributo all’emancipazione di molti nuovi costumi e pensieri sociali. Furono sparsi molti semi e se pur in buona percentuale svanirono nel nulla, una parte germogliarono con vigore e virulenza ponendo le basi ad una nuova mentalità e ad uno nuovo modo di porsi dinanzi alla realtà dell’esistenza, sociale e personale. Successivamente ci furono delle forti ondate di riflusso, ma ormai le presunte certezze di un sistema erano state intaccate. Molti movimenti di pensiero che sorsero decenni dopo, ebbero sicuramente la loro genesi da quel sussulto. E’pur vero che negli anni successivi molti parametri borghesi ripresero il sopravvento, e l’appiattimento mentale inglobò le masse (giovanili e non) e la logica del profitto, del consumismo e dell’accumulo dell’inutile prese fortemente il sopravvento, ma un tarlo, sia pur con il suo lento operare, ha continuato a porre dei dubbi sulla realtà. Ora la società del XXI secolo sembra radicata su un modello liberalistico/capitalistico globalizzato, ma le sue basi sono meno stabili di quanto si creda e forse ci si raccoglie in una nuova analisi di estremo dubbio. L’illusione che lo sviluppo del consumo possa perdurare all’infinito ha già al suo interno la certezza che ciò non può essere. Il tempo darà la giusta e pur triste sentenza!

Scrisse Che Guevara in una lettera ai figli (in Bucellini, 1995):“Ai miei figli. Carissimi Hildita, Aleidita, Camilo, Celia ed Ernesto. Se un giorno leggerete questa lettera sarà perché io non ci sarò più. Quasi non vi ricorderete di me: i più piccoli non ricorderanno nulla. Vostro padre è un uomo che agisce come pensa e sicuramente è stato leale con le proprie convinzioni. Crescete come buoni rivoluzionari......

Soprattutto siate sempre capaci di sentire nel più profondo di voi stessi qualsiasi ingiustizia commessa contro qualsiasi persona, in qualsiasi parte del mondo. E’ la qualità più bella di un rivoluzionario ...... “.



Ecologia della disoccupazione e

l’economia in stato stazionario



La nascita dello Stato sociale, tipica costruzione politica del XX° secolo, è collegata a tre eventi: la seconda rivoluzione industriale, la crisi del ‘29 e i cambiamenti sociali conseguenti al secondo conflitto mondiale. Lo Stato lasciatoci in eredità dal XIX° secolo, quello che si suole definire Stato gendarme, trovava la propria motivazione in una società estremamente semplificata nelle sue componenti, mentre la società contemporanea, è invece fortemente articolata, complessa, contraddittoria, in cui le spinte, le sollecitazioni, i conflitti, si incontrano e si scontrano in una incessante dialettica. Una siffatta articolazione, ancor più accentuata dall’eccezionale sviluppo del terziario avanzato, fa emergere problemi ancor più complessi e urgenti.

Di fronte ad una simile mutazione del tessuto sociale, lo Stato moderno è costretto a rivedere le proprie scelte per qualità e ampiezza. A tal proposito occorre ricordare che il New-Deal roosveltiano è la prima rilevante testimonianza di una politica economica che sposta la propria attenzione dalla micro-economia alla macro-economia e, non v’è dubbio che le teorie del Keynes e del suo famoso moltiplicatore furono determinanti per il superamento della recessione del ‘29.

I gravi problemi che affliggono attualmente le economie mondiali (salvo momentanee eccezioni) emergono con particolare evidenza dal progressivo aumento del tasso di disoccupazione della forza lavoro. Non v’è dubbio che il problema si segnala con accentuata urgenza anche perché l’incidenza della componente giovanile assume, al suo interno, significati di particolare valore sociale.

E’ opinione generale che le cause da cui discende la crisi occupazionale siano di tipo strutturale e congiunturale e, tra quelle strutturali, si annovera - in primo luogo - l’effetto derivante dall’avvento della terza rivoluzione industriale che, portando in fabbrica l’automazione e la robottizzazione, elimina una notevole aliquota di mano d’opera. E’ pur vero, d’altra parte, che il terziario, specie quello avanzato, assorbe nuove forze di lavoro ma, com’é noto, il settore abbisogna di personale altamente specializzato, mentre le unità lavorative liberate dall’industria non sempre sono in grado di soddisfare le specifiche richieste del mercato.

Per quanto attiene ai rimedi che da più parti si invocano per portare a soluzione la questione occupazionale è da sottolineare che essi sono spesso contraddittori perché riflettono angolazioni di opposti interessi. Tra le teorie economiche suggerite si citano le seguenti:

a) “legge” di Pigou, detta “legge” del pieno impiego, che - ipotizzando una generalizzata riduzione del salario reale - tende a conseguire la piena occupazione, fermo restando il fondo salari;

b) riduzione dell’orario di lavoro (“lavorare meno, e lavorare tutti”);

c) maggiore mobilità e incentivazione del “part-time”;

d) manovra di Bilancio tendente a ridurre la spesa corrente a beneficio di quella destinata agli investimenti, onde conseguire l’effetto derivante dal moltiplicatore del Keynes.

Quelle di cui si è fatto appena cenno sono le tesi più dibattute ma, è ovvio, che nessuna di esse si pone come variabile indipendente perché qualsiasi intervento di politica economica genera, quasi sempre, reazioni a catena dovute alla interdipendenza dei complessi problemi economici.

Il problema occupazione presenta grandi difficoltà di analisi e di soluzioni e, a giudizio dei più, non potrà essere risolto mediante politiche frammentarie e occasionali, ma necessita invece di interventi che, tramite un’attenta programmazione, ne affrontino globalmente le cause onde rimuovere un quadro economico incerto e carico di gravi tensioni.

Ma l’errore di fondo di tutte le politiche economiche capitalistiche è la pretesa di programmare l’economia sempre in chiave di sviluppo ascendente continuo, con l’illusione che il sistema possa perdurare nel tempo. Occorre invece riferirsi ad una economia in stato stazionario così definita dal Daly (1981 in Gamba & Martignitti, 1995):” ...stock costanti di popolazioni e di manufatti, mantenuti al livello ritenuto sufficiente con tassi di prelievo di materia ed energia a bassa entropia e di rigetto di rifiuti ed emissioni il più possibile bassi”. In sostanza acquisire una visione economica che tenga conto con preminenza delle leggi dell’ecologia e della termodinamica. La produttività deve tendere alla stabilità con un andamento sinusoidale e deve far decrescere la produzione dei beni inutili sino a farli scomparire (occorreranno decenni), in concomitanza ad una rigida riduzione della popolazione mondiale. La mano d’opera che viene a liberarsi, verrà assorbita dai lavori socialmente ed ecologicamente utili. La società del XXI° secolo deve obbligatoriamente contemplare anche questa categoria di lavoratori. Le politiche economiche degli Stati, uniformate e universalizzate, si dovranno dunque assestare su parametri di produttività stazionaria ed essenziale, rinunciando alla logica del profitto, del consumo e dello spreco. Una società essenziale oltre a garantirsi una reale esistenza nel tempo, sarà “ricca” di qualità e di armonia. D’altronde la necessità di una economia ecologica bioregionale (ciò il mutuo rapporto con l’ambiente circostante alla propria comunità) sarà un obbligo delle società del del’’immediato futuro a meno che l’uomo, prigioniero e schiavo della propria opulenza, non voglia precipitare nel baratro che egli stesso si è scavato. Scrive saggiamente A. Solgenitsin “Il progresso non deve essere più considerato la caratteristica auspicabile della società, la perpetuità del progresso è un mito assurdo. Occorre realizzare non una economia di sviluppo continuo, ma una economia di livello costante, stabile. La crescita economica non solo non è necessaria ma è perniciosa”.

Annota Naess (1994): “Recentemente, indipendentemente dal movimento ecologista, gli stessi economisti hanno iniziato a criticare in maniera vigorosa la crescita economica e il modo in cui vengono fissati gli ‘obiettivi nazionali’ come indicatori della crescita del benessere nei paesi industriali. Ma la parola chiave ‘crescita economica’ continua ad avere in politica un’importanza fondamentale, nonostante sia sempre più evidente che influisce in modo negativo sulla qualità della vita delle nazioni industriali ricche. Inoltre mette seriamente in pericolo le possibilità di sopravvivenza per le generazioni future.

Sarebbe in grave errore per il movimento ecologista non utilizzare le critiche mosse dagli stessi economisti alla propaganda per la crescita economica. Ogni giorno, ogni settimana, i giornali e la televisione citano continuamente la crescita economica misurata in termini di PNL (Prodotto Nazionale Lordo) come se fosse un elemento decisivo del successo della politica economica. E’ raro che gli ecologisti mettano in dubbio questo legame.......”.

Tuttavia, per aggiungere una ennesima ma reale nota di pessimismo, occorre ricordare Passmore (1974 in Hargrove, 1990) quando asserisce che ci saranno sempre condizioni economiche che prevarranno sulla preservazione di qualsiasi cosa. La miope visione dell’immediato accompagnerà sempre le scelte dell’uomo contemporaneo!

Ci si preoccupa dell’economia più di qualsiasi altro interesse umano (il Prodotto Nazionale Lordo è considerato l’unico indicatore di sviluppo), e non si pratica una politica ambientale responsabile, capillare, efficace, fondamentalmente bioregionale, ignorando o fingendo di ignorare che senza il mantenimento degli equilibri naturali anche l’economia cessa di esistere per l’irresponsabile prosciugamento della fonte del suo nutrimento. “Solo riducendo al minimo l’impiego di risorse non rinnovabili e utilizzando risorse rinnovabili con lo stesso ritmo con cui possono essere ripristinate, senza provocare danni gravi al ciclo ecologico, è possibile ridurre al minimo il disavanzo tra consumo della società e produzione in natura” (Rifkin, 1982).

Ci è capitato di sfogliare un depliants pubblicitario a tematica economica che rispecchia purtroppo il pensiero della società capitalistica contemporanea e che racchiude in se il germe della distruzione. Ne riportiamo un breve quanto eloquente stralcio.

“Le principali tendenze di sviluppo e i cambiamenti dei prossimi anni provocheranno un aumento e una crescita della domanda in molti settori a livello mondiale:


Trend: Aumento della popolazione mondiale

Effetti: Crescita della domanda dei beni di consumo


Trend: Diffusione della comunicazione e dell’informazione

Effetti: Aumento esponenziale della domanda di tecnologia informatica


Trend: Globalizzazione dei mercati

Effetti: Crescita della domanda dei prodotti di marca


Trend: Progressiva industrializzazione mondiale

Effetti: Crescita della domanda di risorse energetiche


Noi aggiungiamo:Rousseau


Trend: invasione totale del pianeta terra (sia in senso fisico che nel senso degli agenti inquinanti)

Effetti: fine del pianeta Terra!

Forse a quel punto la nostra economia di “sviluppo” non sarà più utile!


Scrive Hosle (1992): “Ma non sappiamo se la ragione farà in tempo a introdursi nel locomotore del treno che sfreccia verso l’abisso e nel quale noi tutti viaggiamo, né se riuscirà a fermarlo in tempo (tanto più che lo spazio di frenatura non è minimo). Ma qual è il locomotore del mondo moderno? E’ certamente l’economia. Il suo principio propulsivo, la sua molla sono però i valori e le categorie, ormai popolarizzati, della filosofia moderna: il mito della fattibilità, l’aspirazione a superare ogni limite quantitativo, la mancanza di scrupoli nei confronti della natura. E quindi una filosofia per la quale la responsabilità non sia un concetto vuoto dovrà cercare in primo luogo di creare valori nuovi e in secondo luogo di trasmetterli alla società e agli esponenti di punta del mondo economico, e dovrà cercarlo di farlo il più rapidamente possibile. Perché il tempo stringe”.

Kirkpatrik Sale, un profondo cultore del bioregionalismo, ci indica bene la via da seguire (in AA. VV., 1994 pagg. 31-32): “L’economia di una bioregione deriva le sue caratteristiche dalle condizioni e dalle leggi della natura.

La nostra ignoranza è certo immensa, ma dopo tanti secoli di vita ‘sul’ suolo, possiamo rifarci a quello che Goldsmith ha definito il complesso delle leggi dell’ecodinamica, distinto dal complesso delle leggi della termodinamica.

La prima di queste leggi è che conservazione/preservazione/mantenimento sono l’obiettivo principe del mondo naturale: da qui la sua intrinseca resistenza a cambiamenti strutturali su larga scala.

La seconda legge dice che, ben lungi dall’essere entropica, la natura è invece intrinsecamente stabile e tende sempre e comunque verso quello stato che l’ecologia definisce climax, ossia un bilanciato, armonico ed integrato stato di maturità che, una volta raggiunto, si mantiene per lunghi periodi.

Per questo motivo un’economia bioregionale cerca di mantenere, piuttosto che sfruttare, il mondo naturale e di adattarsi all’ambiente piuttosto che resistergli.

Tenterà di creare le condizioni climax, in un equilibrio che alcuni economisti definiscono oggi come stato stazionario, invece di una condizione di perpetuo cambiamento e continua ‘crescita’, al servizio del ‘progresso’, divinità illusoria e falsa.

L’economia bioregionalista, in termini pratici, riduce al minimo l’uso delle risorse, enfatizza la conservazione e il riciclaggio, evita l’inquinamento e lo spreco; adatta i suoi sistemi produttivi alle risorse locali, utilizzando ad esempio l’energia del vento, se è possibile, o il legno, dove ciò sia appropriato, o, per quel che riguarda il cibo, si rivolge a ciò che la regione stessa, particolarmente nel suo stato preagricolo, è in grado di produrre. Questo a partire dal più elegante ed elementare fra i principi della natura: quello dell’autosufficienza.

La natura, che non prevede il ‘commercio’, non crea elaborate reti di interdipendenza su scala continentale; perciò la bioregione deve trovare tutte le risorse di cui necessita per energia, cibo, abitazioni, vestiario, utensili, manufatti e via dicendo, entro i propri confini.

Ben lungi da rappresentare un impoverimento, questo significherebbe un guadagno, per la salute economica della bioregione, sotto ogni aspetto.

Sarebbe un’economia più stabile, libera dai cicli di boom e recessione, lontana dall’influenza delle crisi politiche. In essa sarebbe possibile pianificare e redistribuire le risorse, per ottenere lo sviluppo dei settori deficitari, al ritmo più appropriato e nella maniera più ecologica.......

Una delle intuizioni più valide di Schumacher è questa: l’economia di mercato del capitalismo del XX secolo è fondamentalmente sbagliata perché prescinde continuamente dalla natura.

Schumacher avverte anche che ‘è insito nella metodologia della scienza economica ignorare la dipendenza dell’uomo dal mondo naturale. Il mercato però rappresenta solo la superficie della società, ed il suo significato è relativo alla situazione momentanea, per come esiste qui ed ora’.

La sienza economica moderna ‘non studia in profondità le cose, i fatti naturali e sociali che si trovano dietro di esse’.

Ecco perchè, come egli sottolinea, si è persa la distinzione fra beni primari ‘che l’uomo deve conquistare in natura’ e beni secondari, fabbricati dall’uomo stesso; o tra risorse rinnovabili e risorse esauribili.

Inoltre, normalmente, l’economista non considera i costi sociali dello sviluppo competitivo.

Un’economia bioregionale si basa invece proprio su queste distinzioni vitali”.


La fisiocrazia



“Figlio mio, sappi che nessuno ti aiuterà in questo mondo... Devi correre fino a quella montagna e tornare indietro. Questo ti renderà più forte. Figlio mio, sappi che nessuno ti è amico, nemmeno tua sorella, tuo padre o tua madre. Le tue gambe, le tue mani, il tuo cervello, questi sono i tuoi amici. Devi farcela con loro” (Una vita da Apache di Morris Opler in Mears, 1991).

Per la produzione della “ricchezza” economica nell’ambito umano, l’unico processo ispiratore dovrebbe essere quello naturale. Infatti, rifacendoci ai fisiocrati, ricordiamo che l’agricoltura è l’unica attività economica che fornisce un prodotto netto, in quanto al termine del processo si raccoglie più di quanto si è seminato (Bresso, in Gamba & Martignitti, 1995). I settori “sterili” (industria e terziario) sono invece solo in grado di aumentare il valore della materia prima ma non della sua quantità fisica (Bresso, in Gamba & Martignitti, 1995). Un’economia strutturata razionalmente e che abbia a cuore le sorti del pianeta terra e dell’uomo stesso, non può pertanto prescindere dal modello produttivo della biocenosi. Infatti il prodotto netto pocànzi accennato, non è il risultato di qualcosa di astratto, ma è il frutto del “lavoro” che la fitocenosi svolge grazie alla fotosintesi (Bresso, in Gamba & Martignitti, 1995). L’economia naturale quindi è un sistema a ciclo chiuso che preleva dall’esterno solamente l’energia del sole. In maniera analoga anche l’economia umana deve chiudere i propri cicli (Bresso, in Gamba & Martignitti, 1995). Dal pensiero degli indiani del Nordamerica:“Il cerchio della Vita della Creazione è senza fine. Vediamo le stagioni andare e venire. E la Vita Fluire sempre nella Vita. Il bambino diventa genitore. Il genitore diventa il nostro rispettato avo. La vita è sacra. E’ bello farne parte. Tutte le cose sono un cerchio. Ognuno di noi è responsabile delle sue azioni. Esse vedranno il loro ritorno di energia” (Betty Laverdure, Ojibwa - in AA. VV., 1995). Ma per la riaffermazione di un tale processo è fondamentale rivedere il modello di sviluppo e le esigenze del singolo cittadino. Sin quando la società contemporanea rimarrà ancorata al possesso eccessivo dei beni, al consumismo, allo sfruttamento insensato delle risorse, alla produzione dell’inutile, ecc. non sarà possibile reimpostare un modello produttivo secondo principi naturali e quindi fisiocratici. “Come può essere politico un filo di paglia? E’ una domanda che sembrerà ridicola a un sacco di gente. Uomini, donne, vecchi, milioni di individui avidi o disgustati, eccitati o arrabbiati, ma tutti colpiti e legati al carro della storia, del capitale, delle grandi masse, dell’oppressione...

Borghesi, proletari, maschilisti, femministi, liberisti, socialisti, tutti in lotta per il potere. Il potere di un filo di paglia. no! e chi lo conosce? chi lo vede nemmeno un filo di paglia? Il potere è dei giornali, dei tribunali, dei laboratori scientifici, delle fabbriche, dei palazzi presidenziali e della tecnologia intellettuale, delle piazze.... delle maggioranze! Ma la libertà non abita questi luoghi, cresce e cammina sulle ali delle rondini che godono di volare, nel respiro di un ciuffo d’erba che comunica al mondo la sua pace, la sua trasparente umiltà. La libertà si nasconde dentro le correnti delle leggi di natura...... Ecco perché sono leggi discrete e per sentirle bisogna fare silenzio e mettere l’orecchio vicino, vicino: parlano con un lieve mormorio. Un mormorio che diventa rombo o boato in poche occasioni, ma per un diluvio universale quanti secoli di date di battaglie?

La politica del filo di paglia è fuori della storia, è contro la storia, è prima e dopo la storia. La rivoluzione del filo di paglia è possibile a ciascuno di noi, per scelta.

Per Fukuoka bastano 1000mq a persona per arrivare all’autossufficienza alimentare e se anche si dovessero ritoccare le cifre, il potere di questo pensare e lavorare ‘in piccolo’ sarebbe più forte sia ideologicamente che operativamente di qualsiasi partito od organizzazione eversiva e per di più gestibile solamente ‘dal basso’ senza lauree, né diplomi?

Perciò quella del filo di paglia è una via per abolire il capitalismo e appropriarsi dei mezzi di produzione senza passare per la stanza dei bottoni e in questo è veramente rivoluzionaria” (G. Pucci, in Fukuoka 1980). ”’Lo scopo vero dell’agricoltura’, dice Fukuoka, ‘non è far crescere i raccolti, ma la coltivazione e il perfezionamento degli esseri umani’. E parla dell’agricoltura come di una via: ‘Essere qui, prendendosi cura di un piccolo campo, in pieno possesso della libertà e pienezza di ogni giorno, quotidianamente: questa deve essere stata la via originaria dell’agricoltura’. Un’agricoltura completa nutre l’intera persona, corpo ed anima. Non si vive di solo pane” (W. Berry, in Fukuoka 1980).

“L’esagerazione dei desideri è la causa fondamentale che ha portato il mondo all’attuale situazione.

Presto, invece che piano; più, invece che meno: questo ‘sviluppo’ tutto apparente è legato in modo molto diretto all’incombente collasso della società. In pratica è servito soltanto a separare l’uomo dalla natura. L’umanità deve smettere di lasciasi andare al desiderio di possessi e guadagni materiali e muoversi invece verso una consapevolezza spirituale.

L’agricoltura deve passare dalle grandi attività meccanizzate a piccoli poderi basati soltanto sulla vita stessa. All’esistenza materiale e alla dieta alimentare si dovrebbe dare un posto semplice. Se si fa questo il lavoro diventa piacevole e lo spazio per il respiro spirituale abbondante.

Più il contadino ingrandisce la scala delle sue attività e più il suo corpo e spirito si disperdono e inoltre si allontana da un’esistenza moralmente soddisfacente. Una vita di agricoltura su piccola scala può apparire primitiva, ma vivendola diventa possibile contemplare la Grande Via (la via della luce di coscienza che implica l’attenzione e la cura per le attività ordinarie della vita di ogni giorno). Io credo che se uno entra a fondo nell’ambiente che lo circonda immediatamente e nel piccolo mondo di tutti i giorni in cui vive, il più grandi dei mondi si rivelerà.....

... Coltivare la terra una volta era un lavoro sacro. Quando l’umanità cominciò a decadere da questa condizione ideale, venne fuori la moderna agricoltura commerciale. Quando il contadino cominciò a coltivare i suoi raccolti per far soldi, dimenticò i veri fondamenti dell’agricoltura......

‘Se l’autunno porterà pioggia o vento non posso saperlo, ma so che oggi lavorerò nei campi’. Queste sono le parole di una vecchia canzone di campagna. Esprimono la verità dell’agricoltura come maniera di vivere. Non importa come sarà il raccolto, se ci sarà abbastanza da mangiare o meno, nel semplice fatto di gettare il seme e dedicarsi teneramente alle piante sotto la guida della natura, c’è la gioia” (Fukuoka, 1980).

Scrive Capra (1997): “Uno dei contrasti più evidenti tra economia ed ecologia trae  origine dal fatto che la Natura è ciclica, mentre i nostri sistemi industriali sono lineari. Le nostre imprese prendono le risorse, le trasformano ottenendo prodotti e rifiuti, e vendono i prodotti ai consumatori che, dopo averli consumati, producono altri rifiuti. Per essere sostenibili, gli schemi di produzione e consumo devono essere ciclici, imitando i processi ciclici presenti in natura. Per realizzare tali schemi ciclici dobbiamo riprogettare i nostri commerci e la nostra economia”.

Per concludere con Walt Whitman (da Foglie d’erba): “Ora scorgo il segreto della formazione delle persone migliori. E’ crescere all’aria aperta e mangiare e dormire sulla terra”.

Nei tempi degli OGM (organismi geneticamente modificati) l’attività agricola dell’uomo del terzo millennio appare come uno spaventoso mostro in grado di fagocitare l’intera vita sul pianeta di madre terra. Dire che sarebbe opportuno rifletterci bene e a lungo è praticamente cosa inutile perché nulla fermerà questa ennesima diavoleria di cui l’uomo ne ha firmate sin’ora fin troppe. La storia delle sue continue ed infinite degenerazioni ci sia di monito, ma alla fine ci farà solo osservare, impavidamente, il decorso della fine ultima. 


La zootecnia/agricoltura e il veganesimo



La trasformazione di prodotti vegetali in prodotti animali ha un rendimento medio di circa il 10% causando quindi uno spreco energetico del 90%. L’alimentazione vegana, che con la dieta carnea sta in rapporto di 10 : 1, è dunque una pratica che la società moderna deve obbligatoriamente intraprendere. Secondo accurati studi è emerso che circa i quattro quinti della parte coltivata del pianeta è usata per alimentare gli animali e per produrre un chilo di proteine animali occorrono sette chili di quelle vegetali con un dispendio energetico, come abbiamo poc’ànzi visto, del 90%. Inoltre, l’allevamento intensivo del bestiame, determina gravi danni all’ambiente (inquinamento e consumo di enormi quantità di acqua, disboscamento, ecc.), un enorme crudeltà verso gli animali e  profondi squilibri. Se invece si coltivassero le terre solo per l’alimentazione diretta dell’uomo, l’attuale superficie agricola basterebbe a sfamare una popolazione molto più consistente dell’attuale fornendo un nutrimento più rapido ed economico (meno animali, meno degrado, più cibo per gli uomini - Battaglia, in Gamba & Martignitti, 1995).

A rafforzare poi l’idea del veganesimo, non è solo la positiva valenza ecologica che tale pratica possiede, ma anche l’assurda struttura che ha assunto la zootecnia nei Paesi industrializzati. Vitelli ingrassati forzatamente costretti a vivere legati ad una cortissima catena e privati di importanti nutritivi (ferro) per favorire la produzione di un certo tipo di carne; suini tenuti a migliaia in pochi centinaia di metri quadrati soggetti a intensissimo stress; migliaia di polli stipati come sardine in gabbie metalliche; oche alimentate forzatamente per favorire lo sviluppo abnorme del proprio fegato; ecc. In questa situazione allucinante, per far fronte ad un precario stato sanitario che inevitabilmente viene a crearsi e per stimolare la “produttività” degli animali, si impiegano massiccie dosi di sostanze chimiche altamente destabilizzanti (antibiotici, ormoni, additivi, ecc.). Negli ultimi anni, nel colmo del paradosso produttivistico, si è arrivato a somministrare mangimi con proteine animali ai bovini, notoriamente “vegetariani” (con il conseguente fenomeno della BSE)! A monte di tutto giace la logica del profitto e del disprezzo degli altri esseri viventi. La scelta vegana allora, avrà una duplice veste: ecologica ed etica. Ma se la seconda, cioè quella etica, sarà motivo di scelta solo dei più sensibili al drammatico stato del bestiame allevato, la prima, quella ecologica, dovrà essere un’obbligo della società dell’immediato futuro. Ma poiché i governi mondiali cercheranno di allungare i tempi per una tale decisione, starà al singolo cittadino intraprendere una tale scelta, anche graduale, poiché una sensibile riduzione dell’alimentazione carnea darà certamente i suoi effetti positivi sull’ambiente e sulla stessa salute del consumatore. “Anche le moderne industrie zootecniche e ittiche presentano delle gravi pecche. Tutti sono d’accordo nell’affermare che allevando polli, bestiame e pesci il nostro modo di alimentarci migliora, ma nessuno sospetta minimamente che la produzione di carne potrebbe danneggiare la terra e l’allevamento ittico potrebbe inquinare i mari. In termini di produzione e consumo calorico, qualcuno dovrà lavorare il doppio se vuole nutrirsi di uova e latte, piuttosto che di cereali e ortaggi. Se vuole mangiare della carne, dovrà lavorare sette volte di più. A causa della scarsa resa energetica, l’allevamento moderno non può essere considerato ‘produzione’ in senso letterale. Infatti, l’effettivo rendimento energetico si è ridotto a tal punto, e lavoro e fatica umani sono arrivati a un tale livello, che l’uomo sta perfino considerando la possibilità di incrementare l’efficienza della produzione zootecnica mediante l’allevamento di razze geneticamente migliorate” (Fukuoka, 2001).

L’uomo all’origine era carnivoro solo occasionalmente, dando prevalenza ad una alimentazione sostanzialmente frugivora. L’analisi del suo aspetto fisico ne conferma il fatto: dentatura priva dei grossi canini, mancanza di unghie offensive e un lungo intestino. Il carnivoro, di converso, ha un intestino molto corto (per non assorbire le tossine della carne), grossi ed acuminati canini per lacerare la carne ed unghia per ferire. La struttura dell’intestino umano consente, vista la sua lunghezza, l’assorbimento di tutte le sostanze tossiche della carne, e causa, per chi ne fa un uso eccessivo, l’insorgere di numerose malattie degenerative tra cui il cancro.

Non dimentichiamoci poi, solo per fare un breve cenno, alle gravissime manipolazioni genetiche che si vogliono, o meglio già si stanno già attuando, sia sugli animali che sui prodotti agricoli (i cosiddetti OGM, ovvero organismi geneticamente modificati) con la scusa che daranno il cibo per tutti gli esseri umani (si creeranno per esempio animali con crescite ultra-rapide e di dimensioni superiori) e saranno immuni da particolari parassitosi e così via. Questo senza pensare che un’agricoltura geneticamente manipolata porterà incalcolabili effetti devastanti anche sul mondo selvatico con contaminazioni che non si riescono nemmeno ad immaginare. Una semplice recente dato, per citarne solo uno, riferisce che 60 pesci OGM sono sufficienti a far estinguere un branco di 60 mila “normali” (Mochi C., 2001). Non parliamo ovviamente cosa accadrà alle persone che si alimenteranno di questi prodotti (agricoli o di origine animali) e non è una visione pessimista se si afferma che prima o poi tutti si alimenteranno di questi “nuovi” prodotti”. Situazioni similari del passato, anche di altri settori, ci forniscono fin troppe certezze.

Un solo breve passaggio è poi utile riportare per rendersi ancor più conto delle follie che l’uomo moderno ha partorito. Con l’avvento dell’agricoltura chimica che massivamente ha inquinato insieme all’industria il pianeta terra, i prodotti del suolo sono diventati sempre più dei prodotti per così dire simili a sostanze di “sintesi chimica” sempre meno ricchi di elementi nutritivi ed organolettici e sempre più opulenti di veleni e alterazioni profonde. Poi una delle scene “più comiche” viene dall’improvviso risveglio dell’uomo che, un po’ consapevole della via intrapresa, cerca di correggere il tiro per produrre alimenti agricoli cosiddetti “biologici”. Cioè quello che si è fatto per migliaia di anni in agricoltura e poi spazzato via dalla chimica ora si cerca di farlo ritornare sul piatto. Una semplice seduta psicanalitica farebbe dire al medico che il paziente soffre di una vera e propria mancanza di memoria, di una totale dimenticanza dal sano ragionare. Aveva dimenticato ciò che sapeva fare molto bene e che aveva sperimentato per centinaia di generazioni. Poi, ed ecco lo smemoramento, improvvisamente ha preferito praticare la via dell’avvelenamento, in netto contrasto con ciò che di buono poteva offrire la madre terra. Ma la troppa intossicazione forse ha risvegliato un po’ il paziente ed ha ricominciato a riprendere a piccolissimi passi una parte della via maestra anche perché tra l’altro vuole pure disintossicarsi. Fuori della metafora si può dire che il futuro ci darà qualche risposta in tal senso anche se nel concreto le prospettive non sembrano affatto buone.  

“Nella società odierna, l’uomo è avulso dalla natura e la conoscenza umana è arbitraria. Per fare un esempio, supponiamo che uno scienziato voglia comprendere la natura. Potrebbe iniziare con lo studio di una foglia, ma poi le sue ricerche proseguirebbero inevitabilmente nell’analisi delle molecole, degli atomi e delle particelle subatomiche, perdendo di vista la foglia originaria.

Gli studi sulla fissione e sulla fusione nucleari sono oggi il campo di ricerca più dinamico e all’avanguardia e, con lo sviluppo dell’ingegneria genetica, l’uomo ha acquistato la capacità di modificare la vita a proprio piacimento: autonominatosi sostituto di Dio, egli si è impadronito di una sorta di terribile bacchetta magica.

E cosa potrebbe voler sperimentare l’uomo nel campo dell’agricoltura? Probabilmente intende cominciare con la creazione di curiose piante ottenute mediante la ricombinazione genetica interspecifica. Non dovrebbe essere difficile realizzare gigantesche varietà di riso. Gli alberi verranno incrociati con il bambù e le melanzane cresceranno sulle piante dei cetrioli. Sarà persino possibile far maturare i pomodori sugli alberi. Trapiantando poi geni delle piante leguminose nei pomodori o nel riso, gli scienziati produrranno pomodori contenenti rizobio, batterio che fissa l’azoto presente nell’aria. I pomodori e il riso così ottenuti non avranno più bisogno di fertilizzanti azotati: non c’è dubbio che i contadini prenderebbero al volo una simile occasione. L’ingegneria genetica verrà sicuramente applicata anche agli insetti. Se verranno creati ibridi come mosche-api o farfalle-libellule, non saranno più in grado di distinguere gli insetti benefici da quelli nocivi. Proprio come la formica regina non produce altro che formiche operaie, anche l’uomo cercherà di creare qualsiasi insetto o animale possa tornargli utile. Alla fine le cose potrebbero arrivare al punto di creare ibridi di volpi e procioni da mostrare allo zoo e potremmo vedere addirittura umani-vegetali o umani-macchina creati solo per lavorare. Le creature più ridicole, se realizzate in nome del progresso della medicina, diciamo, riceveranno il consenso e il plauso generale…..” (Fukuoka, 2001).

Questi ultimi esempi dimostrano per l’ennesima volta ciò che è l’uomo: un essere semplicemente spregevole (per usare una terminologia ”diplomatica”) che mostra ancora una volta la sua vera immagine senza la maschera della propria falsa moralità ed etica. Ed egli ci apparirà finalmente così com’è: senza volto!

Riportiamo ancora qualche passo molto acuto di Fukuoka (2001) che ci illuminerà ancor meglio sull’agricoltura “scientifica” contemporanea e sul declino dell’uomo per aver intrapreso una via sbagliata. “Spesso parliamo di ‘produrre cibo’, ma i contadini non producono il cibo della vita. Soltanto la natura ha la capacità di creare qualcosa dal nulla e gli agricoltori possono esclusivamente farle da assistenti. L’agricoltura moderna è solo un’industria di trasformazione che impiega energia derivata dal petrolio sotto forma di fertilizzanti, pesticidi e macchinari per fabbricare prodotti alimentari sintetici che non sono altro che imitazioni scadenti del cibo naturale.

L’agricoltore oggi è diventato un mercenario della società industrializzata. Egli cerca, senza successo, di arricchirsi coltivando con l’ausilio di sostanze chimiche, un’impresa che metterebbe a dura prova anche la Dea della Misericordia dalle Mille Mani. L’agricoltura naturale, autentica e originale forma di coltivazione, rappresenta il metodo ‘senza metodo’ della natura, la strada immutabile di Bodidarma. Sebbene possa sembrare fragile e vulnerabile, è in realtà un metodo molto potente perché porta alla vittoria senza aver combattuto; è un metodo buddhista di coltivazione che si rivela molto fruttuoso senza danneggiare il terreno, le piante e gli insetti……… L’obiettivo dell’agricoltura naturale e la non-azione e il ritorno alla natura. E’ un movimento centripeto e convergente. Al contrario, l’agricoltura scientifica si allontana dalla natura seguendo i capricci e i desideri dell’uomo, con un movimento centrifugo e divergente. Dato che questo movimento di espansione verso l’esterno non può essere fermato, l’agricoltura scientifica è condannata all’estinzione…… L’umanità ha abbandonato la natura e solo di recente ha cominciato a rendersi conto, con crescente inquietudine, della sua pietosa condizione di orfana dell’universo. Eppure, anche quando l’uomo si sforza di tornare alla natura, scopre di non sapere più cosa essa sia e che, per di più, egli ha distrutto e perso per sempre la natura cui tenta invano di tornare…….. Per raggiungere un’umanità e una società fondata sulla ‘non-azione’, l’uomo deve rivedere tutto ciò che ha fatto in passato e liberarsi via via di tutti i falsi concetti di cui sono imbevuti lui e la sua società. Questo è il momento della ‘non-azione’. L’agricoltura naturale può essere considerata un settore di questo movimento. La conoscenza e le fatiche umane si espandono diventando inutili e complesse. Dobbiamo arrestare questa espansione, convertire, semplificare e ridurre i nostri sforzi e la nostra conoscenza per mantenerci in armonia con le leggi della natura. L’agricoltura naturale è più di una semplice innovazione nell’ambito delle tecniche agricole; è l’elemento base pratico di un movimento spirituale, di una rivoluzione tesa a cambiare il modo di vivere umano”. A proposito della distruzione e della deleteria contaminazione degli ambienti a causa dell’impiego dei pesticidi vorremmo concludere il paragrafo con le indimenticabili, ammonitrici e realmente tristi parole di Rachel Carson (1963):“C’era una strana quiete. Gli uccelli, ad esempio, dove erano andati ? ... Fu una primavera senza voci. Il mattino che all’alba vibrava del coro di tordi, uccelli gatto, colombi, ghiandaie, scriccioli e di tutta una serie di altre voci, adesso non riecheggiava di alcun suono; sui campi, sui boschi e sulle paludi aleggiava solo il silenzio”.

 

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- La FAO dopo una specifica ricerca ha pubblicato uno studio in cui sostiene che se tutti fossero vegani non ci sarebbe più il grave problema della fame nel mondo!!


- E' scientificamente dimostrato che la dieta vegana (vedi capitolo seguente) riduce l'impatto ambientale di oltre il 50%!


- L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha stimato che il superamento dei vegetariani/vegani sugli onnivori avverrà nel 2050 in funzione della massa critica!!


- Si ricorda che nel mondo ci sono oltre 800 milioni di vegetariani/vegani (il 90% concentrati nei paesi orientali, influenzati dalla scelta anche dalle varie religioni che non consentono l'utilizzo di animali per l'alimentazione). Nei paesi occidentali, Italia compresa, il fenomeno è in forte crescita tanto da interessare molti milioni di persone.



La scelta vegana



"Verrà un giorno in cui uccidere un animale sarà considerato un grave delitto come uccidere un uomo" (Leonardo da Vinci)


1 - Da Wikipedia:


Il veganesimo è compassione, uguaglianza, giustizia.

Il veganesimo è sensibilizzazione ed educazione.

Il veganesimo è la pace. Ma soprattutto il veganesimo è l’unico modo per porre fine ad ogni sfruttamento crudele e schiavitù.

Il veganesimo è liberazione totale.(cit. Manifesto Vegano)


La parola vegan fu coniata nel 1944 da Elsie Shrigley e Donald Watson. Shrigley e Watson che erano vegani o vegetariani puri, erano insoddisfatti dal fatto che molte persone che si definivano vegetariane mangiavano latticini, uova e pesci. Poco dopo, il 1º novembre dello stesso anno, Watson fondò la Vegan Society nel Regno Unito. Dal 1994, il 1 novembre si celebra il World Vegan Day, ovvero la Giornata Mondiale Vegan.


Coniarono la nuova denominazione prendendo le prime e ultime lettere del termine inglese vegetarian, con l'indicazione che il veganismo era "l'inizio e la fine del vegetarianismo". La Vegan Society fornisce la seguente definizione di veganesimo:


« La parola "veganismo" denota una filosofia e un modo di vita che si propone di escludere - nella misura in cui questo è praticamente possibile - tutte le forme di sfruttamento e di crudeltà verso gli animali perpetrate per produrre cibo, indumenti o per qualsiasi altro scopo; e per estensione, promuove lo sviluppo e l'uso di alternative non-animali, per il bene dell'uomo, degli animali e dell'ambiente. Da un punto di vista dietetico indica la pratica di evitare qualsiasi prodotto derivato, in tutto o in parte, dagli animali ».


Le prime notizie del vegetarismo, inteso come tradizione diffusa tra un numero significativamente vasto di persone, si riferiscono all'antica india e alla civiltà della Grecia antica sia nell'Italia del sud che nella stessa Grecia. In entrambi i casi questa pratica era spesso connessa con principi di tipo salutistico e con l'idea di non violenza verso gli animali (chiamata ahisma in India). 


2 - Nota di Aurora Mirabella 


Molte persone pensano che il veganesimo sia solo una dieta, non vedendo la filosofia nascosta dietro di esso.

Sorprendentemente incontro vegani che vanno a pesca (o peggio ancora a caccia), vegani che mangiano e utilizzano miele, vegani che mangiano uova e prodotti derivati dal latte, vegani che “ogni tanto” mangiano carne e pesce, vegani solo per motivi di salute che si concedono di indugiare su prodotti di originale animale.

Tutto questo è molto infelice perché concorre all’etichettatura come vegan di scelte non vegane creando solo confusione e danno al movimento vegan.

Prima di tutto se vogliamo davvero dare delle etichette è bene chiarire che scegliere una dieta a base esclusivamente vegetale per motivi di salute (o etici) ma che include latte e uova si chiama vegetarianesimo; ed in secondo luogo mangiare prodotti di origine animale (carne, pesce) anche se “ogni tanto” non è accettabile per un vegetariano, né tanto meno per un vegano.

Il veganesimo per definizione porta con sé delle motivazioni profondamente etiche e ha “regole” (lasciatemi passare il termine) chiare e precise. Non esiste una cosa come un vegan la cui scelta è solo ed unicamente una scelta legata ad un regime alimentare, ad una dieta e che mangia o utilizza anche se sporadicamente prodotti di origine animale.

Il veganesimo esclude tutte le forme di sfruttamento e crudeltà verso qualsiasi specie che fa parte del regno animale (regno animale che include esseri umani e non umani, quindi animali di terra, aria, acqua, insetti e cosi via).

Il veganesimo è contro la schiavitù, è antispecismo, antirazzismo, sessismo, classismo, cosi come contro qualsiasi altra forma di discriminazione. Non è una tendenza, un qualcosa che va di moda: è una cosa seria ed il suo obiettivo principale è quello di porre fine ad ogni sfruttamento animale, ad ogni forma di schiavitù. Si sceglie consapevolmente di lottare per la liberazione animale totale e per tutti i diritti degli animali/uomini/donne senza voce.

Un vegan non compra e non usa prodotti che contengono ingredienti di origine animale (né tanto meno prodotti testati sugli animali): può capitare che si acquistino inavvertitamente prodotti contenenti ingredienti di origine animale e/o testati sugli animali; succede per puro caso o per ignoranza, nel senso di ignorare con chiarezza le componenti del prodotto (purtroppo la maggior parte dei prodotti confenzionati hanno etichette ed indicazioni poco chiare per cui capita di incappare in acquisti non vegan). Ma una volta scoperto che quel prodotto non è vegan è bene lasciarlo sullo scaffale!

Un vegano non uccide gli insetti: sono animali anche loro.

Un vegano non trasforma gli animali domestici in giocattoli per colmare un egoistico senso di solitudine.

Un vegano non supporta: la sperimentazione sugli animali, acquari, circhi, zoo, rodei, corse di cavalli, corride, combattimento di cani, galli e altri animali, non sostiene la caccia, pesca, il lavoro minorile, e tutto quello che comporta lo sfruttamento di uomini ed animali e crudeltà inutile .

Il fumo non è considerata una pratica vegan friendly perché comporta la sperimentazione sugli animali, lo sfruttamento minorile nelle aziende produttrici di tabacco, il finanziamento di multinazionali dannose per l’ecosistema.

Si noti che ricorre spesso l’uso della parola sfruttamento: questo perché alcune persone pensano che va bene mangiare le uova delle galline salvate dagli allevamenti intensi o allevate nel proprio cortile, perché questo non arrecherebbe danno alcuno alla gallina. Non importa se fa male alla gallina o meno, è comunque sfruttamento, significa comunque nutrirsi di un nostro pari per cui è contro il pensiero vegano.

Molte persone che hanno scelto di seguire una dieta a base di vegetali per semplici ragioni salutiste e si definiscono vegani, in realtà dovrebbero definirsi come dei vegetariani alimentari. La differenza tra il vegetarianesimo ed il veganesimo è che il primo esclude tutti i prodotti di origine animale dalla dieta e dallo stile di vita eccetto latte e uova ; il veganesimo invece si muove nell’ottica di tutela di tutti gli appartenenti al regno animale, vuole evitare lo sfruttamento e la crudeltà verso un proprio pari. In altre parole una persona che segue una dieta a base vegetale non è necessariamente un vegan. Molte sono le persone che dopo essere state vegetariane per anni decidono di diventare vegan ma lo fanno per lo più spinti da motivazioni etiche e non salutiste. Perché ci sono vegetariani che vanno a pesca, che visitano acquari, zoo, circhi, fanno equitazione, usano prodotti di pelle, seta, lana, pelliccie. Acquistano prodotti testati sugli animali o da multinazionali che sottopongono uomini ed animali a forme di sfruttamento e crudeltà inaudite quindi non sempre seguire una dieta vegetale corrisponde al seguire uno stile di vita vegan friendly.

Il termine vegan è stato conianto da Donald Watson nel 1944: “il veganesimo è un modo di vivere che esclude tutte le forme di sfruttamento e crudeltà verso il regno animale e include il rispetto per la vita. Si applica alla vita di tutti i giorni escludendo carne, pesce, uova, miele, latte e derivati e tutti i prodotti che derivano in tutto o in parte dagli animali“.

Gli animali non sono di nostra proprietà e non sono nati per essere da noi mangiati, ne tanto meno sono “cose” da indossare.

Gli animali non sono nostri e non possiamo arrogarci il diritto di sperimentare su di essi, prodotti di solo nostro uso e consumo, abusarne e farne oggetto di intrattenimento.

Si noti che sfruttamento e schiavitù sono cose diverse dalla crudeltà: i primi spesso comportano la crudeltà, ma questa non implica necessariamente lo sfruttamento e la schiavitù. Un esempio: la Natura è crudele, ha delle regole severe, esiste la selezione naturale.Gli allevamenti intensivi sono semplicemente sbagliati, non etici e inaccettabili.

I vegani possono evitare ogni tipo di sfruttamento e schiavitù ma non posso evitare ogni forma di crudeltà. Possono ridurre la crudeltà evitando ad esempio di assumere farmaci testati sugli animali, evitare di calpestare gli insetti quando camminano (ovviamente se si schiaccia inavvertitamente un insetto perché non visto questa si chiama Natura che come abbiamo detto prima è spesso crudele).

Danneggiare o uccidere qualcuno per legittima difesa è accettabile per un vegano, anche se si dovrebbe cercare una soluzione che non arrechi danno al prossimo. Non esistono vegani perfetti: i vegani sono persone che vogliono porre fine allo sfruttamento inutile e crudele degli animali/uomini, che provoca sofferenza e dolore ad esseri viventi innocenti, che rovina il pianeta ed il futuro delle prossime generazioni. Contrariamente alla credenza popolare i vegani non si considerano migliori degli altri, anzi se chiedete in giro ai vegani loro si definiscono al pari del più piccolo degli insetti, in virtù del fatto che non esiste specismo.

Essere vegani è alla portata di tutti, chi pensa sia impossibile/difficile parla cosi perché non ha ancora provato ad esserlo.

Forse in un primo momento appare difficile, fino a che non si tocca con mano la facilità con cui si contribuisce a contrastare pratiche crudeli inutili. Tutti i vegani rinunciano a prodotti che già in partenza sanno essere totalmente inutili: non hanno bisogno di mangiare/indossare prodotti di origine animale, di usare prodotti di cosmesi (o per la pulizia) di origine animale o testati su animali, di sostenere spettacoli crudeli come circo o dressage per intrattenersi, non hanno bisogno di sfruttare o di abusare degli altri esseri viventi sul pianeta terra per poter vivere felici.

Queste poche righe vogliono solo essere un chiarimento (non una presa di posizione o giudizio) perché penso che ultimamente si è abusato del termine vegan nelle sue accezzioni più incomplete creando solo confusione e danni al movimento vegan.

Il veganesimo è compassione, uguaglianza, giustizia.

Il veganesimo è sensibilizzazione ed educazione.

Il veganesimo è la pace. Ma soprattutto il veganesimo è l’unico modo per porre fine ad ogni sfruttamento crudele e schiavitù.

Il veganesimo è liberazione totale.


GO VEGAN!



Il concetto del consumo



Nei tempi trascorsi le esigenze umane erano molto limitate ed erano concentrate alla semplice sussistenza. Con il progredire degli anni la società è diventata sempre più sofisticata, contraendo una sorta di febbrile crescita non solo della popolazione ma anche dei consumi e dei beni “necessari” al mutato tenore di vita. Incalzati dalla logica del profitto e dal consumismo sfrenato, ecco che, ciò che una volta era bastevole alla sopravvivenza quotidiana e quindi all’intera esistenza, oggi diviene un nulla perché, al contrario, occorre possedere una quantità enorme di “cose”. Poniamo un semplice esempio. Se una volta su un terreno agricolo una famiglia poteva ricavare il necessario per vivere, oggi su quello stesso terreno non è possibile ricavare nemmeno il denaro per pagarsi l’assicurazione dell’auto. Il punto è: il terreno è diventato improduttivo o sono mutate le richieste di chi lo lavorava?

Se prima bastava dieci, oggi occorre diecimila ed allora non ci sarà terreno che renda. Non è possibile discutere la salvaguardia dell’intero pianeta terra se non riduciamo drasticamente i consumi ed eliminiamo le false necessità che ci siamo create. Ma il sistema è altamente perverso in quanto l’arresto del consumo dei beni, assicurato da una frugale condotta di vita, metterebbe in crisi tutto l’ordine sociale contemporaneo poiché diverrebbe superflua la produzione di enormi quantità di prodotti. Molte categorie di persone si troverebbero disoccupate, gli Stati andrebbero sempre più in affanno, e il crollo, dal punto di vista sociale, sarebbe totale. Quindi, se si risparmia, se si vive secondo dettami di semplicità e di essenzialità, cade il sistema sociale capitalistico; se si spreca, se si richiede sempre più il superfluo (spacciato per necessario), se si usa e getta quanto più possibile, allora la società capitalistica e consumistica andrà apparentemente avanti. Ma la parabola non sarà sempre ascendente perché i limiti del saccheggio alla natura imporranno la fine delle risorse e la fine della stessa vita umana. Allora l’autodistruzione prenderà il sopravvento. Dal 1950 ai nostri giorni la popolazione del mondo ha consumato tanti beni e servizi quanti ne hanno consumati tutte le precedenti generazioni (Nebbia & Gente, in Gamba & Martignitti, 1995). Una famiglia del Sud del mondo spende quasi il 100% del proprio reddito per la sopravvivenza di base, mentre, una analoga famiglia americana, ne spende meno del 10%! Il mondo naturale e il genere umano non hanno avvenire!

Ormai lo sviluppo della specie umana non è più sostenibile per l’ambiente ed occorre dire che il limite consentito è stato da tempo superato. Oggi tutto è mercificato finanche l’acqua (un diritto di tutti, ma sempre più in mano a pochi) e non occorrerà molto tempo che sarà venduta anche “l’aria”! La folle corsa del capitalismo/liberismo/globalizzazione sta infrangendosi contro un muro molto più forte della loro sostanza, un muro che si credeva che non si sarebbe mai incontrato. 

“Il successo, l’assillante corsa al potere e alle prosperità materiali possono essere l’amara ricompensa di una sconfitta, mentre la vita in solitudine e in oscurità può offrire doni preziosi e insospettati” (Meli, 1989).



La religione


“L’uomo ha sempre saputo; ha sempre saputo che la vita è fondamentalmente buona, che l’universo, le stelle nel cielo, gli animali, le piante, i minerali, gli elementi della terra non sono malevoli, ma cosmicamente impregnati del proposito ordinatore.

Il proposito è la sacralità inerente, l’ordine dell’universo in se stesso. Finché l’uomo ha rispettato questa sacralità, finché ne ha ordito il modello nel suo cuore attraverso l’umiltà e l’interiore sintonia spirituale, il modello della società umana ha anch’esso riflesso la sacralità e l’ordine di cui tutte le cose sono dotate” (J. Arguelles , in J. Levey, 1988).


A questo punto occorre occuparsi, sia pure con un rapido “excursus”, dell’influenza esercitata dal pensiero religioso nei confronti del rapporto che, nel corso dei millenni, l’uomo ha intrattenuto con l’ambiente, osservando preliminarmente che, ove si escluda il Taoismo e il Buddismo (almeno in parte), e non considerando la filosofia di vita di buona parte degli indiani d’America e di pochi altri popoli “nativi”, carattere comune a quasi tutte le religioni è l’antropocentrismo nel quale l'uomo è il "signore del creato".

Tutto è a disposizione del genere umano e nulla ha valore al di fuori della cerchia antropica. La diffusione delle religioni antropocentriche ha avuto un effetto devastante sulla natura tanto che quest'ultima, soggiogata e asservita alle cieche necessità umane, è stata sempre considerata una fonte inesauribile da dove attingere a piene mani senza limiti e senza rispetto. All'apice dell'uomo sta un "essere superiore" (leggasi Dio) che si preoccupa solamente di lui, lo illumina, lo guida, lo protegge e lo esalta nella vita eterna. Dinanzi ad uno scenario così accentrato quale spazio e significato potrà avere il verde di una foresta, lo sguardo di un lupo, il volo di una uccello o la corsa di un ghepardo? Nessuno, sono solo esseri di contorno che l'uomo religioso vede intorno a lui, ma che considera solo alla stregua dei suoi bisogni e della sue necessità. Questo modo di pensare e di agire, unitamente ad altri fattori storico/filosofici, ha determinato il distruttivo dualismo tra l'uomo da una parte e la natura dall'altra, esterna ed indipendente creata esclusivamente per il "signore del creato". La nascita di questo dualismo è all'origine di tutte le concezioni "violente" dell'uomo verso la natura, distaccato da una realtà che all’inizio lo vedeva integrato. Murray Bookchin scrive (AA.VV., 1987): “Per superare il problema del conflitto tra necessità e libertà, fondamentalmente, tra la natura e la società, dobbiamo fare di più che costruire semplicemente ponti tra l’una e l’altra, come avviene nei sistemi di valori fondati su atteggiamenti puramente utilitaristici nei confronti del mondo naturale. La denuncia dell’abuso che l’uomo fa della natura, compromettendo le condizioni materiali della sua stessa sopravvivenza, è indubbiamente fondata, ma del tutto strumentale. Essa presuppone infatti che il nostro interesse per la natura si basi sull’interesse personale, piuttosto che su una sensibilità verso la comunità vivente di cui siamo parte, seppure in modo assolutamente unico e peculiare. Da tale punto di vista, il nostro rapporto con la natura si riduce alla possibilità di saccheggiare il mondo naturale senza arrecare danno a noi stessi, purché riusciamo a trovare sostituti fattibili o adeguati (per quanto sintetici, semplici o meccanici che siano) delle forme di vita esistenti e dei rapporti ecologici. Il tempo ha dimostrato che proprio questa concezione ha giocato un ruolo preminente nell’attuale crisi ecologica, una crisi che non è soltanto la conseguenza di una distruzione fisica, ma anche di un serio sconvolgimento delle nostre sensibilità etiche e biotiche”. L'uomo, nella maggior parte dei credi religiosi, non si è più curato dell'unità della propria vita con quella dell’”esterno da sé" e, conseguenza della radicale scissione, si è sentito al centro del motore dell'universo e conseguentemente ha governato da despota un potere mai dato ma rubato o meglio inventato. Purtroppo i contenuti spirituali della maggior parte delle religioni non hanno proiettato l'uomo in una dimensione universale della vita, ma lo hanno condotto verso una cieca visione egoistica ed accentratrice. E' questo il "peccato mortale" di molte “fedi”, che, scevre da quella visione unitaria e globale, hanno "imposto" all'uomo il senso del dualismo creando un dissidio inconscio verso ciò che è esterno da lui. 

“Il pensiero occidentale è dominato per secoli dalla filosofia aristotelica, ma a partire dal sedicesimo secolo si assiste a un mutamento radicale che segna il passaggio dall’antica concezione di un universo organico e vivente a quella di un mondo-macchina. Questa rivoluzione avviene in seguito alle scoperte di Cartesio, Galileo e Newton in campo matematico, fisico e astronomico. Cartesio separa la res extensa dalla res cogitans cioè lo spirito dalla materia. L’Uomo è l’unico essere dotato di entrambe: ha un corpo il cui funzionamento è descrivibile in termini meccanici ma possiede anche una mente ragionevole, sede del pensiero. Questo lo rende diverso e superiore a tutto il resto della Natura la quale è costituita esclusivamente da elementi materiali, è una grande macchina governata da precise leggi matematiche che l’Uomo può conoscere e dominare.” (Guarraci, 2004). 

Ma elementi destabilizzanti che rendono l’uomo ostile a se stesso e alla natura tutta si rilevano fortemente nella concezione biblica/cristiana del mondo. In quest’ultima, citando Kaiser (1992) ricordiamo che “si crea un abisso tra il mondo, fonte di pericoli e minacce, e i credenti, e si predica ostilità nei confronti della terra....Nella Genesi dell’Antico Testamento l’uomo, considerato soprattutto sotto un profilo spirituale in quanto simile a Dio, viene chiamato di conseguenza a dominare sul resto della natura.......Così il racconto della Creazione non solo ha gettato le basi del dualismo tra Dio e il mondo, ma anche di quello tra l’uomo e il resto del creato, la natura: vale a dire tra l’uomo e il suo mondo. “ Forse”, come scrive Frank Water, “proprio in questa concezione dualistica, che divide l’uomo dalla natura, sta la radice della tragedia umana dell’Occidente””. Scrisse B. Russel (1959): “La religione si basa, ritengo, prima di tutto e soprattutto sulla paura. E’ in parte il terrore dell’ignoto, e in parte il desiderio di sapere che abbiamo una specie di fratello maggiore accanto a noi in tutti i guai e le dispute. La paura è il fondamento di tutto: paura del misterioso, paura della sconfitta, paura della morte”.

Quanto sarebbe più nobile vivere una spiritualità universale, non disgiunta, nella quale l'uomo, elemento di un’ampio infinito sistema, svolga la propria parte al pari di una pietra, di un fiore, di una montagna o di un lupo. Ciò non esclude nessun pensiero che consideri importante l'uomo per l'uomo senza però giungere a sentire l'universo come elemento di appendice alla sua vita. Se l'uomo occidentale è riuscito a sviluppare una si' ampia e distorta spiritualità ha perso la grande opportunità di elevarsi al di sopra della mediocrità antropocentrica dove l'uomo e soltanto l'uomo inteso sia come specie che come singolo individuo, ha valore. Ma è bene ricordarsi che nella convivenza sociale una spiritualità così accentratrice non potrà che portare a continue scissioni, dissidi, intolleranze e incomprensioni. 

Prendiamo a paragone di esempio il Cristianesimo. Esso, pur esprimendo alle sue origini il culto della mitezza e della non violenza, non ha saputo coerentemente trasferire quei principi al rapporto che l’uomo ha con la natura, in quanto rimase condizionato, come abbiamo visto, dalla radice storico-teologica espressa dal Vecchio Testamento. Si legge infatti nella Bibbia (Genesi 1,26): “Facciamo l’uomo che sia la nostra immagine, conforme la nostra somiglianza, ed abbia dominio sui pesci del mare, sui volatili del cielo, sul bestiame e su tutte le fiere della terra, e anche su tutti i rettili che strisciano sulla terra” e poi fatto l’uomo Dio disse (Genesi 1, 28): “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela e abbiate dominio sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sul bestiame, e su tutte le fiere che strisciano sulla terra”. 

Parole che pesano come macigni, parole che portano al trionfo dell’antropocentrismo. “...Dio, conferendo una legittimazione divina alle mire di dominio cosmico dell’uomo, gli comanda di sottomettere a sé la terra” (Kaiser, 1992) . Solo il Buddismo, tra le più grandi concezioni religiose, ha saputo cogliere, almeno in buona parte, come abbiamo prima sottolineato, il carattere unitario uomo-natura anche se ovviamente è sempre l'uomo che recita la parte principale; tra i fondamentali principi del Buddismo ve n’è uno che recita: ”ogni uomo è portato a tenere un costante amore verso un suo fratello e verso gli animali”, oppure un altro: "......Poiché colui che si rende conto appieno dell'intima unione tra la sua vita ed ogni altra forma di vita, troverà che la sua coscienza si espande, e via via che comprende, ama: fino a che il palpito del suo cuore, s'identifica col palpito dell'universo e la sua coscienza coincide con tutto quanto ha vita. L'amore, naturalmente, ha altrettante forme quanti sono gli esseri che lo racchiudono, tuttavia, in definitiva, ciò che è meramente personale deve cedere il passo all'impersonale, ciò che è egoistico deve recedere dinanzi a quanto è altruistico........".

Quando, muovendo da sì sconsolate meditazioni, si ripercorre secolo dopo secolo la vicenda umana, fino ad arrivare, tra scenari di genocidi e di immani rovine, alla storia del XIIº secolo, ci si trova all’improvviso al cospetto della figura di Francesco di Assisi; quale indescrivibile illuminazione, quale vivido raggio di luce va a posarsi allora sulla storia della Chiesa cattolica! Quale vero e proprio atto rivoluzionario è il “Cantico delle Creature”! E quel Canto appare ancora più sublime se al ripetitivo “sii lodato mio Signore” non si fa seguire il “propter” latino che può tradursi “a causa di”, ma si fa invece seguire il “par” francese, che suona “da parte di”, sicché è un coro di mille e mille voci quello che si innalza dalle creature in lode del Signore. “Già nel tredicesimo secolo San Francesco d’Assisi cercò di distogliere il cristianesimo dalla tesi antropocentrista prevalente in favore di una posizione biocentrica più animista e più antica ‘proponendo una democrazia di tutte le creature di Dio’” (Devall & Sessions, 1989).

Scrive C. G. Jung “Nulla riusciva a convincermi che il ‘fatto a immagine di Dio’ dovesse riferirsi solo all’uomo. In realtà credevo che gli alti monti, i fiumi, i laghi, gli alberi, i fiori e gli animali manifestassero l’essenza di Dio assai meglio degli uomini, con i loro ridicoli vestiti, le loro meschinità, la vanità, la menzogna, l’odioso egotismo...”.

Gli indiani Nordamericani, salvo eccezioni, sono il più vivido esempio di una visione unitaria della vita e della pratica spirituale. Vi è un abisso tra il loro modo di pensare e di agire e il nostro in quanto “....il pensiero fondamentalmente globale, olistico degli indiani americani e di altri popoli nativi, si contrappone al pensiero dualistico occidentale” (Kaiser, 1992). Un artista pueblo disse “Solo dopo essermi liberata dal cristianesimo riacquistai la sensazione di essere integra, di aver raggiunto il mio equilibrio, di essere indiana” (Kaiser, 1992). Scrive ancora Kaiser (1992): “Tutti gli sforzi per vincere la crisi attuale della nostra concezione del mondo sono tesi ogni volta a superare il dualismo di impronta occidentale e a ritrovare la strada che porta al mondo globale, perduta più di duemila anni fa.

Un aspetto centrale di questo dramma concettuale è rappresentato dalla questione della sacralità o meno del mondo. Prima che il mondo unitario e globale fosse scisso in due sfere dell’essere, esso era inteso come spirituale e materiale allo stesso tempo, divino e terreno, trascendente ed immanente....... Questo mondo tutto ripieno di spirito divino era considerato intero e quindi sacro. Solo dopo la differenziazione tra sacro e non sacro, e dopo lo scioglimento dello stretto intreccio tra divino e mondano si arrivò gradualmente a concentrare tutta la sacralità nel Dio trascendente e, di conseguenza, alla dedivinizzazione o sconsacrazione del mondo della materia.....

A tutto ciò si contrappone la visione globale del mondo degli abitanti dell’America prima dell’arrivo degli europei: praticamente tutte le popolazioni native americane condividevano la concezione mitica di un mondo in cui le sfere dello spirito e della materia, del sacro e del profano non erano rigorosamente distinte, ma formavano un’unica globalità....”.

Integra il discorso Dalla Casa (1996): “Nelle concezioni orientali le altre specie viventi sono composte di esseri che vivono in modi diversi la nostra stessa avventura, con pieno diritto ad una vita libera ed autonoma. Invece, nel nostro mondo, i cosiddetti ‘movimenti per la vita’ ritengono ovvio occuparsi solo della vita umana, senza neanche il bisogno di precisarlo. Dell’equilibrio e dello stato di salute della Vita, cioè del Complesso dei Viventi, non si preoccupano affatto”. Un classico atteggiamento del genere è evidenziato chiaramente da molti credenti che si preoccupano esclusivamente ed egoisticamente della vita umana! Hosle (1992) annota saggiamente che: “Le Chiese dovranno modificare radicalmente la loro maniera di predicare: al giorno di oggi colui che opera in modo ecologicamente consapevole può affermare di seguire lo spirito dell’etica cristiana con maggior diritto di chi tramanda credenze che possono anche essere degne di rispetto per la loro vetustà, ma che danno uno scarso contributo alla soluzione dei problemi riguardanti l’esistenza del genere umano. E’ palese che in questo contesto andrebbe rivista anche la formazione dei teologi: mi sembra che per un maestro di morale (perché anche questo dovrebbe essere il sacerdote) alcune nozioni fondamentali in materia di ecologia siano più importanti di uno studio dettagliato della scienza liturgica”.

A proposito di tutte le speculazioni umane sul significato e sugli scopi della nostra vita, speculazioni che hanno coinvolto una fila interminabile di filosofi, teologi e quanti altri, Watts (1978) ci ricorda magistralmente: “Forse cominciamo a comprendere perché quasi tutti gli uomini hanno la tendenza a cercare conforto tra gli alberi e le piante, i monti e le acque.......forse la ragione di questo amore per la natura non umana è che la comunione con il mondo naturale ci riporta a un livello della natura umana nel quale siamo ancora sani, liberi dalle sciocchezze e dalle ansiose domande sul significato e lo scopo della nostra vita. Infatti quella che chiamiamo ‘natura’, è un mondo libero da un certo tipo di presunzione e di scaltrezza. Gli uccelli e le bestie si impegnano a cercare il cibo e a generare con la massima devozione, ma non cercano giustificazioni, non pretendono che le loro azioni siano al servizio di fini superiori o che contribuiscano in modo rilevante al progresso del mondo”.

John Muir con la sua infinita acutezza di pensiero scrisse (in Devall e Sessions 1989): “Supponete che un cacciatore cristiano vada dal Signore dei boschi e uccida le sue bestie migliori o gli indiani selvaggi e non ci sarà niente da ridire. Ma immaginate che una di queste vittime predestinate, un po’ più intraprendente delle altre, vada nelle case e nei campi e uccida il più insignificante appartenente a questi assassini su due zampe fatti a immagine di Dio e questo sarà assolutamente poco ortodosso e, se l’assassino è un indiano, un atroce delitto. Beh, provo scarsissima simpatia per l’egoistica proprietà dell’uomo civilizzato, e se scoppiasse una guerra fra gli animali selvaggi e il Signore Uomo, sarei tentato di simpatizzare per gli orsi...

Ci è stato detto che il mondo è stato creato per l’uomo. E’ una supposizione completamente smentita dai fatti. Sono in molti a stupirsi quando nell’universo di Dio trovano qualcosa, vivo o morto, che non è commestibile o non è, come si dice, utile per l’uomo. Non contenti di prendere tutto dalla natura, pretendono anche lo spazio divino come fossero le uniche creature per le quali è stato progettato questo insondabile impero...

E’ molto più probabile che la natura abbia creato gli animali e le piante per la loro stessa felicità piuttosto che per la felicità di uno solo dei suoi elementi. Perché l’uomo dovrebbe reputarsi più importante di una entità infinitamente piccola che compone la grande unità della creazione?.....”.

Per completare la breve dissertazione non vi è passo più appropriato di quello di Gregory Bateson (1976): “Se mettete Dio all’esterno e lo ponete di fronte alla sua creazione, e avete l’idea di essere stati creati a sua immagine, voi vi vedrete logicamente e naturalmente come fuori e contro le cose che vi circondano. E nel momento in cui vi arrogherete tutta la mente, tutto il mondo circostante vi apparirà senza mente e quindi senza diritto a considerazione morale o etica. L’ambiente vi sembrerà da sfruttare a vostro vantaggio. La vostra unità di sopravvivenza sarete voi e la vostra gente o gli individui della vostra specie in antitesi con l’ambiente formato da altre unità sociali, da altre razze, dagli altri animali e dalle piante.

Se questa è l’opinione che avete del vostro rapporto con la natura e ‘se possedete una tecnica progredita’, la probabilità che avete di sopravvivere sarà quella di una palla di neve all’inferno. Voi morrete a causa dei sottoprodotti tossici del vostro stesso odio o, semplicemente, per il sovrappopolamento e l’esagerato sfruttamento delle risorse”. 


“Non credete a ciò che avete udito; non credete alle tradizioni solo perché sono state tramandate per generazioni; non credete in qualcosa perché ne è corsa voce o molti ne hanno parlato; non credete semplicemente perché vi viene citata un’affermazione scritta di un qualche antico saggio; non credete nelle congetture; non credete in ciò che considerate vero perchè vi ci siete attaccati per abitudine. Non credete semplicemente all’autorità dei vostri maestri e degli anziani.

Dopo osservazioni e analisi, quando la verità che avete trovato da voi stessi si accorda con la ragione e contribuisce al bene e al miglioramento di ognuno, allora accettatela, praticatela e vivete secondo essa” (Il Buddha - in J. Levey, 1988).

“Credo nel Dio di Spinoza, che si manifesta nell’armonia di tutte le cose, non in un Dio che si interessa del destino e delle azioni degli uomini” (A. Einstein).

“Nel mondo indiano non esiste la concezione secondo cui l’essere sarebbe distribuito lungo una scala verticale, con la terra e gli alberi collocati sui gradini più bassi, gli animali un po’ più in alto e l’uomo, soprattutto quello civilizzato, in cima. Tutte le cose sono considerate piuttosto come sorelle o parenti; tutte sono figlie del Grande Mistero e della Madre Terra, e membri necessari di una globalità ordinata, equilibrata e vitale” (Paula Gunn Allen, in Kaiser, 1992).


L’uomo contemporaneo

nella società contemporanea



“Libertà significa essere in grado di controllare tutti gli aspetti relativi alla propria vita-morte..... Libertà significa avere il potere; non il potere di controllare altre persone ma il potere di controllare le circostanze della propria vita” (Kaczynskj, 1997). La borghesia, uscita trionfante dalla rivoluzione del 1789, s’innalzò sulle rovine fumanti del feudalesimo per porre mano alla costruzione di una nuova società. Compito arduo e immane! Ma essa fu all’altezza del compito che la storia umana le assegnava e, appropriatasi delle conquiste scientifiche che spaziavano dal campo della matematica a quelli della fisica, della chimica e della biologia, sembrò dominare gli elementi per piegarli alla propria volontà. Fu una grande rivoluzione che non incise soltanto sulle cose, ma fu anche un sconvolgimento che lacerò e distrusse un tessuto sociale ancor prima che se sorgesse un altro. Tutto fu posto a servizio di inesorabili leggi economiche che ignoravano l’uomo e la sua centralità (rispetto a se stesso, si intende), sì che l’umanesimo apparve come un’era felice non più ripetibile. Questo fu il prezzo che l’uomo sociale dovette pagare allo spietato avanzare della rivoluzione industriale. Poco diversa è la condizione umana nella società odierna. Poco diversa, e non meno travagliata da una dialettica storicistica che ripropone ogni giorno la dissacrazione delle mete appena conseguite. Tuttavia ogni cittadino ha acquisito la consapevolezza del proprio destino, ha analizzato le forze che esercitano spinte contrastanti nel tessuto sociale, ed è divenuto - entro certi limiti - protagonista della storia (almeno nelle forme apparenti). I nuovi mezzi di informazione e di comunicazione riescono ormai a raggiungere finanche la coscienza di un qualsiasi povero ‘Ntoni che, attraverso i multiformi aspetti della vita associata, è in grado di udire la propria voce e le proprie speranze (ma non le proprie certezze). La democrazia apparente, creatura degli “immortali” principi del1789, è penetrata in ogni aspetto formale della società moderna che, tuttavia travagliata da contraddizioni interne e dalle logiche di potere, è alla perenne ricerca di nuovi traguardi e di nuovi perfezionamenti di conquiste. Gli odierni sistemi di produzione, frutto delle nuove tecnologie, hanno legato l’uomo alla falsa necessità di beni inutili e alla catena di montaggio, dalla quale si è generata un’alienazione diversa ma più drammatica di quella delle epoche passate (oggi quasi tutte le attività lavorative “inventate” dagli uomini possono essere assoggettate a vere e proprie “catene di montaggio”). Ma occorre ricordare che gli aspetti traumatici della “civiltà” umana contemporanea colpiscono anche, e direi soprattutto, gli equilibri ecologici della terra ponendo in serio pericolo le prospettive future della biosfera. E’ impossibile sottrarsi all’alienazione della disperazione sociale ed ecologica, perché la coscienza dell’uomo moderno è ormai intrisa di una fede apocalittica: la certezza che non può più sorgere una nuova stagione, in cui l’uomo riconnesso nella natura torni ad essere protagonista di una storia sublime quanto affascinante. Capra citando la filosofia di vita buddhista scrive (1997): “A causa dell’ignoranza noi dividiamo il mondo delle percezioni in oggetti separati che consideriamo transitori e continuamente mutevoli. Cercando di rimanere aggrappati alle nostre categorie rigide invece di cogliere la fluidità della vita, siamo destinati a sperimentare una frustrazione dopo l’altra”.



Guerra e ambiente



Questo argomento (guerra e ambiente) potrebbe avere un exscursus storico e un decorso descrittivo praticamente infinito, perché la tematica si connatura radicalmente nei rapporti o meglio negli attriti che l’uomo ha sempre innescato con i propri simili (o almeno da qualche migliaio di anni). Ma, in questa sede, non possiamo sviluppare anche una semplice casistica che riassuma i continui eventi che si sono protratti nel corso dei millenni senza soluzione di continuità, altrimenti ci vorrebbero decine di volumi al riguardo pur mantenendo un rigoroso schema di sintesi. Ci limiteremo a sottolineare ciò che le guerre portano al mondo naturale e che tutti si sono ben guardati dall’evidenziare sia per malafede e sia perché non ne vedono affatto il problema. E anche qui, come sempre, il mondo naturale può solo subire passivamente gli eventi. Questo non significa, si badi bene, che si vuole ignorare e tacere sugli immani genocidi che i popoli e le singole persone hanno vissuto e pagato sulla propria pelle, ma, per affrontare i risvolti ambientali di una tale spinosa tematica, è stato doveroso impostare un taglio diverso. Le miserie, le apocalittiche sofferenze, le più atroci privazioni, i fiumi di sangue sparsi rimarranno per sempre incisi su quella parte abominevole (che rappresenta la maggioranza) della storia dell’umanità.

Ogni conflitto ha un costo ambientale inquantificabile, con distruzioni a volte integrali di interi territori, di immense foreste, di specie animali, di paesaggi che a volte cangiano addirittura radicalmente i loro connotati. E si badi bene, se durante un conflitto si vuole minimamente sottolineare questa immane catastrofe, subito si levano voci che “scomunicano” la riflessione perché ci si è permesso di non parlare dei morti e delle distruzioni che l’uomo subisce e determina; ma su questo punto si spera di esserci già chiariti all’inizio del paragrafo.

Ora, nell’ambito bellico occorre fare una duplice distinzione: l’impatto sull’ambiente in tempo di pace per le preventive preparazioni militari e l’impatto sull’ambiente in tempo di guerra (sia a carattere locale che su larga scala). Nel primo caso gli effetti sugli ecosistemi sono più impattanti di quando si pensi perché l’industria bellica si mobilita su un ampio fronte di azione per mettere a “punto” i suoi sistemi, per sviluppare armi sempre più sofisticate ed “intelligenti”, per mettere in azione continue prove pratiche, per produrre armi sempre più devastanti, per impiegare ingenti somme finanziarie “necessarie” alle ulteriori ricerche onde poter verificare gli effetti delle svariate armi offensive. Si ricordano gli esperimenti delle armi nucleari, i laboratori per la produzione di sostanze batteriologiche, gli addestramenti degli eserciti, ecc. La lista non potrebbe terminare mai. Il tutto pagato dall’ambiente con un pesante utilizzo energetico, di materie prime, di territorio e di altri elementi strettamente connessi.

Quando poi si passa alla parte operativa allora tutta la macchina bellica sviluppa sul campo la sua forza distruttrice sia essa grandiosa, come accade nei grandi conflitti, sia meno appariscente per le guerre più localistiche ma sempre fortemente deleteria per l’ambiente. E poi, molte strutture umane comunemente utilizzate in tempo di pace (p.e. dighe, centrali elettriche, pozzi petroliferi, ecc.), diventano bersaglio e potenziali detonatori di una reazione distruttiva a catena. A volte le azioni belliche toccano luoghi della terra che agli occhi dei più paiono del tutto insignificanti come deserti, immensi valloni montani pietrosi, distese di pianura “desolate”, ecc., ma anche lì il danno ambientale è devastante perché in quelle condizioni estreme vive ben organizzata ed adattata tutta una serie di forme viventi, animali e vegetali, che subiscono di conseguenza le azioni rovinose dell’uomo. Non viene risparmiato proprio nulla e, soprattutto quando ci si muove in luoghi dove per esempio sono presenti specie animali sull’orlo dell’estinzione, anche conflitti locali di natura etnica o religiosa possono determinare una vera e propria catastrofe. Si veda per tutti il crollo forse decisivo della popolazione dei gorilla di montagna - già insidiati dall’alterazione dell’habitat e dal bracconaggio - dopo le sanguinose guerre tra i popoli di quei luoghi. E che dire quando vengono impiegate armi biologiche o addirittura nucleari che portano sul campo distruzione ed alterazione per decenni se non per centinaia di anni? (si ricordano per esempio le deflagrazioni atomiche della seconda guerra mondiale sul Giappone o i numerosi test nucleari durante la guerra fredda); oppure le deleterie azioni nella guerra del Vietnam quando furono defogliati con il napalm migliaia di ettari di foreste per “stanare” sotto di esse il nemico. O ancora i devastanti incendi appiccati volontariamente alle grandi distese boschive o come conseguenza di bombardamenti o attentati. E che dire delle milioni di mine anti-uomo sparse nel terreno che oltre a mutilare od uccidere nel tempo un numero incalcolabile di esseri umani causano lo stesso effetto per il restante mondo animale? Gli esempi potrebbero continuare all’infinito, ma l’elencazione, sia pure estremamente allarmante, pare non sortire nessun effetto limitativo sulle coscienze di tutti gli uomini della terra perché rimangono sempre troppo facilmente belligeranti. Occorre però porre in evidenza il un fatto che ad ogni evento di guerra è facile constatare di persona. Provate a notare, anche con estrema attenzione, se tutte le riviste, i quotidiani, i giornalisti inviati sul campo o gli scrittori che successivamente analizzano con sagacia e “intellettualità” le cause di una guerra, spendono mai anche una piccola riflessione su ciò che il mondo naturale sta subendo in quei terribili momenti. Si può ovviamente accettare che al primo posto sia evidenziata la situazione degli eserciti o della popolazione inerme, d’altronde è l’uomo che fa la guerra e ci tiene a parlare di se stesso, è anche giustificabile, ma sull’ambiente nemmeno in seconda e finanche ultima battuta è spesa una singola parola o un solo rigo di un articolo. Sicuramente ci saranno le dovute eccezioni o la faccenda sarà affrontata da ecologi esperti del settore, ma in un quadro generale il silenzio è totale perché, come si diceva in precedenza, l’argomento non è per nulla visto. Quando si parla di distruzione è sempre argomentata da un punto di vista strettamente umano, con i conseguenti svantaggi e nulla più. Anche su un argomento così delicato, atroce, devastante, il pensiero umano si è voluto imbrattare per l’ennesima volta di due macchie di sangue (anche se in fondo è la medesima cosa): il sangue degli uomini e il sangue della natura. Ma nel corso dei secoli i libri di storia parleranno solamente del sangue umano (e probabilmente nemmeno in forma corretta e giusta). Della natura non ci sarà alcuna traccia anche perché sin dall’inizio non erano mai stati solcati i pur minimi elementi dell’argomento. E qui, come abbiamo premesso, non entriamo nel merito sulla diffusa malafede del senso di giustizia e di verità quando scoppia una guerra, locale o globale che sia. 

Valga in tale circostanza l’arguta riflessione fatta da Byron: “Ecco la morale di tutte le storie umane; non è che la stessa prova del passato; prima la Libertà e la Gloria - quando ciò viene a mancare Ricchezza, Vizio, Corruzione - Barbarie infine - e la Storia con tutti i suoi volumi non ha che un’unica pagina”.

Ecco, ora, per concludere un brano tratto da un’opera importante di Kropotkin, “Il mutuo appoggio. Un fattore dell’evoluzione” (da AA. VV. 1994 pag. 27): “Fortunatamente, la competizione non è una regola, né nel mondo animale, né in quello umano.

Fra gli animali, è limitata a periodi eccezionali e la selezione naturale, per attuarsi, trova migliori strategie d’azione.

Le condizioni migliori per l’evoluzione sono create dall’eliminazione della competizione, tramite l’aiuto ed il sostegno reciproci.

Nella grande lotta per la vita - per la maggiore pienezza e la maggiore intensità di vita possibili, con il minore spreco di energia - la selezione naturale cerca costantemente i modi per evitare al massimo la competizione.

Le formiche si organizzano in nidi e in nazioni; producono il proprio cibo, allevano il proprio “bestiame” - ciò evita la competizione e le sue conseguenze dannose.

La selezione naturale premia, fra le formiche, quelle varietà che meglio sanno collaborare.

La maggior parte dei nostri uccelli si sposta lentamente verso sud e ritorna poi in inverno.

Questi uccelli viaggiano in grandi stormi e questo contribuisce ad evitare la competizione.

Molti roditori cadono addormentati nel periodo in cui potrebbe essere necessario competere per la sopravvivenza; mentre altri immagazzinano il cibo per l’inverno e lo fanno riuniti in grandi comunità, per avere la necessaria protezione durante il lavoro.

Le renne, quando nelle zone interne i licheni seccano, migrano verso il mare.

I bufali attraversano un immenso continente per avere cibo a sufficienza. E quando i castori divengono troppo numerosi nello stesso fiume, si dividono in due gruppi e vanno, i più anziani, verso la foce e i più giovani verso la fonte. Questo evita la competizione.

Quando gli animali non possono cadere in letargo, nè migrare, nè immagazzinare, nè crescere essi stessi il proprio cibo, come le formiche, allora fanno come la cincia....: ricorrono a un nuovo cibo! E anche questo evita di competere.

‘Non competere! La competizione è sempre negativa per la specie e ci sono molti modi per evitarla!’, questa è la tendenza indicata dalla natura, non sempre pienamente realizzata, ma comunque sempre presente.

Questo è il messaggio che ci viene dalla foresta, dalla macchia, dal fiume e dall’oceano.

Perciò, unitevi e praticate l’aiuto reciproco! Questo è il modo migliore per dare a tutti e a ciascuno la più grande soddisfazione, la migliore garanzia di esistenza e di progresso, materiale, intellettuale e morale”.


“Le istituzioni di reciproco aiuto hanno qualcosa in più del loro valore funzionale. Sono una misura e un indicatore della salute di ogni società” (C. Ward).



Un piccolo omaggio ad un grande rivoluzionario e pensatore russo: Pëtr Kropotkin (1842-1921)



“....Essi mi insegnarono anche come pochi siano i reali bisogni dell’uomo, non appena egli sia uscito dal cerchio magico della civiltà convenzionale. Con qualche pagnotta e pochi grammi di tè in un sacchetto di cuoio, un pentolino, e un’accetta attaccata alla sella e, dietro la sella, una coperta da stendere al bivacco, sopra un letto di frasche tagliate di fresco, un uomo può sentirsi perfettamente indipendente anche in mezzo a montagne sconosciute, rivestite di fitte foreste o coperte di neve....”. (P. A. Kropotkin).

“Libertà è parola molto di moda. Non è da ora, ovviamente, ma da qualche tempo particolarmente - e per lo più abusivamente - di moda. Forse perché si presta a mille interpretazioni, anche le più deboli, anzi debolissime. Ma c’è anche una concezione forte, anzi fortissima della libertà. Un’idea ‘esagerata’. L’idea esagerata di libertà è, secondo Popper, l’anarchismo. Ma è una esagerazione della libertà o la sua espressione più compiuta e coerente? L’una cosa e l’altra, forse..... Così come merita un pensiero antidogmatico per eccellenza, perché nato sulla negazione del principio di autorità......

.... Parole di un ribelle, La conquista del pane, Campi fabbriche ed officine, Il mutuo appoggio, Memorie di un rivoluzionario, La grande rivoluzione, La scienza moderna e l’anarchia, L’etica...... Pur diversificate, queste opere (di Kropotkin - nota di chi scrive) rappresentano il tentativo unitario di dimostrare l’unilateralità dell’ipotesi darwiniana e, per contro, la naturale socialità dell’uomo quale fattore insostituibile della sua evoluzione sociale e civile. Viene così messa in luce l’effettiva possibilità di accordare il mondo della natura e quello della cultura, al fine di individuare quali forme di convivenza umana maggiormente in sintonia con le modalità del mondo naturale. Kropotkin deve essere considerato uno dei maggiori precursori del pensiero ecologico contemporaneo” (G. N. Berti, 1998).

Peter Kropotkin, come accenna Berti, è una figura anarchica che travalica il senso della settorialità per compenetrarsi unitariamente tra la natura e la socialità vera e pura dell’uomo. Nei suoi scritti appare costantemente questo desiderio di riconciliare la cultura umana con gli elementi della natura, ponendo alla base una stretta e nel contempo ampia visione anticipatamente biocentrica dei valori umani. Questo anche grazie al suo benevole e forte carattere: “Quello che è ancor vago nel ragazzo si precisa nell’uomo” (Pëtr Kropotkin). Ecco alcuni cenni della analisi di Berti (1998), integrata da alcuni scritti diretti dell’anarchico russo che ribadisce sempre questa sua sincera, nobile e comprensiva totalità dell’essere.

“Sotto questa spinta condizionante, l’anarchico russo concepisce una grande risposta di grande respiro teorico: dimostrare che l’anarchismo è in perfetta sintonia con la crescita e il fine della scienza. E, ancor più, dimostrare che le verità di questa scienza vanno in direzione opposta alla cultura del conflitto e del dominio, testimoniando invece una reale, oggettiva tendenza della vita animale ed umana verso la cooperazione e la solidarietà universali..... Evoluzionismo e positivismo, determinismo scientifico e creatività delle masse popolari sono le armi teoriche usate da Kropotkin per dimostrare il perfetto incontro tra anarchismo e scienza, tra rivoluzione sociale e disincanto intellettuale, tra verità morali e verità naturali.... Insomma, è il tentativo di giustisficare la libertà e l’uguaglianza attraverso spiegazioni di tipo naturalistico. L’accostamento appare antinomico e problematico perché mentre la giustificazione attiene al campo dell’etica, la spiegazione si risolve in quello della scienza. Ecco perché il teorema di Kropotkin: dare la giustificazione dell’etica attraverso la spiegazione della natura. Ma come risolvere la natura nella cultura, la scienza nei valori? Come formulare cioè una spiegazione che stia a fondamento della giustificazione quale espressione logica dell’equazione etica uguale autenticità naturale?

La risposta Kropotkiana si può riassumere in questa progressiva articolazione: la scienza evidenzia come necessità logica interna della natura, la cui valenza più matura però si dà a sua volta come spontaneità; ovvero, la spiegazione della necessità naturale si traduce nella giustificazione della sua spontaneità. A sua volta l’immediata valenza della spontaneità non può che essere colta sotto il significato della libertà. Natura, spontaneità, libertà: questi i termini della sequenza progressiva insiti nella risposta dell’anarchico russo”.

Kropotkin scrive (1913): “l’anarchia è una concezione dell’universo, basata sulla interpretazione meccanica dei fenomeni, che abbraccia tutta la natura, non esclusa la vita della società. Il suo metodo è quello delle scienze naturali; e, secondo questo metodo, ogni conclusione scientifica deve essere verificata. La sua tendenza è di fondere una filosofia sintetica, che si estenda a tutti i fatti della natura, compresa la vita delle società umane e i loro problemi economici, politici e morali”. Continua Berti (1998): “Addirittura l’anarchia si delinea come strumento generale di comprensione scientifica in grado di ‘elaborare la filosofia sintetica, ossia la comprensione dell’universo nel suo insieme”. Integra indirettamente Kropotkin (1913): “..poiché l’uomo è una parte della natura, poiché la sua vita personale e sociale è pure un fenomeno della natura - alla stregua della crescita di un fiore, o della vita nelle società delle formiche e delle api - non vi è nessuna ragione perché, passando dal fiore all’uomo, da un villaggio di castori ad una città umana, noi dobbiamo abbandonare il metodo che ci aveva servito così bene fino allora, per cercarne un altro nell’arsenale della metafisica”.

Ecco ora per concludere un brano tratto da un’opera importante di Kropotkin, “Il mutuo appoggio. Un fattore dell’evoluzione” (da AA. VV. 1994 pag. 27): “Fortunatamente, la competizione non è una regola, nè nel mondo animale, nè in quello umano.

Fra gli animali, è limitata a periodi eccezionali e la selezione naturale, per attuarsi, trova migliori strategie d’azione.

Le condizioni migliori per l’evoluzione sono create dall’eliminazione della competizione, tramite l’aiuto ed il sostegno reciproci.

Nella grande lotta per la vita - per la maggiore pienezza e la maggiore intensità di vita possibili, con il minore spreco di energia - la selezione naturale cerca costantemente i modi per evitare al massimo la competizione.

Le formiche si organizzano in nidi e in nazioni; producono il proprio cibo, allevano il proprio “bestiame” - ciò evita la competizione e le sue conseguenze dannose.

La selezione naturale premia, fra le formiche, quelle varietà che meglio sanno collaborare.

La maggior parte dei nostri uccelli si sposta lentamente verso sud e ritorna poi in inverno.

Questi uccelli viaggiano in grandi stormi e questo contribuisce ad evitare la competizione.

Molti roditori cadono addormentati nel periodo in cui potrebbe essere necessario competere per la sopravvivenza; mentre altri immagazzinano il cibo per l’inverno e lo fanno riuniti in grandi comunità, per avere la necessaria protezione durante il lavoro.

Le renne, quando nelle zone interne i licheni seccano, migrano verso il mare.

I bufali attraversano un immenso continente per avere cibo a sufficienza. E quando i castori divengono troppo numerosi nello stesso fiume, si dividono in due gruppi e vanno, i più anziani, verso la foce e i più giovani verso la fonte. Questo evita la competizione.

Quando gli animali non possono cadere in letargo, nè migrare, nè immagazzinare, nè crescere essi stessi il proprio cibo, come le formiche, allora fanno come la cincia....: ricorrono a un nuovo cibo! E anche questo evita di competere.

‘Non competere! La competizione è sempre negativa per la specie e ci sono molti modi per evitarla!’, questa è la tendenza indicata dalla natura, non sempre pienamente realizzata, ma comunque sempre presente.

Questo è il messaggio che ci viene dalla foresta, dalla macchia, dal fiume e dall’oceano.

Perciò, unitevi e praticate l’aiuto reciproco! Questo è il modo migliore per dare a tutti e a ciascuno la più grande soddisfazione, la migliore garanzia di esistenza e di progresso, materiale, intellettuale e morale”.


“Le istituzioni di reciproco aiuto hanno qualcosa in più del loro valore funzionale. Sono una misura e un indicatore della salute di ogni società” (C. Ward).



Messaggio delle sei nazioni Irochesi

confederate al mondo occidentale. 

“Spiritualismo: la più alta forma di coscienza politica”*




“L’Houdenosaunee - Confederazione delle Sei Nazioni Irochesi - esiste su questa terra da tempo immemorabile.

La nostra è una fra le culture più antiche ancora viventi nel mondo intero.

All’inizio, ci venne insegnato a prenderci cura l’uno dell’altro e a mostrare rispetto per tutti gli Esseri della Terra.

Ci venne mostrato che la nostra vita può esistere solo grazie alla vita degli alberi, che il nostro benessere dipende dal benessere del mondo vegetale e che siamo strettamente legati agli esseri a quattro zampe.

Per questo, nella nostra cultura, la coscienza spirituale è la più alta forma di politica. (...)

Gli insegnamenti originali dicono che chi cammina sulla terra deve esprimere grande affetto, rispetto e gratitudine verso tutti gli spiriti che creano e sostengono la vita.

Dobbiamo gratitudine e ringraziamento a chi ci aiuta: al grano, ai fagioli, alle zucche, al vento e al sole...

Quando l’uomo cessa di rispettare e di essere grato a tutto ciò, allora la vita è distrutta, la vita umana si avvia verso la fine. (...)

Il nostro messaggio al mondo è essenzialmente un’esortazione al risveglio della coscienza.

La distruzione delle culture e dei popoli nativi è parte di un processo, che contemporaneamente attacca la vita animale e quella delle piante, la vita del pianeta tutto.

Questo processo consiste nell’affermazione di un sistema sociale e delle sue tecnologie: è, precisamente, la civilizzazione occidentale. (...)

L’attacco alla cultura irochese, col sistema delle riserve, è solo un piccolo aspetto dell’azione colonialista e imperialista, che si esercita sul mondo intero.

A partire dal tempo di Marco Polo, l’Occidente ha messo a punto un sistema di mistificazione nei confronti di tutti i popoli della Terra.

La maggior parte di questi non trova le sue radici nella cultura e nella tradizione occidentale.

Le trova nel mondo naturale, e sono proprio le tradizioni legate al mondo naturale che devono prevalere perchè si sviluppino società veramente libere ed egualitarie.

E’ necessario, a questo punto, cominciare un lavoro di analisi critica dei processi storici occidentali, per svelare la natura profonda delle condizioni di sfruttamento ed oppressione cui l’umanità è sottoposta.

Nello stesso momento in cui cominciamo a conoscerla, dobbiamo reinterpretare la storia dei popoli del mondo.

D’altra parte, è un fatto che la gente più oppressa e sfruttata è proprio la gente dell’Occidente.

E’ stata caricata del peso di secoli di razzismo, di ignoranza, fino a diventare insensibile alla vera natura della propria vita. Dobbiamo, con la massima coscienziosità e continuità sfidare ogni modello, ogni programma, ogni processo, che l’Occidente cerchi di imporci.

Paulo Friere scrisse, in Pedagogia dell’oppresso, che nella natura dell’oppresso c’è l’imitazione dell’oppressore e che, attraverso tale atteggiamento, esso cerca di riscattarsi psicologicamente dalle condizioni in cui si trova.

Dobbiamo imparare a resistere a questo tipo di trappola. La gente che vive su questo pianeta ha bisogno di rompere con l’angusto concetto di liberazione umana, e deve cominciare a vedere la liberazione come qualcosa da estendere all’intero mondo naturale.

E’ necessaria una liberazione di tutto quel che sostiene la vita: il sacro intreccio della vita.

Noi sentiamo che i Popoli Nativi dell’emisfero Ovest possono continuare a contribuire alla possibilità di sopravvivenza della specie umana.

La maggior parte della nostra gente vive in accordo con la tradizione, tradizione che trova le proprie radici nella Madre Terra.

Ma i popoli nativi hanno bisogno di un forum, dal quale far udire la propria voce.

Abbiamo bisogno dell’alleanza con gli altri popoli del mondo, nella lotta per la riconquista ed il mantenimento delle nostre terre ancestrali e per la possibilità di vivere come vogliamo.

Sappiamo che non è facile.

La protezione e la liberazione dei popoli e delle culture legati al mondo naturale sono, nella nostra concezione, elementi che devono entrare a far parte della strategia politica di chi si batte per restituire dignità all’uomo; questo, ovviamente, dà fastidio a molti stati nazionali. (...)

I Popoli Nativi Tradizionali sono la chiave per rovesciare il processo di civilizzazione occidentale, che minaccia un futuro di inimmaginabili sofferenze e distruzioni.

Lo Spiritualismo è la più alta forma di coscienza politica.

Noi, i Popoli Nativi dell’emisfero Occidentale, siamo, fra quelli sopravvissuti, in possesso di questo tipo di coscienza.

Siamo qui per comunicarvi il messaggio”.


* (tratto da: AA.VV., 1994 pagg. 26-27 per contribuire alla diffusione della voce dei popoli nativi).



La filosofia cinica



Il cinismo fu un movimento filosofico che ebbe la propria origine in Atene, avviato da Antistene nel IV sec. a. C. e protrattosi sino al IV sec. dopo Cristo. L'etimologia del nome cinico deriva da "cane", epiteto dato al più famoso rappresentante della corrente, Diogene di Sinope, e da lui accettato, come simbolo dello stile della propria vita.

In questa sede vogliamo brevemente ricordare il pensiero cinico, fortemente distorto nel suo significato originale, per affermare una saggia visione della vita estremamente attuale in antitesi al consumistico e superficiale pensiero contemporaneo.

"La natura, secondo i Cinici, ha creato le condizioni più adatte per la vita e il benessere di tutti i viventi; alterare artificialmente quelle condizioni significa introdurre un perturbamento nel piano della natura e indebolire l'uomo, rendendone più penosa l'esistenza: di qui la condanna della civiltà con tutte le sue conquiste (famiglia, stato, leggi, progresso scientifico, arti, ecc.) e l'aspirazione a un ideale di esistenza senza bisogni, di vita secondo natura, simile a quella degli animali e dei popoli primitivi. Così i Cinici ostentavano un'assoluta indifferenza (adiaforia), non solo per i beni, ma anche per i mali più temuti e aborriti, indifferenza che per loro era frutto della liberazione da tutto ciò che essi chiamavano falsa opinione, fumo o illusione. Tale liberazione interiore era possibile attraverso l'esercizio della virtù, da essi intesa come autosufficienza dello spirito (autarchia), e la vittoria sulle passioni.............Ma se il cinico proclama la propria indifferenza di fronte ai valori correnti, positivi e negativi, indifferenti non gli sono però le condizioni esteriori di vita, in quanto possono favorire od ostacolare quell'affrancamento totale in cui consiste la felicità (eudemonia), da lui inteso come concetto negativo: poiché alla liberazione interiore giunge più facilmente il mendìco che non il re. Così il cinico opera una vera e propria inversione dei valori, disprezzando ciò che è da tutti ambìto e desiderando ciò che tutti aborriscono; è così che lo vediamo errare coperto di un ruvido mantello, unico indumento per tutte le stagioni, barba e capelli incolti, incurante del disprezzo e degli oltraggi di chi è colpito dalle parole amare, ora argute, ora volgari, con cui egli bolla le debolezze e le iniquità umane, ................ I Cinici esaltavano la libertà personale, proclamavano l'uguaglianza di tutti gli uomini e volevano veder abolite tutte le differenze di ceto e di nazionalità, i privilegi del sesso e della nascita..............."  (Merlo, 1958).


“Oh grande spirito

concedimi la serenità

di accettare le cose

che non posso cambiare,

il coraggio di cambiare le cose

che posso cambiare

e la saggezza

di capirne la differenza”.

(preghiera indiana Cherokee)



_________________________


PARTE SECONDA


Per un’ecologia della conservazione




La natura è morta, ma prima 

che venga sepolta e gettata su di essa 

l’ultima manciata di terra,

 è bene dire qualcosa



                                            L’ecologia



“Siamo diventati una specie che non è più in equilibrio coevoluto con il proprio ambiente” (Chapman & Reiss, 1994). I gravi squilibri ambientali connessi allo straordinario sviluppo demografico del  nostro pianeta hanno posto in primo piano lo studio dell’ecologia, una scienza che si occupa appunto della relazione intercorrente tra l’ambiente e la somma degli organismi viventi, sia sotto specie animale che vegetale. Si sa che la natura, quando non viene turbata, provvede da sé stessa a mantenere in equilibrio il rapporto tra essere viventi e ambiente circostante (ecosistema), un equilibrio in continuo mutamento che si basa essenzialmente sulla catena alimentare che vede le piante al primo livello, gli erbivori al secondo, i carnivori al terzo; il passaggio dal primo al terzo livello può essere descritto graficamente come una “piramide” energetica. E’ da notare altresì che le spoglie vegetali e animali vengono decomposte dai degradatori, o microconsumatori (batteri, funghi) in sostanze inorganiche, e  rimesse in circolo.

“Stupisce che la stessa ecologia, una delle discipline contemporanee più organiche, abbia un modo di pensare così poco organico. Mi riferisco al bisogno di derivare dall’interno le differenze, una cosa dall’altra: ciò che è maturo da ciò che è in embrione, le cose più complesse da quelle più semplici. Insomma, mi riferisco a un modo di pensare biologicamente, non deducendo semplicemente le conclusioni dalle ipotesi, come si usa in matematica, o limitandosi a registrare e classificare dei fatti. Ecologisti o ragionieri, poco importa: tutti tendiamo a condividere il modo di ragionare che oggi prevale, e che è soprattutto analitico e classificatorio, piuttosto che processuale , evolutivo. I modi di ragionare analitici, classificatori e deduttivi funzionano perfettamente, quando si deve smontare o rimontare il motore di un’auto, o costruire una casa, ma sono del tutto inadeguati, se si vogliono individuare le fasi che costituiscono un processo, ciascuna concepita nella sua integrità, ma anche come parte di un continuum in perenne evoluzione.... “. (M. Bookchin, in AA.VV., 1987).

Appare perciò evidente che il nostro pianeta è governato dal principio dell’equilibrio dinamico evolutivo (meccanismi a volte non lineari, a volte caotici oppure stazionari o ciclici - R. May, in Bologna 1997) per cui qualsiasi turbamento arrecato a quella naturale “relativa armonia” è apportatore di gravi, spesso irreparabili conseguenze. Muovendo da una siffatta constatazione è facile comprendere quale può essere l’ampiezza della devastazione causata dall’attività dell’uomo che a ragione è stato definito “il più catastrofico agente antiecologico che mai sia comparso sulla Terra” (Mainardi, 1973). Infatti l’uomo interferisce in mille modi sull’ambiente, alterandolo sia direttamente, come accade quando distrugge un bosco o saccheggia il letto di un fiume, sia indirettamente, come avviene quando libera nell’atmosfera enormi quantità di sostanze chimiche, quali vapori di mercurio e di piombo, idrocarburi, amianto, co2, DDT, sostanze solforose e azotate, o quando scarica nei fiumi tonnellate di detergenti, di rifiuti di ogni tipo, o di prodotti tossici che defluendo in mare modificano o distruggono la flora e la fauna marina. “.....Costruiamo dighe ed oleodotti ostacolando il libero spostamento degli animali; pavimentiamo la terra e costruiamo bacini, alterando l’equilibrio idrico....; diboschiamo inconsultamente favorendo le inondazioni e l’impoverimento degli ecosistemi; rischiamo di modificare in modo irreversibile i cicli naturali......; invadiamo l’ambiente con i contaminanti radioattivi......” (Mainardi, 1973).

Si può dunque ben dire che il pianeta è alle soglie di una vera e propria mutazione ambientale, quasi che l’umanità non valutasse con la dovuta attenzione il pericolo di autodistruzione. Non ci sembra che ceda ad un gratuito catastrofismo chi  prevede che un futuro carico di incognite si presenterà innanzi alle generazioni venture ove non vengano adottate a livello mondiale nuove regole di stile di vita e di economia basate su un equilibrio stazionario ed armonico anche se in continuo mutamento. Quando la dominanza assoluta di un’unica specie sul pianeta Terra non viene controbilanciata da una serie di forze “uguali e contrarie”, si determina inevitabilmente  lo strapotere e l’arroganza del dominatore (l’Homo sapiens appunto) che in breve conduce se stesso e la natura tutta verso la totale annientazione. L’uomo in fondo è una sorta di “mostro” che, preso il sopravvento sull’intero pianeta, ne determina la totale sottomissione e distruzione. Nietzsche (in Hosle 1992) ricorda che: “gli esseri razionali che commettono l’errore di interpretare se stessi come soggettività sovrane devono necessariamente autodistruggersi”.

Scrivono Chapman & Reiss (1994): “La constatazione che con il nostro comportamento irresponsabile stiamo distruggendo le specie, gli habitat e forse persino il sistema di sostentamento della vita del pianeta è un pensiero deprimente. Però, abbiamo le conoscenze necessarie per renderci conto di ciò che stiamo facendo e per capire ciò che dovremmo fare per arrestare il declino e porre rimedio alla situazione. Ecco dove l’ecologia entra nel quadro”.

A proposito delle basi di una educazione ecologica annota Capra (1997): “Ricongiungersi alla trama della vita significa edificare e mantenere comunità sostenibili, in cui possiamo soddisfare i nostri bisogni e le nostre aspirazioni senza ridurre le opportunità per le generazioni future. A questo scopo possiamo apprendere lezioni preziose dallo studio degli ecosistemi, che sono società sostenibili di piante, animali e microrganismi. Per capire queste lezioni, dobbiamo apprendere i principi di base dell’ecologia. Dobbiamo diventare, per così dire, ecologiocamente istruiti. Essere ecologicamente istruiti, o “ecocompetenti”, significa comprendere i principi di organizzazione delle comunità ecologiche (ecosistemi) e usare quei principi per creare comunità umane sostenibili. Dobbiamo dare nuovo vigore alle nostre comunità - comprese le comunità educative, economiche e politiche - così che i principi dell’ecologia si manifestino in esse come principi di educazione, amministrazione e politica ......

Mentre il nostro secolo sta ormai per concludersi e andiamo verso l’inizio di un nuovo millennio, la sopravvivenza dell’umanità dipenderà dal nostro grado di competenza ecologica, dalla nostra capacità di comprendere i principi dell’ecologia e di vivere in conformità con essi”.

Purtroppo il nostro distacco dalla natura, venuto progressivamente alla luce forse anche a causa dello sviluppo del pensiero astratto, del linguaggio, della “cultura”, ci ha indotto ad operare in maniera del tutto irresponsabile, creando una struttura sociale e vitale completamente disgiunta dalla realtà naturale (dualismo) che è il contenuto del nostro esistere. Di qui la necessità, proprio utilizzando quel pensiero che ci ha portato al “baratro”, di riapprendere intellettivamente i principi della vita e degli ecosistemi. Principi che erano spontaneamente nostri quando vivevamo coevoluti con il respiro della natura, principi che le “semplici” piante o i tanto “sottosviluppati” e vituperati animali hanno nel loro essere vitale. Noi ora, con sforzo e forse con paradosso, dobbiamo metterci a “studiare” per riconquistare ciò che abbiamo perduto, nella speranza di rendere sostenibile una realtà sociale che non ha nulla di sostenibile con la natura e quindi con il futuro. Il principio di questo studio è valido, ma avrà un vero e reale riscontro nella realtà? Il distacco dalla natura delle categorie politiche, religiose ed economiche è ancora troppo grande, e l’alienazione dell’antropocentrismo non fa certamente parte del pensiero quotidiano. Forse gli ecosistemi naturali non sono in grado di attendere i nostri “passi di comprensione”, la fine del tutto avverrà purtroppo molto tempo prima!

Aldo Leopold  sul finire degli anni quaranta poco prima di morire “aveva terminato il suo famoso saggio The Land Ethic che, più di qualsiasi altro saggio, segnò l’inizio dell’Era ecologica e che veniva considerato come la descrizione più concisa della nuova filosofia ambientale; esso univa un approccio scientifico alla natura, un alto livello di raffinatezza ecologica e un’etica comunitaria biocentrica che sfidava l’atteggiamento economico dominante nei confronti dello sfruttamento del territorio” (Worster, 1994). Sempre Worster (1994), a proposito di Leopold scrive che “Uno dei saggi di Sand Conty Almanc dal titolo Storia naturale - La scienza dimenticata, rappresenta un appello al ritorno all’educazione all’aperto, olistica, ad uno stile scientifico aperto ai dilettanti e agli amanti saggi della natura, più sensibile al ‘piacere di essere immerso in una natura selvaggia’. Nei laboratori e nelle università si insegnava che ‘la scienza è al servizio del progresso’; essa faceva lega con la mentalità tecnologica che regimentava il mondo inseguendo il progresso materiale e doveva quindi essere trasformata insieme alla tendenza manageriale........ Nella prefazione del Sand County Almanac aveva scritto: ‘La conservazione ambientale non sta approdando da nessuna parte poiché è incompatibile con il nostro concetto abramico della terra. Sfruttiamo la terra perché la consideriamo come un bene di consumo che ci appartiene. Quando la considereremo come una comunità alla quale apparteniamo inizieremo a sfruttarla con amore e rispetto’ ”.

Malgrado l’impegno non è possibile, citando il grande E. Goldsmith (1997), concludere con una nota positiva: “L’uomo moderno sta rapidamente distruggendo il mondo naturale dal quale dipende la sua sopravvivenza. Ovunque, nel nostro pianeta, il quadro è lo stesso: foreste che vengono tagliate, paludi prosciugate, barriere coralline estirpate, terreni agricoli erosi, salinizzati, desertificati, o semplicemente coperti di cemento o d’asfalto. L’inquinamento è ora generalizzato: ne sono colpite le falde acquifere, i torrenti, i fiumi, gli estuari, i mari e gli oceani, l’aria che respiriamo, il cibo che mangiamo......

Distruggendo in tal modo il mondo naturale, stiamo progressivamente rendendo meno abitabile il nostro pianeta. Se le tendenze attuali persisteranno, può darsi che in non più di pochi decenni esso non sarà più capace di sostenere forme complesse di vita. Questo può suonare esagerato; purtroppo, è fin troppo realistico”.



Il noumeno naturale - Il valore in sé della natura



“Un filosofo ha definito questa essenza imponderabile il noumenon delle cose materiali. Esso è in opposizione al phenomenon, che è ponderabile e prevedibile, fin nel moto delle più lontane stelle” (Aldo Leopold, 1949-1997). La conoscenza di un fenomeno è puramente empirica, cioè frutto della mediazione sensibile del soggetto. Tale acquisizione però, non può essere elevata a concetto universale, essendo del tutto arbitrario generalizzare un’esperienza strettamente individuale. Una personale esperienza, poi, presenta dei limiti anche verso se stessa, perché è il frutto di un “momento” empirico continuamente variabile.

Il “valore in sé o intrinseco” di un fenomeno (noumeno), valore privo di esperienze e mediazioni soggettive, assume invece carattere duraturo, universale e reale. Il “valore in sé” è qualcosa di superiore, qualcosa di non definibile forse non conoscibile, che trascende il soggetto per divenire essenza dell’oggetto: “il Tao definito non è l’eterno Tao” (Lao Tse). Ecco dunque apparire nella mente un profondo concetto universale e “nobile”.

Solo in una fase successiva potremo “interpretare” il noumeno trasformandolo in un “fenomeno” cioè oggetto dei sensi. Nasce quindi la contrapposizione tra le “cose in se stesse” e le “cose rispetto a noi”. Questo dualismo è un concetto fondamentale, come vedremo, anche per la protezione e conservazione della natura. La visione dualistica del mondo naturale si impose in larga misura in occidente grazie ad una negativa influenza religiosa (p.e. il cristianesimo poneva l’uomo dominatore da una parte e la natura soggiogata dall’altra), ed era propria, tra l’altro, della filosofia greca che collocava l’uomo, soggetto pensante e sensibile, all’esterno di una natura oggettivata e subalterna. Solo nel pensiero orientale sarà possibile discernere, almeno in parte, una filosofia vitale non antropocentrica e quindi mancante del dualismo. Nell’occidente si esalta l’io a danno del tutto, in oriente si esalta il tutto a danno dell’io.”Il controllo della natura è una frase piena di presunzione, nata in un periodo della biologia e della filosofia che potremmo definire l’Età di Neanderthal, quando ancora si riteneva che la natura esistesse per l’esclusivo vantaggio dell’uomo” (Carson, 1963). La filosofia di vita della maggior parte degli indiani d’America è un altro vivido esempio di globalità e di assoluta assenza di dualismo. “E’ una cultura del rispetto per la natura, per tutte le forme in cui si manifesta; una visione del mondo come globalità, scambio continuo e reciproca dipendenza; una concezione della vita come partecipazione incessante alla creazione” (Kaiser, 1992). Citando ancora Kaiser si evidenzia che “Il dualismo divide l’uomo dalla natura, separandolo così da se stesso, in quanto anch’egli è natura......Una concezione dualistica della relazione dell’uomo con il suo prossimo implica che l’individuo si senta innanzi tutto separato dall’altro, contrapposto a lui......Il pensiero dualistico divisore vede l’uomo come opposto alla natura, per cui l’uomo sarebbe chiamato a dominare sulla natura, sottomettendola al proprio volere. La natura non ha alcuna rilevanza etica e l’uomo non ha quindi nessuna responsabilità morale nei suoi confronti....Sotto questo aspetto, il pensiero indiano tradizionale ruota intorno ai concetti di una grande famiglia cosmica e della solidarietà col tutto....”.

Occorre tuttavia evidenziare la differenza che intercorre con il concetto di dualità. Scrive a tal proposito Kaiser (1992): “Nella nostra riflessione è necessario distinguere nettamente la ‘dualità’ dal dualismo. La confusione tra questi due concetti, che possiamo rilevare assai spesso, impedisce, infatti, una chiara differenziazione tra il dualismo occidentale e il modo di pensare, in termini di equilibrio, tipico delle culture asiatiche e degli indiani d’America.

L’idea del bilanciamento, dell’equilibrio, della compensazione, che contraddistingue l’interpretazione indiana del mondo, si basa interamente sul concetto di ‘dualità’. Abbiamo accennato alla dualità uomo-donna, ma è la realtà intera a essere ordinata sulla base di quel concetto: giorno-notte; estate-inverno; terra-cielo; attrazione repulsione; amore-odio; gioia-tristezza.......

Nell’idea di equilibrio è fondamentale considerare la dualità non come formata da realtà opposte, di valore diverso, dominate dalla discordia, ma da realtà di pari valore, esistenti in un rapporto complementare e che pertanto si integrano a vicenda. Il vero motore del mondo è quindi il desiderio delle contrapposizioni di riunirsi e riconciliarsi. E’ importante, inoltre, non intensificare o protrarre all’infinito le divisioni e le dissonanze all’interno delle dualità, perché altrimenti esse si trasformano in dualismi. Il dualismo, infatti, è indice di una dualità intesa antagonisticamente e non in modo complementare........

La fisica moderna, pertanto, interpreta determinate contraddizioni non più come realtà che si escludono a vicenda, ma come aspetti diversi di un’unica realtà”.

Si ricorda quindi che la compenetrazione degli opposti pur nella diversità genera sempre unità all’interno della dialettica della natura a patto che la visione del mondo sia unificatoria e centripeta.

Il “valore in sé o intrinseco” della natura (noumeno naturale), è l’espressione più alta del pensiero. Affermare quindi che la sostanza naturale (nel senso generale del termine) debba essere conservata e rispettata per il suo valore in sé, senza nessuna nostra mediazione o intuizione, è la massima elevazione concettuale di conservazione che possa essere formulata. Ogni azione deve sempre essere fine a se stessa senza attribuirgli un valore positivo o negativo in relazione alle eventuali conseguenze che genera.

Al contrario, nella comune speculazione mentale della conoscenza, ci si riferisce “sempre” a concetti “rispetto a noi”. Infatti si stimolano interventi solo se portano  “guadagni” materiali o spirituali o in ogni caso utilitaristici. Traducendo, avremo: proteggiamo un bosco secolare affinché nella presente e nelle future generazioni l’uomo possa goderne materialmente e spiritualmente.

Ecco, invece, un concetto superiore: “La natura deve essere conservata e rispettata per il suo valore in sé, non per un nostro interesse materiale o spirituale che sia”.

Un fenomeno naturale ha la sua massima valenza in sé stesso, e si manifesta indipendentemente dalla conoscenza e dalla mediazione sensibile. E’ fondamentale comprendere che un “luogo” ha qualcosa in sé che noi non possiamo e non dobbiamo cercare di interpretare. Solo in tal guisa riusciremo a dare al mondo naturale quel giusto valore che gli appartiene. Un tempo lo spirito umano aveva in se stesso, nell’inconscio, questo concetto, come lo possiede un lupo selvaggio o un orso delle foreste, ma il distacco traumatico dalla natura ce ne ha privato. Ogni essere ha in fondo una propria “visione” della vita e inconsapevolmente pone se stesso (soprattutto come individuo) al “centro” della realtà. Ma questa centralità è solo apparente, utile alle esigenze della sopravvivenza del momento. L’uomo invece trasforma quella centralità in una subordinazione totale di tutta la realtà esterna da lui, facendo prevalere unicamente i diritti universali e assoluti della propria specie. Il tutto con il massimo della consapevolezza. 

Quando si “studia” un fenomeno naturale è impossibile conoscerlo senza essere influenzati dalle speculazioni personali di chi opera tale indagine. La pretesa della scienza occidentale di capire asetticamente gli “oggetti” della natura senza considerare l’apporto del soggetto, è una pura illusione cartesiana. J. Wheeler, fisico della Princeton University ci ricorda che “non c’è nessuna legge tranne la legge che non c’è nessuna legge”.

Se, come abbiamo visto, l’uomo è stato in passato membro a tutti gli effetti della wilderness del mondo, progressivamente è diventato l’unico soggetto, è uscito dal palcoscenico della natura, ha falsificato la verità, e ha condizionato verso i suoi subdoli interessi quasi tutti gli elementi della natura.

Dinanzi a questa profonda dialettica così articolata e ricca di variabili, nasce la necessità, all’interno dello stesso pensiero umano, di invertire lo stato delle cose, mentali e materiali, per ricondizionare l’uomo ad una “equilibrata e giusta” dimensione. Questa “giusta” dimensione, era propria, come accennato, nei popoli selvaggi o in coloro che vivevano in ogni caso in “essenza” con la natura.

Se l’uomo rimaneva in connessione con il mondo selvaggio, come elemento indistinto nell’ordinato ed imprevedibile caos naturale, non sollevava nessun problema di distruzione e di invadenza e, quindi, conseguentemente, di tutela, di rispetto o di conservazione della natura. Ma la sua ribellione alla verità naturale lo ha portato ad estinguere dentro se il senso dell’armonia e della purezza originaria, trasformandolo in un vorace essere accecato dalla propria affermazione e dal proprio egocentrismo. Ecco, dunque, che l’essenziale diventa superfluo e il vacuo diventa essenziale. Avviene il distacco totale dalla natura, avviene la sopraffazione verso le cose e l’annientamento del mondo esterno da sé. L’uomo si considera allora il centro di tutto e il solo metro delle cose. “La Natura può aver destinato la terra fertile anche ad altri scopi che al nutrimento degli esseri umani”. (J. Muir).

Il pensiero conservazionistico, visto nella sua globalità, ha spesso ignorato il concetto del “noumeno” nel proporre una nuova impostazione mentale verso la natura, ribadendo invece ancora una volta la centralità dell’uomo come fine ultimo della protezione (etiche antropocentriche). Solo le etiche ecocentriche hanno introdotto questo nuovo paradigma sia in forma di valore intrinseco non utilitaristico che transpersonale (deep ecology). Molto importante è invece quello che si ravvisa nel “concetto di wilderness”, nel quale viene dato molto rilievo alla preservazione di un territorio per il suo valore in sé e non utilitaristico, diffondendo proficuamente questi principii, compiendo passi fondamentali in direzione di una nuova e reale filosofia della conservazione.

L’ecologia superficiale, esclusivamente antropocentrica, è nettamente incline verso una valutazione utilitaristica della natura (la natura rimane strumento, risorsa al servizio dell’uomo - Naess, 1994). L’ecologia profonda, invece, tende ad attribuire un valore intrinseco alle cose della natura (viventi e non) universalizzando il senso di identificazione.

Andare oltre il valore intrinseco della natura, significa perdersi in speculazioni conservazionistiche che si allontanano dall’assunto di questo valore e si snaturano in un profitto soggettivo ed egocentrico. Il passo successivo, ma già contenuto nel noumeno, è quello di riconnettersi con l’uno naturale valicando e disperdendo la weltanschauung dualistica della vita. Occorre dimensionarsi al di sopra delle parti e della mente soggettiva. Ciò non vuol dire che l’io personale debba essere sopraffatto, ma al contrario deve praticare una vera e propria rivoluzione soggettiva per confluire nell’infinito mare dell’impersonale.

“Sarebbe una grave ingiustizia liquidare il pensiero utopico come pura fantasia, immaginaria e irrealizzabile; relegarlo alla letteratura definita utopistica significa sottovalutare la sua ampia diffusione a molti livelli in tutte le culture. In qualsiasi modo venga espresso, il pensiero utopico è essenzialmente una critica dei difetti e dei limiti della società ed espressione di qualcosa di migliore” (P. Sears, 1965 in Devall e Sessions 1989).

Non è possibile prescindere dalla wilderness e, aggiungo, ancor più dal suo valore in sé. Chi recepisce il valore intrinseco delle cose, avrà una visione totalizzante della vita che sarà nuova e profonda (nel lavoro sarà onesto, nell’amicizia sarà sincero, nell’amore sarà leale, nel respiro sarà profondo, con il prossimo sarà gentile, e così via).

Giustamente Aldo Leopold asseriva che i problemi ambientali sono fondamentalmente di matrice filosofica, nella quale va ricercata la soluzione di un nuovo rapporto con la natura (Hargrove, 1990).

“Abbiamo cercato di metterci in relazione con il mondo intorno a noi soltanto attraverso il lato sinistro della nostra mente, e stiamo chiaramente fallendo. Se intendiamo ristabilire un rapporto vivibile, ci sarà necessario riconoscere la saggezza della natura, consapevoli che il rapporto con la terra e il mondo naturale richiedeva l’intero essere” (Dolores LaChapelle in Devall & Sessions, 1989).

Disse John Muir: “Ero uscito solo per fare una passeggiata ma alla fine decisi di restare fuori fino al tramonto: perché mi resi conto che l’andar fuori era, in realtà, un andar dentro”.


“Dichiaro di capire

cosa c’è di meglio

che dire il meglio.

E lasciare sempre il meglio inespresso. (W. Whitman, A Song on the Rolling Earth)



La filosofia della conservazione



"Quando avrete inquinato l'ultimo fiume, catturato l'ultimo pesce, tagliato l'ultimo albero, capirete, solo allora, che non potrete mangiare il vostro denaro" (profezia degli indiani Cree). 

La materia che concerne la conservazione della natura può essere definita una vera e propria scienza filosofica che ha stretti  legami con l’ecologia. Occorre però avvertire che, quantunque un siffatto legame appaia intrinseco, sarebbe erroneo considerare la conservazione della natura un’esigenza che si esaurisce nella pura sfera scientifica, poiché essa ha una connotazione ben più ampia che spazia dalle implicazioni etiche a quelle sociali e politiche. D’altra parte una tale puntualizzazione giova anche all’ecologia in sé stessa, che, operando già in una sfera tanto vasta, non può sopportare altre sovrapposizioni. 

La scienza ecologica offre senza dubbio le basi alla conservazione dell’ambiente, ma questa dovrà poi percorrere una propria strada che è irta di ostacoli spesso difficilmente superabili. Infatti, la protezione della natura, entrando inevitabilmente in conflitto con le attività umane che turbano l’equilibrio dell’ecosistema, trova spesso una opposizione totalizzante e tenace, come sa esserlo solo quella connessa a interessi economici.

Il degrado ambientale è arrivato a sì alto livello che a volte l’animo del naturalista ne rimane sopraffatto al punto da non essere più in grado di appellarsi al rigore mentale, senza il quale non può impostare le direttive per la soluzione dei problemi. Accade invece altre volte che il naturalista abbia la ventura di portare i propri passi in zone, sempre più rare, non ancora ferite dal degrado, e allora l’incessante dialogare della natura lo affascina, ora con l’apparire delle tenui luci del sottobosco, ora con il bagliore di grandi distese di ghiaccio, ora col nitido stagliarsi di vette immacolate, ora col rosseggiare della faggeta in autunno.

“Una foresta ininterrotta si stende da tutte le parti della capanna in cui scrivo, fluisce innanzi, in un cupo fiotto ondeggiante, verso settentrione, fino all’Oceano Artico. Nessuna ferrovia la traversa, per bruciare e distruggere, nessun colonizzatore la rovina col fuoco e con l’ascia. Da ogni eminenza, si possono contemplare leghe innumerevoli di Foresta, che non nutrirà mai le fauci affamate del commercio.

Questo è un posto differente, è un’altra giornata.

In nessun luogo qui la vista delle ceppaie e delle nobili vette abbattute offende l’occhio o rattrista lo spirito; né la bellezza strana, selvaggia, inimmaginabile di questi tramonti nordici è sfigurata da filari e filari di alberi scheletrici ed orrendi......... Ritorno alle origini? Forse sì; ma ci hanno portato fortuna.

Tutti i sogni sono diventati veri, e anche più. Scomparsa è la paura assillante di una mano vandalica. La vita selvatica in tutte le sue numerose varietà, animali ritenuti timidi ed elusivi ci passano ora quasi a portata di mano, e a volte si fermano presso la capanna, ed osservano. Ed uccelli, e bestie minute e grosse, e creature piccole e grandi, si sono raccolti qui intorno, e frequentano il posto, e volano e nuotano o camminano corrono secondo la loro natura.

Piomba la Morte, come deve pure talvolta, e sorge la Vita al suo posto. La natura vive e procede e fluisce tutto intorno nel suo assetto armonioso e metodico.

Le cicatrici degli antichi incendi pian piano scompaiono; gli alti alberi diventano ancora più grandi. Si riaffollano le città dei castori. Il ciclo continua.... “. WA-SHA-QUON-ASIN (Grey Owl, 1940)

A questo punto un interrogativo si fa pressante: la civiltà potrà avere un avvenire? La risposta parrebbe essere negativa, perché l’uomo è ormai prigioniero di un modello di sviluppo che comporta irreparabili squilibri ambientali ed è, per di più, protagonista di una paurosa esplosione demografica che gli ha fatto quasi raggiungere il potenziale biotico  massimo che può essere attinto alla natura dalla specie umana. A ciò si aggiunge che una gran parte della popolazione del pianeta conduce un tenore di vita che comporta l’uso di una quantità enorme di energia nonché il consumo di preziosi metalli che si avviano al totale esaurimento.

In verità, gli interventi umani sul territorio sono devastanti e non risparmiano nessun elemento dell’ambiente naturale: l’acqua, l’aria, la flora, la fauna, l’assetto della cosiddetta materia inerte, ecc. L’uomo sfrutta la natura in mille modi, quasi sempre per il volgare ed inutile accumulo delle ricchezze e del potere. Ciò che una volta, nel piccolo e nell’episodico, poteva essere sostenibile (p.e. la caccia sportiva, il prelievo di risorse non rinnovabili, la pesca, l’emissione di sostanze relativamente inquinanti, ecc.), anche perché molte attività venivano adeguatamente filtrate e degradate dai sistemi naturali (per esempio l’autodepurazione dei fiumi o dei piccoli mari),  ora, con i mezzi tecnologici, con l’eccessivo uso delle “cose” e con il dramma della sovrappopolazione, molte attività umane non lo sono più e ciascuna di esse esercita un forte impatto sull’economia della natura. Se una o due persone persone raccolgono un fiore in un prato, il prato non ne risente affatto, ma se quella operazione viene svolta da migliaia di persone il prato perderà tutti i fiori che possiede. Questo deve far riflettere sulle continue pretese che l’uomo contemporaneo accampa continuamente anche in riferimento ad attività dei tempi andati. Si ricorda inoltre che anche nel passato, fenomeni sistematici e capillari, anche se esercitati con mezzi ridotti e da una popolazione meno esigente, hanno prodotto risultati deleteri per la natura (si pensi al massiccio disboscamento della Gran Bretagna, all’estinzione del lupo nell’arco alpino, alla scomparsa della popolazione Maia o a quella dll’isola di Pasqua). Un altro esempio ci viene offerto dal fenomeno del turismo di massa. Favorire al giorno di oggi la frequentazione turistica di luoghi naturali, vuol significare alterare completamente quei territori. Per esempio, gli ultimi luoghi abitati dall’orso bruno in territorio italiano (Abruzzo e Trentino), dovrebbero essere gelosamente tutelati dalla perniciosa presenza massiva delle persone, altrimenti nel volgere di un brevissimo tempo il plantigrado resterà un lontano ricordo della fauna autoctona.   

Dinanzi ad un siffatto degrado la difesa dell’ambiente deve divenire un obiettivo primario e globale. “La visione dell’uomo ‘signore del creato’, in pieno diritto di distruggere o alterare tutto, è dura a morire. Certe culture, più di altre, hanno manifestato addirittura una profonda ostilità verso qualsiasi cosa naturale: questo spiega perché in alcuni paesi industrializzati la degradazione e l’alterazione dell’ambiente siano maggiori che in altri” (Storer et al., 1984).

Ma occorre comunque considerare che i problemi ambientali sono a tal punto complessi che ipotizzare una loro soluzione all’interno di un solo Paese significa consumarsi in uno sforzo velleitario, giacché il degrado è, per così dire, ecumenico e non s’arresta davvero innanzi alle barriere doganali. Infatti è necessario osservare che il degrado non è uniformemente distribuito sul pianeta, in quanto esso presenta una distribuzione che potremmo definire a “macchia di leopardo”; sarebbe comunque una fallace speranza quella che intendesse ricostituire l’equilibrio ecologico generale mediante provvedimenti che curino le “macchie” caso per caso, poiché occorre al contrario che l’influenza negativa esercitata dalle attività umane sull’equilibrio ambientale venga drasticamente ridotta dappertutto. “Gli uomini devono trovare la soluzione ai problemi attuali in un contesto universale” (Dorst, 1990).

Occorre poi sgombrare il campo degli studi naturalistici o del pensiero comune da una pregiudiziale che è di un tale rilievo da assumere il valore di una contraddizione in termini, poiché tale è appunto la pretesa di chi si ostina a considerare il problema ambientale esclusivamente in funzione dell’uomo. L’uomo è una parte, un tassello dell’ecosistema, non è l’ombelico della natura, perciò cade in un grave errore chi subordina la salvaguardia dell’ambiente al primato dell’uomo, cade in grave errore chi dice, ad esempio, “ se continua la distruzione delle foreste il danno si ripercuoterà sull’uomo”...” se si continua ad avvelenare i campi anche l’uomo ne resterà avvelenato”. C’è insomma il rischio che nei nostri discorsi si ripresenti ognora il nostro inveterato antropocentrismo, tutto e sempre per l’uomo. Occorre ribaltare una siffatta concezione per porre al centro di tutto gli interessi globali della vita e non, sulla Terra (ecocentrismo). La regola deve tendere a salvare un bosco secolare non per l’uomo, ma per il bosco stesso; alla fine anche l’uomo se ne avvantaggerà, ma sarà un riflesso, non lo scopo di quel salvataggio. Dobbiamo invertire il pensiero di salvaguardare una “valle selvaggia” per poter poi provare emozioni e profonde sensazioni dinanzi a quello scenario naturale incontaminato. La “valle selvaggia” va mantenuta tale per se stessa, per il suo essere libero, poi se il nostro spirito ne troverà giovamento sarà solo una eventuale positiva conseguenza e non la molla che ci ha spinto ad operare per il mantenimento di quello status incontaminato. Sono andato alla fine della terra, sono andato alla fine delle acque, sono andato alla fine del cielo, sono andato alla fine delle montagne, non ho trovato nessuno che non fosse mio amico. (Canto per il Dio della Piccola Guerra, Navajo - in AA. VV., 1995). Il valore in sé delle cose indipendentemente da noi e da tutto è il pensiero più elevato che la mente umana possa concepire. E’ anche possibile giustificare l’antropocentrismo come “istinto” della specie umana per una efficace autoconservazione. In fondo ogni specie è un po’ “egocentrica” verso se stessa per sopravvivere nella natura. Ma negli altri esseri viventi l’egocentrismo porta in genere ad un indubbio vantaggio per la specie e un ancor più grande vantaggio per la natura tutta. L’egocentrismo umano invece porta distruzione e morte sia nell’uomo stesso che in tutto il mondo naturale. Tra l’altro gli atteggiamenti degli altri viventi non sono affatto premeditati e consapevoli delle conseguenze, mentre l’uomo è pienamente cosciente dei propri abusi, della propria superbia e delle proprie distruzioni e prevaricazioni. Una bella differenza dunque tra le due forme di egocentrismo! Scrive Santayana (1944): “Un californiano che ho recentemente avuto il piacere di conoscere mi diceva che se i filosofi vivessero tra i suoi monti, i loro sistemi sarebbero diversi da quello che sono i sistemi che la tradizione europea della buona creanza ci ha tramandati dai tempi di Socrate, perché questi sistemi erano egoistici; direttamente o indirettamente erano antropocentrici, e ispirati dalla fatua nozione che l’uomo o l’umana ragione, o l’umana distinzione tra il bene e il male, siano il centro e il perno dell’universo. Questo è ciò che i monti e le foreste dovrebbero farvi vergognare d’asserire”. Santayana con questo suo discorso presentato nel 1911 a Berkeley è stato uno dei pochi filosofi occidentali a sferrare un significativo attacco all’antropocentrismo e alla visione egocentroca del cristianesimo. Infatti “rappresentò una svolta storica nello sviluppo dell’indagine contemporanea su una visione del mondo alternativa e un’etica ambientale non soggettivistiche, antropocentriche ed essenzialmente materialiste.

Nel suo discorso Santayana affermava che acquisire consapevolezza ecologica per mezzo di un contatto profondo con la natura ci avrebbe aiutato ad abbandonare la zavorra del nostro sciovinismo umano” (Devall & Sessions, 1989). Gli aspetti di una siffatta esiziale commistione di ruoli sono focalizzati con grande chiarezza da Franco Zunino (fondatore dell'Associazione Italiana per la Wilderness) quando dice che ".... L'uomo deve rispettare la natura per il suo valore in sè, e deve sapersi tirare indietro non appena la sua presenza vi incide negativamente, non trovare cavilli e rimedi provvisori per giustificare la necessità o, peggio, il 'diritto' della sua presenza". Scrive poi Pavan (1988): “...stiamo traversando una fase di confusione dell’uomo, dei suoi valori morali, dei suoi diritti e doveri, del suo ruolo e delle prospettive; siamo in una fase di scoperta degli errori che abbiamo fatto e stiamo facendo, ma abbiamo ancora la facoltà di corregerci.” 

Occorre domandarci: siamo realmente in grado di corregerci ? I dubbi sono tanti, troppi. Le nostre azioni distruttive sono molteplici e quasi mai si comprendono appieno le implicazioni connesse agli interventi che turbano l’equilibrio naturale: se, ad esempio, l’uccisione di un orso da parte di un bracconiere costituisce una drammatica ferita all’ambiente, una turbativa ancora maggiore è insita in quegli atti che, nel modificare l’ambiente in sé stesso, determina, col tempo, la scomparsa di tutti gli orsi nel territorio. Scrive Thoreau “Se vogliamo proteggere gli animali selvatici dobbiamo garantire loro una foresta in cui possano vivere e a cui possano far ricorso”.

Queste considerazioni sull’orso bruno ci portano a riflettere ancora sull’interconnessione dei problemi ambientali. In natura non esistono fenomeni vitali che esauriscono in sé stessi la ragione di essere; tutti i fenomeni sono concatenati tra loro, un po’ come accade per le singole scansioni musicali di una sinfonia. Tenuto fermo tale principio, è del tutto intuitivo che in un siffatto concerto naturale l’assetto territoriale eserciti un’incidenza che sovrasta gli altri fattori, a simiglianza di quanto accade col “leit-motiv” di un testo musicale. L’esempio sul quale ci siamo poc’anzi intrattenuti, ipotizzando la scomparsa dell’orso bruno in seguito al sovvertimento del suo “habitat”, trova un riscontro, portando a paragone un altro esempio, nella scomparsa dell’Aquila di mare da alcune zone del suo areale anche in seguito alla distruzione del proprio “habitat” rappresentato dalle coste marine che l’attività antropica ha profondamente modificato ed inquinato. Occorre tra l’altro puntualizzare che la conservazione di un territorio (valle, grotta, costa marina, ecc.) deve essere sempre paritetica alla conservazione di una specie animale o vegetale anche se un dato ambiente è di minime dimensioni (distruggere un territorio perché piccolo è come uccidere gli ultimi orsi del trentino ritenendo inutile la loro sopravvivenza in quanto ormai troppo pochi). Anzi, spesso, la salvaguardia dei “luoghi” è un atto ancora più importante. Le ultime aree selvagge hanno una grande importanza in quanto complessi integri o unitari e rari come tali; conservandoli salvaguarderemo anche i loro “capitali” di specie animali e vegetali salvaguarderemo il paesaggio, l’ambiente, l’intera struttura: tutto questo in un unico atto di azione. Animali e piante infatti sono solo una parte di un territorio, sia pur saliente ed inalienabile. “Un fiore senza giardino è condannato a morte anche se trova sopravvivenza nel limitato spazio di un vaso grazie alla seminazione artificiale” (F. Zunino).

Scrive ancora Pavan (1967): “ La natura è costituita da innumerevoli fattori legati fra di loro da fini, azioni e reazioni che costituiscono un equilibrio dinamico in continuo spostamento: l’uomo si getta a capofitto in azioni di disturbo, di alterazioni, e provoca profonde modificazioni e rotture di equilibri di cui raramente si preoccupa di prevedere l’evoluzione e il destino........Lo sviluppo storico dell’umanità, presa nel suo insieme, è avvenuto in modo molto disarmonico e così procede tuttora, mantenendo molti squilibri, talora aggravandoli e creandone nuovi.”

In natura ogni specie svolge la propria parte all’interno di un processo dialettico che tende al conseguimento di uno stato di equilibrio; questo non è ovviamente perenne, ed ha in sé stesso la capacità di assestarsi sui parametri che via via si presenteranno. E' da notare che ogni singola specificità biologica, allorché entra nel processo dialettico che determinerà poi il punto di equilibrio dell’ecosistema, assume un proprio assetto unitario. In teoria anche l’uomo dovrebbe partecipare al processo dialettico a parità di diritto con le altre specie, sia animali che vegetali, ma ciò in realtà non accade perché l’uomo, a causa del suo sviluppo intellettivo è, tra l’altro, in grado di modificare e stravolgere l’assetto della cosiddetta materia inerte mediante opere gigantesche, come - ad esempio - le dighe che sbarrano i fiumi, le autostrade lunghe migliaia di chilometri, il prosciugamento dei laghi, la costruzione di nuove città; a ciò si aggiunga che, forte della sua sofisticata tecnologia, l’uomo ha la possibilità di sterminare, nel volgere di un breve arco di tempo, qualsiasi altra forma vivente. Su tali problemi si intrattengono Galiano & Marchino (1990), che annotano “...il grande ‘peccato’ dell’uomo occidentale è di essersi staccato dalla natura, dal suo ambiente. Per lui il sole, la luna, le stelle, i fiori, le piante, gli animali, non sono più né ‘sorelle’ né ‘fratelli’. Dal cosmocentrismo è passato al teocentrismo ed è finito nell’antropocentrismo. La conseguenza ‘perversa’ è stata chiara: se l’uomo è centro di tutto, egli allora diventa despota, può imporre senza remora le sue leggi, può esercitare violenza sulla natura e oppressione sui fratelli. Ma la natura espropriata e manipolata manifesta tutti gli effetti boomerang di un tale intervento”. Con queste considerazioni G. Galiano e M. Marchino focalizzano icasticamente la dimensione dell’uomo di oggi che sembra drammaticamente vocato all’autodistruzione.

Il progresso rappresenta, secondo il Rousseau, qualcosa di esteriore rispetto all’uomo, qualcosa che non tocca ciò che v’è di più intimo nel nostro essere, cioè l’istinto naturale (Geymonat, 1971). Se poi il pensatore ginevrino sembra cadere nel paradosso quando proclama la superiorità della vita primitiva rispetto a quella realizzata dai popoli cosiddetti “civili”, è pur vero che uno degli aspetti più significativi della crisi dell’uomo moderno è proprio il suo distacco dalla natura. Ed è stato un distacco particolarmente cruento quello verificatosi negli anni che segnano l’inizio della rivoluzione industriale, quando il saccheggio dell’ambiente assunse una capacità distruttiva fino ad allora inimmaginabile. “L’umanità è un cancro nell’universo della vita” (David Foreman). L’uomo occidentale è infatti un vero e proprio “cancro” nell’organismo natura e, a similitudine delle cellule maligne, porta solo morte e distruzione.“La conservazione dell’ambiente manca il suo obiettivo perché è incompatibile con il concetto di terra che ci è stato tramandato dai tempi di Abramo: noi violentiamo la terra perché la consideriamo un articolo che ci appartiene. Solo quando la vediamo come una casa comune, a cui apparteniamo, possiamo cominciare a servircene con amore e rispetto” (Leopold, 1949-1997).

La necessità di trattare la questione ambientale prevalentemente dal punto di vista etico/filosofico, è mossa dalla constatazione che nell’occidente tutta la speculazione filosofica è stata praticamente priva, dalle origini ai giorni nostri, di argomentazioni sostanziali sulla materia (gli esempi sono pochi: J. Muir, A. Leopold, H.D. Thoreau, ecc.). Scrive infatti Hargrove (1990): “Nonostante i molti risultati monumentali della filosofia, essa non è mai riuscita, in tutto l’Occidente, a fornire una base per il pensiero ambientale. Questo insuccesso coinvolge tutte le branche maggiori: metafisica, epistemologia, etica, filosofia sociale e politica, filosofia della scienza e, naturalmente, estetica......

L’etica ambientale rappresenta per la filosofia l’occasione per correggere il suo maggiore errore, il rifiuto del mondo naturale qual è sperimentato concretamente nella vita reale......

Ci auguriamo che i preservazionisti e i conservazionisti della natura dell’inizio del prossimo secolo dispongano di teorie filosofiche migliori fra cui operare una scelta.....”. 

La mancanza di questa base filosofica ha senz’altro determinato tutti i sostanziali atteggiamenti negativi che l’uomo ha sviluppato nella sua visione del mondo (andropocentrismo, dualismo, ecc.). Ne sono testimonianza le ottuse speculazioni religiose scissionistiche e prevaricatrici proprie dell’Occidente o il rigido meccanicismo del razionalismo cartesiano. Scrisse A. Leopold (1949-1997): “Non esiste tuttora un’etica che consideri il rapporto dell’uomo con la terra, e con gli animali e le piante che crescono su di essa. Proprio come le schiave di Ulisse, la terra è considerata ancora una proprietà. Il rapporto con la terra è tuttora strettamente economico e prevede diritti ma non doveri.....

In breve, un’etica terrestre modifica il ruolo dell’Homo sapiens da conquistatore della terra a semplice membro e cittadino della sua comunità. Implica rispetto per gli altri membri e per la stessa comunità, in quanto tale”. 

Integra molto bene il discorso Capra quando scrive (1997): “Tutti gli esseri viventi sono membri di comunità ecologiche legate l’una all’altra in una rete di rapporti di interdipendenza. Quando questa percezione ecologica profonda diventa parte della nostra consapevolezza di ogni giorno, emerge un sistema etico radicalmente nuovo.

Oggi la necessità di una tale etica ecologica profonda è urgente, soprattutto nella scienza, dato che gran parte di ciò che fanno gli scienziati non serve a promuovere la vita né a preservarla, ma a distruggerla. Con i fisici che progettano sistemi di armamenti che minacciano di cancellare la vita sul pianeta, con i chimici che contaminano l’ambiente mondiale, con i biologi che mettono in circolazione tipi nuovi e sconosciuti di microrganismi senza poter prevederne le conseguenze, con gli psicologici e altri scienziati che torturano animali nel nome del progresso scientifico, con tutte queste attività che continuano, appare urgentissimo introdurre nella scienza delle norme di ‘eco-etica’”.

Vittorio Hosle nella sua interessante opera “Filosofia della crisi ecologica” (1992) evidenzia l’importanza che assume il pensiero etico/filosofico per una nuova responsabilità collettiva verso la natura. “Le catastrofi ecologiche sono la sciagura che incombe su di noi in un futuro non più lontano; nonostante tutti gli sforzi collettivi per rimuovere tale prospettiva, nonostante tutte le strategie sviluppate per rassicurarci e tranquillizzarci, nel frattempo questa convinzione si è consolidata nelle coscienze della maggior parte delle persone e costituisce il cupo sottofondo del senso della vita per la giovane generazione dei paesi sviluppati. Da un lato la prassi di coltivare questo sentimento ha in sé qualcosa di ripugnante, in quanto è fin troppo facile che essa porti alla rassegnazione e all’apatia, o addirittura, cosa ancor peggiore, che induca le masse a un edonismo frenetico e gli intellettuali a un cinismo morboso che si rassegna a ciò che sembra inevitabile e che desidera soltanto sorbire le ultime gocce dal calice del mondo, prima di mandarlo in frantumi. D’altro canto però questo pericolo non può servire a giustificare la rimozione e quindi l’imperterrita, folle corsa suicida verso l’abisso: ciò vale per ognuno di noi, e innanzitutto per la filosofia. Questa infatti mal si concilia con le rimozioni perché la filosofia si occupa della verità, e precisamente non di questo o quel singolo momento di essa, ma della verità che concerna la totalità dell’essere...... La filosofia non può restare indifferente di fronte al suo destino. Nessuno dei grandi filosofi si è sottratto alle emergenze del proprio tempo......; quindi nel momento in cui è in gioco non solo il destino del proprio popolo, ma anche quello dell’umanità e di gran parte della natura inanimata, essere indifferente significa tradire la causa della filosofia......

Come è arrivato l’uomo a minacciare il proprio pianeta nel modo che oggi stiamo sperimentando? E di fronte a questa situazione ha ancora senso  l’idea del progresso? .........  Non è sufficiente riconoscere il pericolo in cui ci si trova quando, nel mezzo di un lago gelato, il ghiaccio scricchiola sotto i nostri piedi; bisogna cercare delle scappatoie per sfuggire al pericolo. E anche se tutt’intorno siamo avvolti dalla nebbia, la filosofia può comunque sperare di scorgere la spiaggia di salvezza grazie alla luce che irradia; può forse indicare la direzione nella quale è necessario procedere..... “.

Kaiser (1992) mette bene a fuoco gli aspetti estremamente negativi della visione dualistica della vita in quattro relazioni fondamentali (Io-Sé; Io-Tu; Io-mondo; Io-Dio). Scrive infatti: “(Io-Sé) Il dualismo divide l’uomo dalla natura, separandolo così da se stesso, in quanto anch’egli è natura. Frutto di questa scissione l’esperienza di una profonda contraddizione, di una lacerazione interiore, è la sensazione di non essere uno con se stesso, di non vivere in armonia con la propria persona - (Io-Tu) Una concezione dualistica della relazione dell’uomo con il suo prossimo implica che l’individuo si senta innanzi tutto separato dall’altro, contrapposto a lui. Ne sono un eloquente esempio le tendenze polarizzatrici nella vita politica e sociale - (Io-mondo) Il pensiero dualistico divisore vede l’uomo come opposto alla natura, in quanto sostanzialmente diverso da essa. Anche qui solo un passo ci separa dalle conseguenze dell’imperialismo, per cui l’uomo sarebbe chiamato a dominare sulla natura, sottomettendola al proprio volere - (Io-Dio) Nella relazione dell’uomo con il divino, il dualismo porta al concetto di un Dio personale e trascendente (e pertanto teistico), separato nettamente dall’uomo e dal mondo. Dio è ‘totalmente altro’, non confrontabile con alcuna cosa terrena. Conseguenza di questa concezione dualistica di Dio è la dissacrazione del mondo.... che sta alla base dell’imperialismo cosmico...”.

Scrive G. Snyder (1992): “La società americana (come tutte le società) ha un proprio sistema di assunti sulla realtà che vengono dati per scontati. Continua a nutrire una fede in gran parte acritica nel concetto di progresso. E’ attaccata all’idea che possa esservi un’immacolata obiettività scientifica. E, ancora più importante, funziona in base all’illusione che ciascuno di noi sia come una specie di ‘conoscitore solitario’, una pura intelligenza sradicata, senza numerosi strati di contesti locali: l’illusione che ci sia un ‘sé’ e il ‘mondo’”.

Una filosofia della conservazione deve dunque ispirarsi ad una profonda visione unitaria della vita, dove i particolarismi divisori lascino il posto all’universalità e all’impersonale: “L’esame delle parti non porta mai alla comprensione del tutto” (Fukuoka, 2001). Solo così il valore in sé delle cose potrà essere acquisito gradatamente dal pensiero collettivo facendo leva, nella fase iniziale, sulle persone più sensibili e profonde che avendo compreso tale idea si impegnino a diffonderla.

“C’è solo una speranza di respingere la tirannica ambizione della civiltà di conquistare ogni luogo della terra. Questa speranza è l’organizzazione delle genti più sensibili ai valori dello spirito, affinché combattano per la libera continuità della natura selvaggia” (Robert Marshall).

“Non facendo nulla, non c’è nulla che non venga fatto” (Lao-Tze).


L’estetica ambientale



“Inquinamento, contaminazione, desolazione, sono parole che non sarebbero mai state create se l’uomo fosse vissuto secondo natura. Uccelli, insetti, orsi muoiono e si disfano in modo pulito e bello. (...) I boschi sono pieni di alberi morti e morenti, eppure la loro bellezza era necessaria per completare la bellezza della vita. (...) Ogni morte è bella!” (J. Muir, John of the Mountains, 1938 - tratto da Devall & Sessions, 1989). Mentre in passato le bellezze naturali erano viste solo come fenomeni estetici privi di contenuto, le concezioni della moderna estetica ambientale, oltre a valutare e riconoscere i vari aspetti della bellezza, premono preminentemente sulla protezione e conservazione della natura (D’Angelo, in Gamba & Martignitti, 1995). Ciò che viene maggiormente sentito è dunque il corretto rapporto tra uomo e ambiente e la vera tutela della natura. Al limite, le bellezze naturali vengono utilizzate per riaffermare argomenti a favore della loro conservazione (D’Angelo, in Gamba & Martignitti, 1995). E anche in questo caso possiamo sviluppare questo concetto sia in chiave egocentrica, cioè bellezze naturali valevoli solo se legate alla percezione sensoriale dell’uomo, e sia in chiave ecocentrica ovvero bellezze naturali dal proprio valore intrinseco. Hargrove (1990) scrive in proposito: “La bellezza è un carattere intrinseco e oggettivo dell’ente naturale (il quale quindi è bello per il solo fatto di esistere), dunque essa è svincolata dalla percezione da parte di un soggetto”.

La natura è considerata, a detta della scienza, come una specie di contenitore nel quale razionalmente è possibile discernere i vari elementi quantificandoli e ordinandoli secondo rigidi principi matematici e mentali (leggasi razionalismo cartesiano). Ne esce fuori una natura parcellizzata, controllata, asettica, dove ogni cosa è come deve essere. “La natura è un perpetuo caleidoscopio di mutamenti fecondi che si rifiuta ad ogni categorizzazione rigida. La mente può cogliere l’essenza di questo movimento, ma mai tutti i suoi dettagli” (Bookchin, 1995). 

Una visione olistica del mondo invece ci fa capire che la natura non è la somma di tutti i singoli elementi che la compongono né la somma delle relazioni tra i membri, ma certamente qualcosa di più. Theodore Roszak dice infatti che occorre essere consapevoli che il tutto è maggiore della somma delle parti. Il mondo naturale, allora, potrà essere visto con altrettanta validità e sicuramente con superiore spirito, anche attraverso le sensazioni, i profumi, le emozioni. Ne consegue che l’estetica ambientale invita ad un comportamento alternativo alla rigidità “professionale” della moderna scienza naturale. Un essere selvaggio conosce molto bene il proprio ambiente e riceve continue emozioni nel rapporto con esso: questa è la conoscenza naturale delle cose. Sviluppare dunque questo aspetto, cioè una conoscenza pratica fatta di esperienze e di sensazioni, è il migliore rapporto che possa istaurarsi per riconnettersi con la natura. Sentire il profumo del sottobosco dopo la pioggia, individuare la pista di un animale, osservare la dinamica dei processi geologici, saper pregustare l’imminenza di un temporale, saper accendere un fuoco con semplici mezzi o sapersela cavare in un ambiente selvaggio: questa è la principale conoscenza della storia naturale. Un lupo vive spontaneamente in unità profonda con il suo ambiente, ne conosce i “segreti”, e da esso percepisce continue sensazioni semplici. Probabilmente saranno diverse dalle nostre, come lo saranno da quelle di un orso o di un’aquila, ma in comune ci sono gli stessi due elementi: la conoscenza diretta e pratica del territorio e le sensazioni (paura, dolore, odore, smarrimento, gioia, ecc.).

La moderna scienza, prodotta dal pensiero umano, ha invece assunto un atteggiamento invadente, dominatore e aggressivo nei confronti della natura, riducendo quest’ultima a puro laboratorio esterno di asservimento e di distruzione (D’Angelo, in Gamba & Martignitti, 1995). Si riafferma il concetto dualistico (uomo, centro del mondo - natura, esterna e subordinata) e si postulano principi e corollari prevaricatori. A tale concezione si contrappone l’esperienza estetica. Scrive D’Angelo (in Gamba & Martignitti, 1995): “Di contro a questi atteggiamenti prevaricatori, l’esperienza estetica della natura offre un modello del rapporto non semplificatore e non invasivo, sia perché ci insegna a tenere conto di tutta la complessità della nostra interazione con l’ambiente, rivalutando la componente sensoriale della nostra esperienza, sia perché l’atteggiamento contemplativo proprio dell’esperienza estetica rappresenta l’antitesi della sottomissione violenta della natura compiuta dalla tecnica”.

Dinanzi all’attuale distruzione e invasione della natura, è impensabile proporre un’etica ambientale ricca di considerazioni utilitaristiche per l’uomo. Occorre invece definire un’etica che lo responsabilizzi e lo conduca verso una visione monistica e globale della vita per consentirgli la riconnessione con l’uno naturale. Per poter riconoscere i limiti e le dimensioni ridotte dell’uomo, essere paritario agli altri elementi del mondo naturale, è però necessario rinegoziare il valore delle cose. Ma, ad essere sinceri, un’etica così incisa di elementi non utilitaristici, troverà non pochi antagonisti nel corso della sua proposizione. Hargrove nella sua opera Fondamenti di etica ambientale (1990) annota: “Passiamo ora al problema finale, cioè all’affermazione che il bello naturale è inferiore al bello artistico, in quanto troppo estraneo per conformarsi ai criteri e ai gusti estetici dell’uomo. Questa posizione è stata sostenuta in ‘La nostra responsabilità per la natura’, dove Passmore afferma che la natura addomesticata è preferibile alla natura selvaggia, alla selvaticità, perché, dal punto di vista dell’uomo, è più gradevole e più intellegibile. L’uomo capisce la natura addomesticata perché ‘ha contribuito a crearla’. Per contro, continua Passmore, ‘l’uomo è in qualche modo alienato dalla natura selvaggia; essa è qualcosa di esterno a lui’.....

Questa concezione della natura ha elementi comuni, ad esempio, con la teoria di Locke della proprietà, per la quale la natura viene valorizzata dal lavoro dell’uomo. La natura così trasformata diventa proprietà, in quanto qualcosa di umano, il lavoro, è entrato a far parte della natura grezza e si è permanentemente unito a essa. Questa concezione della natura come qualcosa di incompleto e pressoché senza valore, che attende che l’uomo vi riversi struttura, ordine e valore, affiora anche negli scritti filosofici di Hegel, quando egli afferma che, poiché la natura non ha volontà propria, l’uomo ha diritto di usare la sua volontà d’impadronirsi di ogni e tutti gli oggetti naturali, facendoli suoi”. Ogni commento a queste disarmoniche argomentazioni sarebbe superfluo. Hargrove infatti nel paragrafo successivo ricorda che: “Dato che i nostri criteri estetici derivano dalla natura, è assurdo affermare che i criteri della natura sono troppo estranei per essere accettabili e intellegibili dall’uomo”. Integra il discorso Leopold (1949-1997): “Il turista a caccia di trofei ‘naturali’ ha delle peculiarità che contribuiscono in modo sottile al suo comportamento. Per soddisfarsi deve possedere, invadere, appropriarsi. Di conseguenza, i luoghi selvaggi che non può vedere personalmente non hanno per lui alcun valore. Da ciò deriva l’opinione comune che una terra inutilizzata non renda alcun servizio alla società. Per chi è privo di immaginazione un vuoto sulla carta geografica è un inutile spreco, per altri è la parte più preziosa”.

E poi ancora Hargrove (1990): “Secondo l’estetica positiva, la natura, nella misura in cui è naturale (cioè, non alterata dall’uomo), è bella e non ha qualità estetiche negative. Tale concezione ha trovato la sua espressione più famosa nella frase, continuamente citata nel diciannovesimo secolo, di John Constable, che affermò, ‘Non ho mai visto una cosa brutta in vita mia’. Secondo tale concezione, chiunque trovi il brutto in natura semplicemente non l’ha saputa percepire in modo giusto, non ha saputo trovare criteri appropriati in base ai quali giudicarla e apprezzarla esteticamente. L’estetica positiva è strettamente associata a un tipo specifico di argomento preservazionista, che sostiene il diritto della natura di esistere. Secondo quest’argomento, che generalmente è espresso in modo affatto inadeguato, tutto ciò che esiste ha diritto d’esistere semplicemente perché esiste…..”.

Scrive infine Franco Zunino (1980): “La natura selvaggia è un bisogno spirituale che ognuno di noi si porta dentro e che va dal semplice amore per il bello al preponderante bisogno di solitudine che sentono alcuni. E’ il senso di fastidio che proviamo in natura di fronte all’opera dell’uomo, anche quando quest’opera è minima o ha fini di conservazione o di studio. La natura selvaggia è acqua libera di scorrere, di erodere, di gonfiarsi e straripare; è la libertà di volare e di correre degli animali; sono gli orizzonti intatti di montagne o di piatte paludi; è l’immensità del cielo su un panorama d’erba; è il silenzio della natura e lo scrosciare d’acque nelle valli montane; l’urlo del temporale nella foresta; il sibilo della bufera e il boato pauroso della valanga; il lento volo dell’aquila che annulla lo spazio tra le montagne; è il gioco delle onde sulle scogliera. La natura selvaggia è girare attorno lo sguardo e non vedere segno d’uomo; è ascoltare e non udire rumori d’uomo”.



La longevità “apparente” e la sovrappopolazione



“La crescita perpetua è il credo della cellula cancerosa” (E. Abbey). Nella società contemporanea corre l’idea che l’uomo viva più a lungo e che le malattie siano sotto controllo. Nulla di più falso. Se, statistiche alla mano, constatiamo che oggi siamo più longevi rispetto al passato, dimentichiamo di considerare, nel contempo, alcuni parametri fondamentali. Una volta la vita reale che si svolgeva era “netta”, cioè si sviluppava per un certo numero di anni senza “aiuti” e “protezioni” esterne. Si viveva, in sostanza, secondo l’influenza dell’ambiente e secondo la propria costituzione fisica. Le malattie poi, sin quando l’uomo era legato alla selezione naturale, erano contrastate dalle proprie difese biologiche, mentre l’atto della riproduzione era assicurato solo dai soggetti più in salute, in grado di tramandare geni “salubri” e “selezionati”.

Con il trascorrere delle generazioni, la selezione naturale è andata via via scemando per far posto ad una barriera artificiale (progressi medici, scientifici e sociali), che ha completamente isolato l’uomo dalle insidie ambientali. Scomparsa la selezione, la riproduzione di massa oltre a causare un notevole incremento della popolazione globale, consente la trasmissione dei geni difettosi, causando, così, un progressivo indebolimento della specie. L’uomo, dunque, è sicuramente riuscito ad allungare la media dell’esistenza in vita, ma ad una precisa condizione: che viva sotto una campana di vetro artificiale, seguendo rigide regole igienico-sanitarie ed intervenendo prontamente ad ogni più piccolo ostacolo. L’analisi critica di un quadro del genere, ci fa comprendere che in realtà l’uomo è molto più debole di una volta, è soggetto alle insidie di un numero maggiore di malattie ed è in netta decadenza nella psiche e nella materia. Proviamo, per ipotesi, a far nascere un bambino, figlio del retaggio genico della civiltà moderna, in un ambiente selvaggio, e lasciamolo sviluppare nel tempo secondo i dettami selettivi dell’ambiente. Se, alla fine, contiamo gli anni che sopravvive, ci accorgeremo che avrà avuto una vita più breve di uno stesso umano vissuto in analoga situazione ma figlio di una popolazione genica “selvatica”. Dunque, l’uomo tecnologico contemporaneo, è in apparenza più longevo, ma è in realtà più gracile, addomesticato, debole e senza carattere. Con grossi artifici (terapeutici, chirurgici, igienici, ecc.), si tutela artificialmente e conta in genere un numero maggiore di anni, ma non ha più la robustezza e l’energia di una volta. L’ingentilimento e la sedentarietà della vita quotidiana che la “civiltà” impone lo indeboliscono drammaticamente. Le statistiche, poi, confermano che le malattie sono sempre più numerose e variate. La sovrappopolazione nonché i continui e rapidi interscambi, favoriscono ulteriormente la nascita e la propagazione delle alterazioni patologiche (oggi in poche ore con un aereo è possibile diffondere un’infezione da un capo all’altro del mondo). Scrive Dorst (1988): “Il costante aumento delle malattie mentali e nervose di ogni tipo -’malattie di civilizzazione’- costituisce la prova più documentata della profonda mancanza di armonia oggi in atto tra l’uomo e il suo ambiente. Le attività umane portate al parossismo, spinte fino all’assurdo, pare che rechino in se stesse i germi della distruzione della nostra specie.

Questo fenomeno ricorda la politelia osservata nel corso dell’evoluzione di certi tipi di animali; un carattere comparso in una linea è in seguito capace di svilupparsi, e di svilupparsi esageratamente, fino a divenire nocivo e contrario agli interessi della specie stessa e senza avere, da quel momento, il minimo valore come mutazione di adattamento. Molte linee si sono estinte così nel corso dei tempi geologici, in seguito allo sviluppo esagerato di una caratteristica divenuta mostruosa. Ci si può chiedere se non sta accadendo lo stesso all’uomo e alla civiltà tecnica da lui creata, che gli ha permesso, all’inizio, di raggiungere un alto livello di vita ma il cui eccesso rischia di divenirgli fatale”. Anche numerose razze e popolazioni umane si sono estinte nel corso dei millenni proprio a causa di un loro eccessivo sviluppo divenuto “mostruoso” (Dorst, 1988).

Occorre prontamente ricordare come l’uomo, nello stato di cacciatore-raccoglitore, era rappresentato da popolazioni basse numericamente, il che sfavoriva lo sviluppo di numerose patologie infettive; tra l’altro, gli interscambi tra le varie popolazioni, erano minimi e localizzati. Per la loro sussistenza giornaliera si spostavano periodicamente allontanandosi così dalle proprie deiezioni ed immondizie (Goldsmith, 1992). Il tempo trascorso nella caccia e nella raccolta era una minima parte del totale lasciando così spazio al riposo e alla “riflessione” (Goldsmith, 1992).

Con la rivoluzione agricola, l’uomo comincia a sterminare parte della biocenosi che ostacola il proprio cammino determinando l’estinzione di moltissime specie animali e vegetali. Con la rivoluzione tecnologica ed industriale poi, ultimo stadio dell’invadenza, il numero delle specie estinte o portate sull’orlo dell’estinzione si moltiplica enormemente.

Se, per raggiungere i 3 miliardi di persone la razza umana ha impiegato all’incirca 600.000 anni, per raddoppiare sono stati sufficienti meno di 40 anni! Il problema della sovrappopolazione umana è forse uno degli elementi più preoccupanti e devastanti che si presentano alla società contemporanea e al mondo naturale. Eliminata la selezione naturale e i freni che imponeva l’ambiente, l’uomo ha dato corso ad una proliferazione estremamente esagerata saccheggiando le risorse ambientali e proteggendosi, nel contempo, con la tecnologia, la medicina e altro. Ma la sovrappopolazione porta ad un continuo stress, facilita la diffusione delle malattie, determina gravi squilibri fisiologici, innesca tensioni sociali,  e prelude, alla fine, alla decadenza della specie. Il problema non è da sottovalutare ed è da incoscienti propagandare politiche sociali in nome della proliferazione demografica. Occorre intervenire nell’immediato e drasticamente. Ma la miopia delle popolazioni, favorita anche dall’illusione religiosa e dalle politiche di profitto degli Stati, non consente di osservare, almeno in lontananza, i bagliori della speranza e forse non si pecca di eccessivo pessimismo se si immagina il futuro dei prossimi millenni come una sorta di deserto popolato, tra le forme più appariscenti, solo da qualche specie di insetto sopravvissuta al passaggio dell’uomo ormai autodistrutto.

Occorre, sia salvare la natura che l’uomo da se stesso (Dorst, 1988)! Nessuna politica di conservazione può prescindere dal problema della sovrappopolazione: “...la premessa assoluta è il blocco dell’espansione della popolazione umana” (Simonetta, 1976).  Scrive Kaczynskj (1997): “E’ accertato che la sovrappopolazione aumenta lo stress e l’aggressività. Il grado di affollamento che esiste oggi e l’isolamento dell’uomo dalla natura sono conseguenze del progresso tecnologico. Tutte le società preindustriali erano in prevalenza rurali. La rivoluzione industriale ha aumentato a dismisura l’estensione delle città e la proporzione della popolazione che vi vive, e la tecnologia moderna industriale hanno reso possibile alla Terra di sostenere una popolazione sempre più densa... “ “ Per le società primitive il mondo naturale (che, in genere, muta lentamente) forniva una struttura stabile e quindi un senso di sicurezza. Nel mondo moderno è la società umana che domina la natura, piuttosto che il contrario, e la società moderna cambia molto rapidamente a causa dei mutamenti tecnologici. Così non vi è una struttura stabile”.

Ebbe a dire Edward O. Wilson: “La responsabilità della crisi della biodiversità ha una sola grande ragione: il successo demografico della specie umana”.



La tecnologia e la pressione demografica



“La tecnologia ha illuso l’uomo che con essa egli possa migliorare la sua vita e le sue difficoltà. Ma in effetti l’uomo tecnologico è diventato ancor più schiavo e vincolato di reali catene che gli cingono i polsi e le caviglie: è diventato totalmente dipendente delle sue ‘creazioni’ tanto che la sua stessa esistenza viene meno senza quella campana di  vetro che si è costruita. O peggio: ha perduto per sempre la sua essenza e, paradossalmente, la sua libertà. E’ divenuto lui stesso, in altri termini, una macchina e una prigione di cui ne è stato il volontario creatore!”.  Lo sviluppo tecnologico è legato a volte alla ricerca pura, ma è più spesso sollecitato dall’esigenza di aumentare i mezzi di sostentamento della crescente popolazione del pianeta. Per ottenere tale scopo non si esita ad esercitare una distruttiva violenza sull’assetto naturale dell’ambiente, tagliando intere foreste, impiantando immensi complessi industriali, scaricando nei corsi d’acqua sostanze altamente inquinanti, cementificando ed asfaltando grandi superfici del territorio, prosciugando le paludi, sbarrando i fiumi e installando faraonici allevamenti di bestiame che producono enormi quantità di rifiuti organici. E' intuitivo, se non ovvio, che una così ampia manomissione del territorio e dei connessi ecosistemi si traduca nell’estinzione di molte specie di uccelli e di mammiferi, evento che si è purtroppo frequentemente verificato nell’arco di tempo che ci separa dall’inizio della rivoluzione industriale. E' necessario notare che l’aggressione esercitata ai danni della natura non sempre avviene in territorio contiguo a quello in cui si verifica l’accentuata pressione demografica, ma - grazie allo straordinario sviluppo dei mezzi di trasporto - le risorse ricavate dall’opera di manomissione vengono spesso convogliate anche a grande distanza, ove esse effettivamente occorrono, in prevalenza verso la fascia nord-atlantica che, a fronte di una popolazione che è pari a circa il 15% di quella mondiale, consuma quasi il 75% delle risorse planetarie. Uno squilibrio tanto accentuato non è dovuto soltanto ad uno “ standard” di vita adeguato alla domanda di una società “civile”, ma è causato anche da sprechi sconsiderati, come avviene ad esempio nel riscaldamento domestico, nell’illuminazione, nell’alimentazione, nell’uso di motori elettrici, nella produzione di beni inutili, nell’abuso degli antiparassitari chimici, ecc. ecc.

A questo punto domandiamoci se vi è la possibilità di comporre pragmaticamente il dissidio che oppone l'uomo alla natura; si, forse ciò è possibile se si riconsidera il problema nella sua globalità, che significa individuare un nuovo modello di sviluppo, e applicarlo nella sua interezza. Nuovo modello di sviluppo significa valutare le riserve di energia disponibili a livello planetario, programmarle e ripartirle in proporzione alla pressione demografica di ogni singola zona. Ma significa anche influire drasticamente sul comportamento del singolo uomo nei confronti della natura; quest’ultimo è un punto essenziale del problema.

Scrive saggiamente Dalla Casa (1996): “....Alla luce di tale andamento esponenziale del fenomeno ‘civiltà industriale’, appare perfettamente logico che per un paio di secoli non si sia notata la vera natura distruttrice di tale civiltà. Infatti i suoi effetti reali sulla Vita non possono evidenziarsi se non pochissimo tempo prima della sua fine.....

Quindi la persistenza del modello attuale per due secoli, fatto su cui poggia l’idea di continuazione della civiltà industriale sempre-crescente, costituisce invece un’ulteriore prova della sua fine imminente: come si è visto, il modello può esistere senza manifestare la sua vera natura per un tempo quasi uguale a quello della sua esistenza complessiva......

..continuiamo con la più grande incoscienza ad eliminare una specie dopo l’altra, ed apparentemente non succede nulla nell’ecosistema globale. Ma ad un certo punto salterà tutto “.



L’uomo da cacciatore/raccoglitore 

a uomo tecnologico



“Nelle comunità di cacciatori-raccoglitori del primo mondo - il mondo degli abitanti dell’ecosistema - l’uomo ‘proiettava un’immagine amichevole sugli animali: questi parlavano fra di loro e pensavano razionalmente come gli uomini; avevano un’anima (...) (L’uomo era ancora) dentro quel mondo, non lo aveva ancora trasformato in uno strumento o in una mera fonte di risorse’.

Il secondo mondo - quello della cultura - è una creazione dell’uomo. Secondo l’analisi di Eiseley, è il risultato di forme più progredite di rappresentazione simbolica, del fenomeno linguistico, della dislocazione affettiva, dell’invenzione del tempo storico. L’uomo si è separato dal resto della natura, è diventato abitante della città e si è allontanato dagli ‘spiriti presenti in ogni albero e in ogni ruscello. I suoi compagni animali si allontanarono da lui furtivamente come randagi senza anima. Non parlarono più’. Il potere di Pan era perduto. Da quel momento la vita dell’umanità è considerata ‘irreale e sterile’.....” (Devall & Sessions, 1989 paragrafo su Loren Eiseley).

L’uomo primitivo viveva essenzialmente di raccolta (radici, frutti, ecc.) e occasionalmente di caccia e pesca. In quello stadio era perfettamente armonizzato con l’ambiente circostante tanto che non determinava nessun tipo di danno. Successivamente incominciò ad addomesticare gli animali e si trasformò in pastore. Nella fase seguente approdò all’agricoltura. Lasciatosi alle spalle la caccia e la raccolta, con la pastorizia prima e con l’agricoltura poi, comincia a disarmonizzarsi dall’ambiente circostante ed attiva gravi modifiche al mondo naturale. L’ultima fase poi, quella industriale e tecnologica, darà il colpo di grazia alla stabilità della natura, universalizzando gli interventi e amplificando le distruzioni. Si attua il definitivo declino della natura e l’apparente dominio della razza umana.

Se all’origine, con la pratica della pastorizia e dell’agricoltura, si infliggevano già gravi danni all’ambiente (disboscamenti, modifiche degli habitat, incendi estesi e dolosi, distruzione dei predatori che “insidiavano” il bestiame, ecc.), questi danni erano però localizzati in pochi punti della terra ed avevano effetti devastanti su piccola scala. Al contrario, con il progressivo aumento della popolazione e soprattutto con l’avvento della tecnologia (industria, chimica, ecc.), gli effetti negativi della varie pratiche (agricoltura chimica, allevamento intensivo, industrie leggere e pesanti, ulteriore distruzione dei predatori e alterazione massiccia degli habitat per la pastorizia, ecc.), hanno via via assunto carattere mondiale non risparmiando alcun angolo della terra e finanche parte dello spazio (oggigiorno l’attività agricolo/pastorale è distruttiva per l’ambiente come l’industria. Scrisse infatti Lovelock “che l’agricoltura praticata dalla popolazione umana sempre più numerosa rappresentava la minaccia più grave per la terra” - Worster, 1994). Ciò in connessione, come detto, con un brusco aumento della popolazione umana. Scrive Dorst (1988): “All’inizio l’uomo visse della semplice raccolta (frutti e radici vegetali) e di animali la cui cattura era agevole. Poi egli inventò varie armi che gli permisero di dedicarsi alla caccia e alla pesca: di esercitare, cioè, attività predatrici. In questo stadio (raggiunto nel Paleolitico inferiore), l’uomo è ancora parte integrante dell’ambiente naturale da cui esclusivamente dipende. Le modificazioni dell’ambiente che determinano la disponibilità di alimento, hanno una profonda influenza sull’uomo e lo costringono a dover cercare altrove gli elementi indispensabili alla sopravvivenza. Gli uomini di quell’epoca, che vivevano di caccia e di raccolta, modificarono nel complesso molto superficialmente il loro habitat”. Il tramonto della specie umana e, conseguentemente della natura, inizia gradualmente e localmente sin dal Neolitico, per divenire drastico, brutale ed universale ai giorni nostri. Infatti Paul Shepard asseriva che la crisi ecologica è in corso da diecimila anni: “Quando l’agricoltura si sostituì all’economia di caccia e raccolta, si verificarono mutamenti radicali nel mondo degli uomini di vedere e reagire alla natura circostante. Le centinaia di forme locali di organizzazione agricola che si sono sviluppate via via (....) miravano tutte a dare un volto completamente umano alla superficie terrestre, sostituendo il selvaggio con il domestico e creando paesaggi dall’habitat”(Shepard, 1973, in Devall & Sessions,1989). Integra bene J. Dorst (1988): “In fondo la storia dell’umanità può essere considerata come la lotta della nostra specie contro il proprio ambiente e il progressivo affrancamento dalla natura e da alcune leggi, e come l’asservimento del mondo intero - suolo, piante, animali - all’uomo e ai ritrovati del suo genio. Certo, l’uomo primitivo non aveva neppure lontanamente l’energia meccanica sufficiente perché la sua collisione con la natura superasse certi limiti esattamente circoscritti. Ma la differenza, tra il coltivatore neolitico intento a disboscare una radura e a dissodare il terreno, e l’uomo del 2000 che ha base di esplosioni atomiche smuoverà le montagne e modificherà il corso dei fiumi costringendoli ad irrigare i deserti, è solo una differenza di metodo. Il fattore umano deve essere preso in considerazione nell’equilibrio biologico del mondo partendo dagli albori dell’umanità, e se l’urto è divenuto sempre più profondo non bisogna però ingannarsi sulla sua antichità”. Ne fanno tuttavia eccezione i numerosi popoli che non sono approdati alla pastorizia e all’agricoltura (per esempio parte degli indiani nordamericani) e che pertanto rimasero in armonia con il proprio ambiente  (alcuni ancora lo sono) fin quando non sopraggiunsero i “bianchi” portatori della “civiltà occidentale” (Dorst, 1988). Ancora Devall & Sessions (1989) a proposito delle considerazioni di Shepard scrivono: “Non solo l’agricoltura stessa è un danno ecologico, ma, per Shepard, il contadino tradizionale ha condotto ‘la vita più ottusa che l’uomo possa mai vivere’. Mentre le prime fattorie che praticavano un’agricoltura di autosufficienza erano in armonia con l’ambiente, gli agricoltori delle odierne monoculture devono fare affidamento su una vasta e continua rete di rapporti socieconomici. La vita delle campagne è senza speranza nella organizzazione agricola industriale moderna. Le piante e gli animali domestici sono disastri biologici, continua Shepard, sono ‘schiocchezze genetiche’. Shepard concorda con Brownell quando afferma che gli uomini hanno bisogno degli animali selvatici nel loro ambiente naturale per poterli prendere da esempio e diventare pienamente uomini; i cuccioli addomesticati e gli animali da fattoria sono surrogati inadeguati e patetici. Per Shepard, un futuro ecologicamente sano vuole la scomparsa di quasi tutte le forme di organizzazione agricola, di piante e animali alterati geneticamente. Un altro elemento indispensabile per il futuro è il pieno riconoscimento che gli uomini sono geneticamente cacciatori-raccoglitori”.

Gian Luigi Mainardi (1973) riassume con estrema sintesi e limpida chiarezza l’ascesa e lo sviluppo dell’Homo sapiens sul pianeta terra. Ne riportiamo un breve, eloquente stralcio: “Circa 50.000 anni or sono, dopo una strenua, vittoriosa lotta con altri tipi di ominidi, una nuova specie, l’abile Homo sapiens, si accinse a intraprendere un cammino che in breve (geologicamente parlando) lo doveva condurre ad una posizione di assoluta preminenza. Dapprima la marcia fu lenta e vide il passaggio graduale dal chiuso habitat della foresta all’aperta pianura, la trasformazione della dieta da vegetariana a carnivora, con conseguente partecipazione al giuoco della preda e del predatore, lo sviluppo di tecniche di caccia in gruppo, l’impiego di rozze armi e utensili, la costruzione di rifugi sicuri. Per tutto questo lungo periodo l’ambiente rimase pressoché incontaminato, grazie alla relativa disorganizzazione, all’inconsistenza numerica e alla dispersione dell’unico abitatore che avrebbe potuto inquinarlo. La tregua non doveva però durare a lungo. La scoperta del fuoco come mezzo per conquistare nuovi spazi e favorire la crescita di piante da pascolo e da foraggio, insieme all’addomesticamento di varie specie animali, ebbero un effetto sconvolgente sugli ecosistemi.

Rapidamente la specie umana si moltiplicò, si andarono costituendo raggruppamenti sempre più numerosi, si evolsero strutture stabili via via più organizzate, e inevitabilmente prese consistenza il problema dell’accumulo dei rifiuti della comunità, la diffusione dell’inquinamento, delle malattie, dell’’erosione’ della natura. Da allora la marcia si è tramutata in corsa veloce e l’uomo ha vestito sempre più i panni del più catastrofico agente antiecologico che mai sia comparso sulla Terra, capace di interferire sconsideratamente con l’ambiente in mille modi, diretti ed indiretti...........

Finora la natura ha sopportato le ferite che le abbiamo inflitto, ma è chiaro che ci stiamo avvicinando ai limiti di tollerabilità. Non dimentichiamoci che in definitiva anche il grande Homo sapiens per sopravvivere ha bisogno della natura, ha necessità di acqua, di suolo, di ossigeno, di piante, di animali. Se dimenticherà questa verità elementare, egli in un futuro più o meno prossimo distruggerà se stesso”.

Devall & Sessions (1989) a proposito dell’impatto sulla natura da parte dell’uomo tecnologico contemporaneo ci ricordano che “l’eccessivo intervento umano nei processi naturali ha condotto altre specie sull’orlo dell’estinzione. Secondo gli ecologi profondi l’ago della bilancia pende da lungo tempo a favore degli uomini, ora dobbiamo riequilibrarlo per proteggere le specie minacciate: la tutela dei diversi tipi di natura selvaggia è un imperativo. Mentre i popoli nativi sono vissuti in comunità sostenibili per decine di migliaia di anni senza intaccare la vitalità degli ecosistemi, la moderna società industrial-tecnocratica minaccia ogni ecosistema sulla Terra e può anche apportare drastici mutamenti dei modelli climatici nella biosfera”.



L'anacronismo dell'attività venatoria nei tempi contemporanei


“Il maggior atto di coraggio non è uccidere, ma lasciar vivere”


“Ogni uomo dovrebbe nel suo profondo portare al più alto livello il rispetto per ogni forma di vita” (Albert Schweitzer, ma affermato anche da tante altre personalità di spicco e da molte religioni, soprattutto orientali)


La società contemporanea ha raggiunto, nei Paesi cosiddetti sviluppati, un elevato grado di “benessere” grazie anche alla progressiva affermazione del ceto medio. La logica del profitto, forza trainante del sistema, determina una notevole produzione industriale e un conseguente inquinamento ambientale. Il cittadino, asservito alle categorie capitalistiche, attiva il turnover del consumo, alimentando la richiesta di elementi e il suo conseguente utilizzo. Lo scenario naturale, contenitore globale delle attività umane, subisce pesantemente l’aggressione capillare e penetrante del meccanismo. Deforestazione, inquinamento chimico, acustico e nucleare, antropizzazione del territorio, riduzione delle aree selvagge, addomesticamento dei luoghi, sovrappopolazione, non sono che alcuni esempi delle conseguenze di tale sistema vitale.

In uno scenario così drammatico e precario, si innesta l’attività venatoria. Praticata dall’uomo sin dalle epoche preistoriche, quando era raccoglitore/cacciatore, è andata via via perdendo la sua funzione di pratica di sostentamento, grazie anche all’avvento dell’agricoltura e della pastorizia. Allo stato attuale permane in quasi tutti i Paesi con soli intenti ricreativi, di reminiscenza passionale e, occasionalmente, come attività di riequilibrio e di selezione delle popolazioni di animali (per esempio ungulati – anche se il problema cinghiale è stato creato da reintroduzioni selvaggio degli scorsi anni da parte proprio dei cacciatori) disarmonizzate per la mancanza di predatori naturali eliminati o ridotti dall’uomo. Ma poniamoci a questo punto una domanda: è ancora lecito o meglio ha ancora senso praticare l’attività venatoria “sportiva” in un mondo ormai ecologicamente devastato e alterato? Se il concetto di caccia come attività di sostentamento e di equilibrio faunistico può avere un senso, non lo può certamente avere l’attuale realtà venatoria, soprattutto in certi Paesi (come per esempio l’Italia).

Molti cacciatori, giustamente, asseriscono che i danni inferti all’ambiente vengono da altra fonte (industria, agricoltura chimica, antropizzazione, stile di vita, pascolo eccessivo, ecc.), ma dimenticano di dire che quel poco che è stato casualmente risparmiato da quella “fonte” negativa, deve essere ora distrutto o disturbato da loro.

Una cosa è il concetto di caccia, come prelievo alimentare del selvatico praticato da chi ne ha necessità vitali, e una cosa è la caccia nella realtà odierna. Se è lecito il primo concetto non può esserlo il secondo.

Uomini “tecnologici”, che vivono in una società avanzata, all’improvviso imbracciano il fucile e, ricordando i tempi andati, si dichiarano protezionisti e vanno a esercitare il loro divertimento “turistico/sportivo” sparando su tutto ciò che si muove (e non). Un gran numero di “fucilieri”, in territori già di per se distrutti ed alterati (inquinamento, strade montane, disboscamento, cementificazione, antropizzazione, ecc.), anche dalla nostra semplice invadenza, aggrediscono quel poco di selvaggio che è rimasto, arrecando tra l’altro una notevole fonte di disturbo ambientale e verso la fauna. E’ vero che lo stesso vale per le orde dei turisti, degli alpinisti, degli sciatori, dei cementificatori, ecc., ma qui è la caccia ad essere “analizzata”.

Pensate se è giusto che in un’area naturale (p.e. un’area wilderness) fortunatamente salvaguardata dalle ingiurie dell’addomesticamento, della “valorizzazione” turistica o da altro oggetto inquinante, venga praticata l’attività venatoria per uccidere un animale selvatico che ha già i suoi problemi per sopravvivere (restringimento dell’habitat, disturbo, difficoltà ambientali, ecc.). Per non parlare del disturbo causato dal rastrellamento dei cani e dal rumore dei colpi di fucili. Ogni cacciatore vale, come impatto sul territorio, almeno il quadruplo rispetto al normale turista! Non accenniamo poi al “rischio” pubblico delle pallottole vaganti e all’inquinamento da piombo dei pallini. Qui non si vuole porre in risalto gli aspetti morali, pietistici o animalisti, ma solamente un’ennesima soggettività dell’uomo. Non si vuole condannare chi ancora oggi, in qualche parte della terra, caccia o pesca per sopravvivere, ma solamente quella frangia dell’umanità che per diletto e per “passione” va “atavicamente” a caccia. Escludiamo ovviamente, lo ribadiamo, l’esercizio venatorio quanto è svolto per riequilibrare popolazioni di animali fortemente incrementate dalla mancanza di predatori naturali, anche se questa pratica deve essere attuata con molta oculatezza e nelle forme “gravi”. Se poi caccia deve essere, occorre allora rinegoziare le regole di concessione per cercare di codificare un comportamento eticamente compatibile. In primo luogo, un vero cacciatore, deve rinunciare alle comodità tecnologiche moderne (fucili all’infrarosso o con mirino cannocchiale, ricetrasmittenti, ecc.), deve rinunciare a recarsi in montagna utilizzando le strade che lo portano fresco e riposato in alta quota e deve acquisire una profonda cultura ecologica rispettosa preminentemente del valore in sé della natura e dei precetti dell’ecologia profonda. Altro elemento importante deve essere quello che tutto il territorio è chiuso alla caccia e solo in alcune aree è consentita praticarla tra l’altro a rotazione. Il numero dei cacciatori poi, deve essere considerevolmente ristretto in giusto rapporto (alternanza annuale dei permessi) con l’estensione del territorio aperto all’attività venatoria. Le specie cacciabili (per lo meno in certi Paesi, come p.e. in Italia) saranno quindi solamente quelle che possono essere riprodotte in cattività e facilmente reimmettibili (p.e. lepri). Tuttavia, tale pratica (cioè la reimmissione stagionale di fauna) evidenzia il grave squilibrio ambientale di certi territori non più produttrici spontanei di fauna selvatica e quindi soggetti a reintroduzioni venatorie continue e forzate (molte sono infatti le controversie e gli effetti collaterali delle reimmissioni forzate di animali di dubbia provenienza). E’ più che evidente quindi il fallimento di una situazione del genere e conseguentemente di una attività venatoria definibile in termini più appropriati estremamente “artificiale” e senza senso.

Tornando a considerare la pratica venatoria nella realtà, occorre aggiungere che sono fin troppo evidenti le differenze che si rilevano tra i vari Paesi. Se in Scandinavia, per esempio, il cacciatore rispetta in genere le norme cui sottostare, si autoregolamenta e partecipa attivamente alla salvaguardia del territorio (ad eccezione dei Sami, gli allevatori di renne che, malgrado ne abbiano migliaia, quando trovano un lupo, pur se nei loro territori sono scarsi, non si fanno scrupoli a sparagli illegalmente, malgrado lo Stato in caso di perdita di un capo gli da un cospicuo rimborso in tempi brevissimi. Inoltre sia pure in forma notevolmente minore, abbattono illegalmente anche linci ed aquile reali. Purtroppo è questa l'ignobile mentalità degli allevatori/cacciatori!), in altri, di converso, regna il più assoluto vandalismo, la furbizia e l’ignoranza (vedasi, per esempio, il caso di Malta). Vigono ovviamente le dovute e a volte corpose eccezioni. Se i cacciatori, negli anni trascorsi, quando regnava la più totale anarchia venatoria, si fossero preoccupati di tutelare veramente il territorio e si fossero organizzati non solo per sparare liberamente alla fauna selvatica ma soprattutto per impostare una razionale difesa ambientale (cosa che loro dicono di fare), quando negli anni seguenti, l’opinione pubblica, le associazioni ambientaliste e i vari legislatori avrebbero proposto ridimensionamenti della caccia e avrebbero istituito nuove aree protette, i cacciatori, a quel punto, potevano orgogliosamente sbandierare i risultati da loro ottenuti per la salvaguardia ambientale, almeno per quei settori che gli competevano, ed opporsi al ridimensionamento della loro attività. Invece, all’atto della resa dei conti, anche se parziale, si sono trovati con il deserto alle spalle (uccisione dei rapaci, quasi estinzione del lupo e dell’orso, ecc.). Un vero “ambientalista” non lo è solo quando gli viene imposto dalla legge. I cacciatori hanno perso l’occasione propizia.

L’uomo contemporaneo, nella maggior parte delle accezioni, è completamente estraneo alla dialettica della natura. E’ dunque essenziale, a questo punto, considerare che i pochi luoghi naturali rimasti ancora tali, debbano essere totalmente preservati o per lo meno controllati al massimo, dagli “interventi” umani di qualsiasi natura: turismo, ricreazione, sviluppo, caccia, ecc. Non è possibile opporsi a coloro che sono antagonisti dell’attività venatoria affermando, per difendere tale attività, che la distruzione del mondo è per altra causa. Qui si discute della negatività dell’uomo verso la natura in tutte le sue forme e una di queste è la caccia insensata, di disturbo e soprattutto non controllata nella realtà; ma il problema è controverso.

In materia di politica generale, Player, esponente mondiale del movimento wilderness asserisce che nessun tipo di caccia dovrebbe essere permessa nel “cuore” delle Aree Wilderness; per contro, Aldo Leopold, praticamente il fondatore dello stesso movimento, era un cacciatore convinto e “ideò” le Aree Wilderness anche per fini venatori. Occorre tuttavia ricordare che il Leopold si “muoveva” nei primi decenni del secolo scorso negli immensi territori statunitensi, dove ancora esistevano estensioni rilevanti di natura selvaggia e dove l’impatto dell’attività venatoria veniva adeguatamente filtrato dall’ampio “respiro” della natura e dalla bassa densità dei cacciatori stessi. In aggiunta, pur riconoscendo al Leopold tutti i meriti per aver diffuso, tra i primi, una nuova e rivoluzionaria etica ambientale e per aver contribuito alla salvaguardia di molti spazi wilderness, si ricorda che egli aveva, per oltre i due terzi della sua esistenza, una visione della natura fortemente antropocentrica e molto meno “illuminata” visto che considerava necessario “gestire la fauna selvatica” ponendo in prima linea una lotta spietata verso i grandi predatori (p.e. contro il lupo). Non dimentichiamo infine, riferendoci però non solo al Nordamerica, le numerose estinzioni di specie animali dovute al disinvolto uso delle canne tuonanti! Lo stesso Leopold ebbe a dire (1949-1997): “Date un’occhiata, innanzi tutto, a una palude popolata di anatre selvatiche; un cordone di automobili parcheggiate la circonda; appostato in ogni punto delle sue sponde coperte di giunchi si trova un ‘pilastro’ della società, il fucile automatico pronto, il grilletto che solletica un indice pronto a infrangere, se necessario, qualsiasi legge di Stato o di benessere pubblico per uccidere un’anatra. Il fatto che costui sia già supernutrito non placa in alcun modo la sua avidità”. Sicuramente Leopold avversava la caccia “tecnologica” ed era fautore di una attività venatoria “primaria” fatta di difficoltà, di luoghi selvaggi, di ricerca agnostica della preda, di avvicinamenti a piedi, di un solo ”colpo in canna”, di valore “culturale” e profondo della pratica e così via. Ma questi nobili principi sarebbero validi se tutti i cacciatori fossero sullo stesso “elevato” piano culturale ed etico, non certo nella pratica reale della massa; per di più, se anche tutti i cacciatori si comportassero con un fare pacato e primordiale, moltiplicati per il loro elevato numero ogni regola del buon senso verrebbe meno. Infine, ad onor del vero, anche il fucile automatico dovrebbe restare fuori da questa ricerca venatoria perché il cacciatore che vuole rivaleggiare pariteticamente con la preda dovrebbe farlo nel modo più sobrio possibile! Legittimare la pratica venatoria che poi per “democrazia” deve essere accessibile teoricamente a tutti significa che essa non sarà mai in realtà attuata con rispetto, controllo e a basso impatto ambientale. Chi crede nel contrario sa perfettamente di essere in malafede. A proposito di Leopold occorre ricordare che il suo pensiero “costituisce una pietra miliare nello sviluppo della posizione biocentrica” (Devall & Sessions, 1989) e che, come scrisse G. Sessions (in Roshi, 1989), “visse una drammatica conversione dalla mentalità di superficiale ecologia di ‘servizio’ e di gestione di risorse dell’uomo al di sopra della natura all’annunciare che gli esseri umani dovrebbero vedere se stessi realisticamente come ‘semplici membri’ della comunità biotica”. Tornando alla questione venatoria usiamo ancora le parole dello stesso Leopold (1949-1997) sul fare negativo di un certo tipo di caccia, che poi è un fare negativo della maggior parte della realtà venatoria “sportiva” mondiale: “Eccolo seduto in una barca d’acciaio, con le sue anatre da richiamo sintetiche che galleggiano poco più avanti. Grazie al motore non ha dovuto faticare per raggiungere il suo nascondiglio. Al suo fianco ha del combustibile per riscaldarsi in caso di vento forte e parla agli stormi di passaggio con un richiamo industriale dal quale spera che escano suoni attraenti.... Bisogna sparare subito perché la palude pullula di cacciatori (tutti equipaggiati allo stesso modo), che potrebbero farlo per primi. Apre il fuoco da una sessantina di metri, perché il suo schioppo è tarato sull’infinito e la pubblicità dice che le cartucce ‘Super Zeta’ hanno una lunga gittata.... Questo cacciatore sta assorbendo un valore culturale?...... Dal nascondiglio a fianco un altro cacciatore apre il fuoco da sessantacinque metri, nel disperato tentativo di prendere qualcosa.... Dove è finita l’idea della ‘mano leggera’ e la tradizione di sparare una sola cartuccia?..... Io stesso uso arnesi fabbricati industrialmente, tuttavia c’è un punto al di là del quale gli accessori acquistati al negozio distruggono il valore culturale della caccia...... ogni tipo di svago nell’ambiente naturale è essenzialmente primitivo, atavico, e ha valore solo per contrasto; una meccanizzazione eccessiva distrugge i contrasti, trasferendo la fabbrica nei boschi o nelle paludi”.

I buoni e salubri principi culturali della caccia sono ottimi, ma la realtà sarà in effetti corrispondente a quella cultura? Le parole di Leopold confermano questo dubbio, anzi danno la certezza, purtroppo, che la caccia attuale viene praticata solo in forma degenerante, come lo è d’altronde il turismo di massa, l’industralizzazione eccessiva, l’agricoltura chimica, la pesca dissennata e così via. Aldo Leopold forse, fu una bellissima eccezione.

Scrive Dalla Casa (1996): “Nelle civiltà di tipo occidentale esiste il fenomeno ‘uccidere per divertimento’: spesso l’uccisione è addirittura considerata un ‘merito’ da parte del cacciatore. Il fenomeno, gravemente presente, interessa comunque una minoranza, anche se piuttosto invadente; l’unico modo per limitarlo consiste per ora in rigorosi divieti.....

In molte culture animiste la cattura della preda era vista come il dono di un dio, che si può interpretare come ‘il genio della specie’: la cattura era lecita soltanto se era seguita dall’utilizzazione completa di tutte le parti del dono, a scopo prevalentemente alimentare e comunque di sopravvivenza..... L’eventuale uccisione fatta ‘per divertimento’ o ‘senza scopo’ era un’offesa al dio: quindi veniva vissuta come un delitto......

Le culture animiste provocavano ben raramente l’estinzione di specie o la distruzione di ecosistemi: per molti migliaia di anni i nativi d’America sono vissuti in simbiosi con milioni di bisonti e con tutte le altre specie in armonico e dinamico equilibrio; sono bastati due o tre secoli di civiltà europea per distruggere tutto.........

In genere le culture dell’Oriente consideravano gli altri esseri o in un ciclo di morti e rinascite (samsara) o comunque degni della massima benevolenza: tutti i viventi facevano parte di un equilibrio cosmico......

In sostanza, perché finisca veramente il fenomeno ‘caccia’, pur essendo assai utili anche i divieti, è indispensabile una nuova base etica e culturale....”.

Integra il discorso Hargrove (1990): “Molte tribù primitive avevano il costume di chiedere perdono e comprensione agli animali selvatici che uccidevano per cibarsene. Tuttavia questi costumi o tradizioni non sopravvissero nella civiltà occidentale, dove invece si sviluppò la tradizione di uccidere la natura per sport, cioè per il proprio piacere, non per ottenerne cibo. Il cacciatore, secondo questa tradizione, ricava piacere dall’uccisione di animali, senza alcuna sensazione di colpa”. Quanto finora detto vale ovviamente anche per la pesca sportiva (per non parlare di quella industriale che sta devastando i mari , fiumi e laghi). Scrisse con grande perspicacia J. Muir (1995): “.... Pure, gente di aspetto assai rispettabile, gente che pare perfino savia a guardarla, sta ad infilzare pezzi di vermi su pezzi di filo di ferro ricurvi allo scopo di catturare trote. Questa attività chiamano sport. Se i frequentatori di chiese si mettessero a pescare nel fonte battesimale per ammazzare il tempo durante le prediche noiose, il cosiddetto sport avrebbe una ragion d’essere; ma trastullarsi così dentro il tempio di Yosemite! Trovar piacere nell’agonia di creature che lottano per la vita.....”.

Ma non si commetta comunque il grave errore di utilizzare la caccia come specchietto per le allodole. Non si mascheri una presunta protezione di un territorio sbandierando il classico divieto di caccia, per poi progettare interventi cosidetti “ecocompatibili” su quel territorio (turismo di massa, sentieri attrezzati, sentieristica eccessiva e capillare, rifugi, ecc.). Abbiamo espresso parere negativo sull’attività venatoria almeno nei Paese antropizzati e compromessi, ma lo abbiamo fatto al pari delle altre attività negative dell’uomo. Altrimenti, in un territorio selvaggio, paradossalmente (molto paradossalmente), è meglio considerare l’attività venatoria, sia pur fortemente ristretta e indirettamente limitata a pochi, che lasciar lontano i fucili ma snaturare completamente quell’ambiente con altri dubbi interventi. Un gran numero di persone aborrisce la caccia come attività negativa, ma ignora totalmente (o finge di ignorare) il pesante impatto del turismo e delle altre forme che turbano la wilderness di un posto. Abbiamo espresso parere negativo alla caccia perché nella realtà molti praticanti di tale attività non sono degni di essa comportandosi in forma del tutto negativa, ma saremo teoricamente i primi a difenderla se i cacciatori dimostreranno una vera missione nei confronti della wilderness dei luoghi e nei confronti di un’autoregolamentazione degna di tal nome (attività venatoria secondo i precetti di Aldo Leopold che, come abbiamo primo evidenziato, erano impostati su una caccia di tipo “culturale”, controllata, agnostica, atavica). Quest’ultima riflessione è però nel modo più assoluto utopica!!

L’uomo contemporaneo attraverso le sue mille categorie di “necessità” (cacciatori, pescatori, sciatori, escursionisti, alpinisti, boscaioli, pastori, agricoltori, latifondisti, speculatori, ricercatori e “scienziati”, ecc.) accampa continuamente i diritti di poter far qualcosa, ognuno in forma esclusiva. Non è un caso poi che a farne le spese sia sempre l’ambiente. Ormai l’uomo è un elemento estraneo ai fenomeni della natura e per questo limitarlo è quanto mai opportuno e necessario. L’importante è non creare categorie di seria A con tutti i diritti e categorie di serie B senza diritti! 

E’ comunque cosa estremamente difficile riscontrare tra gli “ambientalisti di superficie” e i cacciatori il concetto del valore in sé della natura. In entrambe le categorie vige, quasi sempre, l’egocentrismo o meglio l’antropontrismo e nei cacciatori il miope interesse personalistico.

Scrive Franco Zunino: ".... Chi sente il desiderio di un rapporto diverso con l'ambiente, più legato ad esigenze interiori di beltà e solitudine, di riflessione, di godimento della bellezza, dei momenti del vivere e dell'evolversi della natura, più facilmente capirà l'esigenza di maggior rispetto, capirà che i diritti della natura, devono avere il primo posto e che l'uomo deve visitarla sempre pronto a tirarsi indietro non appena divengono evidenti i segni del mutamento che la sua presenza le arreca, che vanno dalla degradazione ambientale al disturbo della fauna, alla perdita di certi stati di pace e solitudine (che sono un diritto della fauna prima che nostro); pronto pertanto anche a rinunciare alla natura quando ne è il caso.

Invece, la maggioranza di quelli che amano la natura, la fauna, la flora, o ne godono attraverso la ricreazione fisica in essa (naturalisti, alpinisti, escursionisti, cacciatori, ecc.), raramente si pongono problemi di rinuncia ai propri piaceri per rispetto alle sue esigenze......... In realtà ogni categoria di fruitori della natura deve rassegnarsi a porsi dei limiti, perché non esistono fruitori buoni e fruitori dannosi, ed è nella limitazione di tutte le libertà il compromesso giusto che permette di garantire alla natura la possibilità di perpetuarsi nella sua libertà, perché mentre sono adattabili le nostre esigenze, il più delle volte non lo sono quelle della natura.......'c'è bisogno di amore verso la Terra, non verso i piaceri che ne traggono attraverso l'uso'. E' invece, purtroppo, quasi sempre l'inverso per la stragrande maggioranza degli aderenti ai vari gruppi di interesse, dall'ornitologo al cacciatore....".

Un ultima questione occorre evidenziare. I cacciatori accusano coloro che sono contro la loro attività (come profondamente il sottoscritto) affermando che quest’ultimi aborriscono dinanzi alle loro uccisioni e poi ignorano e si nutrono di carne frutto di allevamenti lager e di uno sterminio nei mattatoi (però, ribadiamo, non facciamo l'errore di dimenticarci anche dei pesci). Ciò è vero e lo scrivente sia per motivi ecologici, quanto anche per motivi di assoluto rispetto per ogni forma di vita, di coerenza e di salute è da decenni profondamente VEGANO (alimentarsi di soli vegetali), una pratica che in futuro per contribuire a salvaguardare almeno in parte il pianeta terra sarà quasi un obbligo esserlo tutti.


“Stavamo mangiando su una sporgenza rocciosa, ai cui piedi un torrente turbolento piegava a gomito. Vedemmo quello che pensammo fosse una cerva guadare, immersa fino al torace nell’acqua bianca spuma. Quando si arrampicò sulla sponda dalla nostra parte e scosse la coda ci accorgemmo del nostro errore: era un lupo. Un’altra mezza dozzina, evidentemente piccoli già cresciuti, balzò dal folto dei salici, radunandosi per dare il benvenuto, scodinzolando e litigando giocosamente. Insomma, un vero e proprio mucchio di lupi si agitava e ruzzolava allo scoperto proprio sotto il nostro masso.

A quei tempi non avevamo mai sentito che qualcuno si lasciasse sfuggire l’occasione di uccidere un lupo. In un attimo stavamo scaricando piombo sul branco, con più eccitazione che precisione.......

Raggiungemmo l’animale agonizzante, che era una lupa, in tempo per vedere un feroce fuoco verde spegnersi nei suoi occhi. Mi resi conto allora, e non l’ho mai dimenticato, che c’era qualcosa di nuovo per me in quei occhi, qualcosa che solo lei e la montagna sapevano. A quel tempo era giovane e mi prudeva il dito sul grilletto; pensavo che meno lupi significasse più cervi, e quindi niente lupi equivalesse al paradiso dei cacciatori. Ma quando vidi spegnersi quel fuoco verde, sentii che né la lupa, né la montagna condividevano quel punto di vista......

Forse è proprio questo che significa il detto di Thoreau: ‘La salvezza del mondo si trova nella natura selvaggia’. Forse questo è il significato nascosto nell’ululato del lupo, che le montagne conoscono da molto tempo, ma che gli uomini raramente percepiscono” (A. Leopold, 1949-1997).

“Con tutti gli esseri e con tutte le cose, noi saremo sempre fratelli” (proverbio Sioux).

Lo scrivente avverserà sempre l’attività venatoria, ma anche tutte le attività che non rispettano la wilderness dei luoghi. Ovviamente chi scrive è anche lui “colpevole di errori” e non vuole additare solo agli altri il fare negativo!! Chi scrive non è certo portatore di verità assolute.

Disse il Budda: “La regola fondamentale di ciascun essere senziente è di avere sempre, e poi sempre una profonda COMPASSIONE!!.

E per concludere faccio propria la grande affermazione fatta da Albert Schweitzer circa quello di portare nel più profondo del proprio cuore il “rispetto per ogni forma di vita”, rispetto che fu auspicato non solo dallo Schweitzer, ma anche da molti altri personaggi di rilievo da tutto il mondo e finanche da molte religioni, sopratutto orientali.


Un’integrazione di Guido Dalla Casa (1996)


La caccia

Esaminiamo ora l’atteggiamento dei tre gruppi di culture nei riguardi della caccia:


- Nelle civiltà di tipo occidentale esiste il fenomeno “uccidere per divertimento”: spesso l’uccisione è addirittura considerata un “merito” da parte del cacciatore. Il fenomeno, gravemente presente, interessa comunque una minoranza, anche se piuttosto invadente; l’unico modo per limitarlo consiste per ora in rigorosi divieti. Nell’Occidente c’è chi spende soldi per poter uccidere, il che è addirittura il contrario del “procurarsi il cibo” indispensabile all’idea di caccia in tanti altri modelli.


- In molte culture animiste la cattura della preda era vista come il dono di un dio, che si può interpretare come “il genio della specie”: la cattura era lecita soltanto se era seguita dall’utilizzazione completa di tutte le parti del dono, a scopo prevalentemente alimentare e comunque di sopravvivenza. Spesso l’animale più cacciato era considerato anche un totem, aveva una sua sacralità. L’eventuale uccisione fatta “per divertimento” o “senza scopo” era un’offesa al dio: quindi veniva vissuta come un delitto e poneva il cacciatore nella posizione di chi attende la punizione del dio, che potremmo anche chiamare “conseguenza del complesso di colpa”: di solito poi questa punizione arrivava puntualmente, attraverso le misteriose vie dell’inconscio e gli indissolubili legami fra mente e corpo.

Le culture animiste provocavano ben raramente l’estinzione di specie o la distruzione di ecosistemi: per molte migliaia di anni i nativi d’America sono vissuti in simbiosi con milioni di bisonti e con tutte le altre specie in armonico e dinamico equilibrio; sono bastati due o tre secoli di civiltà europea per distruggere tutto.


- In genere le culture dell’Oriente consideravano gli altri esseri o in un ciclo di morti e rinascite (samsara) o comunque degni della massima benevolenza: tutti i viventi facevano parte di un equilibrio cosmico. Ciò dava luogo a morali del tipo “Non danneggiare alcun essere senziente”. Anche qui l’eventualità di divertirsi ad uccidere era vissuta come un grave delitto.

Nelle concezioni orientali le altre specie viventi sono composte di esseri che vivono in modi diversi la nostra stessa avventura, con pieno diritto a una vita libera e autonoma. Invece, nel nostro mondo, i cosiddetti “movimenti per la vita” ritengono ovvio occuparsi solo della vita umana, senza neanche il bisogno di precisarlo. Dell’equilibrio e dello stato di salute della Vita, cioè del Complesso dei Viventi, non si preoccupano affatto. 

In sostanza, perché finisca veramente il fenomeno “caccia”, pur essendo assai utili anche i divieti, è indispensabile una nuova base etica e culturale.

Occorre comunque fare attenzione ai permessi di “caccia tradizionale” accordati da alcuni governi, e quindi dall’Occidente, alle culture tribali con il pretesto di mantenerle in vita, perché spesso questa caccia si traduce in un massacro con armi da fuoco per vendere pellicce a grosse compagnie commerciali e avere così il denaro per comprarsi il televisore. Gli eschimesi o i siberiani a caccia con l’elicottero non hanno niente di tradizionale: quando imbracciano un fucile sono già l’Occidente. Le civiltà tradizionali non esistono più dal momento in cui arriva un’arma da fuoco e vengono persi i valori della cultura originaria.

L’Occidente è contagioso e seduce facilmente con i suoi nuovi miti. Con questa caccia si ottiene solo un’ulteriore degradazione della Natura ed un massacro “occidentale” anche se compiuto da ex-appartenenti ad altre culture umane.

C’è una grande confusione fra razza e cultura: un eschimese che uccide la foca con un fucile o comunque con lo scopo di vendere la pelle a una compagnia commerciale non è un eschimese, ma è l’Occidente.

La caccia integrata nelle culture animiste è una cosa del tutto diversa dalla caccia commerciale o industriale, anche se effettuata da persone o collettività di etnìe non europee. La sostanza è data dall’intenzione, lo scopo e il modo, non dall’origine etnica del cacciatore.



La crudeltà della pesca


Il rispetto per ogni forma di vita è un atteggiamento spirituale e pratico di grande valenza esistenziale. Molte persone lo fanno, molte religioni orientali ne fanno uno dei loro principi basilari, ma purtroppo questa nobile consapevolezza è avversata dai più. L’essere Vegani (non cibarsi di nessun animale, compreso i loro derivati) è un grande risultato per il proprio essere può conquistare arricchendosi sotto tutti i punti di vista: etici, spirituali, salutistici.

Ma in questa sede non vogliamo parlare sul veganesimo (per questo argomento Cliccare qui), ma porre la nostra attenzione sulla crudele ed inutile mattanza che si fa dei pesci.

Normalmente si tende quasi sempre a parlare di non mangiare animali terrestri, o, per esempio le battaglie sull’ormai anacronistica e assurda attività della caccia, ci si concentra sempre a questa pratica. Molto raramente si parla di pesci. Anche loro, al pari di tutti gli esseri viventi, vanno rispettati e non mangiati.

Purtroppo, nell’ambito della pesca industriale, siamo di fronte a vere e proprie mattanze, che negli ultimi tempi hanno depauperato i mari, fiumi e laghi per offrire, ad un popolo ingordo di morte, esseri che dovrebbero vivere liberamente nelle acque. Poi, sia pure in forme notevolmente minore, c’è la pesca sportiva o in ogni caso quella praticata con la canna da pesca da molte persone. Molti condannano la caccia, ma si dimenticano spesso di aggiungere a questa condanna anche la pesca. Sembra che i pesci sia animali di serie B (a dimostrazione che l'atteggiamento verso i pesci è molto più superficiale e meno emotivo, rispetto agli altri animali terrestri è provato dal fatto che, mentre per questi ultimi quasi mai vediamo sui media - anzi direi mai - la loro macellazione, ma semplicemente le carni già pronte, per quanto attiene invece ai pesci è facile osservare la loro crudele cattura, il loro squoiamento e finanche in normali trasmissioni televisivi come si fa a pulirli, a sezionarli e così via. Nessuno si fa meraviglia e si irrita. Sembra che si stia operando su qualcosa che non era stato sino a poco prima un essere vivente che viveva libero nella libertà delle acque!! O, in aggiunta, molti dicono "io non mangio carne, ma solo pesce"!!). Ed invece anche loro meritano rispetto e, rinunciare a mangiarli, a noi fa solo bene (spiritualmente e salutisticamente. Non dimentichiamoci, tra l'altro, il grave inquinamento da metalli pesanti delle acque). Che assurdità vedere uomini moderni che per diletto e dicono “per passione” vanno a pesca. Quale inutile strage.

Ovviamente qui non si vuole in alcun modo includere tutti quei popoli nativi sparsi per il mondo che giustamente pescano per sopravvivere, ma solo per quelli che lo fanno per diletto e per sport!! Non serve cibarsi di pesce, essere vegani si vive meglio ed in ogni caso allo stesso modo. In tale maniera ci possiamo opporre anche alla pesca industriale, che, come abbiamo accennato, sta distruggendo le risorse trofiche delle acque, mare in particolare.

Facciamoci un esame di coscienza e, con un atto di grande altruismo e profondità spirituale, rinunciamo a mangiare esseri viventi. Si dirà: anche i vegetali sono esseri viventi. E’ vero, ma questi sono alla base dell’esigenza per sopravvivere. Qui non stiamo parlando di attuare un suicidio di massa, per non “uccidere” qualunque forma di vita, ma semplicemente quello di evitare ciò che è inutile fare.

Quindi il semplice gesto di diventare vegani, ci farà automaticamente rispettare tutte le forme di vita animali presenti sul pianeta terra.

Per concludere, quando siamo antagonisti dei cacciatori (esclusi ovviamente quelli che lo sono per sopravvivere) o dei mattatoi, ricordiamoci anche di includere il mondo dei pesci, sia riferito alla forma di uccisione industriale che a quella sportiva e dei piccoli pescatori.

Ricordatevi: quando parlate di animali e del loro rispetto, pensate anche ai pesci. Loro, metaforicamente, vi ringrazieranno.


Scrisse con grande perspicacia J. Muir (1995): “.... Pure, gente di aspetto assai rispettabile, gente che pare perfino savia a guardarla, sta ad infilzare pezzi di vermi su pezzi di filo di ferro ricurvi allo scopo di catturarep trote. Questa attività chiamano sport. Se i frequentatori di chiese si mettessero a pescare nel fonte battesimale per ammazzare il tempo durante le prediche noiose, il cosiddetto sport avrebbe una ragion d’essere; ma trastullarsi così dentro il tempio di Yosemite! Trovar piacere nell’agonia di creature che lottano per la vita.....”.

Finalmente un po’ di chiarezza e di equilibrio.



Turismo e ambiente



Un tempo era appannaggio di pochi intellettuali, di esploratori o di arditi avventurieri. Successivamente il fenomeno ha coinvolto, a partire dal Nord America, larghi strati della popolazione, contaminando pochi decenni dopo l’intero Occidente e finanche l’Oceania (Moretti, in Gamba & Martignitti, 1995).

L’avvento della piccola borghesia e l’aumento delle disponibilità finanziarie facilita la necessità di crearsi un periodo di svago anche grazie alle ferie retribuite. Divenendo fenomeno di massa crea subito un grave impatto ambientale (diretto e indiretto con la costruzione di seconde case, residence, ecc.). Se nella fase iniziale le località prese d’assalto erano relegate in zone non molto distanti da dove si viveva, successivamente, grazie al potenziamento dei mezzi di trasporto e all’organizzazione dei viaggi, un numero crescente di persone si sposta in ogni luogo del pianeta, attratti dai richiami, culturali, naturalistici, ricreativi (Moretti, in Gamba & Martignitti, 1995). Anche le zone del Terzo Mondo subiscono l’invasione e la conseguente costruzione irrazionale e selvaggia delle strutture di ricezione. Da un fenomeno locale e relativamente ristretto, si è passato ad uno ampio e di massa per approdare ancora oltre con il turismo internazionale.

Per contrapporsi al dilagare del turismo consumistico, nasce il cosiddetto “ecoturismo”: il viaggio a misura di natura (sic!). Regole di base sono: fine educativo, non alterazione degli habitat frequentati, introito economico per le popolazioni locali in alternativa ad attività di sfruttamento della natura. Ma l’ecoturismo ha in sé il germe della distruzione ambientale: la massa. Divenuto infatti fenomeno di massa, rappresenta paradossalmente un pericolo preoccupante per gli habitat naturali. Milioni di “ecoturisti” che solcano i sentieri delle Alpi, dei parchi nazionali e delle riserve o che setacciano le foreste tropicali, le vette nepalesi o le coste australiane. Il turismo “verde”, proprio per immergersi nei luoghi più belli, prende spesso a riferimento le aree protette causando in quei luoghi un impatto estremamente negativo. L’ecoturismo allora assume, come il turismo classico, una forma devastante e incontrollabile. Scrisse J. Muir (1995) con grande profondità di spirito: “Pare strano che i turisti in visita a Yosemite siano così poco commossi da tanta inusitata grandiosità, quasi avessero gli occhi bendati e le orecchie tappate. La maggior parte di quelli che ho incontrato ieri guardavano come chi è del tutto inconsapevole di ciò che gli accade intorno, mentre le rocce stesse nella loro sublime bellezza fremevano agli accenti della vita possente congregazione di acque sonanti che scendono dai monti e qui si raccolgono con musiche che potrebbero cavare gli angeli dal paradiso”.

Allo stato attuale delle cose, il turismo di massa rappresenta una delle forme a maggior impatto ambientale (si pensi, per esempio, alla pratica dello sci). E’ una pura illusione credere di poterlo contenere entro certi limiti. Il turismo una volta esploso è inarrestabile e si comporta come un cancro. Avviene dunque la prostituzione della natura “venduta” al turismo “ecocompatibile” con la scusa che ciò è il prezzo da pagare per “tutelare” un luogo (il mercato dell’ecologia). Ma ci chiediamo: da chi lo tuteliamo se lo vendiamo ad attività che essendo di massa compatibili non sono affatto? “Solamente l’andare da soli, nel silenzio, senza bagaglio, permette di entrare davvero nella natura selvaggia. Tutti gli altri viaggi non sono che polvere, hotel, valigie e chiacchiere” (J. Muir). Queste profonde e semplici parole di J. Muir ci ricordano quali potrebbero essere le qualità di un turismo e di un turista oculato: la discrezione, la spiritualità, la semplicità, il senso del luogo, la riflessione. Se a queste qualità individuali sommiamo il non addomesticamento dei luoghi  inevitabilmente si determinerà una bassissima densità di visitatori ed una altissima qualità del “viaggio”. Tra l’altro, occorre ricordare, ciò che non è espressamente attrezzato, favorito e pubblicizzato non causa fenomeni di massa.

Aldo Leopold  comprese subito il grande pericolo del turismo di massa e dello sviluppo tecnologico quando scrisse (1949-1997) che: “Lo svago divenne un problema preciso ai tempi del primo dei Roosvelt, quando le linee ferroviarie, che avevano escluso la campagna dalla città, cominciarono a trasportare masse di cittadini nelle campagne. Ci si accorse che più gente ci andava più piccola diventava la possibilità individuale di godere di pace, solitudine, natura e bei panorami, e sempre più lungo il tragitto necessario.

L’automobile ha esteso questa spiacevole situazione, in precedenza di lieve entità e a carattere locale, fino ai limiti estremi delle strade praticabili, rendendo scarso qualcosa che prima abbondava. Ma questo qualcosa si deve comunque trovare, e allora, come ioni proiettati dal sole, i turisti della domenica si irradiano da ogni città, generando calore e attrito ogni fine settimana. L’industria del turismo fornisce vitto e alloggio per attrarre sempre più ioni, sempre più in fretta e sempre più lontano..... Le imprese costruiscono strade nell’entroterra, quindi acquistano altre terre per assorbire il flusso vacanziero, accelerato dalle strade appena costruite. L’industria dell’accessorio spiana la strada verso la natura vergine; la conoscenza dei boschi diventa l’arte di usare tutti i vari arnesi disponibili........ per chi cerca qualcosa di più, questo genere di svago all’aria aperta è diventato un processo autodistruttivo, in cui si cerca senza mai veramente trovare alcunché: una delle grandi frustrazioni della società meccanizzata”.


La grave minaccia del turismo



Sappiamo che le aggressioni patite dalla natura hanno avuto le più svariate origini, tra cui quelle legate alle attività industriali, alla cementificazione, al disboscamento, alla crescita demografica.

Ma a queste forze negative s’è aggiunta in questi ultimi anni, come abbiamo appena visto, l’azione distruttiva esplicata dal turismo di massa, sia tramite le sue infrastrutture dirette che per mezzo di quelle indotte. Si tratta di una invasione senza precedenti che non ha risparmiato nessuna parte del pianeta, con punte  che si concentrano ovviamente nelle località più accessibili e spesso in quelle più ricche di fascino paesaggistico. Ma, troviamo turisti dappertutto: nell’Artico per fotografare gli orsi bianchi standosene comodamente seduti in un pullman, nelle isole del Pacifico, in Alaska, nelle riserve, nei parchi nazionali. Le coste, specie quelle italiane, sono state cementificate e assalite per far posto ad alberghi, ville, spiagge attrezzate,  cancellando in tal modo ogni traccia di ambiente  incontaminato, com’è accaduto, ad esempio, in molte località della Sardegna. Poi è arrivato il turismo montano con l’esplosione dell’escursionismo che invade anche i punti più reconditi della montagna, privandola in tal modo della tranquillità che è il suo precipuo attributo. Oltre a frequentare i sentieri segnati che conducono un po’ dappertutto, le masse degli escursionisti perlustrano ogni luogo, spesso comportandosi in maniera incivile (schiamazzi, abbandono di rifiuti, accensione di fuochi, campeggio in luoghi non consentiti). In Italia il fenomeno è talmente diffuso da far temere della sorte degli equilibri della montagna, soprattutto per quanto concerne le Alpi; basti pensare che nei mesi di punta alcune ascensioni devono essere effettuate in fila indiana (occorre ricordare che le Alpi, nella loro interezza, vengono visitate ogni anno da oltre 100 milioni di turisti a fronte di una popolazione residente di 12 milioni). Gli escursionisti, questa vasta schiera di moderni trovatori che non insegue rime di poesie provenzali, ma sogna la conquista di cime appenniniche o alpestri che immortala poi in innumerevoli foto, veri cimeli da mostrare orgogliosamente agli amici. Infatti l’aver raggiunto una cima, o una remota valle, o un lago montano è impresa che l’escursionista celebra con accenti di vittoria, quando invece il suo animo rimane spesso quasi del tutto sordo al lirismo dei paesaggi che man mano si schiudono, nè riesce a percepire la bellezza delle tenui luci del sottobosco, o del sommesso mormorio dei torrenti, o del vellutato e misterioso canto del cuculo (vigono le dovute e corpose eccezioni). Per non parlare poi del disinteresse e della non percezione verso gli aspetti negativi inflitti dall’uomo sui territori che l’attivo escursionista sta attraversando (snaturamento dei luoghi, impatto delle strutture presenti in natura, rifugi, ecc.). Anzi, se un luogo non è ben “umanizzato” (p.e. con cartelli indicatori ben evidenti, sentieri chiari e battuti, ecc.) sente il dovere di lamentarsi e di definire quell’ambiente del tutto “abbandonato” o male “gestito”.  Che dire poi dell’alpinista tutto teso alla “conquista” di una parete rocciosa? In questo caso l’ambizione non si appaga di una foto ricordo, ma mira a cose molto più alte, come possono essere la risonanza nazionale o mondiale del “record”, o una fruttuosa sponsorizzazione, o anche i diritti di autore derivanti da un’improvvisa folgorazione letteraria. Si aggiunga poi che lo stesso alpinismo ha ormai perso quella dimensione genuina che lo distingueva negli anni passati, tanto da trasformarlo, come detto, in una sorta di competizione a suon di record e di ritorno di immagine. Nascono e si sviluppano così i rifugi di montagna (legati ovviamente anche all’escursionismo), vie ferrate, palestre di roccia, ecc. Scrive Malatesta (1997): “La sublimazione della montagna, processo inevitabile e che fa parte del suo fascino, esaltando la forza perenne e il potere ritenuto indomabile della natura, ha fatto dimenticare la fragilità del suo ecosistema e di come sia abbastanza facile annientare il ‘richiamo’, al di là di una retorica a volte insopportabile. Spiega bene Carlo Alberto Pinelli, orientalista, documentarista e coordinatore internazionale di Mountain Wilderness, che la cultura della montagna non precede, ma segue la cultura della società in cui è immersa. Gli alpinisti erano romantici in epoca romantica, nazionalisti nel più acceso periodo nazionalistico e ora sono diventati consumistici. Si commuovono davanti alla bellezza della natura incontaminata, ma in realtà sono legati al mondo da cui vogliono fuggire, trascinandosi dietro i suoi vizi peggiori: una competizione eccessiva e nevrotica, l’aggressività, l’uso della montagna come pretesto per dubbie ambizioni. E l’ambiente come nemico da conquistare”.

Per non parlare poi dello sci-alpinismo che arreca per parte sua un notevolissimo disturbo alla fauna durante il delicato periodo invernale e dello sci di discesa che, enormemente facilitato dagli impianti di risalita (in Italia oltre 3.000 chilometri di funivie), nonché da tutte le strutture annesse (alberghi, punti ristoro, ecc.) sta letteralmente devastando le montagne, tanto più se si pensa che in questi ultimi tempi si è arrivato a portare gli sciatori in quota con gli elicotteri (elisky)! Notevole disturbo arreca anche lo sci-escursionismo e lo sci di fondo perché sono divenuti fenomeni di massa che concentrano un gran numero di persone nelle montagne. Altri “devastatori” della montagna sono i ciclisti muniti delle mountain-bike, divenuti in pochi anni un vero flagello. Si pensi che negli Stati Uniti, dove queste biciclette sono nate, si è arrivato al punto di  proibirne il transito in molte località  di montagna. Negli ultimi anni si va sempre più diffondendo la pratica del volo a vela con gli alianti che spesso frequentano proprio i territori vitali dei rapaci o sorvolano a bassa quota aree protette apportando gravi disturbi alla fauna. Al volo a vela va aggiunto la pratica del deltaplano e del sempre più diffuso parapendio. Analoga manomissione registrano gli ambienti costieri e tutte le zone dei laghi mortificate da impietose colate di cemento e invase da fiumane di turisti e vacanzieri. Nelle coste così devastate dove potrà più trovare rifugio l’aquila di mare o il falco pescatore? Non dimentichiamo poi lo sfruttamento degli animali per fini turistici e pubblicitari. Animali sfruttati, ridotti a macchine per gli illusori vantaggi del momento. Animali “usati” e “ammaestrati” per il dubbio divertimento dell’uomo (che poi portano solo vantaggi economici a chi pratica tali attività. Si pensi agli acquari con delfini, orche ed altro, agli animali nei circhi, agli animali negli zoo-lager, ecc.). Infine è opportuno ricordare l’attività sempre più diffusa esplicata da fotografi e cineasti "naturalisti" che spesse volte è fonte di notevole turbamento per la vita degli animali selvatici soprattutto durante il periodo riproduttivo. Con gli esempi ci fermiamo qui.

Scrive F. Zunino (1995): “Non si gridi, quindi, allo scandalo o all’oppressione delle minoranze ogni qualvolta si prendono provvedimenti a difesa della Natura ledendo quelli che sono solo supposti diritti. Non si additi sempre il danneggiatore più “grosso”, da colpire prima di loro, ripetendosi di categoria in categoria, perché per ognuno sono sempre ‘gli altri’ il vero pericolo, quelli da colpire: come gli evasori fiscali!

In Italia è permesso scalare praticamente ovunque, andare in mountain bike praticamente ovunque, sciare su neve, pascoli e ghiaioni praticamente ovunque, discendere fiumi e risalire canaloni praticamente ovunque, scalare cascate di ghiaccio praticamente ovunque: tutte nuove ‘arti’ di uso della Natura: ma è sufficiente che si metta un solo divieto a queste attività perché tutti strillino alla lesa maestà delle loro categorie; non uno che si faccia un esame di coscienza. Invece non dovremmo mai dimenticare che l’uso ricreativo della natura resta comunque quello più avulso e falso nel contesto ambientale, che più nulla ha dell’antico sano rapporto d’equilibrio. Per assurdo, in fondo, il più giusto rapporto con la natura è quello di rinunciare a viverla! E proprio perché questo assurdo non debba finire per diventare l’unica regola per salvaguardarla, dobbiamo porci dei limiti e accettare delle regole”. (N.B. Lo scritto di Zunino è stato inserito in questo paragrafo per integrare meglio il discorso fatto sulla problematica turistica, ma il significato del testo può senz’altro essere valido per tutte le altre attività dell’uomo come quelle del lavoro, del cosiddetto “sviluppo” e in genere dello stile di vita di ognuno di noi).

“E’ chiaro, e non servono ulteriori spiegazioni, che l’utilizzo di massa diminuisce in maniera diretta le possibilità di solitudine e che quando si intendono i luoghi per campeggio, i sentieri e i gabinetti come altrettanti elementi di ‘sviluppo’ delle risorse inerenti alle attività di diporto, si afferma qualcosa di falso. Queste facilitazioni per le folle, infatti, non sono assolutamente un fattore di sviluppo, nel senso di arricchimento o crescita ma, al contrario, sono solo acqua aggiunta a una minestra già insapore” (A. Leopold, 1949-1997).

Per concludere osserviamo che sarebbe necessario sensibilizzare l’opinione pubblica in ordine agli effetti devastanti esercitati dal turismo di massa, affinché si pongano allo studio ipotesi di salvaguardia dell’ambiente naturale, ma occorre purtroppo convincersi che i grandi vantaggi economici apportati dal turismo di massa rappresentano un ostacolo insormontabile. “L’andar soli offre un doppio vantaggio: il primo di essere con se stessi, il secondo di non essere con gli altri” (A. Shopenhauer).



Il mercato dell’ecologia



“Dedica mezz’ora al giorno a pensare al contrario di come stanno pensando i tuoi colleghi” (A. Einstein).

Oggi tutto è in vendita e tutto è venduto. Il mercato, parola sacra della civiltà occidentale è il pane quotidiano di tutte le forze governanti. La mercificazione della natura, al pari di quella sociale, sta di conseguenza raggiungendo livelli spaventosi. Le tematiche ambientali sono continuamente subordinate al mercato e questo non solo per il volere degli economisti, ma anche per buona parte del mondo ambientalista che si è ormai arreso palesemente alla combinata natura-sviluppo-mercato (la produttività dei parchi ne è il più chiaro esempio). E’ un atteggiamento estremamente negativo che solo le forze ambientali più radicali, profonde e scevre dalla politica stanno combattendo, mentre “gli ecologisti” di maniera, dell’opportunità della “poltrona”, vogliono ulteriormente sviluppare. La natura “immagine” o meglio la natura “spettacolo” viene venduta quotidianamente da una operazione sagacemente pianificata. In tal senso agiscono non più i singoli operatori di settore, ma riviste altamente accreditate, quotidiani, intere Regioni, associazioni ambientaliste, forze politiche, gestori di aree protette (i direttori dei parchi sembrano più dei “manager aziendali” che operatori di questioni naturalistiche), ecc. Se prima la natura veniva venduta per i suoi “prodotti”, ora, oltre che per questi, viene venduta anche per la sua immagine.

Dicono che ormai la natura si può tutelare solo se garantisce “sviluppo”, solo se il tornaconto sia economico e di immagine (l’ecoturismo di massa ormai lo conosciamo tutti). Per il resto, la vera conservazione di un orso, di un lupo o di un paesaggio, non importa quasi più, perché è ben altro ciò che “rende”. In ogni caso un’aquila vale per l’immagine che offre, non per il suo valore in sé. Il mercato dell’ecologia è il colpo di grazia ad una natura ormai da tempo agonizzante e morente. Se da certe forze ci si aspettava almeno un piccolo contributo, ciò è venuto meno e lo sconforto non può che assalire chi ancora crede nella purezza degli intenti e nel valore in sé delle cose. E’ giunto il momento di smascherare una situazione che, se agli economisti o agli arrivisti della società occidentale capitalistica sta molto bene, non può essere accettata da chi vuole ancora sperare in un futuro non dominato da un uomo tecnologico/economico che vede solo nei propri interessi personali o di gruppo l’unica realtà di questa terra. Il silenzio, sulla questione trattata, è ormai diffuso e quasi nessuno ha il coraggio di opporsi a questo strisciante modo di pensare e di fare. Ci sono però delle eccezioni, anche autorevoli, ed è piacevole, per chi ancora crede in una natura che ha un proprio valore, nel riportare il passo che segue, scritto da un convinto e profondo ambientalista. Eccone un breve quanto significativo stralcio: “Ormai stiamo arrivando al mercato dell’ecologia. E bisogna pure che qualcuno inizi a dirlo..... In pochi anni tutta la valenza ‘rivoluzionaria’ del valore-ambiente è stata perfettamente e tranquillamente inglobata dal valore-mercato attraverso il passaggio dello ‘sviluppo sostenibile’. In altri termini, questa nostra società mediatica, strutturata per formare consumatori (e consenso) in batteria, con una sapiente e veloce operazione sociale e politica, ha ridotto l’ambiente, da valore fondamentale, a sé stante e alternativo, a semplice e innocua patina con cui rafforzare i valori dell’economia di mercato. Ormai, l’ambiente non conta più di per sé ma solo se e in quanto crea occupazione, fa crescere i consumi (e il mercato), aumenta il dio PIL: così come si conviene quando c’è un governo di ‘risanamento economico’.

Il fatto più preoccupante è che questa operazione è stata, ed è, avallata anche da una parte del mondo ambientalista, la quale, per timore di diventare ‘marginale’ in una società incentrata sul valore-mercato, ha adottato la ‘tattica’ di ‘coniugare’ e ‘contaminare’ l’ambiente con i valori economici dominanti; fatto del tutto scontato nell’ambientalismo italiano, mai affetto da fondamentalismo, e da sempre attento al binomio economia-ecologia.......

Siamo passati, insomma, ‘dallo sviluppo sostenibile’ all’ecologia di mercato e stiamo rapidamente arrivando al mercato dell’ecologia......

Ed allora, per evitare equivoci, sarà meglio premettere con chiarezza, ogni volta, che noi difendiamo e continueremo a difendere l’ambiente di per sé, e non perché è funzionale ai ‘valori’ di mercato” (Amendola, 1997).

Per quanto attiene specificatamente alle aree protette occorre ricordare (considerazione più volte espressa in questo lavoro) che purtroppo i “manager” che gestiscono le aree protette o spesso gli enti regionali e governativi, non si curano affatto, salvo sporadiche eccezioni, di attuare realmente e concretamente una seria politica ambientale che tuteli in primis le esigenze della natura in generale. Oggi nelle aree protette di molti distretti europei si parla sempre più della loro resa economica (“la produttività economica dei parchi”), della loro immagine turistica (l’ecoturismo!), delle loro potenzialità di accogliere al meglio i visitatori, ma quasi mai, in senso reale e pratico, del loro status selvaggio e dei reali interessi della fauna. Questo modo di fare, per quanto attiene a specie a rischio, sta indirettamente e definitivamente compromettendo la loro esistenza. Se l’operato di un bracconiere viene giustamente additato come fatto gravissimo e negativo, il pernicioso e subdolo operato degli enti preposti al governo dei territori protetti, passa del tutto inosservato, anzi spesse volte l’opinione pubblica ignara delle reali situazioni, plaude loro inconsapevolmente. Conclude ironicamente Zunino in un suo articolo sulla “conservazione attiva” nella logica del parco produce: “..... Sembra che oggi la natura si possa salvare e proteggere anche in questo modo nuovo e moderno di fare conservazione, affinché possa in primo luogo produrre comunque danaro sonante!”.



Il naturalista/biologo contemporaneo



“Che ti move, o omo, ad abbandonare le tue proprie abitazioni delle città, e a lasciare li parenti ed amici, ed andare in lochi campestri per monti e valli, se non la naturale bellezza del mondo ?...” (Leonardo da Vinci).

Il naturalista “spirituale” e “profondo” si volge ad osservare la natura con lo stupore che pervade chi si appresta ad ascoltare con umiltà di spirito e di intelletto il misterioso concerto col quale l’universo scandisce la propria dialettica. L’attenzione di quel ricercatore non si dirige ad uno specifico fenomeno naturale, ma si interessa della natura nella sua totalità, si arricchisce del suo fascino e ne ricava a volte intuizioni tali, da far compiere un salto di qualità alla ricerca scientifica.

Del tutto diversi sono gli interessi reali del naturalista superficiale che soggiace ad una sorta di esasperazione delle categorie aristoteliche, ossia ad una specializzazione portata alle sue estreme espressioni, in ciò assecondato dallo straordinario sviluppo tecnologico; accade così che egli si trasformi, in molti casi, in una specie di “computer” ambulante, che raramente si allontana dall’Università o da altri laboratori per effettuare l’osservazione sul campo e, quando vi si piega, non vede l’ora di ritornare tra le fidate mura dei gabinetti scientifici per “scaricare” nel computer i dati frettolosamente raccolti (vigono le dovute eccezioni). “La mente moderna divide, specializza, pensa per categorie....” (Adorno et. alii., 1991), oppure, citando Thomas Kuhn, “la scienza normale è un tentativo strenuo e determinato di costringere la natura nelle caselle concettuali fornite dall’istruzione professionale”.

Questo declassare la natura da categoria dell’universo a mero strumento di competizione utilitaristica, riguarda quindi la cosiddetta “ricerca” scientifica? Certo, qui la riflessione deve farsi più attenta e circospetta, giacché la ricerca è materia che incute un timore reverenziale, quasi che la sua carica esoterica sia pari a quella che circondava l’antica alchimia. È vero, si rimane ammirati innanzi al paziente metodo del botanico o dello zoologo, che tutto annotano, ordinano, sperimentano e - alla fine - catalogano con estremo rigore. E che dire dei mostri in camice bianco che “torturano” nei laboratori di tutto il mondo milioni di animali sia per ricerche medico-farmaceutiche che per studi etologici (p.e. le ricerche sul comportamento degli scimpazè in gabbia ridotti a vere e proprie macchine). Da questa attività i solerti “ricercatori” trarranno senza dubbio un accresciuto prestigio accademico e una grande notorietà all’interno dell’opinione pubblica, ma è tuttavia lecito chiedersi se, al di là della speranza di conseguire questi ambiti riconoscimenti, essi siano stati mossi anche dal rispetto per la natura, che è un rispetto del tutto indifferente alla fama e al prestigio. Rispetto per la natura significa anche “sentire” che l’esemplare di orso, poco prima osservato e catalogato, non è soltanto un’entità da racchiudere nell’elaborazione di dati statistici, ma è una creatura che deve essere riconosciuta ed ammirata per quello che essa è, e per quello che essa rappresenta all’interno del mirabile ordine/disordine universale.

Scrive Brian Martin (1993): “Gli esperti scientifici sono i nuovi santoni della società moderna. Sentenziano su qualunque argomento con la massima delle autorità, quella scientifica. Criticarne l’opinione è eresia.

Eppure si può fare. Anche gli esperti sono vulnerabili, in molti modi. I loro dati possono essere messi in discussione e anche le ipotesi su cui si basano. Si può contestare la loro credibilità e anche la loro competenza in quanto tale. I loro punti deboli possono essere svelati e sfruttati senza pietà........

Gli anarchici sono contrari ad ogni sistema in cui un ristretto numero di persone domina sugli altri. A loro modo di vedere, le decisioni andrebbero prese direttamente dalla gente, sulla base di un dialogo libero e aperto. Il sapere è importante, ma dovrebbe essere un sapere accessibile e utilizzabile da parte di tutti. Oggi, invece, la ‘competenza’ è tanto specialistica ed esoterica da essere utile soltanto agli esperti e ai loro datori di lavoro....... Una società egualitaria e partecipativa darebbe certo un alto valore alla conoscenza, ma la renderebbe disponibile a tutti e non esclusivo appannaggio delle elite..... Eppure è raro che il ruolo degli esperti venga messo in discussione in quanto tale...... E’ tempo invece di incoraggiare la gente a pensare con la propria testa invece di affidarsi continuamente a qualcun’altro”.

“L’esperto è colui che sa moltissimo su pochissimo” (N. M. Butler).

Giova qui ricordare il pensiero e la vita pratica di un biologo canadese, Sam Miller, che si occupava di ricerche sugli orsi e su altre specie animali il cui “habitat” ricadeva nello sterminato territorio del Canada. Giorno dopo giorno egli si rendeva conto che la sua “forma mentis” era sempre più “imbrigliata” dalla ricerca pura e astratta che lo costringeva a trascorrere la maggior parte del tempo dinanzi al computer per elaborare dati ed a riempire tabelle. Un giorno, all’improvviso, disse basta, lasciò tutto e si rifugiò nella tundra canadese, poco oltre le grandi foreste di conifere. Lì oggi vive in un piccolo chalet dove ospita, come una sorta di albergatore sui generis, quelli che vogliono trascorrere in quei luoghi giorni indimenticabili; in questo modo egli si guadagna da vivere e può girovagare in quella natura selvaggia munito del binocolo e di taccuino per gli appunti, alla stregua di un naturalista spensierato che, quasi con l’animo di un fanciullo, si entusiasma dinanzi ai meravigliosi scenari della natura (vedasi ad esempio John Muir o Sigurd Olson). 

Il naturalista che oggi indaga nella natura come fa Sam Miller è al di fuori della competizione scientifica, al di fuori delle carriere universitarie o dei riconoscimenti di prestigio, né può intervenire in convegni altolocati dove si discutono le relazioni dei “sapienti”, giacché un naturalista di tal genere è certamente “fuori mercato” ed è perciò irriso dalla confraternita dei ricercatori. “L’indiano che riesce perfettamente a trovare la sua strada nel bosco, è dotato di un’intelligenza di cui l’uomo bianco non dispone. Osservarla aumenta la mia capacità, e così pure la mia fede. Mi rallegro di scoprire che l’intelligenza scorre in canali diversi da quelli che conosco” (H. D. Thoreau - in AA. VV., 1995).

Si è voluto citare l’esperienza di Sam Miller poiché essa non proviene, come qualcuno potrebbe pensare, da un naturalista frustrato nelle sue ambizioni, e perciò critico del sistema, ma è un’indicazione, anzi è un merito che si leva ad alta voce da un naturalista che poteva primeggiare nel “sistema”, se lo avesse voluto. Col seguente pensiero di H. D. Thoreau sembra completarsi il ritratto di Sam Miller:”Lo studioso che ha solamente armi letterarie è incompleto. Deve essere un uomo spirituale. Deve essere preparato al cattivo tempo, alla povertà, all’offesa, alla stanchezza, alla dichiarazione di fallimento, a molte altre contrarietà. Dovrebbe avere tanti talenti quanti più può” (23 giugno 1845). Sempre facendo riferimento a Thoreau, Worster scrive (1994): “I fatti dovevano diventare esperienze per l’uomo nella sua interezza, non mere astrazioni in una mente scissa dal corpo, e il naturalista doveva immergersi completamente negli odori e nelle trame della realtà percepibile..... ‘Giri senza meta con un impermeabile, bagnato fino alle gambe, ti siedi sulle rocce coperte di muschio e sui ceppi ad ascoltare il verso delle rondini migratrici che volteggiano tra le querce.... a casa nonostante tu sia all’aperto, comodo nonostante tu sia bagnato, affondando ad ogni passo nella terra in disgelo’”.

Essere preparati al cattivo tempo, alla povertà, alla stanchezza dice il Thoreau, e - si potrebbe soggiungere - essere preparati ai pericoli e alla drammaticità della solitudine, come lo erano gli uomini primitivi che, col vivere secondo le leggi naturali, acquisivano la perfetta conoscenza del loro ambiente.

Scrive G. Celli a proposito del naturalista Bernd Heinrich (riferendosi alla sua opera “Corvi d’Inverno, 1992) ".... il buon Heinrich non è uno psicologo, proclive ai congegni tecnologici e al laboratorio, è un naturalista, e pensa che l'occhio, a presa diretta con il cervello, e quindi con il giudizio, resti ancora uno strumento organico insostituibile per cogliere le peculiarietà del comportamento animale........ un conto è osservare l'animale dal vivo, e un conto sul video. In questo secondo caso, mancano gli odori del bosco, il rumore del vento tra gli alberi, la meravigliosa liquidità del cielo d'inverno, quel paesaggio vivente che respira attorno all'animale nel bersaglio. Del cannocchiale, si capisce!...".

Su queste considerazioni dovrebbe meditare il naturalista di oggi, onde riappropriarsi delle ragioni della natura che sono ben lontane dalle ragioni del successo cattedratico, e ancor più lontane "dall'accanimento dell’indagine”, oggi di moda (radiocollari, catture continue per studi fisiologici, ecc.), che non solo disturba gli animali che ne sono oggetto, ma li danneggia ed invade per di più quella che potrebbe essere definita la “privacy fisiologica” dei poveri inquisiti, e tutto con il principale intento di fare uno “scoop” che abbia risonanza in una pubblicazione scientifica di prestigio. Il naturalista, invece, potrebbe svolgere un ruolo importante nella divulgazione del concetto del valore in sé della natura e quindi della sua reale conservazione. Scrisse Adolph Murie (in Heacox, 1991), studioso dei lupi dell’Alaska: “Ricordo la prima impronta di orso che vidi in vita mia...... Tutto ciò che vedemmo fu un’impronta in una pozzanghera di fango. Ma l’impronta era un simbolo, ancora più poetico che il vedere lo stesso orso - un approccio delicato e profondo allo spirito dell’Alaska selvaggia. In qualunque momento l’impronta di un orso può creare un’emozione più forte che il vedere l’orso stesso, perché viene chiamata in gioco l’immaginazione. Ti metti a osservare accuratamente il paesaggio, aspettando di vederlo comparire a ogni momento, mentre l’attenzione si affina e si rinvigorisce. L’orso è da qualche parte e può essere dovunque. La zona si è improvvisamente vivificata, ha acquisito una qualità nuova e più ricca”.

Ma come si è già notato, il ricercatore dei nostri giorni, fatte le dovute eccezioni, non ama eccessivamente le “uscite sul campo” ma predilige riferirsi più spesso alle esperienze maturate da altri, che a loro volta si abbeverano ad altre fonti, sì che sia gli uni che gli altri si giovano di una quantità di dati che, opportunamente elaborati, vanno a formare relazioni o pubblicazioni che si impongono alla generale attenzione per la loro voluminosità. Lo sviluppo della specializzazione scientifica ha portato ad una sorta di “sordità specialistica” (Boulding in Pignatti 1994), cioè all’incapacità di percepire i caratteri generali di un sistema a causa della concentrazione ossessiva dell’attenzione sui particolari (Pignatti, 1994). La nozione olistica di paesaggio tende invece a superare questa particolare “sordità” ricercando una rappresentazione globale del sistema (Pignatti, 1994). L’etnologo ed esploratore norvegese Thor Heyerdahl (Del Re, 1997) ci ricorda che “presto ci renderemo conto che per salvarci dovremo collaborare e cominciare a capire il mondo nel quale viviamo. Servirà un atteggiamento più interdisciplinare, quasi ecumenico. Servirà più coordinamento tra le varie discipline scientifiche, ma anche tra la biologia e la teologia, tra la fisica e la filosofia. Perché chi è un’autorità in un campo specifico di solito è il più ignorante al di fuori di quel campo”. Completa il discorso Rocco Guy  Jaconis (1992): “Quando era un laureando in biologia della selvaggina alla Cornell University, nella mia mente avevo organizzato il mondo naturale in tanti piccoli compartimenti. Trentacinque anni di esperienza nella natura e nell’insegnamento, mi hanno fatto invece comprendere che c’è una sottile, travolgente, comprensione la quale non è divisibile in compartimenti, e che è parte della conoscenza quotidiana delle genti primitive, in tutto il mondo”.

La natura, in tutte le sue manifestazioni, non è un laboratorio “scientifico”, tecnico, categorico ed asettico. Un membro di una comunità selvaggia non conosce l’ambiente circostante secondo un approccio “razionale e scientifico”, ma secondo un dettame istintivo e “mentale”. Ora noi, nel nostro pensiero contemporaneo, riduciamo i fenomeni naturali alla pura sfera scientifica, archiviandoli come concetti che hanno significato solo se analizzati e sezionati da questo punto di vista (leggasi razionalismo cartesiano). Occorre invece “sentire” diversamente le cose, e porsi nella natura con una visione spontanea, intuitiva ed olistica. La scienza naturale, invece, deve essere concepita esclusivamente come il “prodotto” successivo di una visione filosofica e spirituale della conoscenza. “Il primato del ‘razionale’ sull’’emotivo’ e sull’’intuitivo’ è solo un pregiudizio della cultura occidentale odierna” (Dalla Casa, 1996).

L’analisi ecologica che ne deriva deve muoversi in “profondità” senza fini “antropici” anche solamente sottintesi, e deve approdare ad una visione transpersonale e non egocentrica (leggasi ecologia profonda). Il naturalista “profondo” deve quindi riconoscere il valore intrinseco della natura e deve imparare a non definirla, poiché, come detto, “il Tao definito non è l’eterno Tao” (Lao Tse).

Worster (1994) evidenzia bene la visione “stretta” dello scienziato: “La delusione di Leopold per il paesaggio troppo artificiale influenzava anche la sua fede nella scienza; egli era giunto a pensare che la capacità di percezione dei ricercatori accademici fosse troppo limitata per cogliere la completezza della natura, fattore essenziale per realizzare una protezione ambientale a vasto raggio. Uno dei saggi di Sand County Almanac dal titolo Storia naturale - La scienza dimenticata, rappresenta un appello al ritorno all’educazione all’aperto, olistica, ad uno stile scientifico aperto ai dilettanti e agli amanti saggi della natura , più sensibile al ‘piacere di essere immerso in una natura selvaggia’. Nei laboratori e nelle università si insegnava che ‘la scienza è al servizio del progresso’; essa faceva lega con la mentalità tecnologica che regimentava il mondo inseguendo il progresso materiale e doveva quindi essere trasformata insieme alla tendenza manageriale”.

Scrive l’impeccabile penna di Della Casa (1996): “........ ricordiamo che Bateson chiama ‘follia riduzionista’ l’idea che si possa descrivere con pienezza ontologica la Natura, che è molto più ricca di significato di quanto non sia possibile rappresentare. La complessità fisico-spirituale del mondo naturale è infinita: solo con la percezione intuitiva se ne può avere una pallida idea.

Il paradigma della semplificazione si basa su quella che è stata chiamata la ‘schizofrenica dicotomia cartesiana’, il dualismo fra il cogito soggettivo e la rex exstensa oggettiva. La scienza occidentale è stata fondata (fino alla prima metà di questo secolo) sull’eliminazione del soggetto, nella convinzione illusoria che gli oggetti, esistendo indipendentemente dal soggetto, possano essere studiati in quanto tali”.

Quali conclusioni trarre dalle considerazioni sulle quali ci siamo finora intrattenuti? Una è certamente la più importante: è necessario che la mente del naturalista si volga esclusivamente all’osservazione della natura, liberandosi dall’acriticismo, dal dogmatismo scientifico e dall’idolatria degli archetipi accademici ed antropici che riducono la scienza a livello di vuoti rituali officiati da alcuni “grandi turiferari”. Ovviamente il naturalista contemporaneo non può essere visto solo in questa luce negativa che abbiamo appena tratteggiato. Ci sono le dovute eccezioni e ci sono “scienziati” che si discostano nettamente da quella visione dogmatica e antropocentrica. E’ certamente nutrita la lista di “operatori” del settore che si dedicano veramente alla conservazione e alla ricerca con una visione globale e profonda. Questo per onor di verità!

“Anche le piante mi interessavano, ma non scientificamente. Ero attratto da esse per un motivo che mi sfuggiva, e col sentimento che non dovessero essere estirpate e seccate: erano esseri viventi che avevano significato solo finché crescevano e fiorivano, un significato nascosto, segreto, uno dei pensieri di Dio. Dovevano essere considerate con reverenziale timore e contemplate con filosofica meraviglia. Ciò che poteva dire la biologia era interessante, ma non era l’essenziale” (Carl Gustav Jung).


Lo “sviluppo” tecnologico e scientifico.

Un mondo in antitesi alla natura



“Come i venti e i tramonti, la vita selvaggia era considerata sicura finché il cosiddetto progresso non ha cominciato a portarla via. Ora ci troviamo di fronte al problema se un ancora più alto livello di vita valga il suo spaventoso costo in tutto ciò che è naturale, libero e selvaggio” (A. Leopold).

Nell’era dei personal computer, e del tutto elettronico, appare quasi anacronistico scrivere una lettera a mano, o leggere un libro di sera, senza guardare la televisione. La vita tecnologica condiziona ormai il modo di vivere e, quel che più preoccupa, la condizionerà maggiormente nell'avvenire, fino a trasformare l’uomo in una sorta di robot, non più mosso dai sentimenti ma soltanto da impulsi elettrici. Alcuni scienziati e sociologi affermano con convinzione che proprio la tecnologia consentirà di salvare il pianeta terra dall’autodistruzione, giacché l’affinamento della ricerca si tradurrà nella realizzazione di macchine poco inquinanti, di basso consumo e più efficienti. Ora, è inutile sottolineare l’inattendibilità di un’affermazione del genere, poiché se può essere vero che l’avanzare della tecnologia porta al miglioramento della qualità, è pur vero che, sotto la spinta della pressione demografica, è inevitabile che non si tenga conto del grado di pericolosità delle nuove scoperte, non osteggiate dall'autorità politica a causa delle rilevanti implicazioni sociali che il problema comporta. Anche la scoperta dell’energia nucleare sembrava  immune da effetti nocivi, invece poi - come sappiamo - quella innocua scoperta ha partorito la bomba atomica e il disastroso “effetto Chernobyl”. Alla stessa stregua si asseriva che le ricerche genetiche non avrebbero dato luogo a degenerazioni di sorta, poi da quelle sperimentazioni sono nati mostri che gli apprendisti stregoni non sanno esorcizzare. Qualche cosa di simile accadde nel XVIIIº e XIXº secolo, quando dalle ricerche condotte per puro spirito di conoscenza da Lavoisier, Gay Lussac, Boyle, Mariotte e Avogadro, si arrivò man mano alle applicazioni dei nostri giorni, quando l'abnorme crescita dei consumi collettivi, ha prodotto un grado di inquinamento chimico che, in modo diretto, o mediato, rischia di estinguere la vita sul pianeta terra. E. Goldsmith (1997) ci ricorda che “il progresso è antievolutivo e anti-Via che serve a sconvolgere l’ordine cruciale dell’ecosfera e a ridurne la stabilità”, mentre T. Roszak asserisce che “noi non siamo caduti tra le braccia di Gog e Magog: vi siamo progrediti”. J. Dorst (1990) a proposito dello sviluppo della scienza ci ricorda che “Di questa immensa e ingenua fiducia si è crudelmente abusato. La scienza non ha impedito le guerre, le violenze, le ingiustizie: le ha anzi rese più acute. I vantaggi da essa procurati sembrano controbilanciati dagli inconvenienti. Ogni progresso sembra farsi ripagare, talvolta dispendiosamente, con svantaggi ancora maggiori. La fisica delle particelle ci ha istruito sulla struttura della materia: noi ne abbiamo approfittato per creare l’arma nucleare. La chimica ha permesso di sintetizzare sostanze fino ad allora sconosciute e di proteggere le coltivazioni dagli attacchi dei predatori: ma noi abbiamo inquinato le terre, i mari e i fiumi riversando prodotti indistruttibili, generatori di problemi....”. Basta fare un’altra semplice riflessione: la grande foresta nordica, la Taiga, una volta al riparo dell’azione distruttrice dell’uomo grazie al suo isolamento geografico e ai rigori del suo clima, sta incominciando a vedere la caduta massiccia al suolo dei suoi giganti, al pari di quelli dell’Amazzonia, giacché la dilagante tecnologia produce macchine capaci di lavorare in quelle zone, con quel clima. Esordisce Kaczynskj nel suo manifesto (1997): “La rivoluzione industriale e le sue conseguenze sono state un disastro per la razza umana. Esse hanno incrementato a dismisura l’aspettativa della vita di coloro che vivono in paesi ‘sviluppati’ ma hanno destabilizzato la società, reso la vita insignificante, assoggettato gli esseri umani a trattamenti indegni, diffuso sofferenze psicologiche, inflitto danni notevoli al mondo naturale..... “. Scrive Dalla Casa (1996): “Il concetto di progresso è invenzione dell’Occidente per distruggere le altre culture umane e restare l’unica cultura del Pianeta: ha senso solo se si prende a riferimento una particolare scala di valori, che è sempre relativa ed arbitraria.

Il termine ‘sviluppo’ significa in realtà il grado di sopraffazione della nostra specie sulle altre specie e della civiltà industriale sulle altre culture umane”. Incalza Charles Russel (in Devall & Sessions, 1989): “Un pionere è un uomo che giunge in una terra vergine, cattura con le trappole tutte le bestie da pellicccia, uccide tutta la selvaggina, estirpa le radici (...). Un pioniere distrugge le cose e chiama questo civiltà”.

Konrad Lorenz (1984) asseriva che l’evoluzione non è di necessità finalizzata a un concetto di “meglio”, i meccanismi di adattamento non si identificano nelle idealizzazioni dell’uomo. L’attuale spinta evolutiva verso la tecnocrazia è una corsa verso il declino. “La società tecnologica estrania gli uomini non solo dal resto della natura, ma anche da se stessi e dagli altri; genera necessariamente finalità e valori distruttivi capaci spesso di compromettere l’interazione fra collettività salde e vitali e il mondo naturale.

La visione tecnologica del mondo ha come immagine ultima la totale conquista e il dominio della natura e dei processi naturali spontanei - l’immagine di un ‘ambiente totalmente artificiale’ rimodellato in base a norme umane e gestito dall’uomo per l’uomo” (Devall & Sessions, 1989).

E’ bene riflettere su quanto scrive Dalla Casa (1996): ” Il quadro concettuale dominante nella cultura europea fino al Seicento aveva tutte le premesse per iniziare una sistematica distruzione della Natura, ma mancava ancora qualcosa: il potere tecnico.

La spinta decisiva per entrare in possesso di tale potere è venuta dalla diffusione del pensiero di Cartesio, Bacone, Locke ed alcuni altri e dalla sistemazione delle scienze fisiche ad opera di Newton. La causa principale sono state le idee di Cartesio.

Quando le concezioni del pensatore francese, forse anche sull’onda di alcune felici intuizioni matematiche, si sono fatte strada nelle menti dell’Occidente, ecco formarsi il più espansivo e distruttivo modello culturale mai apparso sul Pianeta: la civiltà industriale.

E con essa è scoppiato il dramma ecologico”.

L’aberrante visione antropocentrica di Cartesio prende le mosse dalla sua netta distinzione tra “spirito” e “materia”. Solo l’uomo ha “il possesso” dello spirito, quindi tutto il resto, materia inerte, è a sua completa disposizione, forte anche dell’idea biblica “di separazione fra la nostra specie, protagonista, e il mondo, palcoscenico fatto per noi” (Dalla Casa, 1996). Tutto il mondo naturale vivente o non vivente è una sorta di grande macchina che si muove solamente sotto impulsi meccanici e metodici (gli animali per esempio sono solo degli automi che non provano alcuna sensazione o dolore). Al pensiero di Cartesio si associa quello di Locke, proteso, senza alcun rimorso, alla manipolazione, al controllo ed alla distruzione del mondo naturale. Completa il quadro Bacone che vede nel dominio della natura l’unica vera “missione” dell’uomo. Altri autori di rilievo ebbero invece una visione ben diversa delle cose (p. e. Leibniz), ma le loro filosofie non riuscirono ad imporsi come quella di Cartesio che invece divenne la colonna portante di tutto “lo sviluppo” occidentale (Dalla Casa, 1996). Sulla neutralità della scienza dinanzi alle concezioni metafisiche annota con acutezza Dalla Casa (1996): “La scienza ufficiale ricorre spesso a vere acrobazie intellettuali pur di non uscire dal paradigma cartesiano, che considera ‘ovvio’ ed ‘acquisito’. Così si trova in vie senza uscita, ed a volte è costretta a negare o a non considerare i fatti non inquadrabili in quello schema concettuale, pur di non mettere in discussione le premesse: e allora deve far sparire intere categorie di fenomeni di interferenza mascroscopica, o non-distinguibilità, fra spirito e materia, con la scusa che non sarebbero ‘ripetibili’”.

Scrive ancora Della Casa (1996): “Così l’umanità, la sola ad essere anche spirito, poteva fare ciò che voleva della natura, che sarebbe stata materia: questa idea ha aggravato il preesistente ‘diritto divino’. Con il materialismo, ultimo figlio dell’Occidente, cambia ben poco: materia contro materia, vince il più forte, che a suo piacimento può conservare pezzi di ‘natura originaria’ per allietarsi la vita: questa è l’ecologia di superficie”.

A proposito dell’intervento della tecnologia per il superamento dei problemi ambientali scrivono Devall & Sessions (1989): “Chi pratica la resistenza ecologica non accetta che esistano solo soluzioni puramente tecniche a problemi sociali in modo riduttivo (come l’inquinamento atmosferico). Questi problemi non sono altro che sintomi di questioni più ampie. Le soluzioni tecnocratiche presentano tre grandi pericoli. Il primo sta nel credere che far ricorso all’ideologia dominante e alla tecnologia sia l’unica soluzione accettabile. Il secondo pericolo è l’impressione che si stia facendo qualcosa mentre di fatto il problema reale continua a sussistere: aggiustare alla meglio distoglie dal ‘vero lavoro’. Infine c’è il pericolo di credere che nuovi esperti - come gli ecologi professionisti - possano trovare la soluzione al problema, mentre c’è il rischio che diventino gli addetti alle pubbliche relazioni di imprese ed enti con l’unico obiettivo di ottenere potere e profitto”.

Integra il discorso R. Galli (in Gamba & Martignitti, 1995): “Tra i prodotti dell’intelligenza e dell’attività umana la tecnologia è sicuramente quello che più di ogni altro è considerato responsabile del progressivo deterioramento del rapporto tra uomo e ambiente. All’impiego diffuso e persuasivo della tecnologia si attribuiscono infatti, in primo luogo,  i grandi mutamenti che l’uomo ha prodotto nel mondo naturale; non a caso per indicare il nuovo ambiente che ne è risultato è stato coniato il termine di tecnosfera. La storia della costruzione della tecnosfera si confonde con la storia dello sviluppo tecnologico ed entrambe con quella dell’emergere della questione ambientale......”.

La società contemporanea non è impostata sulla sobrietà e sull’equilibrio stazionario, ma sul consumo e sullo spreco delle risorse, in netta antitesi con la dinamica degli elementi naturali. Anche l’ex presidente degli Stati Uniti d’America (Clinton), simbolo dell’opulenza, dell’occidentalismo e del consumismo (gli americani sono il 5% della popolazione mondiale e consumano come il 35% - Storer et al., 1984), il 27 giugno 1997 in una dichiarazione alle Nazioni Unite ha asserito che la terra è in allarme rosso, sull’orlo di una crisi ambientale irreversibile. Ma poiché le questioni ambientali sono solo “formali” e non sostanziali, da simili discorsi non segue mai nulla di concreto e di esecutivo ma solo promesse di cambiamenti, parametri ipotetici da rispettare e così via (si veda anche la totale apatia e disattenzione verso i vari protocolli volti a ridurre l’impatto inquinante dell’uomo). Nessun intervento radicale e rivoluzionario viene sostenuto anche se siamo in allarme rosso: “l’Occidente è una nave che sta colando a picco, la cui falla è ignorata da tutti. Ma tutti si danno da fare per rendere il viaggio più confortevole” (E. Severino). Gary Snyder (1992) ci ricorda che “Se cercassimo davvero di insegnare loro i valori della civiltà occidentale.....non faremmo che vendere l’ideologia dell’individualismo, dell’unicità umana, della speciale dignità umana, dell’illimitato potenziale dell’Uomo, della gloria che arride al successo...... Dopo il protestantesimo, il capitalismo e la conquista del mondo, tutto sommato è forse questo il punto di arrivo della cultura occidentale”. Doug Peacock (da Snyder, 1992) riassume la cultura occidentale con tre assunti “Introversione ebraica, narcisismo greco, dominio cristiano”. Kaczynskj nel suo manifesto ci ricorda (1997): “Solo con la rivoluzione industriale l’effetto della società umana sulla natura divenne veramente devastante. Per alleviare la pressione sulla natura non è necessario creare un tipo particolare di sistema sociale; occorre solo liberarsi della società industriale. Ma anche quando questo principio fosse accettato esso non risolverebbe tutti i problemi. La società industriale ha recato inoltre un tremendo danno alla natura e passerà molto tempo prima di poterne curare le ferite. Persino le società preindustriali possono arrecare danni significativi alla natura. Nondimeno, liberarsi della società industriale realizzerà un grande progetto. Alleggerirà, nei suoi aspetti più devastanti, la pressione sulla natura così da poter rimarginare le sue ferite. Toglierà alle società organizzate la capacità di aumentare il loro controllo sulla natura (inclusa quella umana). Qualunque tipo di società possa esistere dopo il decesso del sistema industriale è certo che la maggior parte delle persone vivrà vicino alla natura, perché in assenza di tecnologia avanzata non vi è altro modo in cui la gente possa sopravvivere. Per alimentarsi dovranno tornare a essere contadini, pastori, pescatori, cacciatori, ecc. E, in generale, l’autonomia locale dovrà tornare a svolgere un ruolo significativo perché la mancanza di una tecnologia avanzata e di comunicazioni rapide limiteranno la capacità dei governi o delle altre grandi organizzazioni di controllare le comunità locali”.

Anche J. Dorst che è certamente un uomo di scienza e uno strenue difensore della ricerca scientifica sente la necessità di allarmare il mondo, attraverso le sue opere, per il profondo impatto ecologico che l’uomo riversa sull’intero pianeta. Scrive infatti (1990): “La civiltà industriale, spinta fino all’assurdo, sembra così portare in sé i germi della propria distruzione. La sua accelerazione prodigiosa fino al parossismo costituisce un esempio tipico di un fenomeno ben conosciuto dai biologi che studiano l’evoluzione delle stirpi animali. Una caratteristica apparsa con modestia si sviluppa progressivamente favorendo sempre più l’animale; la sua ulteriore esagerazione le fa presto superare i limiti della nocività: essa diventa allora contraria agli interessi stessi della specie, non avendo più alcun valore di adattamento. Molte specie sono sparite, nel corso delle ere geologiche, in seguito allo sviluppo mostruoso di una dello loro caratteristiche. Ciò che è vero per un animale lo è altrettanto per civiltà che hanno creduto per un momento che la loro crescita irragionevole fosse sinonimo di potenza e che sono sparite bruscamente, vittime del loro gigantismo........ Non si pensi dunque con distacco  alle culture che sono crollate con il passare dei secoli: la salute della nostra civiltà, così complessa e per questo stesso motivo così fragile, è una pura apparenza. I sintomi, il cui elenco si allunga continuamente, ce lo ripetono con insistenza”.

E’ fuori dubbio che alcune scoperte della scienza ci hanno portato dei vantaggi e del “benessere”, almeno per lo stile di vita contemporaneo (si pensi al campo medico, farmacologico, meccanico o ingegneristico), nè si può obiettare alcunché alla lunga lista di  “utilità” che, almeno in apparenza, la scienza ci offre (almeno per coloro che ci credono!). Questo però non dà la licenza ad una fede cieca ed acritica nei riguardi della ricerca scientifica e dell’operato degli addetti ai lavori. Non può certamente farsi di tutta un’erba un fascio ma occorre uscire fuori dagli schemi della mente contemporanea che par muoversi solo sotto gli impulsi del razionalismo e del meccanicismo. Scrive Bates (1970): “Mi sembra inutile, arrivati a questo punto, tentare di compilare una lista dei vantaggi specifici venuti alla civiltà da queste applicazioni della scienza, dato che i vantaggi, la “utilità della scienza” sono stati adeguatamente messi in risalto da tutti coloro che si sono presi il compito di “divulgare” la scienza..........

I vantaggi sono reali, ma mi domando se sono così grandi come i nostri divulgatori ci vorrebbero far credere....... L’intero concetto di progresso è qualche cosa che si è insinuato nella nostra mente con l’avvento e lo sviluppo della scienza, cosicché diviene difficile per gli scienziati sfuggire completamente al compito e alla responsabilità di determinarne la direzione e la velocità......

Soprattutto negli ultimi secoli siamo sfuggiti ai meccanismi che mantengono l’equilibrio e i rapporti nella comunità biotica. Siamo andati a briglia sciolta, come un’erbaccia introdotta in un nuovo continente. Abbiamo conservato il tasso di natalità a cui si era adattata la specie nella sua evoluzione attraverso la vita selvaggia del Pleistocene, e contemporaneamente abbiamo alterato radicalmente la natura e l’incidenza dei fattori che provocano la morte. Il risultato è una densità di popolazione che va al di là di ogni ragione, di qualsiasi possibilità di sostentamento, e non si vede ancora la fine”.

Sulla responsabilità morale della scienza moderna Hosle (1992) evidenzia che “Se paragoniamo il sapere biologico del nostro tempo con quello di Aristotele, il progresso è incommensurabile; ma se paragoniamo la sua consapevolezza della necessità dell’integrazione degli esseri viventi nella totalità dell’essere con il rifiuto da parte della moderna scienza della natura di riflettere sulle premesse filosofiche del proprio operato, allora ci assale il dubbio se questa evoluzione possa essere definita sotto tutti i rispetti come progresso; e per concludere, verrebbe voglia di parlare di decadenza se si paragonasse il senso di responsabilità morale proprio della scienza antica con il rifiuto, anzi con l’incapacità dello scienziato moderno di rispondere sul piano morale delle vaste conseguenze del proprio operato......

Son ben lontano da voler idealizzare il passato......; ma l’uomo non aveva il potere che oggi è nelle sue mani. E’ la sproporzione tra potere e saggezza che dà motivo di preoccupazione; e dal punto di vista storico questa sproporzione non può che coincidere con uno sviluppo del potere dell’uomo sulla natura quale soltanto la società industriale può consentire”.

Tornando ancora al manifesto di Kaczynskj (1997): “Immaginiamo un alcolizzato di fronte a una botte di vino. Immaginiamo che egli cominci col dire a sé stesso: ‘Il vino non ti fa danno se usato con moderazione. Perché, dicono, le piccole dosi di vino ti fanno persino bene! Non mi farà alcun male sorseggiarne un po’’. Sappiamo bene come va a finire. Non dimenticare che la razza umana rispetto alla tecnologia è un alcolizzato di fronte a una botte di vino”.

Concludiamo il paragrafo con una profonda riflessione di Fukuoka (2001): “L’uomo si vanta di essere l’unica creatura con la capacità di pensare. Pretende di conoscere se stesso e il mondo naturale, e crede di poter usare la natura a proprio piacimento. E’anche convinto che intelligenza sia sinonimo di forza e che qualsiasi cosa lui desideri sia alla sua portata.

L’umanità, evolvendosi, compiendo progressi nella scienza e ampliando smisuratamente la sua cultura materialistica, si è via via allontanata dalla natura ed è finita per costruirsi una civiltà propria, come un bambino capriccioso che si ribella alla madre. Tuttavia queste frenetiche attività, queste città gigantesche, hanno portato l’uomo verso gioie vuote e disumanizzate, verso la distruzione del proprio ambiente, mediante lo sfruttamento indiscriminato della natura. La dura punizione per esserci allontanati dalla natura e averla depredata delle sue ricchezze, si è manifestata con l’impoverimento delle risorse naturali e alimentari, gettando un’ombra oscura sul futuro del genere umano. Dopo aver aperto gli occhi sulla gravità della situazione, l’uomo ha finalmente cominciato a considerare il da farsi, ma, a meno che non sia disposto a un serio esame di coscienza, non potrà fare a meno di seguitare sulla via della totale rovina.

Estraniatosi dalla natura, l’esistenza umana diventa vana, la sorgente vitale e la crescita spirituale si inaridiscono. L’uomo si ammala e si indebolisce sempre di più a causa della sua strana civiltà che altro non è se non una inutile lotta per un frammento di tempo e di spazio”.

Il concetto che i processi mentali siano superiori nell’ambito umano è un’argomentazione del tutto pretestuosa, spocchiosa e che sa tanto di un ennesimo accentramento antropocentrico. Goldsmith (1997) ci chiarisce bene il concetto: “L’idea che i processi mentali dell’uomo siano categoricamente distinti da quelli di altri animali è un’assunzione gratuita che non si basa su nessuna conoscenza valida di alcun tipo. In particolare, è gratuito sostenere, come fa attualmente la scienza ufficiale, che solo gli esseri umani siano ‘intelligenti’ - tanto più che il termine non è mai stato definito in modo soddisfacente. Dichiaratamente, abbiamo dei test d’intelligenza, ma, come osserva Herrick, ‘non sappiamo esattamente che cosa misurino’. Alcuni autori, tra i quali Ashis Nandy, sostengono che l’intelligenza è poco più che ‘ciò che è misurato dai test d’intelligenza’”.


Lo stile di vita



“Come l’albero non finisce con le punte delle sue radici o dei suoi rami, e l’uccello non finisce con le sue piume e col suo volo, e la terra non finisce con i suoi monti più alti: così anch’io non finisco con le mie braccia, i miei piedi, la mia pelle, ma mi espando di continuo con la mia voce e il mio pensiero, oltre ogni spazio e ogni tempo, perché la mia anima è il mondo” (N. H. Russel, indiano Cherokee).

Il mondo della vita scorre come un fiume, a tratti placido a tratti impetuoso, e lungo il suo possente cammino accoglie nel suo letto tutti gli elementi dell’ambiente circostante e delle proprie interiorità. Si sente ormai nel cuore che occorre mutare il proprio stile di vita, occorre chiudere il cerchio per uscire dall’infame mondo dello “spirito” contemporaneo per collocarsi, quanto più possibile, alle parti marginali, per non ritrovarsi in punto di morte (parafrasando un po’ Thoreau) incatenati alle assurdità, alle sudditanze ed essere stati complici della morte della natura per poi non fare altro che amaramente comprendere di non aver vissuto.   

Nei secoli che precedettero l’Evo moderno il rapporto di dipendenza che intercorre tra un individuo e l’altro, e - con più ampia accezione - tra un individuo e la società che lo esprime, era di una semplicità estrema, ed egualmente semplici erano le conseguenti sovrastrutture socio - politiche. La produzione agricola, fondamento dell’economia, era affidata ad una società di contadini al cui interno ogni singola unità familiare costituiva un “unicum” economicamente autarchico. Si consumavano carboidrati, proteine e grassi che erano prodotti in proprio, si filava e si tesseva la lana ricavata dalla tosatura degli armenti, e si illuminavano le modeste dimore con le lucerne alimentate dall’olio ricavato dai propri oliveti.

Si coglie qui l’opportunità fornitaci dal riferimento alla lucerna per effettuare un raffronto tra quella convivenza “arcaica” e la convivenza di oggi: quando una famiglia appartenente a quell’antica società decideva di accendere la lucerna non doveva compiere che un atto semplice, sottratto ad ogni mediazione, riempiva cioè la lucerna con l’olio conservato nei grandi recipienti di terracotta; l’accensione di una lampadina elettrica è invece oggi un atto che mette in moto una centrale (p.e. la centrale atomica Phoenix in territorio francese), attiva una condotta elettrica ad alta tensione, e mette in moto tutta una serie di sinergie e di controlli che la grande distribuzione di energia richiede. L’accensione della lampadina è una esemplificazione che vuole emblemizzare l’odierna complessità tecnica - economica del rapporto consumo/produzione ma, com’è ovvio, vi sono altre migliaia di consumi che attivano rapporti altrettanto complessi, anzi spesse volte di una complessità ben maggiore, articolata com’è in innumerevoli variabili. “L’uomo ha smarrito la propria via nella giungla della chimica e dell’ingegneria, e dovrà ritornare sui suoi passi, per quanto doloroso ciò possa essere. Dovrà scoprire dove ha sbagliato, e far pace con la natura. Nel far questo, forse potrà riacquistare il ritmo della vita e l’amore per le cose semplici della vita, che saranno per lui una gioia che si rinnova ogni giorno” (R. St. Barbe-Baker in Goldsmith, 1997).

Occorre altresì sottolineare che la maggior parte dei consumi oggi disponibili esprime una straordinaria forza di seduzione nei confronti dei potenziali utilizzatori; così, ad esempio, la disponibilità di una sfarzosa illuminazione, o dell’acqua corrente e del riscaldamento automatico, ci dà l’illusione di essere più liberi perché più ricchi della facoltà di scelta, ma in effetti solo chi fa luce con la fiamma dell’olio che ha prodotto, solo chi va ad attingere l’acqua del torrente, solo chi si riscalda al fuoco della legna che ha precedentemente raccolto, può dirsi un uomo veramente libero, in quanto la sua personalità non si lascia manipolare dalla catena “esasperazione dei bisogni - consumo - produzione”. Parafrasando J.J. Rousseau si può affermare che eravamo nati liberi, e ovunque siamo in catene. “The mass of men lead lives of quiet desperation” (La maggior parte degli uomini trascorre una vita di quieta disperazione - Henry D. Thoreau).

Non a tutti appare chiaro che il modello di sviluppo basato sulla predetta catena non è un archetipo della natura, né affonda le proprie radici lontano nel tempo, ma è al contrario una costruzione umana abbastanza recente, anzi potremmo dire quasi contestuale al nostro tempo, se consideriamo che, per diversi, lunghi millenni, altri furono i rapporti economici che regolavano la convivenza civile. Il sorgere dell’organizzazione capitalistica della società, e perciò della produzione di massa, si fa risalire da alcuni al XVI secolo col nascere delle prime città commerciali, da altri al processo di industrializzazione avviatosi nella seconda metà del settecento; tra i fattori che si pongono alla base di tale processo, v’è nell’Inghilterra del XVI secolo la recinzione (enclosures) delle terre di uso comune e la loro appropriazione da parte dei latifondisti, col conseguente esodo della popolazione rurale verso le città, ove essa si trasformava in manodopera per la nascente industria. Il sorgere di grandi imperi coloniali, col conseguente afflusso di materie prime a basso prezzo, l’immissione di grandi quantità di metalli preziosi in Europa, l’effetto esercitato dalle “enclosures” di cui si è già detto, furono gli eventi che crearono le condizioni necessarie al sorgere del capitalismo moderno attraverso “l’accumulazione originaria”, alla quale contribuirono, secondo alcuni, anche la pirateria e la tratta degli schiavi.

Occorre considerare non di meno che il capitalismo ha attraversato diverse fasi storiche; quella che si distingue per l’incentivazione dei consumi ha inizio dalla crisi degli anni 30 (del secolo trascorso), quando - su suggerimento del Keynes - essa fu usata come antidoto alla grave depressione dell’economia mondiale. Ma quella che doveva rappresentare una fase congiunturale si è poi trasformata in una fase strutturale fino a raggiungere, tramite l’ossessiva aggressione pubblicitaria, la paradossale catena che abbiamo poco prima definita “esasperazione dei bisogni - consumo - energia”. Tuttavia la società occidentale capitalistica odierna non potrà perdurare nel futuro: il crollo repentino e globale sarà totale a meno che non rinunci alla “creazione” dei bisogni e ponga urgentemente in atto i provvedimenti indirizzati alla protezione dell’ambiente; ma questo è in netta antitesi con i principi stessi del meccanicismo capitalistico. Il clamoroso fallimento del distorto socialismo reale lascia momentaneamente e illusoriamente ampio spazio. La totale assenza dei rapporti unitari con le cose e con se stessi è la peggiore manchevolezza dell’uomo contemporaneo: 

“Le mie parole non sono che una cosa sola. 

Con la grandezza delle montagne,

Con la grandezza delle rocce,

Con la grandezza degli alberi,

Esse non sono che una cosa sola con il mio corpo

Esse non sono che una cosa sola con il mio cuore.

Voi tutti mi verrete in aiuto

Grazie al vostro potere soprannaturale.

E tu, giorno, E tu, notte!

Voi tutti mi guardate

E io non sono che una cosa sola con il mondo” (Preghiera, Yokuts - in AA. VV., 1995)


Dalla Casa (1996) citando l’ecologo Paul Ehrlich, scrive: “Supponiamo di trovarci a salire su di un aereo e di vedere che c’è una persona che sta tranquillamente schiodando i rivetti, che sono un tipo speciale di chiodi che tengono insieme le lamiere dell’ala. Naturalmente allarmatissimi ci mettiamo a gridare all’uomo di smetterla: ma lui ci risponde di stare tranquilli perché non è la prima volta che lo fa (li rivende ad una ditta) e non è mai successo niente; anzi lui stesso sta per partire col medesimo volo, non c’è nulla di cui preoccuparsi. Ovviamente l’uomo non si rende conto che a furia di schiodare arriverà a togliere quel bullone che segna la soglia massima di resistenza dell’ala privata dei bulloni medesimi, e a quel punto succederà la catastrofe. La stessa cosa accade per il nostro pianeta: continuiamo con la più grande incoscienza ad eliminare una specie dopo l’altra, ed apparentemente non succede nulla nell’ecosistema globale. Ma ad un certo punto salterà tutto”. 

Il mutamento del proprio stile di vita è dunque una tappa essenziale per la salvaguardia di tutti gli ecosistemi del mondo, ma sarebbe un grave errore considerare questi cambiamenti solo in qualche settore particolare. Scrive infatti Giovanni Salio (1989): “Occorre allora un cambiamento su più fronti, da quello culturale ed etico, a quello politico, normativo, relazionale, sociale tecnologico. Mi è difficile pensare che un cambiamento di queste proporzioni possa avvenire senza una filosofia di base ispirata sì ad una vita che renda gli esseri umani più felici, ma non attraverso un semplice edonismo materiale, che porta quasi inevitabilmente a una rincorsa senza fine di bisogni indotti, quanto piuttosto a uno stile di vita ispirato a una scelta di ‘semplicità volontaria’ che renda più ricchi interiormente, anche se più poveri esteriormente”. Integra il discorso Devall & Sessions (1989):  “Nelle società industrial-tecnocratiche propaganda e pubblicità incessanti stimolano falsi bisogni e desideri distruttivi atti a favorire un aumento di produzione e consumo. Questo ci distoglie spesso dall’affrontare la realtà in modo oggettivo e dal cominciare il ‘vero lavoro’ di crescita e maturità spirituale”.

“Il risanamento della spaccatura fra la coscienza dell”uomo e la natura è tappa inalienabile per chi vuole vivere così come la natura pensava che avremmo dovuto vivere” (concetto tratto dalla terza e quarta parte del libro di D. LaChapelle, 1978 in Devall e Sessions, 1989).

Annota Giuseppe Moretti (1995): “C’è una precisa sequenza che traccia la genesi del rapporto uomo natura nella cultura occidentale:

- dalla natura totemica delle genti primarie, cacciatori raccoglitori, dove ogni forma di vita aveva un significato perché parte di un ampio e misterioso insieme (la natura selvaggia era la loro casa);

- alla natura madre delle genti divenute agricoltori allevatori, dove la natura era sacra, era madre/nutrice perché premiava con ricchezza di messi le loro fatiche;

- alla natura prodotto, dove le logiche matematiche né misurano l’importanza ed il valore.

La natura non è più né sacra né totemica, ma merce di potere, di arricchimento o di semplice svago.

Noi apparteniamo a questa terza fase. Ogni giorno sul posto di lavoro, sui giornali, sul tram, nelle conferenze, ci viene ricordato che apparteniamo all’era moderna, che la natura è inscindibilmente parte di un’irrinunciabile crescita del PIL (prodotto interno lordo). Che non si può tornare indietro. Ma c’è una linea di pensiero, giunta sino a noi, custodita nelle liriche dei poeti, nelle visione dei mistici, nei miti, negli archetipi e nella saggezza delle genti semplici native, che ci parla di una continuità di immagine simbiotiche con il mondo naturale che troppo sbrigativamente abbiamo messo da parte.

Il recente fiorire di una sensibilità ecologica che chiede all’umano moderno di ‘fermarsi’, di ‘riflettere’, di far chiarezza su quello che è il proprio ruolo sulla terra, non è altro che la reazione dell’umano selvatico dentro di noi alla distruzione del verde delle foreste, della chiarezza delle acque, della salute del suolo. A questa consapevolezza istintiva  deve seguire una ricostruzione concettuale e pratica della nostra appartenenza alla trama della vita. Una ricostruzione che, secondo Gary Snyder, è ‘istruita dal posto - informata sulla situazione eco-biotica, socio-politica e sulla storia sociale e ambientale del proprio luogo’”.

Per completare lasciamo la parola al sempre attuale pensiero di Rousseau che osserva: “Vivere non è respirare, è agire, è far uso dei nostri organi, dei nostri sensi, delle nostre facoltà, di tutte le parti di noi stessi che ci danno il senso della nostra esistenza. L’uomo che ha vissuto di più, non è quello che ha contato un maggior numero di anni, ma quello che più ha sentito la vita.

Tutta la nostra saggezza consiste in pregiudizi servili; tutti i nostri usi non sono che soggezione, molestia e angoscia. L’uomo civile nasce, vive e muore in schiavitù: alla nascita lo si serra nelle fasce; alla morte lo si inchioda in una bara; finché conserva aspetto umano è incatenato dalle nostre istituzioni.

Osservate la natura e seguite la via ch’essa vi traccia.....”.

Ecco una bellissima poesia di Edgar Lee Masters su cui riflettere:


“Molte volte ho studiato

la lapide che mi hanno scolpito:

una barca con vele ammainate, in un porto.

In realtà non è questa la mia destinazione

ma la mia vita.

Perché l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno;

il dolore bussò alla mia porta, e io ebbi paura;

l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti.

Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita.

E adesso so che bisogna alzare le vele

e prendere i venti del destino,

dovunque spingano la barca.

Dare un senso alla vita può condurre a follia

ma una vita senza senso è la tortura

dell’inquietudine e del vano desiderio -

è una barca che anela al mare eppure lo teme.”

(George Gray di Edgar Lee Masters dalla traduzione di Fernanda Pivano, 

nell’edizione Einaudi, Torino 1974).


“In un piccolo regno con poca popolazione,

farei sì che gli strumenti per dieci e cento uomini non fossero adoperati.

Farei sì che al popolo calesse di morire

E che lontano non se ne andasse,

che pur avendo carri e navigli

non vi salisse,

che pur avendo armi e corazze

non le schierasse.

Farei sì che tornasse alle cordicelle annodate

e di esse si servisse,

che trovasse gustoso il suo cibo,

belle le sue vesti, comoda la sua dimora,

dilettevoli i suoi costumi.

Gli stati vicinori si vedrebbero l’un l’altro,

le voci dei galli e dei cani

si risponderebbero l’un l’altra,

ma i popoli giungerebbero alla morte per vecchiaia

senza aver commercio l’un con l’altro”.

(Starsene per proprio conto, in Testi taoisti, UTET, 1977 da Devall & Sessions, 1989).


“Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto” 

Henry David Thoreau


“Mentre compi la tua scelta nella vita, non dimenticarti di vivere” 

Samuel Johnson


“Non si può chiedere ad un lupo di diventare altro da sé. E’ una violenza. Difendi sempre la tua essenza contro ogni tentativo di esproprio. Scopri che animale sei e vai. Avrai fortuna. Segui la legge della natura. Sii te stesso. Questo è il mio augurio caro fratello mio......

Ricordati che ogni fiore selvaggio, anche se appassisce in fretta, prima di morire dona al vento infiniti semi....”.



Le aree protette



L’istituzione di aree protette rappresenta un passo importante e decisivo per la salvaguardia di interi ecosistemi e per la protezione della flora e della fauna. Tuttavia tali aree non possono essere considerate sufficienti ad una vera conservazione del mondo naturale se non sono accompagnate da una visione unitaria, profonda ed ecocentrica di tutta la realtà biotica e abiotica. Fermarsi alla protezione superficiale di questa e quella area senza mutare radicalmente il pensiero antropocentrico, non solo non garantirà realmente alcun successo alla conservazione del mondo, ma vanificherà la stessa creazione delle specifiche aree “protette”.

L’istituzione di tali aree muove dalla necessità di assicurare una valida difesa degli spi vitali ancora totalmente o parzialmente incontaminati, al solo scopo di proteggere la natura. Ma occorre purtroppo rilevare che nella realtà storica tale nobile intento è spesso prevaricato da motivazioni derivanti da interessi antropici di tipo turistico-ricreativo; non a caso il primo parco nazionale istituito nel mondo, quello di Yellowstone, nacque sotto il segno di una siffatta ambiguità originaria. Accade a volte che, aree nate col genuino intento di salvare la natura vedano successivamente stravolgere il loro “status” a causa “dell’esplosione” turistica che inevitabilmente apporta costruzione di strade, di punti di ricezione, di rifugi, di sentieri e di altre strutture, spesso sollecitate dagli interessi economici delle popolazioni che vivono in contiguità col parco. E' soltanto da sperare che una siffatta contaminazione di intenti non coinvolga col passare degli anni i grandi parchi che si estendono in zone disabitate come quelle del Canada e della Siberia, ma non si pecca di eccessivo pessimismo se si profetizza anche per quelle aree un futuro gravido di insidie. Per quanto attiene in particolare alle problematiche afferenti alle aree protette che si sviluppano in territorio italiano, occorre sconsolatamente osservare che l’alta densità demografica della penisola genera spesso situazioni conflittuali tra l’amministrazione dell’area e le popolazioni locali, da cui consegue un confronto dialettico che si conclude spesso con compromessi che vanno immancabilmente a scapito della natura (occorre “indennizzare” le popolazioni locali per evitare o ridurre lo sviluppo di attività non compatibili con l’ambiente o finanziare invece ogni iniziativa compatibile con la tutela del territorio). E' perciò auspicabile che nel futuro non vengano vanificati gli statuti dei parchi, né si verifichino cedimenti nei confronti di egoistiche pressioni di tipo economico. Ovviamente, occorre ricordare, le popolazioni locali non vengono affatto considerate quando si opera in località del terzo mondo o in ogni caso in località dove gli abitanti del luogo non hanno un “peso” politico e sociale. L’uomo occidentale distrugge l’ambiente e poi chiede ai “locali” i sacrifici. Perché spesso si parla di spostare interi villaggi da un luogo all’altro per determinati interessi (per esempio per la deviazione di un corso d’acqua o per la costruzione di una diga) ma stranamente quegli spostamenti non riguardano mai luoghi “altolocati” (proviamo a chiedere di spostare Manhattan!!!). Il “peso” che un’area protetta scarica sulle eventuali popolazioni locali deve essere assorbito da tutta la comunità che deve farsi carico delle operazioni nell’interesse collettivo. Mettere in condizioni di “far produrre” un’area protetta per favorire i locali, significa, sicuramente favorire i locali, ma significa anche distruggere l’obiettivo che si era posto per la conservazione reale di un territorio (leggasi in prima istanza “sviluppo turistico”). Quindi, come si esporrà più compiutamente poco oltre, occorre operare con la politica dell’indennizzo e del decentramento delle attività a forte impatto in luoghi a bassa valenza ambientale.  

E' importante notare che l’istituzione di aree protette può assolvere anche il compito di scongiurare l’estinzione di animali o di piante che soltanto con un’adeguata tutela possono sopravvivere. Un emblematico esempio di protezione di specie animali conseguente all’istituzione di un’area protetta è il salvataggio dell’orso bruno marsicano e del camoscio d’Abruzzo grazie alla creazione del Parco Nazionale d’Abruzzo. 

Da queste considerazioni appare chiaro che, attesa la estrema gravità del degrado ambientale, occorre intervenire radicalmente, senza compromessi, ponendo la salvaguardia dell’ambiente in posizione preminente rispetto a qualsiasi altro interesse; ciò può essere spesso conseguito, almeno in parte del territorio, attraverso l’istituzione di aree protette, nelle quali non solo è limitato o precluso l’intervento umano, ma a volte la presenza dell’uomo è tassativamente vietata (riserve di tipo integrale). E' da tenere inoltre presente che, ove una riserva voglia effettivamente esplicare la propria funzione protettiva, deve inglobare una vasta porzione di un territorio che si configuri come un’espressione completa, armonica ed omogenea sotto l’aspetto territoriale, fitologico e zoologico (un’area protetta deve essere più grande possibile, ma sempre in riferimento alla qualità ambientale e non alla “strumentalizzazione” del territorio per estendere fortemente la superficie del parco con chiari intenti “speculativi” economici). E' inoltre necessario che l’area protetta sia circoscritta entro una fascia di rispetto esterna che funga da ammortizzatore tra l’area protetta stessa e il restante territorio antropizzato. Purtroppo però aree realmente protette di tipo integrale, oltre che limitate numericamente, hanno quasi sempre un’estensione di scarso rilievo, il che deriva certamente dal fatto che questo tipo di protezione tutela realmente l'ambiente ma non indulge ad interessi di natura economica. Scrive Dorst (1988): “Agli occhi dei naturalisti, la prima e più importante misura da adottare è la costituzione di riserve naturali integrali poste sotto il controllo dell’amministrazione pubblica e in cui sia tassativamente proibita qualsiasi azione umana, tendente a modificare gli habitat o ad apportare perturbazioni di qualsivoglia genere ed entità alla fauna o alla flora. In queste riserve la natura deve essere lasciata a se stessa, come se - in teoria - l’uomo non esistesse”.  

Con quanto detto sinora non si vuole affatto affermare che tutte le aree protette debbano essere precluse alle persone, trascurando in tal modo l’importante funzione educativa e di ricreazione spirituale che a volte quelle possono svolgere per la sensibilizzazione delle masse alla protezione dell’ambiente. Ma, per fare ciò è necessario imporre severi vincoli poiché un’area protetta è un’oasi di natura, e non un giardino pubblico. Quindi si consideri pure l’apertura di parchi nazionali e di riserve naturali almeno nelle parti meno delicate, ma a condizione che la presenza umana, vuoi quella connessa ai visitatori occasionali, vuoi quella rappresentata dalle comunità locali, sia rigidamente controllata ed armonizzata al ritmo della natura.

Alcune volte appare utile l’istituzione di aree protette “orientate” nelle quali si mira a ripristinare le condizioni naturali compromesse dall’attività antropica; tale obiettivo si consegue a volte mediante la reintroduzione di specie faunistiche presenti in epoche anteriori e distrutte dall'uomo, altre volte attraverso l'eliminazione di opere umane come strade, dighe, costruzione di altri manufatti, ecc. Ovviamente questo tipo di intervento potrà essere attuato solamente in quelle aree che presentino condizioni abbastanza integre, che abbiano un minimo di capacità di ripresa e conservino la potenzialità necessaria ad accogliere le precedenti forme di vita. In altri termini se in un’area si vuole reintrodurre una specie faunistica che era presente in passato, non basta proteggere solamente tale area per procedere senz'altro alla reintroduzione della specie, ma è necessario accertarsi che in quelle località ci siano ancora le condizioni necessarie a che la specie animale reintrodotta possa affermarsi e prosperare nuovamente. Se la gestione reputasse utile dar corso ad una qualche forma di reintroduzione all'interno dell'area protetta, dovrebbe far precedere gli eventuali interventi da lunghi e meticolosi studi, come ad esempio: raccolta delle testimonianze storiche sulla passata presenza della specie, individuazione delle cause che hanno determinato la scomparsa della specie, rilievi sulle esistenti condizioni ecologiche dell’area al fine di appurarne la compatibilità con le specie da reintrodurre (se la specie reintrodotta ha un vasto areale di spostamento, occorre valutare anche le “reali” condizioni ambientali e protezionistiche dei territori circostanti al fine di garantire condizioni idonee alla specie reintrodotta anche se sconfina dalla Riserva/Parco). Gli interventi ritenuti scientificamente attuabili dovranno ridurre al minimo le manomissioni del territorio (se p.e. sarà necessario costruire recinti di acclimatazione, occorre ubicarli in luoghi a basso impatto ambientale, preoccupandosi altresì di costruirli con strutture poco appariscenti).

Sarebbe gravissimo errore procedere all'introduzione o reintroduzione di specie animali o vegetali storicamente assenti nella zona oppure reintrodurre specie animali che, pur non trovando nella Riserva le condizioni ecologiche necessarie per la loro sopravvivenza (p.e. le fonti alimentari), vengano mantenute esclusivamente con aiuti umani artificiali. Altrettanto grave errore sarebbe quello di reintrodurre/introdurre una specie per soli fini estetici (molti esempi ci vengono offerti dall’operato degli Anglosassoni come in Gran Bretagna, in Nuova Zelanda, in Australia).

La nascita di un’area protetta dovrebbe quindi essere motivata esclusivamente dall’esigenza di conservare il territorio fine a se stesso, ponendo da parte qualsiasi fine utilitaristico diretto. La realtà dei fatti però smentisce in molti casi questa considerazione perché, come già detto in premessa, ancora non si avverte la mutazione del pensiero umano, sempre rivolto ai propri egoistici e miopi interessi. E’ quanto mai opportuno ricordare le parole scritte in merito  da Franco Zunino che ci aiutano, senza altri approfondimenti, ad esporre chiaramente il nostro punto di vista (da Wilderness Documenti Anno IX n°2, 1994). “La protezione di un territorio naturale può certamente avere molti ruoli, molte finalità, ma credo che solo uno debba essere lo scopo per cui la si debba attuare: conservare il territorio fine a se stesso. E conservarlo vuol dire, o dovrebbe voler dire, far si che non venga alterato volutamente, vuol dire decidere di sottrarlo alla logica dello sviluppo (che è la logica del profitto) che è prettamente umana.

Decidere di conservare un luogo è decidere di tenere per quel luogo un comportamento ancestrale, animale, quale è la nostra origine, che è l’unico modo per poterci definire in equilibrio con l’ambiente: nessun cervo, nessun lupo, nessun orso ha mai potuto o preteso di “sviluppare” o “valorizzare” o “far produrre” il proprio habitat. Semplicemente da millenni lo utilizzano per quello che spontaneamente esso offre loro e lasciandolo immutato per altre generazioni. E’ solo l’uomo l’unica specie animale ad essere uscita da questo “cerchio della vita”.

Lo spirito che sta all’origine dell’istituzione delle aree protette non può essere stato che questo: decidere di non interferire con l’intelligenza nella logica delle cose naturali che succedono in un certo luogo. Almeno, questo è quello che si coglie leggendo più di una relazione, discorso od atto relativo alla nascita dei primi parchi nazionali del mondo sul finire del secolo scorso e all’inizio del nuovo. Ed è questo il significato vero, originario, che, solo, dovremmo dare al termine conservare: lasciare tutto come è!

E’ ovvio che sia poi stata la logica dello sviluppo a prendere comunque il sopravvento, a fare in modo che questo semplicissimo concetto venisse alterato, riportando le istituzioni che sono i parchi nella logica del profitto dalla quale idealmente le avevamo sottratte. John Muir alla fine del secolo scorso disse che “la battaglia per la conservazione della natura continuerà indefinitivamente, perché essa è parte dell’universale battaglia tra il giusto e l’errore”. Aveva ragione, perché da allora nulla è cambiato! Solo, per meglio comprenderlo, bisognerebbe sostituire i termini: giusto = conservazione, errore = sviluppo.

Ovviamente la decisione di voler conservare un certo luogo per sè e di per sè, se non altro come conseguenza o come scopo per questa scelta, può anche scaturire da disparate motivazioni: perché il luogo è insolito per bellezza, o perché è l’ultimo lembo di uno stato ambientale che a causa di un sovrasviluppo è sparito quasi ovunque, o perché ne siamo innamorati per la sua usualità nella nostra vita. Se questo principio, perché un principio ritengo che sia, fosse sempre stato tenuto presente quando si sono costituiti parchi e riserve, pur riconoscendo l’esistenza delle dette motivazioni come spunto per la sua applicazione, sono certo che sì, oggi avremmo un numero assai minore di “aree protette” ed “aree protette” più piccole, che potremmo realmente definire, considerare e presentare al mondo come tali!

Settant’anni dopo la nascita dei nostri parchi nazionali storici, Abruzzo e Gran Paradiso, anche la difesa, la conservazione dei loro angoli più belli, più di valore scientifico, più amati, è ancora in forse! Questa è la conseguenza della continua mancata osservanza di quel principio.

Ancora assistiamo quotidianamente alla battaglia interpretativa sul perché di quelle leggi istitutive e sul come vadano applicate per realizzare le finalità che premettevano e promettevano. Ancora ritorniamo a visitare questi parchi scoprendo sempre qualcosa di antropico in più là dove ricordavamo essere natura. Sempre meno natura e sempre più “umanità”, un processo ripetitivo propagatosi di parco in parco come una malattia inarrestabile. Ciò perché nel nostro Paese il principio di cui ho detto non è stato praticamente mai realmente posto come fondamento alla progettazione ed istituzione di un parco o di una riserva naturale.

Nella stragrande maggioranza dei casi i parchi nazionali, regionali ed altre aree protette, sono stati voluti, progettati ed istituiti con alla base un principio economicista piuttosto che conservativo. Si sono istituiti dei parchi come si sarebbe potuto creare delle strutture o “holding” turistiche. Si è tentato di dare o voler dare, con un parco, quelle stesse cose che hanno dato o si vorrebbe dare con certe iniziative di promozione turistica quali bacini sciistici, centri residenziali, porticcioli, eccetera. Ed è in ciò che sta l’errore di base perché, mentre nulla impedisce ad un centro turistico di adeguarsi sempre di più per soddisfare la richiesta di mercato, per un parco si finisce per creare attorno ai parchi o nei parchi stessi, tanti piccoli centri che producono economia, cosicché il parco divenga anch’esso una fonte di guadagno, di posti di lavoro, di soddisfazione turistico-ricreativa, eccetera; in buona fine, si viene a fare di un parco tutto l’opposto di quello che un parco dovrebbe divenire. Tutto ciò perché, si sono sempre confusi i due principi - quello conservativo e quello economico - mettendoli su un piano di parità, mentre il secondo dovrebbe essere solo subalterno. E, addirittura, per le forze politiche subalterno è finito per divenire il primo! E’ sufficiente leggere certi rapporti, articoli giornalistici, interviste a politici ed autorità, per comprendere come nella nascita di ogni nuovo parco la logica prima non è già di conservare un angolo di natura per motivazioni etiche, bensì di risolvere i problemi economici e occupazionali di una regione.

Ancora oggi questa logica domina in assoluto tra le forze politiche e tra quelle, ed è più grave, ambientaliste più politicizzate: parco uguale a risorsa economica per lo sviluppo di aree depresse. E’ un binomio consuetudinario. Ecco quindi parchi con territori enormi per tutelare aree di scarso valore; ecco quindi vincoli che non esistono o talmente “adattabili” da permettere ogni forma di intervento; ecco quindi che questo “male di non protezione” vengono a soffrire anche quelle parti centrali dei parchi che invece, uniche, meritavano il parco e la rigida tutela che un parco presuppone. Certo, inversamente facendo si sarebbe salvato, conservato, un territorio con vincoli severi su minore spazio: ma nella logica dei politici e politicanti non si sarebbero stanziati miliardi e miliardi per “valorizzare” il parco, per fare del parco un centro turistico e grande resa economica.

Parco come investimento, quindi, non già come garanzia di tutela di un qualcosa di bello, unico, o di valore scientifico a prescindere dal prezzo economico che potrebbe avere per la società o vi si potrebbe ricavare “valorizzandolo”............

Ci si continua a chiedere cosa debba rappresentare un’area protetta, quando questa domanda è quasi pleonastica tanto è semplice la risposta: ovvero, alla difesa di un luogo affinché non muti mai più nell’aspetto esteriore.

Si continua a legare strettamente la concezione di parco alla politica economica, i parchi come investimento, mentre i parchi sono e dovrebbero restare solo cultura e valori interiori in quanto dovrebbero sempre prescindere da quello che di economico potrebbero anche dare.

Ecco quindi e perché la logica del profitto legata ai parchi. I parchi che devono rendere. Così in questa logica, per farli rendere, si scende ai compromessi più deleteri se non per essi come istituzioni, almeno per i complessi ideologici che devono preservare, per la bellezza dei luoghi, per le aspettative dei visitatori più sensibili i quali vengono a perdere in qualità di sentimenti, di emotività, di gioia.

Una delle certezze degli ambientalisti è il non voler riconoscere che i parchi rappresentano dei sacrifici per chi li vive; che i parchi facciano paura agli abitanti locali per i vincoli che impongono. Ed è su questa certezza che poi viene basata la logica dei parchi legata al profitto. Ma è vero invece il contrario! E il problema va risolto non già istituendo dei parchi che non facciano paura (quello che si sta facendo da noi): perché sarebbero ( e sono) dei falsi parchi! Va risolto istituendo dei parchi coscienti del fatto che i parchi sono un lusso, se lo vogliamo dire con un brutto termine. Quindi è giusto che questo lusso lo paghi la società tutta facendo in modo che ciò non avvenga solo sulle spalle di chi li abita, di chi ne è “proprietario” per radici sociali.

Alla logica del profitto va opposta la logica che ovunque un parco arrechi un danno, un aggravio, questo danno e questo aggravio vanno pagati, indennizzati, operando quindi con una logica esattamente opposta a quella del profitto. Solo così i parchi potranno essere degli organismi democratici inseriti in un sistema democratico senza che perdano la loro funzione primaria.

Che un parco possa portare ricchezza a piccoli centri o a singoli individui od anche a nuclei famigliari è un dato assodato ed anche estremamente ovvio, ma non bisogna fare di questo fatto, o fatti, delle motivazioni con valori assoluti e ripetibili per giustificare l’istituzione di altri parchi, perché non potrà mai essere così per tutti i parchi, per tutti i centri dei parchi, per tutti gli abitanti dei parchi.

I parchi devono essere concepiti ed esistere come valori culturali, spirituali; se poi da tali valori ne sprigionano anche degli interessi tangibili, ma senza che li si debba prostituire a questo fine, allora ben vengano questi interessi: ma solo come si offre una mancia per un buon servizio, non per pagare il conto!

E’ illusorio ritenere che un parco possa “pagare il conto”, portare tanta ricchezza quanta ne porterebbe la stessa area lasciata allo sviluppo normale ed imprenditoriale del libero mercato. E’ questa la grande menzogna che accompagna la nascita dei nostri parchi; il male oscuro per cui si continua a lottare prima per istituire i parchi, poi per salvarli da questa logica della “valorizzazione”, del profitto, su cui vengono fondati.

Toccasana di questa logica è il turismo. Del turismo ebbe a dire lo scrittore francese Jean Mistler: “è quell’attività consistente nel trasportare persone che starebbero meglio a casa propria in luoghi che sarebbero migliori senza di loro”. C’è in questa frase la filosofia più profonda del perché di un parco che “rende” secondo la logica del profitto, finisce col non essere più quell’istituzione la cui finalità doveva essere la conservazione di un luogo, l’istaurazione di un qualcosa di per sé, divenendo invece solo un qualcosa al servizio del turismo e del sistema economico.

I parchi vanno invece prioritariamente istituiti per salvare, conservare un luogo.......”.

In alcune regioni italiane, paradossalmente, gli assessorati alle aree protette sono a volte associati al turismo e allo sport. Ciò la dice lunga! Inoltre, le regioni presentano le proprie aree protette non come realtà territoriali di vera e disinteressata conservazione della natura, ma piuttosto come aree destinate a “produrre” a “rendere” ad essere “utilizzate”. La “produttività dei parchi”, uno dei slogan che sta più a cuore degli amministratori, ma anche a buona parte degli ambientalisti, si realizza appieno con le guide regionali ai servizi e alla fruizione turistica. Le aree protette, infatti, vengono presentate secondo ciò che “offrono” di più umano possibile: aree attrezzate, centri visita, musei, sentieri autoguidati, percorsi ciclabili, percorsi ginnici, percorsi a cavallo, piste per sci di fondo, sentieri segnati, ecc. La logica è ancora una volta quella dell’ “uso” della natura, magari ricreativo, turistico, ma sempre dell’uso. Occorre però ricordare che la parola conservazione è sempre in contrasto con qualsiasi attività di massa dell’uomo. Un po’ di minimalismo non farebbe certo male alla società contemporanea.



La gestione delle aree protette



“Per un controllo ed una supervisione morale a favore della natura sulle attività di gestione degli organismi che amministrano le aree protette; affinché i primari interessi della natura non debbano mai essere messi da parte o sminuiti per fare quelli dell’uomo” (punto 5 del Documento Programmatico dell’Associazione Italiana per la Wilderness).

Molti cittadini particolarmente sensibili alle sorti della natura traggono un respiro di sollievo quando apprendono che è stata istituita una nuova area protetta, in quanto pensano che nel futuro quell’area non correrà più alcun rischio. Questa convinzione è spesso smentita dai fatti, giacché accade purtroppo che aree divenute protette continuino a subire ferite e danni  ingenti. L’origine di questi danni non è sempre dovuta, come potrebbe pensarsi, a situazioni oggettive di varia natura, ma è a volte legata al modo stesso col quale le aree ancora selvagge sono gestite. Per questi motivi l’operato dei “manager” o degli enti governativi preposti alla gestione delle aree protette deve essere controllato alla stregua di qualsiasi attività che possa in qualche modo turbare l’ecosistema del territorio. I fatti che giustificano tali pessimistiche considerazioni si riferiscono a parchi nazionali gestiti  più in funzione del flusso turistico che in riferimento alle vere esigenze della protezione della natura; riserve ridotte a supporti di sperimentazioni biologiche; gravi alterazioni degli habitat di aree selvagge; ingiustificate costruzioni o ristrutturazioni di rifugi o di strutture analoghe; aree di picnic realizzate in zone di delicato valore naturalistico; apertura o ristrutturazione di strade di montagna motivate dal pretesto di realizzare in tal modo una migliore gestione o una più attiva sorveglianza; introduzione o reintroduzione forzata di animali non preceduta da preliminari approfondimenti tendenti ad appurare se la specie reintrodotta sia stata precedentemente presente in quell’habitat e per quali cause ne è poi scomparsa; taglio di boschi, passati per interventi di gestione naturalistica, e tagli  di gestione motivati da erronee ed empiriche consuetudini; insufficiente attività di sorveglianza da parte del personale preposto, ecc. Per non parlare poi dello spinoso problema delle strade montane e boschive che se ricadono nelle aree protette nella migliore delle ipotesi vengono chiuse da sbarre (con numerosi permessi di accesso), ma mai smantellate del tutto (leggasi ripristino ambientale). Infatti una pratica del genere non rientra nella logica dei “gestori” (nè tanto meno nella gente che ha una mentalità solo utilitaristica), e viene accanitamente avversata (ci sono ovviamente le dovute eccezioni). C’è sempre un motivo che ne giustifica la continuazione dell’esistenza. Chissà perché una strada montana, all’interno di un territorio protetto, non debba essere smantellata? Se si chiedono finanziamenti economici per ristrutturare o aggiungere qualcosa di umano in più nel territorio, in genere vengono sempre trovati, se invece, si volesse dar corso ad un’opera reale di ripristino ambientale, come potrebbe essere l’eliminazione di una strada, fondi e interessi scendono nell’oblio. Non accade mai che si dia vantaggio univoco al mondo naturale. Che dire allora di questi “gestori” della natura? Occorrerebbe anzitutto cambiare la loro “forma mentis” che non sa sottrarsi alla politica “del fare”, dell’introdurre, dell’avviare, del ristrutturare, del trasformare, tutto con una sorta di febbrile attivismo che non riesce a concepire che il “non fare”, e lasciare in molti casi che la natura si riequilibri anche da sé, come è avvenuto durante qualche milione di anni, è il miglior modo per salvare le aree selvagge di questo pianeta. Con ciò non si vuole asserire che tutti gli interventi siano errati, ma si intende comunque dire che la natura dell’intervento e la sua intensità debbono ispirarsi ad un reale principio di conservazione, rispettoso del ritmo e delle ragioni della natura (il ripristino ambientale in molti casi sarebbe estremamente utile per ridare un po’ di selvatichezza al mondo gravemente antropizzato). “Molti degli obiettivi della conservazione dell’habitat di altre specie, compatibili con l’uguaglianza biocentrica sono sintetizzati nell’espressione ‘Lascia vivere il fiume’, ove il ‘fiume’ è una più ampia definizione degli esseri viventi, e comprende non soltanto gli esseri umani o gli alberi che crescono lungo il fiume ma l’intero ecosistema dell’energia vivente. Un’altra possibilità in armonia con lo slogan di Naess ‘semplicità di mezzi, ricchezza di fini’ è ‘non fare’” (Devall & Sessions, 1989).

Il punto 5 del Documento Programmatico dell’Associazione Italiana per la Wilderness recita: "...... La gestione dei Parchi e delle aree protette in genere, è una cosa complessa. E’ noto come i motivi che portano e continuano a portare alla loro costituzione, non sono sempre stati, ed anzi, salvo in passato, si può dire quasi mai, quelli della protezione di valori naturali, ma piuttosto la cosiddetta “valorizzazione” di beni ambientali. Già questo termine ci dice quali e quante implicazioni di varia natura agiscono conseguentemente a danno proprio del valore ambientale che le aree dovrebbero tutelare, ed anche delle esigenze interiori dei visitatori più sensibili.

Le pressioni economiche e di sviluppo tecnologico ed urbano sono tali e tante che spesso le scelte degli amministratori, per comodità o per demagogia, tendono a mettere gli interessi della natura in secondo piano, proprio perché la natura non ha la possibilità di gridare le proprie esigenze, di farle prevalere, nè di protestare quando le si fa torto o la si lede nei suoi diritti.

La funzione di controlli morali su queste gestioni dovrebbe essere di tutte le associazioni protezionistiche, ma sappiamo bene come spesso questo controllo venga 'indirizzato' o addirittura evaso a seconda di chi gestisce le aree protette. Troppo spesso si è guardato e si guarda non al bene della natura ma al bene di chi la natura ha il compito di gestire, e appunto per questo motivo non si è sempre fatto l’interesse della natura......".

Secondo dettami logici la creazione di un’area protetta, parco o riserva che sia, dovrebbe essere motivata, come abbiamo appena visto, dalla conservazione reale di quel luogo e di tutta la vita che in esso prospera. Dopo aver rigidamente operato in tal senso, eventuali risvolti economici e sociali, che positivamente ricadono sulle comunità locali, interne o limitrofe all’area, possono essere accettati anche da una severa logica di tutela. Ma questo tipo di vantaggio deve essere un eventuale riflesso che la reale politica della conservazione porta con sé. Nella realtà invece, in tanti casi, si opera esattamente all’opposto: istituire un’area protetta significa in primo luogo “sviluppo”, “benessere”, “prosperità”, “turismo”, “produttività”, strutture e attività “ecocompatibili”, “immagine” e quanto altro. Poi, eventualmente, se ne rimangono le possibilità, si parlerà di tutela del territorio. Ma poiché questa tutela arriva alla fine, rimane ben poca cosa e, per la natura, i frutti da raccogliere quasi non ce ne sono. 

Ricordiamoci poi che soventemente le aree protette acquisicono cospicui finanziamenti per attuare serie di studi e di eventuali interventi di tutela sui loro territori (anche se, ad onor del vero, una buona parte dei cosiddetti studi sono solo dei paraventi per scoprire alla fine “l’acqua calda” perché i risultati finali utili ad una vera conservazione erano sempre stati già noti da tempo ma mai attuati, forse perché scomodi, o perché “necessitavano” di ulteriori studi per attingere a nuovi opulenti finanziamenti; evidentemente le “fonti” non erano mai sufficienti), ma, malgrado la “pioggia” di milioni, quasi mai, per fare un solo esempio, si è attuato un semplice quando efficace intervento: comprare, nel vero senso del termine, almeno ogni qual volta ciò sia possibile, territori da sottrarre ai vari danneggiamenti e porli sotto un rigido vincolo di conservazione che si ispiri ai dettami della wilderness dei luoghi (un esempio palese può essere quello per salvaguardare specie faunistiche a grave rischio di sopravvivenza o habiat peculiari che stanno per collassare).  

Dopo aver enumerato gli errori che molte volte emergono dalla gestione delle aree protette occorre porsi ora un interrogativo: a chi attribuire la paternità di tali errori? Certamente alla esasperata burocrazia, all’impreparazione, al disinteresse, alla malintesa concezione del prestigio, alla spasmodica applicazione della “scienza” al mondo naturale che spesso non arreca a quest’ultimo affatto beneficio perché dissipa energie, finanziamenti e tempo, o finanche all’estetismo ambientale ma, più che altro, all'accettazione pragmatistica delle ferree regole della politica economica e alla visione strettamente antropocentrica di tutto il mondo naturale. La gestione “umana” delle aree protette è infatti una conferma di quella visione “superficiale” di tutto l’atteggiamento mentale dell’uomo occidentale.



La paura di perdersi



“..... buttare una manciata di foglie di tè e un po’ di pane in un vecchio sacco e saltare il cancelletto del giardino di casa” (J. Muir).

L’addomesticamento del territorio è diventato una pratica inscindibile dal pensiero quotidiano dell’uomo civilizzato.

Si imbrigliano fiumi, si cementificano coste e valli, si aprono cave, si erigono rifugi ed alberghi montani, si costruiscono aree pic-nic: la lista potrebbe essere lunga. Purtroppo, dall’addomesticamento e dallo snaturamento dei luoghi, non ne restano immuni neanche le aree protette, che spesso, anno dopo anno, presentano sempre qualcosa di umano in più e qualcosa di natura in meno.

La paura di perdersi o di correre altri rischi, ha determinato, soprattutto nelle zone montane, la necessità di realizzare tutta una serie di strutture: rifugi, bivacchi, segnaletiche vistose e abbondanti, colonnine di soccorso SOS, ecc. Tutto ciò frutto di una mentalità che ragiona all’inverso: se un’escursionista cade in un burrone o uno sciatore precipita in un crepaccio, anziché responsabilizzare la gente a non recarsi in montagna nei posti pericolosi o ad essere consapevoli dei rischi che si corrono, si preferisce “recintare” l’orlo del burrone per impedirne la caduta, si preferisce alterare un luogo arricchendolo di mille segnavia e cartelli per non far perdere l’escursionista, si decide di erigere rifugi in serie per “rifocillare” il viandante “tecnologico” del duemila.

In certi Paesi, per esempio in Nordamerica, immensi territorio wilderness non presentano alcun riparo o struttura umana, pur contenendo infiniti rischi per la persona. Coloro che vogliono visitare un luogo del genere devono essere consapevoli dei propri limiti e dei rischi che possono correre. Non si “snatura” la natura ma si plasma la mentalità del singolo al selvaggio e alle difficoltà che si possono incontrare.

La natura in sè non è mai “assassina”, è l’uomo stesso che si mette in condizione di morire o di subire danni!

“Le montagne, dice il maestro, stanno camminando...

Sono costantemente a riposo e costantemente in movimento.

Dobbiamo dedicarci a uno studio dettagliato

della virtù di camminare...

Chi dubita che le montagne si muovano,

non ha ancora capito il suo proprio movimento”

(Dogen, Sutra dei monti e dei fiumi).

Scrisse un indiano Piedineri: ”Un uomo non dovrebbe mai camminare con tanto impeto da lasciare tracce così profonde che il vento non le possa cancellare”.



Il concetto di Wilderness

una nuova esigenza di conservazione 

delle aree e delle risorse naturali.


“La natura selvaggia è sia una condizione geografica 

che uno stato d’animo”


“La conservazione della natura selvaggia per il valore in sé 

e per una visione ecocentrica ed  olistica”



“In ogni luogo ci vorrebbe un posto, così, lasciato incolto” (Cesare Pavese).


“La protezione di un territorio naturale può certamente avere molti ruoli, molte finalità, ma credo che solo uno debba essere lo scopo per cui la si debba attuare: conservare il territorio fine a se stesso” (Franco Zunino).


Prima che l’uomo civilizzato facesse la sua “apparizione” sulla terra tutto il mondo era “wilderness”, un’immensa area selvaggia dove regnava solo la verità naturale. Poi è arrivato l’uomo civilizzato e, poco a poco, ha sottratto al mondo e a sé stesso l’armonia imprevedibile e “caotica” della natura che era lo spirito della vita. Scrive Aldo Leopold (1949): “ La wilderness è una risorsa che può diminuire ma mai aumentare. Le distruzioni possono essere bloccate o limitate in maniera tale da rendere un’area ancora fruibile per la ricreazione, o per la scienza, o per la fauna, ma la creazione di nuova wilderness nel vero senso della parola è impossibile. Ne consegue, allora, che ogni programma di conservazione che riguardi la Wilderness è un’azione difensiva, mediante la quale la sua degradazione può essere ridotta al minimo....

La capacità di comprendere il valore culturale della Wilderness sta divenendo in ultima analisi una questione di umiltà intellettuale. Il presuntuoso pensiero dell’uomo moderno si è distaccato dalle sue radici con la terra, e sostiene di avere già scoperto cosa è importante; è chi ciancia di imperi, politici o economici, che resterà indietro di migliaia di anni....”.

Ma vediamo ora di spiegare qual é l'essenza del “concetto di wilderness”, vediamo perché esso è da considerarsi una vera e propria filosofia da cui si genera il pensiero protezionista e, in via più generale, la concezione stessa della vita. Riportiamo integralmente le lodevoli parole di Franco Zunino fondatorre dell’Associazione Italiana per la Wilderness. 

“Lo sviluppo sociale in continua evoluzione sta alterando ogni angolo della nostra terra, e anche le aree veramente selvagge rimaste tali per casualità o in quanto fino ad oggi prive di interessi economici o non utilizzabili a questo scopo, vengono ormai giornalmente intaccate da sempre nuove iniziative a loro danno, senza che mai le giustificazioni economiche ad una loro alterazione siano considerate in second’ordine a quelle spirituali, definendo tali, per brevità, tutte quelle esigenze per cui ovunque nel mondo si protegge la natura.

Le poche aree senza strade e moderne costruzioni rimaste vengono considerate ‘terra di conquista’ dalla civiltà, e gli uffici preposti alla pianificazione del territorio e al suo uso vi programmano sempre nuove forme di sfruttamento anziché preservarle nel loro stato naturale come rarità ecologiche quali esse sono, e anche come Eden per i bisogni emotivi dell’individuo. Nessuno nei contesti sociali locali sembra più amare la propria terra, il paesaggio in cui è nato! Anche l’uso ricreativo dell’ambiente da parte dei cittadini si sta rivelando, specie nei Parchi Nazionali, un’ultima frontiera della conquista dell’uomo, in quanto un eccessivo uso in tal senso rischia di trasformarsi in un danno più sottile e strisciante, meno appariscente di una strada o di un residence, meno fastidioso della caccia sul piano morale, ma altrettando dannoso e deteriorante di tutto quanto di fisico e di psichico è racchiuso nella definizione di natura selvaggia, cioè di ‘Wilderness’ così come è intesa nella cultura anglosassone.

Wilderness è un termine che può suonare oscuro al profano, ma il cui significato intrinseco va ben al di là della sua letterale traduzione, esso definisce infatti anche i dettami di una filosofia specifica, che è scaturita da esigenze umane sia di godimento emotivo nel contatto con la natura selvaggia che di conservazione di quei territori naturali dove queste esigenze possono esprimersi.

Il 'Concetto di Wilderness’ altro non è che la definizione di questa filosofia; una filosofia che vede nel rapporto uomo-natura un rispetto reciproco che privilegia la natura nei casi di conflittualità di interessi; una filosofia alla cui base c’è veramente l’idea di dare corpo a patrimoni ambientali da lasciare alla posterità, investendo le nostre generazioni della loro responsabilità in questo senso, cioè di decidere oggi il limite massimo oltre il quale l’uomo e le sue suggestioni non devono più andare, per lasciare un perenne spazio alla natura e alle sue creature selvagge.

.......Dobbiamo preparare l’opinione pubblica di oggi e quella di domani a comprendere l’esigenza spirituale delle nostre e delle future generazioni di godere anche solo del fatto di sapere che esistono ancora luoghi lontani, nel senso di ampi e selvaggi; luoghi dove la natura è lasciata a sé stessa come agli albori della vita sulla terra, e con garanzie durature di una loro preservazione nel tempo che li sottragga all’evoluzione della civiltà........

Le Associazioni di protezione della natura hanno troppo spesso ignorato le esigenze puramente spirituali legate al rapporto uomo-natura, e così quegli impatti sulla natura da parte dell’uomo che, soddisfacendo bisogni puramente materiali di sviluppo sociale o di ricreazione meramente fisica, ne impediscono la loro espressione; esse hanno sottovalutato la potenziale forza distruttrice della spirale economica della nostra civiltà nelle sue sfumature più insidiose, così come quelle delle necessità dell’uomo come individuo. Non sono poche le volte che queste Associazioni hanno espresso consensi favorevoli a certe attività, troppo superficialmente credute educative o necessarie e quindi compatibili con le motivazioni della conservazione in quanto sviluppate da chi gestisce aree protette o divulgate e promosse con l’intento di migliorare il rapporto con la natura da chi in realtà mira ad indiretti interessi economici (es. campeggio, escursionismo, caccia fotografica, artifici di gestione faunistica, quando non realizzazioni di rifugi, strade e altre strutture ‘indispensabili’), che viste in un’ottica diversa sono di fatto l’embrione di guasti che minano alla base proprio quello che è il ‘Concetto di Wilderness’. Per una mancanza di previdenza corriamo il rischio di essere noi protezionisti che nei casi più delicati inneschiamo, senza potere di controllo, processi un giorno difficilmente arginabili (e la storia della conservazione insegna, per chi vuole imparare!), aiutati in questo dalla collaborazione compatta dei mass-media, per lo più favorevoli ai discorsi economici che stanno dietro alle sempre nuove giustificazioni che permettono all’’effetto uomo’ di incancrenirsi sempre più in profondità negli ambienti naturali.

Verrà un giorno in cui anche le visite ai Parchi dovranno essere programmate, e limitati saranno gli artifici per godere della natura con le immancabili facilitazioni, oggi più che mai in auge (e dietro ai quali sta sempre la spirale economica): di questo passo banalizzeremo anche i luoghi più selvaggi, remoti ed impervi della terra!

Certe aree naturali vanno salvate solo perché hanno diritto di continuare a perdurare nel tempo così come sono giunte a noi, modificate solo dalla lenta evoluzione delle forze della natura o da quelle primitive dell’uomo, e quindi non perché siano ‘usate’ dall’uomo di oggi come centri di produzione economica o di sfogo ricreativo, cioè in senso materiale stretto. Esse devono esistere invece per loro stesse; la natura va salvata in queste aree più selvagge solo per la fauna e per la flora, che vi si devono sviluppare in completa armonia. In questi luoghi l’uomo deve porsi dei limiti precisi oltre i quali di principio non permettere più ogni ulteriore e pur minimo intervento modificatore o realizzazioni artificiose, e deve avere poi la forza e la volontà di tirarsi indietro anche come visitatore non appena la sua presenza tende a modificarne lo stato fisico, o anche quello psichico del visitatore stesso, che deve sempre godervi le sensazioni di un rapporto di solitudine con la natura selvaggia.

Certo, questa è una scelta difficile, ma è l’unica seria alternativa da opporre alla paurosa antropizzazione del paesaggio che quotidianamente ci circonda e alla vandalizzazione degli ambienti naturali che facciamo quando ci trasformiamo in turisti estivi o domenicali........è giunto il momento di fare questa scelta di ‘utilizzo-non utilizzo’ per le zone più selvagge.......Se non lo faremo oggi per mancanza di coraggio politico sarà troppo tardi per le generazioni future. Qualsiasi altra decisione volessimo prendere a loro salvaguardia fisica o anche dei valori spirituali che esse, così, racchiudono e rappresentano, sarà un palliativo che servirà solo ad evitare alle nostre generazioni la responsabilità di una scelta che si sa difficile e impopolare.....”

Thoreau osservò che “nella wilderness è la salvezza del mondo”, e si disse convinto che una natura selvaggia aiuta a conoscere meglio noi stessi, a migliorarci e a migliorare la società in cui viviamo. Il solo pensiero che un’area possa rimanere wilderness, ossia selvaggia “forever”, affrancandosi dalla presenza dell’uomo conquistatore e assoggettatore, colpisce profondamente la sensibilità di una persona che abbia una propria vita spirituale. Come abbiamo già sottolineato, il concetto di Widerness non riguarda solo lo spazio fisico di un territorio ma concerne anche l’emotività interiore da cui l’uomo, solo di fronte alla natura selvaggia, può essere preso. La filosofia wilderness può quindi riassumersi in una frase “ La natura selvaggia è sia una condizione geografica che uno stato d’animo”.

Scrive Salvatore Veca (1986): “ la natura non è una pseudo-persona verso cui gli esseri umani siano responsabili: lo siamo nei suoi confronti per il semplice fatto che le nostre azioni causano alterazioni della biosfera e non possiamo più, o meglio, non dobbiamo più essere i predatori della biosfera. Ovviamente, noi facciamo parte della natura, senza disporre di un controllo totale di essa (non siamo responsabili della sua esistenza), e tuttavia differiamo in alcuni aspetti essenziali da altri elementi costituenti della natura. A differenza delle altre specie, sembra che noi possiamo cambiare - migliorare o peggiorare - gli effetti delle nostre azioni sulla natura: questa responsabilità causale genera una responsabilità morale....”.

A corollario di quanto osservato in merito alla protezione della natura secondo la filosofia wilderness, ci sia consentito di formulare una riflessione di tipo provocatorio: se qualcuno proponesse di distruggere una grande opera d’arte, un museo o una preziosa chiesa romanica verrebbe certamente considerato un folle, ma paradossalmente non è considerato folle chi decide di distruggere un bosco secolare per far passare un'autostrada o per realizzare un impianto sportivo d'alta montagna, con tutti i danni ambientali che quelle opere comportano.

All’uomo risale dunque la responsabilità di provvedere alla conservazione della natura perché è l’uomo che la distrugge ed è suo compito quindi tutelarla, a meno che non lo si voglia considerare alla stregua di una semplice componente del materialismo dialettico, a cui sarebbe stato affidato il compito di sovvertire integralmente l'ambiente naturale: solo questo potrebbe essere in chiave ironica l'essenza della filosofia antropocentrica.

Gary Snyder (1992) annota magistralmente: “Thoreau dice: ‘Give me a wildness no civilization can endure’ (datemi un mondo selvatico che nessuna civiltà possa tollerare). Una cosa del genere non è difficile da concepire. Più difficile è immaginare una civiltà che il mondo selvatico possa tollerare. Eppure questo è precisamente quello che dobbiamo cercare di fare. Wildness non significa semplicemente conservare il mondo; wildness è il mondo. Da lungo tempo le civiltà orientali e occidentali sono in rotta di collisione con la natura selvatica e oggi in particolare i paesi industrializzati hanno il dissennato potere di distruggere non solo singole creature, ma intere specie, interi processi della terra. Abbiamo bisogno di una civiltà capace di convivere pienamente e creativamente con il mondo selvatico, con l’essere selvaggio..... La wilderness è un luogo dove il potenziale selvaggio è pienamente espresso, dove una varietà di esseri, viventi e non, si manifestano secondo il loro ordine interno..... Wilderness vuol dire totalità, interezza. Gli esseri umani emergono da quella totalità; e l’idea di riaffermare la nostra partecipazione all’assemblea di tutti gli esseri non è affatto un pensiero regressivo”.

Scrive ancora Zunino: ".... Chi sente il desiderio di un rapporto diverso con l'ambiente, più legato ad esigenze interiori di beltà e solitudine, di riflessione, di godimento della bellezza, dei momenti del vivere e dell'evolversi della natura, più facilmente capirà l'esigenza di maggior rispetto, capirà che i diritti della natura, devono avere il primo posto e che l'uomo deve visitarla sempre pronto a tirarsi indietro non appena divengono evidenti i segni del mutamento che la sua presenza le arreca, che vanno dalla degradazione ambientale al disturbo della fauna, alla perdita di certi stati di pace e solitudine (che sono un diritto della fauna prima che nostro); pronto pertanto anche a rinunciare alla natura quando ne è il caso.

Invece, la maggioranza di quelli che amano la natura, la fauna, la flora, o ne godono attraverso la ricreazione fisica in essa (naturalisti, alpinisti, escursionisti, cacciatori, ecc.), raramente si pongono problemi di rinuncia ai propri piaceri per rispetto alle sue esigenze......... In realtà ogni categoria di fruitori della natura deve rassegnarsi a porsi dei limiti, perché non esistono fruitori buoni e fruitori dannosi, ed è nella limitazione di tutte le libertà il compromesso giusto che permette di garantire alla natura la possibilità di perpetuarsi nella sua libertà, perché mentre sono adattabili le nostre esigenze, il più delle volte non lo sono quelle della natura.......'c'è bisogno di amore verso la Terra, non verso i piaceri che ne traggono attraverso l'uso'. E' invece, purtroppo, quasi sempre l'inverso per la stragrande maggioranza degli aderenti ai vari gruppi di interesse, dall'ornitologo al cacciatore....".

Scrive ancora Zunino e completa il discorso: "Il Wilderness Concept è quella ipotetica barriera invisibile ma invalicabile contro le pressioni delle esigenze economiche, e quindi di sviluppo, della società umana, posta dall'uomo stesso a difesa della natura, o meglio a garanzia della sua perpetuità. In pratica una premeditata rinuncia dei diritti dell'uomo per garantire quelli della natura. Questa barriera è stata codificata per la prima volta al mondo nel 1964 con una legge speciale del Congresso americano. I territori delimitati da questa barriera legislativa sono per sempre e per principio tutelati contro ogni progetto di modifica al loro stato ambientale.

Oggi è il momento di cominciare seriamente a batterci affinché in tutto il mondo venga applicato questo concetto conservazionistico.

Salvare il salvabile delle ultime terre selvagge della Terra è una priorità indifferibile; abbiamo troppi esempi di luoghi selvaggi andati persi nel volgere di pochi anni perché ritenuti enormi o inattaccabili per assenza o scarsità di risorse o per la difficoltà di operarvi imprese redditizie. E' invece bastato poco perché il lento erodere di terre ai grandi spazi selvaggi si sia evoluto con un crescendo esponenziale vertiginoso (l'Amazzonia è l'esempio più attuale) in conseguenza a sviluppi socio-economici impensabili solo pochi anni fa; e così è stato per le risorse naturali scoperte in luoghi impensabili, risorse di qualità ed in quantità, la cui richiesta ha raggiunto i vertici sui mercati mondiali (petrolio, uranio, gas, ecc.): e qui insegna l'Antartide, ritenuto una landa sterile e desolata e ora scoperto come inesauribile miniera di ricchezze per il mondo intero! E' così pure i luoghi ritenuti inavvicinabili per le difficoltà tecniche di aprirvi vie di penetrazione: le scienze ingegneristiche nell'ultimo decennio hanno praticamente risolto ogni problema tecnico: ormai è solo questione di soldi. Se si vuole fare arrivare la civiltà mediante strade, dighe e costruzioni d'ogni natura non c'è più barriera naturale che riesca a fermare o contenere la volontà colonizzatrice dell'uomo.

Ad un tale stato di cose, tutte basate sul profitto, solo una corrente di pensiero può opporsi con efficacia. La volontà di distruggere colonizzando o sfruttando si può combattere solo con una volontà opposta: quella di conservare. Nessuna convinzione utilitaristica potrà mai prendere il posto a quella esigenza interiore e morale di conservarci qualcosa che amiamo perché sentiamo intimamente nostro come l'angolo preferito dalla nostra casa. Fino a che non ci convinceremo che conservare un luogo o un territorio è come far sì che gli estranei rispettino le nostre proprietà materiali (chi non si ribella a chi ci imbratta la casa o l'automobile?), non otterremo nessuna legge, nessun provvedimento duraturo a difesa dell'ambiente: accetteremo sempre compromessi, compromessi che considereremmo assolutamente inaccettabili se dovessero riguardare le nostre proprietà materiali. E questo non è giusto. Vuol dire che non abbiamo ancora raggiunto una coscienza sociale che ci faccia sentire nostro ciò che è di tutti. Ovverosia, continueremo a considerare ciò che è di tutti come se non fosse di nessuno o comunque mai nostro.

E' per questi motivi che piuttosto che vincoli seri e duraturi continuiamo ogni giorno a chiedere alle forze politiche la istituzione di nuovi Parchi ed aree protette solo per la soddisfazione di stampigliare queste definizioni su aree circoscritte cartograficamente ma che ben poco hanno di Parco o di Riserva della e per la natura, accettando labili vincoli pur di ottenere quelle semplici espressioni geografiche che, appunto, sono divenuti i Parchi italiani, siano essi nazionali o regionali. La 'Parcomania' affibiataci dai cacciatori esiste, non è una definizione per deridere il movimento ambientalista!

I Parchi Regionali istituiti negli ultimi anni, e così le molte Riserve Naturali regionali e statali, nonché i Parchi Nazionali progettati, sono basati su vincoli così poco vincolanti che al di là del solito scontato ed a volte inutile divieto di caccia, ben poco difendono dei patrimoni ambientali delimitati quali 'aree protette'.

Corriamo il rischio che come già in passato è avvenuto per tutti i Parchi nazionali esistenti, si vengano a perdere i valori ambientali e paesaggistici migliori proprio dopo che essi sono o saranno stati, teoricamente, sottoposti a tutela! Pensiamo quali grandi aree di natura selvaggia erano il Gran Paradiso o l'Abruzzo o lo Stelvio all'atto della loro designazione in Parchi Nazionali: 60.000, 30.000 e 70.000 ettari di Wilderness! Ora di quella Wilderness è rimasta ben poca cosa.

Oggi, quali Parchi o altre Riserve garantiscono che nessuna opera stradale o rifugio (per non parlare di peggio!) venga realizzata nei loro confini dopo la data della loro designazione? Pochi, se non nessuno in senso rigido.

Ecco quindi la necessità di una nuova corrente di pensiero conservazionistica in merito a ciò. Una corrente che scopra e faccia proprio il Wilderness Concept. Non è una 'Parcomania'. Bensì una scelta oggettiva dei luoghi meritevoli di vera tutela, da scindere da quelli di scarso valore ambientale o, peggio, con valori solo socio-economici per i quali possono anche andar bene gli pseudo vincoli di oggi. Una scelta, quindi, non tanto dei luoghi da tutelare per essere sfruttati quanto dei luoghi da conservare veramente, per necessità biologiche e psicologiche; da difendere come difendiamo i nostri giardini, per abbellire i quali spendiamo danaro al solo fine indiscusso di crearci qualcosa di bello da guardare e da godere. Solo prendendo atto e coscienza di un tale assioma potremo batterci al fine di ottenere anche da noi delle norme vincolistiche ispirate al Concetto di Wilderness, norme da applicarsi nell'ambito di tutte le aree protette esistenti e da prevedersi in quelle di futura istituzione, almeno a difesa delle ultime aree selvagge rimaste nel territorio italiano. E solo così potremo considerare la loro difesa nostro diritto indiscutibile, al pari del diritto alla difesa della nostra casa, delle nostre proprietà fondiarie, dei nostri beni materiali in genere.

Forever wild può significare anche per sempre nostro!”.

John Muir in una lettera al fratello scrisse: “Vendimi 20 ettari del prato vicino al lago e tienilo recintato in modo che non vi possa penetrare il bestiame.... voglio che resti incalpestato per la salvezza delle felci e dei fiori e, anche se non potrò rivederlo mai più, la bellezza dei suoi gigli e delle sue orchidee sarà tanto presente alla mia mente che ne gioirò soltanto immaginandomeli”.

La nostra mente ormai atrofizzata in uno stile di vita artificiale, illusorio e superficiale, non ci consente di poter concepire, anche per un solo istante, l’esistenza di una natura che non sia stata manipolata e trasformata dall’uomo. Il nostro pensiero di uomini “civili” non include più qualcosa che non sia umano o per lo meno umanizzato. Ecco perché apprezziamo solo le cose che evidenziano in qualche modo una “presenza” umana, anche minima, ma sempre umana (un sentiero selvaggio, non battuto e non marcato, viene considerato “abbandonato”, impraticabile, non confortevole). Tutto deve essere sempre sottomesso in qualche modo all’operato dell’uomo. Si spera che le ultime aree della terra che ancora sono immuni dal “morbo” umano, rimangano tali per sempre.

“Quello che ho cercato di dire è che la conservazione del mondo è nella natura selvaggia... La via è fatta di spazi selvaggi. La cosa più viva e la più selvaggia. Non ancora sottomessa all’uomo, la sua presenza la rinvogorisce.... Quando voglio ri-crearmi, cerco il bosco più intricato, più fitto e più esteso e, per l’abitante della città, il più tetro e paludoso. Vi entro come in un luogo sacro, un Sanctum sanctorum. Lì è la forza, il midollo, della Natura. In breve, tutte le cose buone sono selvagge e libere” ( H.D. Thoreau).

John Mitchell in un suo articolo (1998) ci ricorda, a conferma di quanto detto pocànzi che: “Quando si parla di wilderness non si intende esclusivamente un luogo fisico, e neppure un sistema di gestione...... Wilderness è anche uno stato mentale. Un’idea a un tempo inafferrabile e terrena: personale quanto il rischio, la libertà, la solitudine e il riposo spirituale; concreta quanto la terra vivente e le acque che ne disegnano il profilo”.  Aggiunge poi, citando un suo interlocutore Charles Little che: “La terra è una comunità, insegnava Leopold. Le sue acque, il suolo, le piante, gli animali, compongono un insieme armonico non per il nostro beneficio, bensì per il loro”.

E’ bene completare ed integrare il discorso con le parole del già più volte citato Aldo Leopold, cui si deve la designazione della prima Wilderness Area del mondo, ed universalmente noto per i suoi trattati sull’”Etica della Terra”. Dall’opera A Sand County Almanac (1949/1968, traduzione di F. Zunino): “La Wilderness è il materiale grezzo dal quale l’uomo ha manipolato il manufatto chiamato civiltà.

La Wilderness non è mai stata un materiale grezzo omogeneo. Era molto varia e i manufatti risultati sono, pertanto, molto differenti. Queste differenze nel prodotto finale noi le conosciamo come culture. La ricca diversità nella selvatichezza delle quali hanno preso vita.

Per la prima volta nella storia della specie umana, due cambiamenti sono incombenti. Uno è l’esaurirsi della Wilderness nella porzione del globo più abitata. L’altro è l’ibridazione delle culture del mondo attraverso i moderni mezzi di trasporto e l’industrializzazione. Nessuno dei due può essere prevenuto; o forse potrebbe anche esserlo, visto che, da alcuni insignificanti miglioramenti dei cambiamenti che incombono, certi valori possono essere preservati prima che siano persi.

Per il fabbro accaldato nel lavoro, il ferro sulla sua incudine è un avversario da conquistare. Così era la Wilderness, un avversario per i pionieri. Ma per il fabbro in riposo, capace per un momento di gettare uno sguardo filosofico nel suo mondo, lo stesso ferro grezzo è qualcosa da amare e custodire, perché dà determinazione e significato alla sua vita. Questo significa la preservazione di alcuni rimasugli di Wilderness come pezzi di museo, per il piacere di quelli che potrebbero un giorno desiderare vederli, viverli, o studiarvi le origini della loro eredità culturale”.


Pur se alcuni passi sono una ripetizione di quanto scritto sulla wilderness, riportiamo alcuni punti (punto 1 e 2) del documento programmatico dell'Associazione Italiana per la Wilderness, affinché si focalizzi ancora meglio l'importanza di alcuni aspetti di questa reale visione della conservazione della natura.


Punto 1 - Wilderness come sentimento

Come ogni bellezza, anche la natura nella vastità dei suoi molteplici aspetti fisici e delle sue manifestazioni prima di destare in noi interessi d'ordine scientifico o culturale o soddisfare esigenze ricreative, desta emotività. Negarlo sarebbe sciocco; ognuno di noi con la riflessione può riuscire a risalire a questa prima emozione di scoperta del mondo naturale. Tutto il resto dei nostri interessi è venuto dopo, con l'acculturamento. La natura è pertanto in primo luogo un patrimonio spirituale per l'uomo, e i complessi ambientali più intatti e quindi più belli secondo un metro di giudizio naturalistico, sono le cattedrali o i santuari di questa spiritualità.

Nella società moderna si può essere malati dello spirito così tanto quanto nel corpo, e in questi caso il contatto con la natura, il vivere nella natura in modo equilibrato divenendo membri partecipi della sua comunità ritrovando ancestrali rapporti con essa, può essere un modo, e sicuramente lo è per molti individui, di ritrovare stat d'animo che ci migliorano e che migliorano il nostro vivere civile con gli altri, la nostra etica sociale; è quindi un modo per migliorare la società in cui viviamo. La natura diventa in questo caso una componente indispensabile della nostra esperienza di vita. Questo è il sentimento che gli anglosassoni hanno strettamente legato all'esperienza di "Wilderness".

Di fronte ad un bosco distrutto, ad una montagna deturpata, a qualsiasi modificazione di stati paesaggistici che amiamo o che abbiamo amato, sentiamo dentro di noi un moto di rivolta spontaneo, che è la nostra prima reazione a questi misfatti. Tutti gli altri motivi, sociali, culturali, ricreativi, scientifici ed anche economici, li elenchiamo dopo, col ragionamento. Ancora una volta notiamo, quindi, come sia il valore spirituale a destare il nostro primo e più sentito interesse. nonostante questo, la tendenza comune è di porre questi altri motivi al primo posto dei nostri interessi, e di farne le motivazioni per cui vogliamo proteggere la natura; giungiamo in pratica a negare anche a noi stessi l'emotività che abbiamo dentro e che è il primo motivo di rivolta e pertanto il vero primo motivo per cui dobbiamo batterci per tutelare il patrimonio naturale (e questo vale anche per le opere artistiche, il cui valore sentimentale è sempre superiore a quello venale): la vista stessa senza questi sentimenti non avrebbe senso o sarebbe ben sterile e fredda.

In definitiva, bisogna proteggere la natura perché è bella, perché ci piace e ci procura emozioni, e soprattutto perché ha diritto di esistere. Chi capisce questo sentimento ha capito la filosofia Wilderness. Legare questa idea ai soli spazi selvaggi è limitativo: i grandi spazi selvaggi sono solo i luoghi migliori, tra i massimi per bellezza e ricchezza naturalistica, dove garantire i diritti della natura e dove la nostra emotività nei rapporti con essa si manifesta maggiormente.

I bisogni spirituali dell'uomo legati alla natura sono in aumento, ma sia il capitalismo che il consumismo si fondano su una società materialistica che tende ad ignorare questa esigenza umana e che sta distruggendo o quanto meno assoggettando ogni fenomeno naturale alle sue necessita tecnologiche ed economiche; se c'è una possibilità di fermare questa evolution, non è nel rivoluzionamento dei sistemi sociali, ma nell'esaltare e far progredire i valori dei sentimenti umani, perché è in essi l'unica forza capaci di resisterle e di condizionarla.

Le motivazione interiori sono tra l'altro le uniche che non potranno mai essere assoggettate alla volubilità degli uomini politici e degli amministratori del territorio. Anche nei momenti più critici della vita sociale sarà più difficile derogare alla necessità di salvaguardare una poco di natura; anche di fronte a gravi esigenze contingenti ci si potrà opporre, nel limiti dell'umano, alla distruzione della natura. Una tale forza non ha nessuna delle motivazioni materialistiche.


Punto 2 - Wilderness come maggiore rispetto della natura

Chi sente il desiderio di un rapporto diverso con l'ambiente, più legato ad esigenze interiori di beltà e di solitudine, di riflessione, di godimento della bellezza, dei momenti del vivere e dell'evolversi della natura, più facilmente capirà l'esigenza di maggior rispetto, capirà che i diritti della natura, almeno in alcune aree, devono avere il primo posto e che l'uomo deve visitarle sempre pronto a tirarsi indietro non appena divengano evidenti i segni del mutamento che la sua presenza le arreca, che vanno dalla degradazione ambientale al disturbo della fauna, alla perdita di certi stati di pace e solitudine (che sono un diritto della fauna prima ancora del nostro); pronto pertanto anche a rinunciare alla natura quando ne è il caso:

Invece la maggioranza di coloro che amano la natura, la fauna, la flora, o ne godono attraverso la ricreazione fisica in essa, raramente si pongono problemi di rinunzia ai propri piaceri per rispetto delle sue esigenze. Di solito, ogni organizzazione, ogni gruppo di interesse, tenta di porre dei limiti ad altri organismi o gruppi di persone la cui libertà di azione minacci le proprie esigenze. Si guarda quasi sempre agli altri, prima di fare autocritica e cominciate a vedere cosa vada limitato delle proprie attività. L'esempio più lampante è la rivalità tra naturalisti e cacciatori. I primi vorrebbero abolire del tutto la caccia, vista come attività rivale ai loro interessi, ma quasi mai si pongono problemi di limitazione alla loro attività di osservazione, studio o ricreazione pur dannose come la caccia in certe situazioni. I secondi, dal canto loro, sono sempre pronti a prendersela col turismo o con gli inquinatori, ma evitano di porre limiti al terribile impatto che la loro categoria infligge alle popolazione faunistiche. Ogni categoria di fruitori della natura cerca in buona fine da una lato di limitare la libertà delle altre antagoniste, e dall'altro di scegliere delle alternative che diano solo la parvenza di limitazioni alle proprie attività, trovando sempre motivazioni sufficienti per giustificare il proprio "diritto all'ambiente" e negare quello degli altri.

In realtà ogni categoria di fruitori della natura deve rassegnarsi a porsi dei limiti, perché non esistono fruitori buoni e fruitori cattivi, ed è nella limitazione di tutte le libertà il compromesso giusto che permette di garantire alla natura la possibilità di perpetuarsi nella sua libertà, perché mentre sono adattabili le nostre esigenze, il più delle volte non lo sono quelle della natura. L'"Etica della Terra", o l'etica ambientale, di Aldo Leopold, è in fondo anche questo.

"C'è bisogno di amore verso la Terra, non verso i piaceri che se ne trae attraverso l'utilizzo". E' invece, purtroppo, quasi sempre l'inverso per la stragrande mggioranza degli aderenti ai vari gruppi di interesse, dall'ornitologo al cacciatore. Una politica di "carryng capacity", cioè di un uso razionale ed equilibrato non solo delle risorse ma anche dell'ambiente come luogo di ricreazione, e nel primario rispetto delle esigenze della natura.......

L'uomo deve rispettare la natura per il suo valore in sé, e deve sapersi tirare indietro non appena la sua presenza vi incide negativamente, non trovare cavilli e rimedi provvisori per giustificare la necessità o, peggio, il "diritto" della sua presenza……”


Prima di concludere e passare ad illustrare alcune notizie pratiche si vuole fare un ultima riflessione.

E’ stato ampiamente esposto precedentemente l’alto e lodevole significato della filosofia Wilderness per la conservazione di un territorio selvaggio ed abbiamo visto che un area sottoposta a quel principio rappresenta, nella sua attuazione pratica, una forma concreta e reale di protezione/conservazione che si esprime al massimo grado a cui oggi si possa arrivare.

Quello che invece si vuole  portare bene alla luce (anche se Zunino ne ha già abbondantemente parlato) è il fatto che il Concetto di Wilderness, abbia nel suo seno, un aspetto fondamentale molto importante, sia per gli effetti che proietta su una eccellente protezione della natura, ma anche un principio tanto caro all’Ecologia profonda: “il valore in sé della natura”. Riportiamo nuovamente quanto detto da Zunino all’inizio del documento: “La protezione di un territorio naturale può certamente avere molti ruoli, molte finalità, ma credo che solo uno debba essere lo scopo per cui la si debba attuare: conservare il territorio fine a se stesso" (Franco Zunino).

Il valore in sé della natura è un atteggiamento tra i più profondi che si possono elaborare. Si va oltre il fine antropocentrico ed utilitaristico della natura e si riconosce che il suo esistere prescinde da quello dell’uomo. Certo l’uomo, soprattutto negli ambienti selvaggi, può trovare il massimo godimento, soprattutto spirituale, di vivere una natura vera e può gioire sapendo che si tratta di un’area tutelata con il più alto valore possibile oggi auspicabile (si ricorda, come detto, il Wilderness Act americano che nel lontano 1964 ha sancito un punto di svolta epocale per una vera tutela dei territori naturali).

Questo pone, come detto, il concetto di wilderness al di fuori di ogni logica utilitaristica della natura e, come sappiamo, imprime alla conservazione reale di un territorio un valore che non ammette compromessi, cioè tutelare un ambiente, ma non permettendo, o al massimo ridurre al minimo, molte attività umane che alla fine snaturano, almeno in buona parte, gli effetti iniziali dell’atto protettivo (la politica dei parchi in Italia ne è un esempio). Il concetto di Wilderness, guarda in primis agli interessi della natura e, successivamente - ma in forma completamente diversa rispetto a quello che molti credono sia buono per l’ambiente - a “vantaggi” anche per l’uomo, ma questi vantaggi sono per lo più di carattere spirituali e molto poco materiali.

Le aree wilderness non sono riserve integrali nelle quali non è possibile accedere, ma l’etica della wilderness ci dice di farlo “in punta di piedi”, perché occorre ricordare che in un’area selvaggia è sempre la natura ad essere “padrona” e protagonista. L’uomo deve sapersi tirare indietro al minimo cenno di disturbo o di alterazione. Scrisse un indiano Piedineri: ”Un uomo non dovrebbe mai camminare con tanto impeto da lasciare tracce così profonde che il vento non le possa cancellare”.

Il riconoscimento del valore in sé della natura, porta ad approdare ad un altro concetto fondamentale che stravolge tutte le posizioni che l’uomo ha sempre avuto nei riguardi della natura (e non solo): l’ecocentrismo!! Si abbandona la centralità dell’uomo (antropocentrismo), e questo porterà ad una vera rivoluzione di tutti gli atteggiamenti mentali e materiali che si esprimono. E, fatto questo passo si arriva direttamente alla concezione dell’olismo, l’unità del tutto, una visione che pone sullo stesso livello ogni elemento di madre terra (animato e non): “Non si può toccare un fiore senza disturbare una stella” (G. Bateson). 

Dice Hargrove “La bellezza è un carattere intrinseco e oggettivo dell’ente naturale (il quale quindi è bello per il solo fatto di esistere), dunque essa è svincolata dalla percezione da parte di un soggetto…..” e conclude “….la Wilderness è oggi simbolo universale di un territorio selvaggio non manomesso dalla mano dell’uomo in cui la natura, libera di rappresentarsi, si manifesta in tutto il suo splendore”.


Dedicato……. ad una Wilderness che conservi per sempre gli ultimi territori selvaggi stando esclusivamente dalla parte della natura, grazie ad una sua visione, olistica, ecocentrica, profonda e che riconosce, nel suo massimo significato, il valore in sé della natura tutta”.


Dopo questa lunga dissertazione vediamo ora di riassumere le finalità generali della filosofia wilderness e di accennare ad alcune applicazioni pratiche della stessa.


Le finalità

1 - Per una nuova filosofia che consideri la natura un valore spirituale per l’uomo, che esalti il suo valore morale e di bellezza e l’emotività che essa suscita nell’animo umano; affinché sia maggiore il suo rispetto e più sicuri e duraturi i vincoli presi a sua tutela.

2 - Per un più giusto rapporto tra l’uomo e la natura ed un uso equilibrato dell’ambiente anche se a fini ricreativi e di godimento nel primario rispetto delle sue esigenze: affinché sia effettivamente possibile tramandare di generazione in generazione sempre uguali i nostri patrimoni ambientali.

3 - Per il mantenimento della assoluta integrità territoriale e paesaggistica delle aree naturali più selvagge, dentro e fuori le aree già protette; affinché pur nel rispetto di tradizionali utilizzi delle risorse naturali e recupero di valori culturali, esse si conservino per sempre inalterate.

4 - Per l’approvazione da parte degli organi legislativi ed altri organismi che gestiscono il territorio, di leggi e provvedimenti speciali che tutelino i valori della natura selvaggia; affinché sia garantita per sempre e per principio la intangibilità delle aree naturali più selvagge e vi sia proibita ogni forma di motorizzazione ed antropizzazione.

5 - Per un controllo e una supervisione morale a favore della natura sulle attività di gestione degli organismi che amministrano le aree protette; affinché i primari interessi della natura non debbano mai essere messi da parte o sminuiti per fare quelli dell’uomo.

6 - Per il riconoscimento legittimo di un diritto di proprietà morale sulle bellezze naturali a prescindere dalla proprietà catastale dei suoli; affinché ogni valore della natura non sia più considerato solo in un’ottica economica con la conseguente negazione del valore estetico e spirituale che lo stesso bene possiede.


La nascita concreta della wilderness

Scaturita in America nel secolo scorso e diffusasi soprattutto in questo secolo, fino ad allargarsi al resto del mondo, la filosofia Wilderness ritiene, come abbiamo appena visto, che la natura vada conservata in quanto valore in sé, e considera questo valore un patrimonio spirituale per l’uomo per ciò che esso esprime, a livello interiore, in ogni individuo.

Il Concetto di Wilderness ha invece soprattutto una profonda implicazione protezionistica, significando un vincolo duraturo nel tempo con il massimo di garanzie che la società possa dare. Codificato in USA in una legge speciale, esso ha permesso di designare quelle zone protette note come “Aree Wilderness” che hanno l’eguale nella vasta gamma di Parchi ed altre Riserve analoghe per la difesa della natura. Esse hanno lo scopo di preservare gli angoli più selvaggi della Terra nel loro stato più primitivo, e per questo rappresentano un fatto di insuperabile qualità nella politica di tutela del territorio; ciò non solo per garantire la sopravvivenza della fauna e ella flora nei loro stati originari o il più vicino possibile a tali stati, ma per permettere anche all’uomo di goderne in una natura incontaminata, e soprattutto di goderne in equilibrio ed in armonia.


The Wilderness Act

1964 - Il 3 settembre 1964 il Congresso americano approva, dopo vent’anni di discussioni e revisioni dei testi, il Wilderness Act (legge per le zone selvagge), la prima legge mondiale che riconosce, definisce e tutela il valore della Wilderness, designando contemporaneamente una lunga serie di tale aree. E’ la legge più rigida in materia di difesa ambientale mai approvata da un governo, e tuttora mai eguagliata. La difesa del valore Wilderness è anteposta ad ogni altra esigenza; i territori così protetti, completamente selvaggi e privi di strade, vengono sottratti per sempre ad ogni manipolazione e riservati esclusivamente al libero sviluppo delle forze naturali. L’uomo può però visitarle quale membro partecipe della comunità vivente, ovverosia in modo equilibrato, senza interferenze o forme di usura ambientale.

1980 - Con un’altra legge destinata a restare come pietra miliare nella storia del conservazionismo mondiale, il Congresso americano designa in un colpo solo 40 milioni di ettari di nuovi territori protetti nello Stato di Alaska, dei quali circa la metà immediatamente classificati Wilderness e sottoposti ala rigida legge del 1964.

E’ sintomatico notare come questa legge rigidissima sia anche un esempio unico di sinteticità e chiarezza legislativa: si è codificata la migliore forma di protezione ambientale con soli 35 articoli pari a 12 pagine dattiloscritte!

Attualmente sono sottoposti ai vincoli del Wilderness Act  più di 500 aree per un totale di oltre 40  milioni di ettari.

“Tuttavia,  - annota J. Mitchell (1998) - nei posti che sono riuscito a visitare, ho osservato e sentito abbastanza da poter affermare che dopo quasi 35 anni il National Wilderness Preservetion System regge ancora piuttosto bene. Non che manchino i problemi. Così come le foreste, i parchi e i rifugi nazionali che le racchiudono, anche le riserve integrali sono esposte ad insidie: l’uso improprio, l’abuso vero e proprio, e poi l’insufficienza di fondi, l’erosione dei sentieri, le specie esotiche invasive, i battibecchi politici e gli interessi locali contrari all’intervento normativo del governo. Sinora, però, nella maggior parte dei casi, sulle difficoltà ha prevalso l’ingegno.

Fra tutte le questioni che assillano i responsabili, forse nessuna richiede un tale dispendio di soldi e di tempo quanto l’impatto dei visitatori sui sentieri e sui campeggi. Negli ultimi trent’anni, l’uso ricreativo delle wilderness areas si è moltiplicato di sette volte rispetto al passato....”. 


La wilderness nel mondo

Il concetto della difesa delle ultime grandi aree selvagge della terra dagli Stati Uniti si allarga al resto del mondo, ed in particolare ai paesi di origine anglosassone. Allo stato attuale le nazioni che vantano una specifica legge sulle aree Wilderness sono: Stati Uniti, Canada, Nuova Zelanda, Australia, Sud Africa, Kenia, Finlandia.


“Non sarò più giovane, ma ne sono felice se non c’è un paese selvaggio in cui esserlo. A che serve tutta la libertà del mondo senza un punto vuoto sulla mappa?” (Aldo Leopold).


“Se tu conoscessi i territori più selvaggi come conosci l’amore, non vorresti mai separartene. E’ del corpo dell’essere amato che parliamo, non di proprietà terriere” (Terry Tempest Williams).


“La rivalutazione della natura selvaggia è una delle più straordinarie rivoluzioni intellettuali nella storia del pensiero umano riguardo all’atteggiamento verso la terra... Da inferno terrestre, la wilderness è diventata un rifugio di quiete dove i visitatori possono avvicinarsi, felici, alla dimensione divina sull’onda delle parole dell’ambientalista John Muir e delle melodie di John Denver... “ (Roderik Nash).


“Noi esseri umani dobbiamo tornare a una comprensione della terra e dell’aria nel senso morale del termine. Dobbiamo vivere in armonia con un’etica della terra. E’ l’unica alternativa possibile a morire” (N. Scott Momaday, Kiowa - in AA. VV., 1995).


“Io nacqui nella prateria dove il vento soffiava liberamente e dove non c’era nulla a bloccare la luce del sole. Io nacqui dove non c’erano recinti e dove ogni cosa respirava liberamente.

Io voglio morire là, e non dentro questi muri” (Dieci Orsi, Comanche Yanmparika - in AA. VV., 1995).


“La Wilderness non è mai stata così importante quanto oggi. Ma non così importante oggi quanto lo sarà domani”(Vance G. Martin).


“Che qualcuno mi mostri un luogo la cui vista risulti insopportabile a qualsiasi civiltà”  (Henry D. Thoreau).


"La salvaguardia del mondo naturalen è riposta nel suo stato di wilderness" (Henry D. Thoreau).


"La Wilderness è molto più di laghi, fiumi e boschi lungo le rive, molto più del pescare o del campeggiare. Essa è il senso di primitivo, dello spazio, della solitudine, del silenzio e dell'eterno mistero" (Sigurd Olson).


“La risposta a qualsiasi domanda la troverai sempre nella natura selvaggia” 

(Mario Spinetti).


"La natura sarà salvata solo se l'uomo le manifesterà un po' d'amore semplicemente perché è bella, e perché noi abbiamo bisogno di bellezza, qualunque sia la forma a cui siamo sensibili a seconda della nostra cultura e della nostra formazione intellettuale. Perché questa sensibilità è la migliore e la più integra espressione dello spirito umano" (Jean Dorst).


“La natura selvaggia è un bisogno spirituale che ognuno di noi si porta dentro e che va dal semplice amore per il bello al preponderante bisogno di solitudine che sentono alcuni. E’ il senso di fastidio che proviamo in natura di fronte all’opera dell’uomo, anche quando quest’opera è minima o ha fini di conservazione o di studio. La natura selvaggia è acqua libera di scorrere, di erodere, di gonfiarsi e straripare; è la libertà di volare e di correre degli animali; sono gli orizzonti intatti di montagne o di piatte paludi; è l’immensità del cielo su un panorama d’erba; è il silenzio della natura e lo scrosciare d’acque nelle valli montane; l’urlo del temporale nella foresta; il sibilo della bufera e il boato pauroso della valanga; il lento volo dell’aquila che annulla lo spazio tra le montagne; è il gioco delle onde sulle scogliera. La natura selvaggia è girare attorno lo sguardo e non vedere segno d’uomo; è ascoltare e non udire rumori d’uomo” (Franco Zunino).


“La protezione di un territorio naturale può certamente avere molti ruoli, molte finalità, ma credo che solo uno debba essere lo scopo per cui la si debba attuare: conservare il territorio fine a se stesso. E conservarlo vuol dire, o dovrebbe voler dire, far si che non venga alterato volutamente, vuol dire decidere di sottrarlo alla logica dello sviluppo (che è la logica del profitto) che è prettamente umana.

Decidere di conservare un luogo è decidere di tenere per quel luogo un comportamento ancestrale, animale, quale è la nostra origine, che è l’unico modo per poterci definire in equilibrio con l’ambiente: nessun cervo, nessun lupo, nessun orso ha mai potuto o preteso di “sviluppare” o “valorizzare” o “far produrre” il proprio habitat. Semplicemente da millenni lo utilizzano per quello che spontaneamente esso offre loro e lasciandolo immutato per altre generazioni. E’ solo l’uomo l’unica specie animale ad essere uscita da questo “cerchio della vita” (Franco Zunino).



Per una Wilderness profonda



“C’è solo una speranza di respingere la tirannica ambizione della civiltà di conquistare ogni luogo della terra. Questa speranza è l’organizzazione delle genti più sensibili ai valori dello spirito, affinché combattano per la libera continuità della natura selvaggia” (Robert Marshall)


“Come i venti e i tramonti, la vita selvaggia era considerata sicura finché il cosiddetto progresso non ha cominciato a portarla via. Ora ci troviamo di fronte al problema se un ancora più alto livello di vita valga il suo spaventoso costo in tutto ciò che è naturale, libero e selvaggio” (A. Leopold)


“La battaglia per la conservazione della natura continuerà indefinitivamente, 

perché essa è parte dell’universale battaglia tra il giusto e l’errore” (J. Muir)


“La natura deve essere rispettata e salvaguardata per il suo valore in sé. E’ l'uomo che deve adattarsi alle sue esigenze e non viceversa. Se è possibile, si deve fare in modo che il mondo selvaggio viva nella sua libera continuità e nella sua fierezza, quella libertà e quella fierezza che l'uomo, prigioniero e schiavo delle proprie convenzioni, forse inconsciamente invidia"



In questo documento vogliamo porre in evidenza la parte più profonda del Concetto di Wilderness ovvero il valore in sé che riconosce agli elementi della natura. Emendiamo quindi gli aspetti di ecologia di superficie, infarciti di antropocentrismo a cui approdano molto spesso i vari movimenti wilderness (tra cui quello italiano). Infatti Franco Zunino, praticamente il “padre” italiano di tale movimento, con un pensiero tipicamente “occidentale” scrive: ” Secondo me non si può prescindere dall'uomo. Che piaccia o meno, l'uomo è al centro del mondo e non sarà mai possibile evitarlo. Ed essendo noi uomini dotati coscienza e di intelligenza, è inevitabile che qualsiasi cosa si faccia, la si faccia sempre per l’uomo. Quindi la conservazione della natura non è altro che una reazione alla parte dell'uomo che la sta distruggendo. Ma anche chi la vuole difendere, sempre per l'uomo lo vuole fare. Dire che bisogna preservarla di per sé e che così facendo poi servirà comunque all'uomo è quasi pleonastico, perché in realtà sempre per noi che la amiamo lo facciamo, che sia per scopi materiali, scientifici o spirituali. E allora non cerchiamo di negare una realtà che magari non ci piace ma che è tale, nell'illusione di una natura che vive di per sé (ma che certamente non si autoapprezza!). Se l'uomo non ci fosse, neppure la natura di per sé avrebbe senso. Io sono felice di sapere che la natura dell'Isola di Papua esiste integra di per sé, ma è comunque un di per sé che mi soddisfa ed appaga come uomo. Quindi è sempre per l'uomo che noi desideriamo la preservazione di per sé di luoghi che mai vedremo nella nostra vita, ma che finché viviamo ci allieta sapere che esistano. E' un concetto difficile da spiegare, ma alla fine sempre all'uomo si ritorna. Altrimenti, prima che opporci alla distruzione della natura di questo nostro pianeta dovremmo farlo per impedire che l'uomo ne scopra altri, i quali certamente esistono e vivono di per sé. Ma ha senso pensare così? Ci potrà mai appagare l'idea di un mondo naturale che vive di per sé ma che neppure sappiamo se esiste?! Io non credo. Per appagarci dobbiamo sapere che esiste, e nel momento che sappiamo che esiste, ecco che l'uomo torna al centro, a quell’ombelico che l'ecologia profonda vorrebbe negare”. Lo stesso Zunino, in altro passo del suo pensiero, pare che si sconfessi da solo, quando dice: “la protezione di un territorio naturale può certamente avere molti ruoli, molte finalità, ma credo che solo uno debba essere lo scopo per cui la si debba attuare: conservare il territorio fine a se stesso" . E poi ancora: ".... Chi sente il desiderio di un rapporto diverso con l'ambiente, più legato ad esigenze interiori di beltà e solitudine, di riflessione, di godimento della bellezza, dei momenti del vivere e dell'evolversi della natura, più facilmente capirà l'esigenza di maggior rispetto, capirà che i diritti della natura, devono avere il primo posto e che l'uomo deve visitarla sempre pronto a tirarsi indietro non appena divengono evidenti i segni del mutamento che la sua presenza le arreca, che vanno dalla degradazione ambientale al disturbo della fauna, alla perdita di certi stati di pace e solitudine (che sono un diritto della fauna prima che nostro); pronto pertanto anche a rinunciare alla natura quando ne è il caso".


Continuando con Dalla Casa egli risponde a Zunino dicendo che ”Sono rimasto abbastanza stupito nel constatare che la filosofia wilderness, secondo la visione di Zunino, è completamente antropocentrica.

Le aree wilderness sarebbero da preservare allo stato completamente naturale, ma per la rigenerazione spirituale dell’uomo e non per un valore in sé o per la loro spiritualità intrinseca. In sostanza la filosofia wilderness si adegua ai principi dell’ecologia di superficie e del pensiero corrente, tranne che per il fatto (lodevole) di chiedere una gestione completamente diversa delle aree protette naturali-selvagge, che comunque restano isole in un mare di “progresso”.

L’affermazione che mi sembra davvero insostenibile è che l’ecologia profonda sarebbe “materialista” e la filosofia wilderness avrebbe invece aspetti più “spirituali”. Infatti:

- la filosofia wilderness, come esposta da Zunino, vede la parte spirituale-psichica-mentale solo nell’uomo: le aree wilderness vanno preservate, ma per il miglioramento spirituale dell’uomo;

- l’ecologia profonda vede un aspetto profondamente mentale-psichico-spirituale in tutte le entità naturali e nelle loro relazioni. Vede la nostra specie come componente interrelata in queste relazioni e quindi dotata anch’essa di profondo valore spirituale in quanto parte inscindibile di questa Natura, di quest’Anima del mondo.

Come si fa ad affermare che l’ecologia profonda è più “materialista” della filosofia wilderness? A me sembra proprio il contrario. Nella filosofia wilderness lo spirito è prerogativa di una sola specie, nell’ecologia profonda è ovunque.

Inoltre, a mio avviso il concetto di “primitivo” è privo di significato. Mi sembra invece che Zunino segua sostanzialmente le idee correnti che portano al vertice del cosiddetto “progresso” l’attuale civiltà industriale: al massimo ne chiede qualche correttivo. Mi sembra di capire che considera il “Cristianesimo”, palesemente inteso come l’attuale tradizione ebraico-cristiana, come un “progresso” rispetto alle visioni animiste-panteiste di tante altre culture umane.

La visione giudaico-cristiana-islamica è invece soltanto il frutto di spaccature profonde, dualismi inconciliabili fra Dio e il mondo, lo spirito e la materia, l’uomo e la natura. Diventa così facile passare al materialismo puro, basta togliere uno dei due termini, già ben separati. Non c’è nessuna “superiorità”. E’ forse superfluo aggiungere che tale visione non ha praticamente nulla dell’insegnamento di Cristo, di cui non sappiamo quasi niente. Resta soltanto l’impressione che tale insegnamento richiama moltissimo “l’amore compassionevole verso tutti gli esseri senzienti” del Buddhismo Mahayana.

Come dettaglio, esistono un centinaio di specie fossili intermedie con altri Primati, dagli Australopiteci al Neanderthal e poi all’Homo sapiens. Mi piacerebbe sapere da che parte vengono collocati questi esseri senzienti da chi sostiene la spaccatura umani-animali.

E poi aggiungo, non stiamo parlando di due contrapposizioni tra la filosofia wilderness e l'ecologia profonda. L'una è insita nell'altra e, soprattutto l'ecologia profonda, racchiude una visione universale che include ogni nostra positiva prospettiva delle cose. Infine è un grave errore inquadrare l'importanza della filosofia wilderness in una visione meramente antropocentrica (sarebbe più logico e significativo dargli una peculiarità ecocentrica ed olistica)”.


Occorre invece con forza ribadire il concetto del valore in sé della natura affinché si evidenzi ancor più un intimo legame che può intercorrere tra il concetto di Wilderness classico e l’Ecologia profonda, che porta con se una nuova etica ambientale integrata dal Manifesto per la terra; tutto ciò produce fondamentali elementi che universalizzano i concetti di conservazione e quindi di tutto il pensiero ecologico. Non è infatti sufficiente impegnarsi solo (anche se ovviamente è già un atto lodevole) alla salvaguardia di territori (wilderness e non), ma occorre anche impostare una nuova forma di pensiero affinché la protezione della natura divenga una sol cosa con il quotidiano esistere. Estinguere il dualismo e abbracciare la visione olistica e bioregionale del tutto. In tal modo il concetto di Wilderness epurato dai marcati riflussi dell'ecologia di superficie che, come abbiamo accennato, troppo spesso gli appartengono, esporterà principi non solo di salvaguardia diretta e reale delle aree selvagge, ma anche di pensiero.

Questo è un punto fondamentale poiché pensare di conservare un luogo quanto più selvaggio possibile senza andare ad intaccare anche una nuove concezione del mondo, è certamente un fatto importante, concreto e lodevole, ma ha alla base dei piedi di argilla, in quanto fermandosi ad una visione miope e mirata verso un unico elemento “superficiale” conservativo, in una proiezione futura verrà inesorabilmente fagocitato da un sistema di pensiero che è fermo alla centralità dell’uomo e sempre allo sfruttamento della natura, in tutti i sensi che tale concezione intende. Infatti vedere la Wilderness in funzione dell’uomo, anche se in forma prevalentemente spirituale, è anche essa una forma vera e propria di ”utilizzo“ utilitaristico della natura. In questo caso è meno grave, poiché è un utilitarismo volto ad esaltare fondamentalmente gli aspetti spirituali che l’uomo carpisce nel vivere la Wilderness (anche se non mancano quelli materiali), ma ha un “cancro” dentro se, poiché pone la questione in senso di proteggere un territorio per un ennesimo beneficio dell’uomo. E’ vero che la classica visione della wilderness riconosce il valore in se stesso di un territorio, ma ciò prende vita solo se l’uomo ne può “beneficiare” in un qualche modo. Ricordiamo invece il precetto fondamentale che dice “la natura deve essere salvaguardate per il suo valore in sé e non per un nostro interesse materiale, spirituale o etico che sia”; poi, a questo punto e con questa visione se anche l’uomo troverà un giovamento ben venga, anzi è auspicabile, ma ciò deve essere esclusivamente un riflesso, non lo scopo di quel ”salvataggio”. Occorre comprendere che se non si cambia la forma mentis utilitaristica, il libero dispiegarsi della natura non troverà mai spazio, perché sarà ”frenato” sempre dagli interessi diretti dell’uomo. E senza una visione olistica, ecocentrica ed universale, nel futuro tutto naufragherà nella totale distruzione di madre terra, poiché essendo dapprima stata totalmente posseduta dall’uomo, viene di conseguenza annientata. Nessuno mette in dubbio che l’uomo “originario” vedesse nella natura quasi esclusivamente elementi di sua utilità, ma in questo caso parliamo di “sopravvivenza” e, come il resto delle forme di vita sulla terra, “sfruttava” ciò che trovava a disposizione, ma non arrivava mai a distruggere ciò che era il suo pane. Ma l’uomo di cui stiamo parlando è un uomo che ha sviluppato una eccessiva, anzi direi, unica via di sfruttamento/utilizzazione delle risorse naturali che, oltrepassato i fini di sussistenza è approdato agli interessi “economici” e sta annientando tutto, solo perché oramai vede nella natura un immenso “cavoau di una banca” a cui “rubare” quanto più non posso, tutto il denaro che ivi trova riposto. 

“Quando si parla di ecologia e protezione della Natura, occuparsi di ‘visioni del mondo’ sembra una cosa più astratta, o meno pratica, rispetto a dare consigli sullo smaltimento dei rifiuti o la conservazione delle foreste, ma è soltanto perché parlare di ‘visioni del mondo’ ha effetti a scadenza molto più lunga. Sono però aspetti che toccano molto più in profondità il comportamento e gli atteggiamenti, rispetto ai più immediati consigli pratici di ecologia spicciola” (G. Dalla Casa).

E’ certamente vero che voler cambiare la forma mentis, spostandola dalla visione attuale centrata-sull’umano verso una centrata-sulla-Terra, non è cosa facile ed immediata, ma sviluppare questa rinnovata visione (rinnovata poiché all’origine dei tempi così veniva vissuta) è fondamentale perché nel tempo, sia pure lungo, qualora affermata, approderà a risultati universali, unici ed imprescindibili. “L’uomo è un fenomeno filosofico sorpassato. L’universo è fin troppo vasto perché solo l’uomo vi dimori” (H. D. Thoreau) e, citando J. Muir “La natura ha tanti altri scopi, non certo gli interessi degli uomini” oppure ““La Natura può aver destinato la terra fertile anche ad altri scopi che al nutrimento degli esseri umani”.


Dalla Casa, ricordando la figura di Arne Naess scrive a tal proposito: “In realtà, come filosofia di fondo e di comportamento, l’ecologia profonda era ben nota agli sciamani Hopi o Lakota, ad altre culture native o ad alcune filosofie di origine asiatica, ma Naess è stato il primo a definirla in termini scientifico-filosofici occidentali. In quell’articolo diventato famoso, Naess distingue fra un’ecologia “superficiale”, che si batte per la conservazione della natura, che però rimane risorsa al servizio dell’uomo, e un’ecologia “profonda”, che sostiene il valore intrinseco delle realtà naturali. Se tutto ciò che esiste è interrelato, se cioè “tutto dipende da tutto”, l’essere umano non è più separato dal mondo naturale ma ne è solo una parte, che interagisce con le altre e verso le quali deve assumere un atteggiamento empatico.

Il grande merito dell’ecologia profonda è quello di spostare la coscienza da centrata-sull’umano a centrata-sulla-Terra. Naess definì il movimento dell’ecologia superficiale, molto più diffuso di quello dell’ecologia profonda, come “la battaglia contro l’inquinamento e l’esaurimento delle risorse, che farà spostare gli umani verso le nazioni cosiddette sviluppate”. L’approccio di superficie dà per scontata la fede nell’ottimismo tecnologico, nella crescita economica, nello sfruttamento basato sulla scienza e nella continuazione delle attuali società industriali. Naess così si esprime: “I sostenitori dell’ecologia di superficie pensano di poter modificare le relazioni dell’uomo con la Natura all’interno della struttura della società oggi esistente”.

“La maggior forza trainante del movimento dell’Ecologia Profonda – scrive Naess – se paragonato a tutta la restante parte del movimento ecologista, è l’identificazione e la solidarietà con tutta la Vita”. Il primato del mondo naturale è considerato “un’intuizione” e non un derivato filosofico o logico. In linea di principio, ogni essere vivente ha diritto ad una vita libera, autonoma e dignitosa. Per Naess vanno compresi fra gli esseri senzienti gli organismi individuali, gli ecosistemi, le montagne, i fiumi e la Terra stessa.

Il libro di Rachel Carson “Primavera Silenziosa” (1962) lo aveva colpito profondamente. Gli esseri viventi, pensava Arne Naess, hanno un valore in sé. Come gli uccelli delle sempre più silenziose campagne americane, hanno bisogno di essere protetti dall’invadenza di miliardi di umani. Bisogna cercare una nuova armonia ecologica tra gli esseri viventi che abitano il pianeta Terra. Questo rinnovato equilibrio passa a livello teorico attraverso la rinuncia a qualunque forma di antropocentrismo: il diritto alla vita di ogni essere vivente è assoluto e non dipende dalla maggiore o minore vicinanza alla nostra specie. A livello pratico il nuovo equilibrio ecologico passa attraverso la riduzione della popolazione umana, l’uso di tecnologie a basso impatto ambientale e la mancanza di interferenza umana in moltissimi ecosistemi…….. 

Infine il significato dell’opera di Naess è stato anche quello di presentarci una via verso il ritrovamento di una relazione pre-industriale, animistica e spirituale con la Terra, con il rispetto verso tutte le specie e non solo la specie umana. Questo è il messaggio di cui ha bisogno il nostro tempo, che la Terra non è soltanto una “risorsa” per l’umanità, qualcosa che deve essere sfruttato commercialmente.

Purtroppo i personaggi più noti del movimento ecologista non hanno mai nominato pubblicamente l’ecologia profonda, né parlato della sua grande importanza: non è per caso, dato che i suoi principi comporterebbero modifiche considerate troppo drastiche alla società e soprattutto al sistema economico”.


“Non si può toccare un fiore senza disturbare una stella” (G. Bateson).

Dice Hargrove “La bellezza è un carattere intrinseco e oggettivo dell’ente naturale (il quale quindi è bello per il solo fatto di esistere), dunque essa è svincolata dalla percezione da parte di un soggetto…..” e conclude “…la Wilderness è oggi simbolo universale di un territorio selvaggio non manomesso dalla mano dell’uomo in cui la natura, libera di rappresentarsi, si manifesta in tutto il suo splendore”.


DEDICATO……. “ad una Wilderness che conservi per sempre gli ultimi territori selvaggi stando esclusivamente dalla parte della natura, grazie ad una sua visione, olistica, ecocentrica, profonda e che riconosce, nel suo massimo significato, il valore in sé della natura tutta”.


”La civiltà non può prescindere dalla wilderness, 

la natura selvaggia ed incorrotta!” 

(John Muir)


***


Ma elaborare il profondo dissidio dell’uomo con la natura è un compito tutt’altro che facile, anche se si vuole arrivare semplicemente alla pura consapevolezza del fatto. E’ in parte come voler ricomporre un complicatissimo puzzle fatto di tanti elementi diseguali senza averne davanti l’immagine guida. Questo è dovuto anche dal fatto che occorre eradicare una forma di pensiero che negli ultimi secoli si è indirizzata, progressivamente, verso una disgiunzione totalizzante dove le monoculture mentali, improntate sul profondo solco del dualismo (l’uomo da una parte e la natura, ben distinta, dall’altra), si sono fortemente arroccate in una visione unilaterlmente volta verso la sola verità ed esistenza del genere umano. Un nuovo pensiero, libertario e di ampie vedute, deve dunque affrontare un duplice ostacolo; il primo è quello di eradicare il pensiero globalizzato sulla dominanza e unilateralità dell’uomo (pensiero che anche in forma inconscia è ora insito nelle menti), il secondo sarà quello di disarcionare le false certezze così fortemente incastonate per intravedere, sia pure in lontananza, una visione olistica del tutto. Quanti autorevoli personaggi con il loro dire ed il loro agire hanno cercato di svolgere questo immane compito, ma, almeno in prima battuta, si sono visti nella difficoltà di farsi metabolizzare da “monoculture mentali” volte all’esatto opposto. Ma forse un giorno quello che per ora, sotto certi aspetti, appare ancora distante, sarà compreso e praticato in totale consapevolezza e comprensione. All’inizio gli acuti “profeti” (Aldo Leopold, John Muir, H. D. Thoreau, ecc.) di un profondo cambiamento non sono stati capiti o addirittura del tutto ignorati, ma pur se il tempo è ormai molto ristretto, un cauto ottimismo sull’inversione anche parziale della rotta, potrebbe aleggiarsi nell’aria (?!). Comprendere, capire, auto esaminarsi sembrano terminologie e concetti difficili da digerire, ma non è escluso che facciano invece il loro giusto percorso per arrivare, alla fine, ad essere acquisiti. La speranza, pur se flebile, è sempre l’ultima a morire. Ma per il momento finché lo sfruttamento, il saccheggio e la distruzione del pianeta terra (sotto tutti i fronti) rappresenterà ancora un enorme vantaggio economico, estremamente arduo apparirà il modo di procedere verso la giusta operatività e visione delle cose. Sinora infatti l’uomo dalla sua cecità ha cominciato a vedere qualcosa, ma solo i resti fumanti lasciati dietro al suo devastante cammino e sarà così saggio e lungimirante da invertire la rotta? I dubbi rimangono molti e in gran parte irrisolti. Molteplici azioni che ora paiono positive sono ancora una piccola goccia d’acqua in un grande oceano eccessivamente sporco di “petrolio”!


“La protezione di un territorio naturale può certamente avere molti ruoli, molte finalità, ma credo che solo uno debba essere lo scopo per cui la si debba attuare: conservare il territorio fine a se stesso. E conservarlo vuol dire, o dovrebbe voler dire, far si che non venga alterato volutamente, vuol dire decidere di sottrarlo alla logica dello sviluppo (che è la logica del profitto) che è prettamente umana.

Decidere di conservare un luogo è decidere di tenere per quel luogo un comportamento ancestrale, animale, quale è la nostra origine, che è l’unico modo per poterci definire in equilibrio con l’ambiente: nessun cervo, nessun lupo, nessun orso ha mai potuto o preteso di “sviluppare” o “valorizzare” o “far produrre” il proprio habitat. Semplicemente da millenni lo utilizzano per quello che spontaneamente esso offre loro e lasciandolo immutato per altre generazioni. E’ solo l’uomo l’unica specie animale ad essere uscita da questo “cerchio della vita” (Franco Zunino).



Wilderness: il "lato selvatico" 

e non conformista americano 


di Eduardo Zarelli


Vi è un fiume carsico che collega il pensiero ecologista americano al ruolo profetico permanente nella storia degli Stati Uniti: quello di chi pensa, pratica e ripropone la buona custodia della terra (steawardship) come componente essenziale della libertà umana e della giustizia sociale. Dalle virtù civiche di Thomas Jefferson al “trascendentalismo” di Emerson ed Henry D. Thoreau, dal naturalisimo pionieristico di John Muir al conservazionismo di Aldo Leopold, c’è parte del retroterra culturale a cui attingono le “virtù rurali” di Wendel Berry; il bioregionalismo di Peter Berg e di Kirkpatrick Sale; il ritorno alla selvaticità (wildersness) di Gary Snyder; il “paradigma olista” di Fritjof Capra e di Gregory Bateson. Forse la vastità e la profonda bellezza dei paesaggi unite alla saggezza della cultura pellerossa, hanno insinuato fin dalle origini nello spirito americano - prometeica esaltazione della modernità conquistatrice di un “eterno” West trasposto nell’ideal tipo della Frontiera - un particolare richiamo interiore alla natura come riferimento sostanziale della civiltà. Poiché lo stile di vita edonistico statunitense è divenuto il maggior fattore di distruzione degli equilibri naturali, il ruolo di questi pensatori si è fatto più gravoso e contraddittorio rispetto a quello dei loro predecessori. Poiché la cultura americana ha tradito la sua vocazione originaria, essi si pongono criticamente nei confronti di quella vocazione.

Aldo Leopold - fondatore, tra l’altro, della Wilderness Society e morto 50 anni fa mentre tentava di domare un incendio nella prateria che minacciava la sua fattoria - nel suo Almanacco di un mondo semplice riproduce immagini semplici ed essenziali tratte dall’esperienza del mondo naturale. La sua è una commovente descrizione dei mutamenti che la natura subisce nel corso di un anno, con il fiorire e lo sfiorire della vegetazione e il conseguente comportamento degli animali: la ciclicità delle quattro stagioni come analogia della spirale dell’esistenza umana. Questa parte narrativa sfocia quindi nelle riflessioni sul rapporto uomo-natura, delineando quell’originale prospettiva biocentrica, in cui il sapere ecologico si allea all’etica e all’estetica; prospettiva, questa, che ha esercitato un influsso decisivo sull’ecologia del profondo. Leopold, evidenziando i fallimenti del “protezionismo” ambientale, parte dal presupposto che la “Terra è un organismo” e che, solo sentendola come una “casa comune” a cui apparteniamo, potremo servircene con il dovuto rispetto. Il degrado della bellezza della natura corrisponde alla riduzione della sua complessità, diversità, stabilità: quell’equilibrio, che ne sostanzia in profondità la pienezza vitale e simbolica.

Sicuro erede di questo atteggiamento interiore è Wendell Berry, poeta, scrittore, saggista, professore di letteratura all’Università del Kentucky, ma, soprattutto, agricoltore. Il suo approccio alla repentina degradazione ambientale, culturale e umana della società industriale inizia nei primi anni Sessanta, quando la dimostrazione dei danni ecologici diventa evidente al grande pubblico grazie a opere come Primavera silenziosa di Rachel Carson. A differenza di molti pensatori e letterati di quell’epoca, per la maggior parte legati alla Beat Generation, alcuni dei quali (come Gary Snyder) suoi strettissimi amici, Wendel Berry non vaga per il paese alla Easy Rider. La sua protesta contro il consumismo non persegue una “fuga dal Sistema” o la recisione delle radici; al contrario il suo contributo è rivolto alla riscoperta delle fonti della cultura occidentale, che l’industrialismo progressista ha soffocato. Rivisitando le grandi opere della letteratura europea, dall’Odissea alla Divina commedia al Paradiso perduto di Milton, insieme al Vecchio e Nuovo Testamento, Berry rintraccia i presentimenti del tragico destino occidentale. La sua poesia e la sua letteratura non hanno nulla di estetizzante o intimistico, ma si rivolgono comunque all’anima contemporanea straziata dalla mancata identità personale e sociale. Non indulgono alla nostalgia ma forniscono a politici, economisti e uomini della strada, delle indicazioni pratiche e della intelligenza tecnica e storica sedimentata dalle sobrie virtù civiche comunitarie.

Con i piedi per terra è l’emblematico titolo di una sua raccolta di testi (tradotta anche in Italia); gli argomenti spaziano dall’improprio primato dell’economia industriale, al fallimento “specialistico” dell’istruzione universitaria, al nostro rapporto con gli strumenti della tecnologia e con la natura selvaggia. Il problema della coerente e pratica applicazione della coscienza personale e comunitaria nella vita di ogni giorno è quello centrale di ogni uomo. Quando una società nega questa esigenza, separandosi dalla propria tradizione, regredisce nell’anomia individualistica e nel degrado culturale, nonostante la patinata veste di prodigi tecnologici e successi materiali di cui si riveste. Berry si richiama, in controtendenza, ad una prospettiva di radicamento etico del quale l’economia può, e quindi deve, essere un mero strumento. Nell’interpretare l’evoluzione del modello economico statunitense immagina retoricamente come sarebbe stata la società, se nel dopoguerra si fosse dato il giusto peso alle comunità rurali rispetto alla crescita esponenziale del prodotto interno lordo, se si fosse investito nella qualità della vita con lo stesso impegno impiegato per dispiegare il complesso militare-industriale più potente del mondo. Domanda oggi quanto mai pertinente e drammaticamente attuale.

La ricaduta localistica del pensiero di Wendel Berry è presa alla lettera dal movimento bioregionalista americano. La parola bioregione si compone semanticamente di bio, la parola greca che significa vita e “regione” che deriva dal latino regere, cioè governare. La vita che si autogoverna nel limite biotico di un territorio. Un territorio abitato, un luogo definito dalle forme di vita che vi si svolgono, piuttosto che dall’artificio della razionalizzazione; una regione governata dalla natura. Tutto ciò è credibile solo coltivando una rinata sensibilità per la specificità dei luoghi e delle culture, una lealtà politica verso il territorio in cui si vive, unite a pratiche economiche e sociali sostenibili, cioè radicate nella particolarità del territorio e delle sue tradizioni, espresse dalla sensibilità delle comunità locali. La pluralità delle identità comunitarie evita i rischi di accentramento del potere e quindi di colonialismo o imperialismo. La complementarietà e lo sviluppo di una fitta rete di relazioni intercomunitarie - tra cui la sussidiarietà e l’interdipendenza - possono definire con sufficiente approssimazione l’intento di un “federalismo ecologista”. Il problema di fondo è di ripensare pluralisticamente il mondo fuori dall’universalismo monistico e dall’etnocentrismo occidentale rispetto al quale tutto diventa barbarie, periferia retrograda.

In questa prospettiva naturalistica è maggiormente noto in Europa il pensiero di Fritjof Capra. Grazie all’originalità e all’importanza dei suoi contributi - fra cui il bestseller internazionale Il Tao della Fisica - il fisico americano è oggi considerato uno degli intellettuali più credibili tra coloro che propugnano un nuovo “paradigma” olistico per interpretare e favorire il mutamento del modello di sviluppo tecnomorfo. Il debito dell’autore all’ecologia del profondo è riconosciuto limpidamente, quando definisce il “nuovo paradigma” come una visione del mondo che si fonda sulla consapevolezza della interdipendenza fondamentale di tutti i fenomeni ed afferma che, come esseri individuali e sociali, tutti noi incidiamo e contemporaneamente dipendiamo dai processi ciclici della Natura. Nelle sue opere Capra, analogamente a Bateson, accosta la fisica contemporanea e la tradizione sapienziale constatando come, inconsciamente, la scienza contemporanea si allontani sempre più dalla cornice entro cui è nata, che è quella cartesiana di una scissione fra mente e natura. Così, idee come quella della “sostanziale interconnessione della natura” - fondamento di buona parte del pensiero orientale - o archetipi mitici come la “danza di Shiva” cioè della materia come emanazione energetica, cominciano ad acquisire un preciso significato nel linguaggio della fisica occidentale; infatti le teorie dei quanti, dei quark e del cosiddetto bootstrap giungono a descrivere analiticamente la “compenetrazione” dell’esistente. È intuibile la portata di questa vulgata, che travalica i campi del pensiero scientifico e investe le categorie della “modernità” tutta. 


Capra prospetta un radicale mutamento in atto nell’ambito del sapere. I modelli lineari e deterministici ereditati da Newton e Darwin si stanno rivelando sempre più inadatti a favorire la comprensione del mondo e di noi stessi: è necessaria una nuova sintesi dell’universo, alla quale, da campi diversi, stanno contribuendo gli studiosi impegnati su fronti apparentemente distanti ,che si chiamano teoria di Gaia, teoria sistemica, della complessità e del caos. Capra tenta a una sintesi complessiva di questa “insensibile” rivoluzione, scorgendo il delinearsi di un nuovo/antico pensiero, che vede nella natura e negli esseri viventi non entità isolate, meccanicistiche, ma sempre e comunque “sistemi viventi” dove il singolo è olisticamente in stretto rapporto di interdipendenza con i suoi simili e il sistema tutto. La somma di queste relazioni, che legano gli universi della psiche, della biologia, della società e della cultura è una rete: la rete della vita. Ricongiungersi alla trama della vita significa edificare e mantenere comunità sostenibili, in cui si possano soddisfare i nostri bisogni e le nostre aspirazioni senza pregiudicare l’equilibrio complessivo. Tra le comunità umane la diversità culturale ricopre un ruolo analogo alla biodiversità nell’ecosistema. Diversità significa relazioni molteplici date da approcci diversi a problemi simili. La diversità è la risorsa vitale contro l’uniformità suicida di cui l’unilateralismo occidentale ne è epifenomeno epocale.



Vivere lo spirito della Wilderness 


di Franco Zunino


La maggior parte di noi amanti della natura, la natura non la vive; bensì la visita. Non è facile spiegare il sentimento che trasforma un’esperienza nella natura selvaggia in qualcosa che non sia tematicamente scientifica, come succede quasi sempre agli ornitologi o agli appassionati di botanica (ma anche a gran parte dei biologi della selvaggina e della fauna in genere) o chi considera il mondo naturale come una lavagna per appunti didattici e di conoscenze (tutto diviene scopo di educazione, e noi finiamo per assumere la semplice funzione di scolari o maestri), o per soddisfazioni epiche (ne godono la maggior parte degli alpinisti ed altri praticanti attività avventurose) o per ricreazione fisica (quando il fitness e la salute o il benessere sono il vero nostro motivo). Così, però, si è ben lontani dallo spirito della wilderness. Cercare lo scenario naturale solo come una cosa od un luogo per soddisfare propri interessi o appagare desideri egocentrici è lungi da uno spirito wilderness. Quando, invece, veramente, si vive lo spirito della wilderness? E chi si avvicina veramente alla comprensione del selvatico che è in noi, che è rimasto in noi perché parte inscindibile del nostro ancestrale DNA? Per assurdo che possa sembrare, è spesso l’individuo privo di cultura che vi riesce, o chi ha la capacità di mettere da parte la sua base di conoscenze e si compenetra nel mondo della natura trasformandosi in essere membro e partecipe del tutto, spogliandosi del substrato che ci ha dato la civiltà, una scorza di conoscenze e di bisogni che sono spesso indispensabili. Si capta più spesso l’esistenza di questo spirito in pastori o montanari in genere, quando non in cacciatori o pescatori, cioè individui che vivono la natura non in modo virtuale come noi naturalisti ma ritornandovi “antichi”. Difatti, può ancora considerarsi naturale un mondo soggiogato all’uomo per i suoi bisogni da manuale? La Natura trasformata in orto, addomesticata, in tutte le sue forme, finanche nella sua funzione (se così la possiamo definire) di mantenersi preservata per diretto impegno dell’uomo? Ma la Natura esiste e vive di per sé, e solamente ritornando col nostro io a quello stato che la civiltà ha soffocato dentro di noi può scoprirsi lo spirito della wilderness, sentirlo e viverlo.

Si intuisce più uno stato di wilderness durante l’emozione di un momento, quando tutte le nostre cognizioni si annullano di fronte ad eventi che ci impediscono la riflessione nozionistica che non in tante pagine di saggi, ed ore ed ore di lezioni di cultura naturalistica o filosofica di cui sono pieni i libri, si sentono in sale di convegni o si leggono in siti Internet. Allora sì, diventiamo parte integrante di ciò che vediamo o viviamo, che può essere anche solamente l’improvviso scroscio di un temporale che nella foresta ci costringe a rintanarci sotto una roccia e sentiamo allora il mondo attorno a noi ritornare primordiale e noi farne parte con quel semplice istintivo atto di difesa. Allora sì, si coglie il vero spirito della natura selvaggia, se ne capisce il diritto che essa possa continuare a perpetrarsi almeno in qualche luogo, il diritto a noi di poterne fare parte, non di essere solo visitatori. E ciò succede perché in quel momento noi diventiamo parte di quel tutto e non più estranei al mondo naturale………



Una dedica ad alcune autorevoli 

figure dello spirito Wilderness 


Henry David Thoreau, John Muir, Sigur Ferdinand Olson, 

Robert “Bob” Marshall e Aldo Leopold*




1. H. D. Thoreau


“Ecco, ecco Walden, lo stesso lago tra i boschi che scopersi tanti anni fa; dove lo scorso inverno fu abbattuta una foresta, un’altra ne sta sorgendo, presso la riva, e più rigogliosa che mai” - H. D. Thoreau.

Prima di Thoreau altri parlarono della natura selvaggia da un punto di vista filosofico, ma Thoreau è stato il primo a parlare espressamente della natura selvaggia come “Wilderness”, terra vergine e sconosciuta, e soprattutto il primo a sentire la necessità di una conservazione da farsi con atti del governo politico dei paesi. Molti conoscono il saggio di Thorea Walden; or, Life in the Wood, tradotto e pubblicato forse in ogni parte del mondo........

La natura selvaggia, e soprattutto la semplicità della vita in essa, lontano dal consumismo e dalle mille esigenze della civiltà, sono il perno della sua riflessione diffusa in Walden, un saggio che, sebbene contempli sublimi pagine di argomenti conservazionistici ed il lettore ambientalista possa estasiarsi a leggerle, scoprendo quanto attuali esse siano ancora oggi, e nella descrizione della natura si possa intuire quanto amore Thoreau le portasse di per sé, al naturalista può anche risultare prolisso e noioso come ogni trattato di filosofia.

A mio parere, invece, il vero saggio naturalista e conservazionista in senso moderno, dove essere espresse le vere radici della filosofia e dell’Idea Wilderness, sono racchiuse in un altro libro nel quale si può pienamente comprendere il pensiero conservazionista di Thoreau ed il suo istintivo legame con la natura selvaggia,...... un libro che tratta la naturalistica narrazione delle sue esplorazioni per diletto nei boschi selvaggi del nord est degli Stati Uniti: Maine Woods (I boschi del Maine).

E’ in questo volume che si può meglio comprendere il Thoreau naturalista e ambientalista, etnografo e geografo; qui egli ha riportato le sue più profonde riflessioni sulla natura selvaggia e sull’esigenza di una sua conservazione mediante leggi prima che essa sparisca del tutto; qui egli ha scritto che In wilderness is the preservation of the world (La salvezza del mondo sta nella natura selvaggia), la frase che più lo ha reso famoso tra gli ambientalisti; qui egli già parla espressamente di conservazione, giungendo a proporre la costituzione dei Parchi Nazionali, ad “inventarli” oserei dire, per difendere le foreste selvagge dallo sviluppo e per preservare la gente pellerossa che ancora le vivevano e che già in buona parte si era estinta in quella zona dell’America settentrionale con l’incalzante avanzare della civiltà dei bianchi che lui vedeva come nefasta........

Henry David Thoreau, naturalista, filosofo ed agrimensore (come viene presentato nelle biografie) nasce a Concord, nel Massachusetts, il 2 luglio 1817. Si laurea in letteratura nel 1837. Dopo gli studi diviene discepolo dell’allora già famoso filosofo Ralph Waldo Emerson, un’altro dei cosiddetti filosofi della natura selvaggia, nell’abitazione del quale poi si stabilì per un certo periodo, divenendone una specie di maggiordomo. Il 4 luglio del 1845 si trasferisce sulle rive del lago Walden (poco più di uno stagno) a soli alcuni chilometri da Concord, di proprietà degli Emerson, dove si costruisce una capanna e dove vivrà in una specie di eremitaggio e più o meno stabilmente per circa due anni; soggiorno e riflessioni di questo periodo diverranno poi argomento del suo libro più famoso, Walden, che uscirà nel 1854.

Nel frattempo (nel 1846), già avvezzo a viaggiare per esplorare il mondo della natura che lo circondava......., ed anche in seguito nel 1853 e nel 1857, effettuerà alcune escursioni nei boschi (ma sarebbe meglio dire foreste, data lo loro composizione ed estensione) del Maine, dai cui appunti di viaggio trarrà poi quello che è il suo libro più incline alla wildeness come percezione filosofica, maturando anche le prime ideee per una sua conservazione mediante atti governativi quale unica possibilità per impedirne l’incivilimento.

Ammalatosi di tisi a causa di un’infreddattura contratta trascorrendo all’aperto una fredda giornata di dicembre per contare gli anelli di due ceppaie di noce americano e di quercia bianca, dopo un ultimo viaggio naturalistico e curativo nel Minnesota, muore il 6 maggio del 1862, lasciandosi dietro una immeritata fama di scrittore fallito.

Non è il caso qui di aggiungere altro su questo padre di un’idea che solo di lì ad un secolo avrebbe trovato i suoi massimi sostenitori. Thoreau è passato, ma ha lasciato una traccia indelebile dietro di sé, una traccia che, come la foresta che egli cita nella frase che è riportata nel sottotitolo di questa iniziale nota, risulterà comunque vincitrice sull’invadenza dell’uomo; perché il seme delle sue idee è germogliato e la foresta di pensiero che ha creato non solo vive ancora oggi, a oltre i centocinquanta anni dalla sua morte, ma è saldamente proiettata nel futuro.



2. John Muir


In effetti John Muir può certamente considerarsi il primo vero conservazionista d’America e del mondo. Prima di lui ci sono stati dei grandi ed emeriti naturalisti, studiosi delle scienze naturali e viaggiatori, esploratori e geografi, ecc, ma mai nessuno fece quel salto di qualità che spinse John Muir a divenire un tale fervente conservazionista come pochi poi se ne videro sul finire del secolo IX° e nella prima metà del XX°. Se non ideò lui il concetto di Parco Nazionale, fu certamente lui quello che ne interpretò maggiormente la funzione preservazionista, di “isola” del mondo naturale da difendere dall’invadenza dell’uomo. Basti ricordare che già nel 1869 pur lieto dell’interesse della gente verso le bellezze della natura, sembrava preoccuparsi degli aspetti negativi del nascenti fenomeno turistico cui assistette, mentre ancora oggi ci si ostina a considerare il turismo un fattore positivo per i Parchi solo per il fatto che queste istituzioni vengono considerate aziende capaci anche di creare economia e posti di lavoro (come se ci fosse bisogno per un Parco per ciò!). Fautore della protezione integrale dei boschi di Sequoia e della Sierra Nevada, quale inestimabile valore naturalistico, così ebbe a scrivere del fenomeno turistico che già stava prendendo piede in quell’abbozzo di Parco chiamato Yosemiti Valley: “Curioso spettacolo questa gente che procede in fila indiana in mezzo alla foresta in abiti vistosi, spaventando gli animali selvatici; si direbbe che perfino i grandi pini ne siano disturbati e gemano di sgomento”.

Era nato in Scozia nel 1838, trasferitosi giovanissimo negli Stati Uniti, sulla trentina iniziò a viaggiare come studioso della natura, dopo che per un incidente presso l’officina in cui lavorava (e dove, novello Leonardo, inventò anche apparecchiature meccaniche) stette per perdere la vista; quel fatto lo trasformò, facendogli comprendere quanto importante fosse la bellezza del Creato, e spingendolo a decidere di dedicare il resto della sua vita ad essa.

Da studioso delle scienze naturali viaggiò per tutti gli Stati Uniti, dal Winsconsin alla Florida, alla California e fino alla lontana Alaska ed anche nell’America meridionale, osservando e annotando di fiori, piante, animali, rocce e ghiacciai; eppure più interessato alle emozioni che tutto ciò gli dava che non ai dati scientifici: “parte della bellezza del mondo è costantemente sotto i nostri occhi e basta a far fremere ogni nostra più intima fibra; tante ne sappiamo godere, anche se i nodi della creazione sono al di là della nostra comprensione”. Un amore verso le cose del creato che ebbe il culmine quando visitò la California e letteralmente rimase affascinato della bellezza di alcune delle vallate divenute poi famose, come quella di Yosemite, con le loro alte pareti rupestri incise dai ghiacciai, scroscianti di cascate ed ombrate da foreste di Sequoia. Tale fu il suo fervore in loro difesa, da convincere infine il governo degli Stati Uniti ad istituirvi uno dei primi Parchi Nazionali, ampliando il preesistente nucleo protetto della vallata di Yosemite - che prima ancora del Parco di Yellowstone per la sua bellezza già era stata sottoposta a tutela nel 1861. E qui avrebbe gettato la pietra miliare del moderno ambientalismo quando, dopo aver ottenuto l’istituzione di altri due Parchi Nazionali, solo di lì a pochi anni, dovette battersi contro tutti i poteri e gli uomini che anche lo avevano aiutato ad istituirli, i quali cedettero alle lusinghe della civiltà che avanzava e diedero il permesso di costruire una diga nella vallata gemella di Yosemite, la Hetch Hetchy, allagandola per poter rifornire d’acqua la sempre più esigente città di San Francisco in forte espansione. Fu una battaglia persa per John Muir, l’ultima perché sarebbe morto l’anno dopo, nel 1914, all’età di 76 anni.

A sostegno delle sue idee aveva fondato il Sierra Club, la ancora oggi nota associazione posta tra ambientalismo ed alpinismo, la prima che in America inizò a battersi per la preservazione della natura selvaggia, ed ancora oggi una di quelle più emerite. Se Thoreau fu solo un filosofo della Wildeness, Muir fu il primo a battersi espressamente per la sua preservazione. Per lui i grandi spazi dell’America che fino ad allora tutti cercavano di conquistare erano la casa in cui vivere (“andare in montagna è tornare a casa”) e la causa per cui vivere: “la battaglia per la conservazione della natura continuirà indefinitivamente. Essa è parte della universale battaglia tra il giusto e l’errore”.

“... (i suoi schizzi, ndr) poco infatti possono dire a chi non abbia a sua volta veduta tanta natura selvaggia, e come un linguaggio abbia imparato a decifrarla. Questi monti benedetti sono così colmi della bellezza di Dio che non v’è spazio per le nostre meschine speranze ed esperienze personali. Bere quest’acqua spiumeggiante, respirare quest’aria che freme di vita è puro piacere e il corpo intero percepisce il calore del fuoco e i raggi del sole non solo con gli occhi, ma con tutta la pelle. Ma non si può spiegare a parole quest’aura di piacere estatico e appassionato in cui si muove. Si ha l’impressione in questi momenti che il corpo sia omogeneo ad essa e solido come cristallo”.


3. Sigurd F. Olson


Figlio di emigrati svedesi, nacque a Chicago nel 1899 e morì nel Minnesota nel 1982. E’ stato uno dei leader storici del movimento Wilderness, ma è anche ritenuto il massimo scrittore/naturalista d’America…….. Olson aveva una capanna su di un promontorio in uno dei tanti laghi che costellano il Minnesota ai confini col Canada; lì egli scrisse la maggior parte dei suoi libri. Quel promontorio, che egli aveva battezzato Listening Point (“promontorio di ascolto”, letteralmente tradotto, anche se il senso vero – ed ormai filosofico – che Olson gli ha poi voluto dare è piuttosto quello di “posto di ascolto”), divenne il luogo dove egli si ritirava a vivere e ad ascoltare il mondo della natura…..

Se Aldo Leopold aveva della Wilderness un senso di etica ecologica, l’idea di Sigurd Olson era basata su una “sensazione di bellezza”. Questa definizione racchiude emblamaticamente tutto lo spirito di Olson……..

Crebbe nella zona dei grandi laghi tra il Wisconsin ed il Minnesota, ma “fu la vasta regione di oscure foreste ed intricata serie di laghi e fiumi della Boundary Waters Canoe Area (BWCA) che divenne infine la casa del suo cuore e lo sfogo della sua passione: Durante gli anni del mio girovagare nel grande Nord canadese, egli ricordava, scoprii l’importanza degli spazi aperti. In quelle spedizioni c’era il tempo di pensare durante lunghe ore di ininterrotto pagaiare, ed io appresi che la vita è una serie di orizzonti aperti, senza che mai uno termini prima che in lontananza già ne appaia un altro”.

“Per quasi sessant’anni, da che l’aveva conosciuta (la zona della BWCA, n.d.r.), Olson si sarebbe battuto per mantenerla priva di strade, di dighe, di barche a motore, di alberghi, ed i suoi cieli privi di aereoplani”. Aveva quell’amore verso il mondo naturale che può sentire solo chi vi è cresciuto dentro, quasi mai visitatore nel senso che oggi si dà al termine, quanto parte integrante di quei grandi spazi in cui amava perdersi per lunghi periodi in interminabili viaggi, quasi sempre in canoa, attraverso fiumi e laghi del nord Minnesota e del Canada. In quei luoghi egli viveva alla pari con tutto quanto lo circondava, accomunato ad essi, cogliendo non soltanto la visione di paesaggi, di posti, di animali e di fiori, ma anche apprezzando tanto la visione di un cervo o di uno scoiattolo quanto il suono del vento o lo scrosciare della pioggia, la luminosità delle stelle, o il silenzio di quelle immensità selvagge; cogliendo quella che lui definì “singing wilderness” nel suo primo libro: il suono, la voce, la musica della wildeness, il suo canto: l’armonia dei luoghi selvaggi, che è uguale per tutti quanti lo sappiano ascoltare, perché, come egli scrisse, “everyone has a listening point somewhere” (ognuno ha un posto di ascolto da qualche parte).

Questa è la sua lezione più grande, quella che ha diffuso nei suoi tanti scritti e libri: la sua eredità per tutti noi.

Egli fu un “profeta di gioia”, un poeta della Wilderness”. E, forse, per chi lo ha conosciuto intimamente, quest’ultima potrebbe essere la più bella definizione del suo personaggio…… 

Là dove tutti parlavano di natura in termini tecnici e scientifici, egli aveva riempito le pagine dei suoi libri con descrizione emotive, facendo vivere anche al lettore quei luoghi e quei momenti che egli descriveva.

“Senza amore per l’ambiente naturale, la conservazione è priva di significato o scopo, perché solamente un profondo ed intrinseco sentimento per l’ambiente può giustificare la sua preservazione” (Sigurd Ferdinand Olson).


4 - Robert “Bob” Marhall


La storia di Robert “Bob” Marshall, ritenuto “uno degli americani che più ha influenzato l’evoluzione della conservazione della Wilderness”, fondatore della Wilderness Society americana, la prima organizzazione al mondo totalmente dedita alla preservazione della Wilderness, ha inizio proprio là dove il “Forever Wild”, il “Concetto di Wlderness, il selvaggio per sempre, trovò la sua prima applicazione: nell’Adirondack Forest Preserve. Fu lì che egli scoprì la sua grande passione per gli spazi aperti e fece le sue prime esperienze di vita nella natura selvaggia, soprattutto vero maniaco delle escursioni che oggi verrebbero definite alpinistche e delle lunghe camminate. Per tutta la sua breve vita egli soffrì del fatto di non essere nato cent’anni prima, all’epoca dei grandi esploratori Lewis e Clark……..ma si appasionò eccezionalmente per gli sconfinati spazi dell’Alaska.

Robert Marshall nacque a New York il 2 gennaio 1902, figlio di un noto avvocato costituzionalista e convinto conservazionista. L’impegno conservazionista di suo padre finì ovviamente per influenzare lo spririto di Bob Marshall, essendo egli stato uno dei maggiori promotori della Adirondack Forest Preserve (ogg nell’Adirondack State Park) dello stato di New York. Fu, infatti, suo padre Louis, ad “inventare” quello che poi passerà alla storia come il Concetto del “ferever wild” o Concetto di Wilderness; cioè impegni legislativi per una tutela la più duratura possibile di almeno alcune zone selvaggie…….

Fu però la sua leggendaria passione per il camminare ad iniziarlo alla Wilderness…… Si laureò in scenze forestali e nel 1933 entrò nel Servizio Forestale Nazionale. Fu inviato a Missoula, nel Montana, dove fece le sue prime esperienze come giovane forestale ed assistente. Lì trascorse i suoi anni più gioiosi, dove potè soddisfare la sua passione di camminatore instacabile nella natura selvaggia delle foreste demaniali circostanti. Oggi quei luoghi fanno parte di una delle più vaste Aree Wilderness d’America, a lui dedicata……. Fu poi nominato Direttore Forestale dell’ufficio per gli Affari Indiani, poi la sua attività nel settore pubblico si espanse nel 1937 quando venne spostato a dirigere la Divisione per la Ricreazione ed i Terreni, un incarico che fu praticamente creato apposta per lui.

Marshall era un uomo pratico, ed un conservazionista convinto, che si battè non tanto per la diffusone della filosofa Wilderness medante libri ed altri scritti (che pure lo resero famoso, con titoli quali: The People’s Forests, Artic Village, Alaska Wilderness) quando per ottenere la protezione delle rimanenti aree di Wilderness degli Stati Uniti. Con dovizia di precisione preparò un inventario quando più completo possibile delle potenziali Aree Wilderness e quando, nel 1939, il Servzio Forestale prese infine in considerazione la sua idea e quella di Leopold di riconoscere come protette delle aree Wlderness, fu propro dall’elenco di Robert Marshall che vennero estrapolate e protette le prime Primitive Areas, Wild Areas e Wilderness Areas…….

Ma il grande merito di Robert Marshall resta la sua decisione di far nascere un’associazione che si dedicasse espressamente alla protezione della Wilderness….. e così nacque la The Wilderness Society….. Fu, infatti, grazie all’impegno di quest’Associazione e degli amici e compagni di Marshall, se di lì a quasi trent’anni il Congresso americano potè approvare il famoso Wilderness Act, dando finalmente un ufficiale riconoscimento nazionale alle Aree Wilderness, con una legge che prevede un impegno di vincolo tra i più sicuri e severi del mondo.

Come detto il suo grande amore fu l’Alaska ed era da poco tornato da uno dei suoi quattro viaggi in quelle terre selvagge quando Robert “Bob” Marshall improvvisamente morì, l’11 novembre del 1939, per un attacco di cuore. Aveva 37 anni.

Sigurd Olson definì Marshall “uno dei migliori scorridori della wlderness del continente, con nel sangue l’amore per i grandi spazi aperti; uno dei pù grandi campioni che la causa della wilderness abba perso, un uomo il cui amore per le zone selvagge era profondo e sincero, un uomo che ha avuto il coraggio di battersi per le cose in cui credeva”.


5 – Aldo Leopold


Aldo Leopold nacque nel 1887 a Burligton, Iowa, figlio di immigranti di origine tedesca. Iniziò ad occuparsi dell’ambiente come naturalista e cacciatore, per finire convinto conservazionista: “La conservazione è uno stato di armonia tra l’uomo e la natura”, sosteneva. Per approfondire questo suo interesse si iscrisse a quella che fu la prima facoltà di scienze forestali americana, aperta presso la prestigiosa Università di Yale. Nel 1909, appena laureatosi, venne assunto nel Servizio Forestale degli Stati Uniti d’America. In un’epoca che si era appena lasciata alle spalle il mito della Frontiera, fu mandato a prendere servizio come Supervisore delle Foreste Demaniali del Nuovo Messico. Laggiù scoprì il valore delle zone selvagge rendendosi conto del patrimonio che di esse era compreso nelle terre federali e di come stesse velocemente riducendosi. Ma in quegli anni Leopold ebbe modo di vivere anche un’esperienza che lo marchiò nel profondo, quando sparò ad una lupa e vedendola morire ebbe la sensazione di leggere negli occhi di quell’animale una condanna per ciò che aveva fatto e stava ancora facendo nel sostenere lo sterminio dei pradatori, ovunque considerati nocivi. Su questa esperienza scrisse allora uno dei saggi più noti, dal titolo “Thinking like a mountain” (Pensare come una montagna”)…….. pensieri che furono il punto di svolta di tante sue cognizioni, che poi lo portarono al concetto dell’Etica della Terra dove in natura nulla è inutile e tutto è collegato.

Fu però solo nel 1919 che Aldo Leopold maturò il convincimento che almeno una quota di quelle zone selvagge dovevano e potevano essere preservate, fermare almeno in qualche luogo lo sviluppo, mettendo da parte il valore commerciale delle foreste viste solo come fornitrici di legname…… maturò quindi in lui l’idea di lasciare allo stato wilderness particolari luoghi, perché Wilderness era il termine che in America si usava per indicare i luoghi rimasti selvaggi, inesplorati, vergini o comunqque non manipolati dall’uomo…….

Ma se l’impegno per divulgare e preservare sempre più aree di Widerness fu fatto proprio dall’amico Robert “Bob” Marshall, Aldo Leopold preferì poi approfondire l’aspetto filosofico del conservazionismo, dell’ecologia e della biologia della selvaggina. Nel 1933 lasciò il Servizio Forestale per divenire Professsore di Gestione della Selvaggina presso l’Università del Wisconsin…….

Attraverso una multitudine di esperienze e di analisi dei suoi interessi, finì per scoprire, ma forse si potrebbe dire “inventare”, l’ecologia moderna, lo studio dell’insieme dei fattori e delle cose, animate ed inanimate, che formano lo scenario vitale che infine lo portarono a quell’Etica della Terra per cui divenne famoso…….. The “Land Ethic” è ritenuto il suo saggio più profondo, composto riunendone tre che già aveva scritto sulla conservaazione e l’ecologia: per una biografo, questo saggio “fu, e rimane, uno straordinario documento, il punto fermo del tragitto geografico e spirituale di Leopold”.

Ma la fama maggiore Aldo Leopold la dovette all’ultima delle sue opere, ed esplose dopo la sua morte, quando il volume al quale aveva lavorato in infinite revisioni negli ultimi anni di vita venne infine edito: “A Sand County Almanac”. Un’opera che racchiude temi che spaziano dalla poetica letteratura ambientalista, alle scienze naturali, alla preservazione della Wildderness, alla caccia, all’emotività che spinge l’uomo al mondo della natura. Un’opera più nata dal cuore e dallo spirito che non dalle conoscenze tecnico-scintifiche che aveva riservato agli altri volumi; un grido d’amore verso quel mondo naturale per il quale aveva vissuto e che aveva nella Widerness il suo fondamento…… Una Bibbia ecologica ancora oggi insuperata e continuamente stampata in nuove edizioni. Come gà scritto si deve ricordare che Leopold fu “l’inventore” delle Wilderness Areas ed artefice della prima di esse. Ma lui fu anche convinto cacciatore, ma ciò non stride con i principi di conservazione poiché egli praticava un’attività venatoria quasi filosofica, ricca di elementi agnostici, atavici, di sensazioni spirituali, di pareteticità con la preda, ben lungi, nella maggior parte dei casi, dall’attuale modo di praticare la caccia sportiva (scrisse numerosi trattati dedicati all’aspetto venatorio della natura).

Aldo Leopold cessò di vivere il 21 aprile del 1948, per un attacco di cuore (su Aldo Leopold si legga anche quanto scritto nei capitoli: ecologia, il concetto di wilderness, etica della terra).


* (estrapolato da scritti di Franco Zunino tratti da: documenti Wilderness anno XI n°4 ottobre/dicembre 1996, anno XIV n°4 ottobre/dicembre 1999, anno XV n°4 ottobre/dicembre 2000, anno XVII n°1 gennaio-marzo 2002, anno XX n°4 ottobre-dicembre 2005)



L’ecologia profonda



“L’ecologia profonda è radicalmente tradizionale dal momento che collega una corrente antichissima di minoranze religiose e filosofiche dell’Europa occidentale, del Nordamerica e dell’Oriente e ha anche forti legami con molte posizioni filosofiche e religiose dei popoli nativi (compresi gli indiani d’America). In un certo senso essa può essere considerata come la saggezza che conserva il ricordo di ciò che gli uomini sapevano un tempo” (Devall & Sessions, 1989).

Dopo aver approfondito il grande pensiero della filosofia wilderness, non potevamo esimerci dal trattare, sia pur brevemente, il pensiero dell’ecologia profonda che focalizza, più di ogni altro, il valore in sé della natura e il valore globale di tutte le cose anche perché “l’imprecisione sulla ‘origine’ dell’ecologia profonda è poca cosa rispetto ai giudizi sommari, denigratori, ironici che si leggono assai spesso sulla stampa di largo consumo”(Salio, 1994). L’iniziatore esplicito di questa visione della realtà naturale e vitale è il filosofo norvegese Arne Naess che nel corso degli anni settanta tramite uno specifico e rivoluzionario articolo distinse categoricamente l’ecologia in superficiale (Shallow ecology) e in profonda (Deep ecology). L’ecologia profonda, come è implicito nella sua stessa definizione letterale, va ben oltre l’analisi superficiale e asettica dei problemi ambientali propria della scienza ecologica classica, manifestando, al contrario, solo una visione completa e totalizzante del mondo. “Si tratta dell’idea che non possiamo operare alcuna scissione ontologica netta nel campo dell’esistenza: che non c’è alcuna biforcazione nella realtà fra l’uomo e i regni non umani.... nel momento in cui percepiamo dei confini, la nostra consapevolezza ecologica profonda viene meno” (Fox, 1983 in Devall & Sessions, 1989). Tuttavia l’essenza dell’ecologia profonda è ben antecedente alle idee di Arne Naess in quanto già nelle epoche storiche remote (cultura indiana, animista, ecc.) si sono evidenziati atteggiamenti mentali e pratici unificatori dove ogni elemento aveva valore in sé ed era universale. “Sono una pietra, ho visto vivere e morire, ho provato felicità, pene ed affanni: vivo la vita della roccia. Sono parte della Madre Terra, sento il suo cuore battere sul mio, sento il suo dolore, la sua felicità: vivo la vita della roccia. Sono una parte del Grande Mistero, ho sentito il suo lutto, ho sentito la sua saggezza, ho visto le sue creature che mi sono sorelle: gli animali, gli uccelli, le acque e i venti sussuranti, gli alberi e tutto quanto è in terra e ogni cosa nell’universo” (Preghiera Hopi).

“Mentre l’ecologia superficiale si può considerare prevalentemente ispirata a un’etica del valore strumentale, seppure intesa in chiave ‘riformista’ (conservazione e preservazione) e non di puro e semplice sfruttamento, l’ecologia profonda sostiene tesi del valore intrinseco degli oggetti naturali” (Salio, 1989). Ottima anche la definizione del termine fatta da Capra (1997): “L’ecologia superficiale è antropocentrica, cioè incentrata sull’uomo. Essa considera gli esseri umani al di sopra o al di fuori della Natura, come fonte di tutti i valori, e assegna alla Natura soltanto un valore strumentale, o di ‘utilizzo’. L’ecologia profonda non separa gli esseri umani - né ogni altra cosa - dall’ambiente naturale. Essa non vede il mondo come una serie di oggetti separati, ma come una rete di fenomeni che sono fondamentalmente interconnessi e interdipendenti. L’ecologia profonda riconosce il valore intrinseco di tutti gli esseri viventi e considera gli esseri umani semplicemente come un filo particolare nella trama della vita”. Naess dichiara che “l’essenza dell’ecologia profonda sta nel porsi domande più radicali”, cioè nel porsi domande che mettono in discussione le certezze “superficiali” della nostra concezione del mondo, concezione che vede l’uomo protagonista assoluto della Terra, dominatore di tutte le creature. L’ecologia profonda, valica questo paradigma e sfocia nell’impersonale spostando l’uomo da motore centrale a semplice elemento della “trama della vita di cui siamo parte” (Capra, 1997). L’ecologia profonda ricondiziona lo stile della vita umana, pone quesiti su ogni atteggiamento del quotidiano e tenta di radicare nel pensiero una nuova etica universale ed onnicomprensiva. In altri termini un ecologo profondo avrà un atteggiamento positivo in qualsiasi settore dei rapporti sociali e “naturali” perché universalizza un principio che sin dall’origine è impostato su una visione monistica, radicale e paritetica. Scrive ancora Capra (1997): “Il potere del pensiero astratto ci ha condotto a considerare l’ambiente naturale - la trama della vita - come se consistesse di parti separate, che diversi gruppi di interesse possono sfruttare. Inoltre, abbiamo esteso questa visione frammentata alla società umana, dividendola in differenti nazioni, razze, gruppi politici e religiosi. Il fatto di credere che tutte queste parti - in noi stessi, nel nostro ambiente e nella nostra società - siano realmente separate ci ha alienato dalla Natura e dai nostri simili, e ci ha quindi sviliti. Per riconquistare la nostra piena natura umana, dobbiamo riconquistare l’esperienza della connessione con l’intera trama della vita. Questo riconnettersi, religio in latino, è la vera essenza del fondamento spirituale dell’ecologia profonda”. 

Continua ancora Capra (1997): “Per l’ecologia profonda, la questione globale dei valori è decisiva; è, infatti, la caratteristica centrale che la definisce....... E’ una visione del mondo che riconosce il valore intrinseco delle forme di vita non umana. Tutti gli esseri viventi sono membri di comunità ecologiche legate l’una all’altra in una rete di rapporti di interdipendenza. Quando questa concezione ecologica profonda diventa parte della nostra consapevolezza di ogni giorno, emerge un sistema etico radicalmente nuovo.

Oggi la necessità  di una tale etica ecologica profonda è urgente, soprattutto nella scienza, dato che gran parte di ciò che fanno gli scienziati non serve a promuovere la vita ne a preservarla, ma a distruggerla......

Nel contesto dell’ecologia profonda, l’idea che i valori sono insiti in tutto ciò che è parte vivente della Natura, ha le sue basi nell’esperienza ecologica profonda, o spirituale, che la Natura e l’Io sono una cosa sola. Questa dilatazione totale dell’Io fino all’identificazione con la Natura è il fondamento dell’ecologia profonda....

Ne consegue che il rapporto fra una percezione ecologica del mondo e un comportamento corrispondente non è un rapporto logico ma psicologico. Dal fatto che siamo parte integrante della trama della vita, la logica non ci conduce a delle regole che ci dicano come dovremmo vivere. Tuttavia, se abbiamo la consapevolezza ecologica profonda, o l’esperienza, di far parte della trama della vita, allora vorremo (e non dovremo) essere inclini ad aver rispetto per tutto ciò che è parte vivente della Natura. In effetti, non possiamo fare a meno di reagire in questo modo”.


I principi basilari dell’ecologia profonda possono essere così riassunti (da Devall & Sessions, 1989):


1. Il benessere e la prosperità della vita umana e non umana sulla Terra hanno valore per se stesse (in altre parole: hanno un valore intrinseco o inerente). Questi valori sono indipendenti dall’utilità che il mondo non umano può avere per l’uomo.

2. La ricchezza e la diversità delle forme di vita contribuiscono alla realizzazione di questi valori e sono  inoltre valori in sé.

3. Gli uomini non hanno alcun diritto di impoverire questa ricchezza e diversità a meno che non debbano soddisfare esigenze vitali.

4. La prosperità della vita e delle culture umane è compatibile con una sostanziale diminuizione della popolazione umana: la prosperità della vita non umana esige tale diminuizione.

5. L’attuale interferenza dell’uomo nel mondo non umano è eccessiva e la situazione sta peggiorando progressivamente.

6. Di conseguenza le scelte collettive devono essere cambiate. Queste scelte influenzano le strutture ideologiche, tecnologiche ed economiche fondamentali. Lo stato delle cose che ne risulterà sarà profondamente diverso da quello attuale.

7. Il mutamento ideologico consiste principalmente nell’apprezzamento della qualità della vita come valore intrinseco piuttosto che nell’adesione a un tenore di vita sempre più alto. Dovrà essere chiara la differenza tra ciò che è grande qualitativamente e ciò che lo è quantitativamente.

8. Chi condivide i punti precedenti è obbligato, direttamente o indirettamente, a tentare di attuare i cambiamenti necessari.


Gli otto punti schematici testé riportati pongono in evidenza come l’ecologia  profonda, sia una delle poche concezioni che ha ricollocato l’uomo nella giusta armonia con la natura (in linea con una nuova etica della terra). Ecco un semplice parallelo tra i principi della cultura dominante e quella “profonda” dell’Ecologia profonda (da Devall & Sessions, 1989):


Cultura dominante: CD

Ecologia profonda: EP


CD: Dominio sulla natura

EP: Armonia con la natura


CD: L’ambiente naturale è una risorsa per l’uomo

EP: Tutta la natura ha un valore intrinseco/uguaglianza delle biospecie


CD: Crescita economica/materiale per l’aumento della popolazione umana

EP: Bisogni materiali semplici


CD: Fiducia nell’abbondanza delle risorse

EP: Risorse limitate della Terra


CD: Progresso e soluzioni ad alta tecnologia

EP: Tecnologia appropriata: scienza non dominatrice


CD: Consumismo

EP: Sobrietà/riciclaggio


CD: Comunità centralizzata/nazionale

EP: Tradizione minoritaria/bioregione


Livingston (in Devall & Sessions, 1989) afferma giustamente che gli argomenti inerenti alla protezione della natura sono sempre stati impostati verso interessi umani diretti ed indiretti, tanto che senza una mutazione integrale della consapevolezza e della profondità dello spirito, non è possibile connettersi in verità con il mondo naturale e quindi “non c’è alcuna speranza di ribaltare la situazione e di proteggere i boschi e gli animali selvatici dalla distruzione umana”.

Per esempio l’istituzione di un’area protetta è un classico intervento dell’ecologia superficiale, sempre, come detto, in chiave antropocentrica. Non si mettono mai in dubbio le “certezze” della società e della scienza moderna, ma si criticano esclusivamente gli aspetti negativi apparenti di superficie senza andare mai al nocciolo della questione. E’ doverosamente giusto un intervento protettivo, si badi bene, ma deve essere integrato da quella visione “profonda” della realtà naturale dove l’uomo è un elemento indistinto in un tutto unico e dove ogni atteggiamento è sempre spontaneamente in armonia con l’altro.

Fermiamoci per un attimo a riflettere. Proviamo a cambiare la nostra vita. Entriamo nella spiritualità profonda della natura e perdiamoci entro le sue forze, senza pensare ad una meta né ad un nostro particolare interesse. Scrivono Lombardo & Olivetti (1991) “Un passo dietro l’altro. L’importante è non anticipare, non pensare a ‘quanto manca per arrivare’. Camminare, dentro le proprie scarpe, senza considerare il tempo esterno. Lo sanno bene quelli che hanno imparato a farlo, in montagna o più genericamente nell’ambiente naturale.....Camminare è, in primo luogo, andare alla ricerca del tempo perduto....Il tempo è perduto perché il presente pieno non esiste più, nella nostra vita, neanche nei momenti di svago e disimpegno. Viviamo in una dimensione in cui il passato è cancellato.....ma anche il presente è morto, sostituito da una continua anticipazione di quello che faremo fra dieci minuti, un’ora, due giorni. Un limite continuamente spostato in avanti”.

Proviamo allora a ricongiungerci alla natura, proviamo a raggiungere l’essenza delle cose nel loro profondo, anche nel più profondo di noi stessi, e spegnamo finalmente la bramosia delle sensazioni esterne. “Alla lunga, per partecipare con gioia e con tutto il cuore al movimento dell’ecologia profonda, bisogna prendere la vita molto seriamente. Chi mantiene un basso tenore di vita e coltiva un’intensa, ricca, vita interiore, riesce, meglio di altri, ad avere una visione ecologica profonda e ad agire di conseguenza. Mi siedo, respiro profondamente e sento esattamente dove sono “ (Arne Naess).

Scrive Dalla Casa (1996): “Nell’impostazione di pensiero dell’ecologia profonda, la nostra specie non è particolarmente privilegiata. Gli esseri viventi e gli ecosistemi, come tutti gli elementi del Cosmo, hanno un valore in sé. Tutta la Natura ha un valore intrinseco ed unitario, così come ha un valore in sé ogni sua componente, formatasi in un processo di miliardi di anni. La specie umana è una di queste componenti, uno dei rami dell’albero della Vita........Il mondo naturale non è ‘patrimonio di tutti, ma è ben di più: è di miliardi di anni anteriore alla nostra specie. Se proprio si vuol parlare di appartenenza, è l’umanità che appartiene alla Natura e non viceversa........ In questo quadro l’idea occidentale-biblica sulla posizione umana appare più o meno come un curioso delirio di grandezza.

Mentre nell’ecologia di superficie la Terra va rispettata perché è di tutte le generazioni presenti e future, nell’ecologia profonda la specie umana non è depositaria né proprietaria di alcunché”.

Tuttavia, come precedentemente detto, anche l’ecologia di superficie è importante, soprattutto per gli interventi che devono avere un immediato riscontro nel campo della conservazione. Tenuto altresì conto che per raggiungere una visione profonda dell’ecologia è necessario avviare un radicale mutamento del proprio pensiero, non si esclude che le acquisizioni mentali dell’ecologia di superficie siano una delle tappe fondamentali verso quelle profonde. Sperando che l’ecologia di superficie non sia un ennesimo spettacolo della “civiltà” occidentale!

“Per la prospettiva ecologica profonda, vivere la natura selvaggia significa:

a) sviluppare il senso del luogo;

b) ridifinire il ruolo dell’uomo nel sistema naturale: da conquistatore della terra a persona che sperimenta un contatto pieno con la natura;

c) coltivare la modestia e l’umiltà; e infine,

d) comprendere il ciclo vitale delle montagne, dei fiumi, dei pesci, degli orsi........

Come ecologista profondo........ Muir indagava la natura e non si limitava ad ammirarla. Cominciò a capire che le cavallette o i pini e le pietre non dovevano essere intese come entità separate perché erano strettamente connesse” (Devall & Sessions, 1989).


Occorre infine ricordare che un’ idea anche se sostenuta da una minoranza può nel tempo produrre degli effetti sostanzialmente positivi. Scrive infatti Kaczynskj (1997): “Prima della lotta finale i rivoluzionari non dovrebbero aspettarsi di avere la maggioranza dalla loro parte. La storia è fatta di minoranze attive e determinate, non dalla maggioranza, che raramente ha una idea chiara e precisa di quello che realmente vuole. Nel tempo necessario per arrivare allo sforzo finale verso la rivoluzione il compito dei rivoluzionari sarà quello di costituire un piccolo nucleo di persone profondamente coinvolte piuttosto che cercare di guadagnarsi il favore della massa. Per quanto riguarda la maggioranza, sarà sufficiente renderla consapevole dell’esistenza della nuova ideologia e ricordargliela con frequenza.... “.

“Quello che conta non è solo l’idea, ma la capacità di crederci fino in fondo” (Ezra Pound).



L’Ecologia Profonda

di Guido Dalla Casa


   La presunta mancanza di diritti negli animali, l’illusione che le nostre azioni verso di loro siano senza importanza morale o non esistano doveri verso gli animali, è una rivoltante grossolanità e barbarie dell’Occidente.

Arthur Schopenhauer


   Se non si è capaci nemmeno di entrare in contatto con il proprio spirito, come si può sperare di entrare in contatto con lo spirito di un albero?

Rarihokwats


   In contrasto con la concezione meccanicistica cartesiana del mondo, la visione del mondo che emerge dalla fisica moderna può essere caratterizzata con parole come organica, olistica ed ecologica. Essa potrebbe essere designata anche come una visione sistemica, nel senso della teoria generale dei sistemi. L’universo non è visto più come una macchina composta da una moltitudine di oggetti, ma deve essere raffigurato come un tutto indivisibile, dinamico, le cui parti sono essenzialmente interconnesse e possono essere intese solo come strutture di un processo cosmico.

Fritjof Capra


   Riferire tutti i giudizi di valore all’umanità è una forma di antropocentrismo filosoficamente indifendibile.

Arne Naess


   Questo mondo è davvero un essere vivente fornito di anima e di intelligenza…un unico vivente visibile, contenente tutti gli altri viventi, tutti quanti per natura gli sono congeneri...

Platone





Fondamenti dell’ecologia profonda

Nell’impostazione di pensiero dell’ecologia profonda, la nostra specie non è particolarmente privilegiata. Gli esseri viventi e gli ecosistemi, come tutti gli elementi del Cosmo, hanno un valore in sé. Tutta la Natura ha un valore intrinseco e unitario, così come ha un valore in sé ogni sua componente, formatasi in un processo di miliardi di anni. La specie umana è una di queste componenti, uno dei rami dell’albero della Vita.

Quindi, anziché parlare di “ambiente” come se la Natura fosse un palcoscenico delle azioni umane, si useranno espressioni come “il Complesso dei Viventi”:

- “impatto ambientale” diventerà “alterazione apportata al Complesso dei Viventi”;

- i “difensori dell’ambiente” diventeranno “persone preoccupate della salute, dell’armonia e dell’equilibrio psicofisico del Complesso dei Viventi”.

Il mondo naturale non è “patrimonio di tutti”, ma è ben di più: è di miliardi di anni anteriore alla nostra specie. Se proprio si vuol parlare di appartenenza, è l’umanità che appartiene alla Natura e non viceversa.

Invece di ambizione, successo, affermazione personale (o di gruppo, o di specie), saranno considerati valori la conoscenza, la serenità mentale, l’attenuazione dell’ego e la percezione: in definitiva una sorta di identificazione con la Mente Universale, di sintonia con il ritmo vitale cosmico.

In questo quadro l’idea occidentale-biblica sulla posizione umana appare più o meno come un curioso delirio di grandezza.

Mentre nell’ecologia di superficie la Terra va rispettata perché è di tutte le generazioni presenti e future, nell’ecologia profonda la specie umana non è depositaria né proprietaria di alcunché. Questa idea ricorda la risposta di Nuvola Rossa agli invasori europei che volevano comprare la parte migliore del territorio Lakota e Oglala: “La terra è del Grande Spirito; non si può vendere né comprare”. E’ un peccato non conoscere le lingue amerindiane, perché probabilmente il significato reale era “la terra è il Grande Spirito”. Naturalmente i bianchi occuparono quelle terre con la violenza.

Anche l’idea di “progresso” sottintende una determinata concezione culturale ed una certa visione della storia che non sono condivise da tutta l’umanità. Gran parte delle culture umane sono vissute nella Natura senza preoccuparsi del progresso e della storia. Anche se niente è statico, tutto è dinamico e fluttuante, questo non significa che siano necessari i concetti di progresso e regresso: il miglioramento o il peggioramento si riferiscono solo a parametri e valori propri di un particolare modello e non hanno alcun significato universale.

Il concetto di progresso è un’invenzione dell’Occidente per distruggere le altre culture umane e restare l’unica cultura del Pianeta: ha senso soltanto se si prende a riferimento una particolare scala di valori, che è sempre relativa ed arbitraria.

Il termine “sviluppo” significa in realtà il grado di sopraffazione della nostra specie sulle altre specie e della civiltà industriale sulle altre culture umane.

Invece nell’ecologia profonda non esiste alcun modello privilegiato. Sono valori “in sé” l’equilibrio globale e la varietà e complessità delle specie viventi, degli ecosistemi e delle culture. I termini “crescita” e “diminuzione” sono complementari, in equilibrio dinamico, senza connotazioni positive o negative.

Di conseguenza i concetti di risorse e rifiuti non sono necessari: essi presuppongono infatti l’idea che si eseguano processi o modifiche tali da prelevare qualcosa di fisso - le risorse - e scaricare qualcos’altro - i rifiuti, il che significa un funzionamento non-ciclico, incompatibile con la condizione di equilibrio.

Con queste premesse la cosiddetta “produzione” è - in ultima analisi - una produzione di rifiuti. Lo stesso termine “civiltà” è inutile e pericoloso, perché sottintende un giudizio di merito basato su una scala di valori particolare, considerata ovvia. 

“Civile” significa oggi infatti “conforme ai princìpi dell’Occidente” e niente di più. Non c’è nessun motivo per considerare la civiltà occidentale migliore della civiltà degli Yanomami, dei Papua, degli Eschimesi, dei Dogon, o delle mille altre culture comparse sulla Terra. Allo stesso modo nell’ecologia profonda non ha alcun senso parlare di specie “utili”, “nocive” o “innocue”, in quanto qualunque cosa si trovi in Natura ha la sua giustificazione in sé stessa e nel Complesso cui appartiene. Non deve servire a qualcuno o a qualcosa.

In sostanza nell’ecologia profonda il concetto di “ambiente” viene superato per lasciare posto alla percezione di far parte di una Entità psicofisica molto più vasta, cioè della Natura, che si manifesta nella massima varietà ed armonia, nel più grande equilibrio dinamico delle specie; è un sistema autocorrettivo dotato di Mente.

Per usare le parole di Fritjof Capra:


La nuova visione della realtà è una visione ecologica in un senso che va molto oltre le preoccupazioni immediate della protezione dell’ambiente. Per sottolineare questo significato più profondo dell’ecologia, filosofi e scienziati hanno cominciato a fare una distinzione fra “ecologia profonda” e “ambientalismo superficiale”. Mentre l’ambientalismo superficiale è interessato ad un controllo e ad una gestione più efficienti dell’ambiente naturale a beneficio dell’”uomo”, il movimento dell’ecologia profonda riconosce che l’equilibrio ecologico esige mutamenti profondi nella nostra percezione del ruolo degli esseri umani nell’ecosistema planetario. In breve, esso richiederà una nuova base filosofica e religiosa. (8)



Alcuni aspetti della crisi attuale

Nell’ecologia profonda non si tratta di “coniugare sviluppo e ambiente” ma di rendersi conto che il dramma ecologico è nato nella civiltà industriale e ha invaso il mondo al seguito della tumultuosa espansione di questo modello. Il mito dell’industrializzazione è sorto nella cultura occidentale solo due o tre secoli orsono.

Il problema non è soltanto pratico, ma soprattutto filosofico. Infatti, solo come esempio, le scoperte pratiche fondamentali per “far partire” la tecnologia erano già note nella cultura cinese da diversi secoli. Ma in Cina non hanno fatto nascere il processo di industrializzazione, che vi è stato importato solo in tempi molto recenti, di ritorno dall’Occidente. Evidentemente il sottofondo del pensiero cinese - ispirato in gran parte alle filosofie del Tao e del Buddhismo – non poteva indirizzare quelle conoscenze sulla via poi seguita in Europa: le motivazioni sono state quindi essenzialmente culturali. La spiegazione ufficiale che gli Europei erano “più avanti” è solo un giro di parole. Anche la cultura indiana tremila anni orsono aveva concetti probabilmente più raffinati di quella europea del millecinquecento: nell’India di allora non mancava certamente la capacità di fare certe scoperte, c’era però la precisa percezione che era impossibile e inopportuno seguire una certa via.

Infatti con la concezione di un mondo fatto di polarità complementari ed equivalenti (Taoismo) o di un mondo privo di qualunque “ego” individuale o collettivo (Buddhismo) non avrebbe avuto alcun senso l’idea di “dominio” su qualcosa, come si vedrà nel Capitolo 6.

Invece il fondamento ispiratore della cultura occidentale, o ebraico-cristiana, è l’Antico Testamento, e qui va ricercata una delle cause del nostro atteggiamento verso la Natura. Ne parleremo nel prossimo capitolo.

Ma ci sono state altre evoluzioni successive, soprattutto l’estendersi nel pensiero generale della filosofia di Cartesio e della fisica di Newton, proprio nei secoli che hanno immediatamente preceduto la nascita della civiltà industriale.....

...... Tutta la nostra cultura “ottocentesca” di oggi è permeata dall’antitesi, dalla contrapposizione con la natura: la vita è vista come “lotta contro le forze della natura”. In altre filosofie questo significherebbe “lotta contro l’Organismo al quale apparteniamo”, il che è privo di senso e causa di nevrosi e conflitti. Non per niente dove è più degradato l’ambiente c’è anche più crisi umana, con alti tassi di criminalità, psicopatie, suicidi. La divisione fra “l’uomo” e “l’ambiente” è artificiosa e fittizia.

Se le cellule del cancro potessero esprimersi, probabilmente avrebbero un’idea dello “sviluppo” assai simile a quella della civiltà industriale, che invade, rendendole uniformi, le altre specie e le altre culture umane, con andamento analogo a quello dei tumori che avanzano a spese delle altre cellule dell’Organismo, il cui comportamento si basa invece non sulla crescita permanente, ma sull’equilibrio dinamico.

Ci sono molti esempi di vita spicciola che evidenziano l’inconscio collettivo dell’attuale civiltà industriale.

Moltissime persone, se si allontanano dalle città, si preoccupano soprattutto di cose come le vipere e le frane, ma si mettono tranquillamente in autostrada. Non occorrono troppe statistiche per rendersi conto che l’automobile è migliaia di volte più pericolosa di qualunque evento naturale: non sono sufficienti sessantamila morti all’anno e un milione di feriti in incidenti stradali, solo in Europa, per percepire questo fatto.

Quanti entrerebbero nella foresta amazzonica? Eppure è evidente che è molto più pericoloso attraversare di notte qualche quartiere di New York o di San Paolo. Le nostre concezioni inconsce, cioè culturali, spingono a temere gli eventi naturali molto più di quelli dovuti alle macchine o ai nostri simili, contro ogni evidenza numerica.

Questa è una civiltà tecnologica, non scientifica: non prevale il desiderio di conoscere, ma quello di manipolare.

Inoltre, tutto ciò che tocca i fondamenti della nostra cultura non si può neanche studiare: viene semplicemente negato o accantonato e lasciato senza indagine di sorta. Ad esempio, qualunque studio su possibilità di “reincarnazione” o “rinascita”, o comunque sui fenomeni psichici in vicinanza della morte, o su interferenze o identità spirito-materia è di fatto respinto a priori dal mondo ufficiale.

I cosiddetti “movimenti per la vita” ritengono ovvio occuparsi solo della vita umana, ma non si preoccupano affatto delle torture inflitte a tante forme di vita e dello stato di salute del Complesso dei Viventi.

Nella nostra cultura avvengono le più allucinanti manipolazioni genetiche su tutte le specie viventi, con creazione di ibridi e di esseri strani: ben pochi se ne preoccupano. Invece, al solo lontano accenno di far nascere uno scimpanzè-uomo (a parte la sua impossibilità), c’è stata la sdegnata rivolta degli scienziati ufficiali. Ogni manipolazione di quel tipo è un’assurdità. Ma almeno lo scimpanzè-uomo, se lasciato libero in qualche superstite foresta o savana di questo povero Pianeta, ci avrebbe ricordato che siamo della stessa, identica natura degli altri esseri viventi.

Le basi della cultura occidentale su questo argomento sono estremamente fragili. Esseri come gli Australopiteci o l’Homo erectus si sono estinti da poche centinaia di migliaia di anni, tempo insignificante nella scala complessiva della Vita. Il fatto che questi ominidi siano estinti è del tutto contingente. Se fossero viventi, la nostra cultura, a seconda del parere di qualche istituzione, prenderebbe uno dei seguenti atteggiamenti:

- considerare la caccia a questi esseri come uno sport;

- chiudere gli ominidi nelle gabbie degli zoo;

- ripristinare la schiavitù;

- considerare l’uccisione di un ominide come omicidio volontario punibile con l’ergastolo.

E’ forse per questo che c’è sempre una sottile “paura” di trovare vivo qualche Yeti sulle pendici dell’Himalaya. Tutto per continuare a contrapporre “uomo” ad “animale”: così perdiamo di vista la spiritualità della Vita.

Ma anche se ci limitiamo alle specie ora viventi, si può notare che: più aumentano le nostre conoscenze sul comportamento dei Primati, più diminuiscono le differenze fra primati umani e non umani. Ad esempio, la differenza di informazione genetica fra la nostra specie e lo scimpanzè è dell’ordine dell’uno o due per cento.

Dall’articolo di un esperto:


I nostri parenti più stretti sono gli scimpanzè. La differenza genetica è soltanto circa dell’uno per cento. Noi siamo più strettamente simili agli scimpanzè di quanto probabilmente siano simili fra loro due rane qualsiasi che vi càpiti di incontrare.  (9) 


In altri termini, la cultura giudaico-cristiana non è riuscita ancora a concepire un’etica della vita e resta ancorata a una morale che si interessa esclusivamente della specie umana.

L’idea di uomo, nel pensiero dell’Occidente, è costruita in contrapposizione all’idea di animale: umanità e animalità vi appaiono come termini antitetici, sia nella concezione biblica che nell’idea scientifica di derivazione baconiana. Ma si tratta di una contrapposizione largamente mitica e scientificamente insostenibile.


Etica e diritto nell’ecologia profonda 

Gli studi di un’etica non limitata soltanto alla nostra specie e di una giurisprudenza che non veda gli umani come unici soggetti di diritto sono appena nascenti in questi ultimi anni, a parte isolate eccezioni di precursori.

Fra questi possiamo certamente ricordare Aldo Leopold che, nel suo A Sand County Almanac affermava che “una cosa è giusta quando tende a preservare l’integrità e la bellezza della comunità biotica nel suo complesso (per comunità biotica si intende il complesso di tutti gli esseri viventi e del loro habitat). Una cosa è sbagliata quando manifesta la tendenza contraria”. La concezione di Leopold è olistica, in quanto la Natura è intesa come un tutto, avente vita e valore propri.

Se sentiamo usare per elementi della Natura termini come anima, dignità, diritti, ambito morale, non dobbiamo pensare che si stia parlando in senso analogico o poetico, o che si tratti di accostamenti arditi. Oltre che più rispetto, potremmo avere nella Natura un arricchimento spirituale più completo.

“Lo spirito dell’albero, della montagna, del fiume” non sono analogie azzardate, ma rispecchiano l’anima del mondo, che era ben riconosciuta da quelle culture umane che dedicavano gran parte del tempo al magico e al sacro.

Inoltre, per confronto con le concezioni dell’ecologia di superficie, ricordiamo che rispettare il naturale non-umano solo nella misura in cui è simile a noi è una concezione ben misera del rispetto, che dovrebbe invece fondarsi su una filosofia che riconosca i diritti dei non-umani in quanto entità che ne sono degne.

Anche rispettare la foresta amazzonica perché “appartiene agli indios” è già una concezione da ecologia di superficie ed è assai riduttivo, perché ribadisce che - per l’Occidente - la Natura vale qualcosa in quanto appartiene a qualcuno. Probabilmente l’affermazione stupirebbe alquanto le culture originarie locali, per le quali risulta invece evidente il fatto che sono loro ad “appartenere” alla foresta, come totalità più grande. La foresta deve esistere integra perché ne ha il diritto etico, in quanto ha un valore in sé.


La famosa risposta del capo indiano Seattle al Presidente degli Stati Uniti (1854)

Come potete comperare o vendere il cielo,

il calore della terra?

L’idea per noi è strana.

Se non possediamo la freschezza dell’aria,

lo scintillio dell’acqua, 

come possiamo comperarli?

Ogni parte di questa terra è sacra per il mio popolo.

Ogni ago di pino che brilla, ogni spiaggia sabbiosa,

ogni vapore nelle scure foreste,

ogni radura e ronzio d’insetto

è sacro nella memoria e nell’esperienza del mio popolo.

La linfa che scorre attraverso gli alberi

porta i ricordi degli uomini…

Noi siamo parte della terra ed essa è parte di noi.

I fiori profumati sono le nostre sorelle;

il cervo, il cavallo, la grande aquila,

questi sono i nostri fratelli.

Le cime rocciose, la linfa dei prati,

il corpo caldo del cavallo, e l’uomo:

tutto appartiene alla stessa famiglia…

I fiumi sono i nostri fratelli, e ci dissetano.

I fiumi portano le nostre canoe e nutrono i nostri bambini.

Se noi vi vendessimo la nostra terra,

voi dovreste ricordare ed insegnare ai vostri figli

che i fiumi sono nostri fratelli, e vostri;

e voi dovreste d’ora in poi dare ai fiumi la gentilezza

che dovreste dare ad ogni fratello…

non c’è nessun posto tranquillo nelle città dell’uomo bianco.

Non c’è nessun posto

per udire il dispiegarsi delle foglie in primavera,

o il frusciare delle ali di un insetto.

Ma forse c’è, perché io sono un selvaggio e non capisco.

Solo il fracasso sembra un insulto all’udito.

E che cosa è vivere

se un uomo non può udire il lamento di un caprimulgo

o le conversazioni delle rane intorno ad uno stagno di notte?

Io sono un pellerossa e non capisco.

L’indiano preferisce il soffice suono del vento

che vibra sulla superficie dello stagno, 

e l’odore del vento, pulito da una pioggia del mezzogiorno,

o profumato dall’odore del pino.

L’aria è preziosa per il pellerossa,

poiché tutte le cose hanno lo stesso respiro;

l’animale, l’albero, l’uomo,

condividono insieme lo stesso respiro.

L’uomo bianco non sembra accorgersi dell’aria che respira.

Come un uomo morente,

per molti giorni, è insensibile al fetore.

Ma se noi vi vendessimo la nostra terra,

vi dovreste ricordare che l’aria è preziosa per noi,

che l’aria condivide il suo spirito con ogni vita che sostiene.

Il vento che fu dato a nostro nonno al suo primo respiro

ha anche accolto il suo ultimo respiro.

E se noi vendessimo la nostra terra,

dovreste tenerlo a parte in un posto sacro,

come un luogo dove anche l’uomo bianco può andare

per sentire il vento addolcito dai fiori del prato.

A queste condizioni noi considereremo la vostra offerta

di comperare la nostra terra.

Se noi decidessimo di accettare, io porrei una condizione:

che l’uomo bianco deve trattare gli animali di questa terra

come suoi fratelli…

Cosa è l’uomo senza gli animali?

Se tutti gli animali se ne andassero,

l’uomo morirebbe per la grande solitudine dello spirito.

Poiché qualsiasi cosa accada agli animali,

presto accade all’uomo.

Tutte le cose sono collegate.

Potreste insegnare ai vostri bambini

Che la terra sotto i loro piedi è la cenere dei nostri nonni.

Affinché loro rispettino la terra,

dite ai vostri bambini

che la terra è ricca delle vite dei nostri amici.

Insegnate ai vostri bambini

quello che noi abbiamo insegnato ai nostri,

che la terra è nostra madre.

Qualsiasi cosa accade alla terra, accade ai figli della terra.

Se gli uomini sputano sulla terra, sputano su sè stessi.

Questo noi lo sappiamo: la terra non appartiene all’uomo;

l’uomo appartiene alla terra.

Questo noi sappiamo.

Tutte le cose sono collegate

come il sangue che unisce una famiglia.

Tutte le cose sono collegate.

Qualsiasi cosa accada alla terra, accade ai figli della terra.

L’uomo non ha intrecciato il tessuto della vita:

egli è semplicemente un filo di essa.

Qualsiasi cosa faccia al tessuto, la fa a se stesso…

Possiamo essere fratelli, dopo tutto. Vedremo.

C’è una cosa che noi sappiamo,

e che l’uomo bianco un giorno scoprirà:

il nostro Dio è lo stesso.

Potete pensare ora che il vostro “Lui” come voi

desideri possedere la nostra terra; ma non è possibile.

Egli è il Dio dell’uomo e la Sua compassione è uguale

sia per il pellerossa che per l’uomo bianco.

Questa terra per lui è preziosa,

e danneggiare la terra è disprezzare il suo Creatore.

Anche l’uomo bianco passerà.

Ma nella vostra discesa brillerete luminosamente,

infuocati dalla forza di Dio che vi ha portati in questa terra

e per qualche scopo speciale

vi ha dato dominio su questa terra e sopra l’uomo rosso.

Questo destino è un mistero per noi,

poiché non capiamo quando i bufali

vengono completamente massacrati,

i cavalli selvaggi sono addomesticati,

gli angoli segreti della foresta sono appesantiti

con l’odore di molti uomini

e la vista delle colline in fiore

rovinata dai fili del telegrafo.

Dov’è il boschetto? E’ andato.

Dov’è l’aquila? E’ andata.

La fine della vita è l’inizio della sopravvivenza.   (10)


Qualche esempio

Per richiamare la differenza fra ecologia di superficie ed ecologia profonda riprendiamo, per esempio, il problema delle foreste:

- l’ecologia di superficie vuole salvare le foreste perché senza di esse l’umanità non può vivere e l’atmosfera terrestre ne resta alterata;

- l’ecologia profonda vuole salvare le foreste, oltre che per la ragione precedente, perché sono sacre, sono una mente: la foresta è soprattutto un’entità spirituale.

Alcune culture amazzoniche avevano l’albero cosmico, attorno al quale si organizzava l’universo, fisico e metafisico.

Oggi l’umanità occidentalizzata è sempre più chiusa in sé stessa: l’antropocentrismo non riesce più a vedere, al di fuori dell’uomo, altro che oggetti. Un tempo, la natura aveva un significato che ognuno percepiva nel suo intimo, nel suo inconscio. Persa questa percezione, l’uomo distrugge la natura e con ciò si condanna.

Naturalmente pensieri di ecologia profonda sono prodotti anche nella nostra cultura, come quelli scritti dalla ineguagliabile penna di Ceronetti:


Ci sono degli eroi, gli eroi continueranno ad esserci sempre, qualcuno che va a coprirsi di piaghe per versare sabbia sul reattore di Cernobil, o gli impressionanti pompieri del Golfo che in un anno sono riusciti a spegnere i pozzi gettati da Saddam all’attacco della biosfera, o i Chico Mendès uccisi dai rami di foreste condannate che si convertono in pistole assassine, o quelli di Greenpeace che sfidano radiazioni, odii e botte per documentare i crimini ambientali dei governi: ma tutti questi eroi sono figli dei disastri, il loro numero aumenterà soltanto in proporzione ai disastri, una vocazione eroica non chiama che dal dolore e dal fuoco…

Gli altri sono autori o complici dei disastri, siamo qualche miliardo su questo piatto della bilancia, e tutti abbiamo lasciato fare, anzi siamo tuttora in qualche modo tutti sterminatori attivi di terra-madre, deicidi di Cibele, pur d’ingozzarci di consumi che sono chiodi piantati nella carne della vita… E basta accennare a ridurli perché si sfreni il panico: Borse con l’infarto, folle imbestialite, il muraglione vacuo delle proteste cieche.

…Le devastazioni etiche e mentali prodotte da dollari-macchine-medicina nell’oscura substantia umana, sono molto più da considerare di qualsiasi ristagno di un’economia che porta in sé, nella sua fatale idolatria della percentuale e dell’espansione, il genio intero, vergine, della distruzione.  (11)


Ricordiamo comunque che l’ecologia profonda - come filosofia di vita – non è nata negli anni Settanta dalle idee di Arne Naess o da qualche movimento di minoranza di oggi: da tremila anni in India, e da tempi ancora più lunghi in tante culture animiste, idee ben diverse da quelle che hanno poi foggiato la civiltà occidentale avevano avuto modo di diffondersi nella mente collettiva, come dimostrano questi pensieri, tratti da antichi testi indiani: “Ogni anima va rispettata e per anima si intende ogni ordine, ogni vitalità che la sostanza possa assumere: il vento è un’anima che si imprime nell’aria, il fiume un’anima che prende l’acqua, la fiaccola un’anima nel fuoco, tutto questo non si deve turbare”. In uno dei sutra si loda chi non reca male al vento perché mostra di conoscere il dolore delle cose viventi e si aggiunge che far danno alla terra è come colpire e mutilare un vivente.

Anche nel nostro mondo classico ci sono state voci in tal senso, come Pitagora, ma la corrente principale dell’Occidente ha condotto all’attuale mentalità antropocentrica e materialista, ha portato l’odierna civiltà industriale, e con essa l’inquinamento, la deforestazione, l’esplosione demografica, la denutrizione, la tossicodipendenza e la criminalità.

La nostra società è incapace, per numerose ragioni, di risolvere questi problemi.

La prima ragione dipende dal nostro sapere frammentato in discipline e compartimenti stagni e dalla metodologia riduzionistica della scienza ufficiale, entrambi fattori che concorrono a farci vedere i nostri problemi isolati l’uno dall’altro.

Un’altra ragione è quella di considerare i problemi alla luce della brevissima esperienza della nostra civiltà industriale, una frazione minima dell’esperienza umana complessiva sul nostro pianeta.

Ma forse la ragione principale è che dovremmo affrontare la conclusione inaccettabile che i nostri problemi sono inevitabili fattori concomitanti di quello che siamo abituati a chiamare “progresso”, e che quindi possono essere risolti soltanto invertendo questo tipo di sviluppo: “ponendo il progresso all’opposizione”.

Deve perciò essere trasformato il nostro sistema politico-economico e, per applicare soluzioni reali, è necessario allora individuare quali siano state le caratteristiche principali delle società tradizionali del passato che si dimostrarono capaci, per migliaia di anni, di evitare di creare i terribili problemi che ora ci troviamo di fronte.

Postulare una società ideale per la quale non ci siano precedenti nell’esperienza umana, come hanno fatto molti dei nostri teorici della politica, è molto simile a postulare una biologia alternativa senza riferimento alle strutture biologiche del tipo di quelle che finora si sono dimostrate vitali. 

Non si vuole sterilmente cercare di riproporre il passato, ma per individuare le caratteristiche indispensabili di società stabili e capaci di risolvere i problemi attuali dobbiamo trarre ispirazione dalle società tradizionali del passato.


Da un essere vivente lontano da noi

Quando un’ape trova una fonte di nettare, ritorna all’alveare e comunica alle altre api la sua scoperta spiegando dove si trova la fonte di cibo, attraverso la cosiddetta “danza”, cioè formando in volo una figura composta da una circonferenza e da un suo diametro. In questa danza: 

- l’angolo formato dal diametro percorso con la direzione del sole è funzione della direzione dei fiori;

- il valore del raggio della circonferenza è proporzionale alla distanza dei fiori.

In altre parole, l’ape fornisce alle sue compagne la posizione dei fiori in coordinate polari. Dopo questa comunicazione, le altre api sono in grado, da sole, di trovare facilmente i fiori e quindi il nettare.

Resta aperta ogni considerazione sul significato di questo fatto: se cioè le api siano in grado di “misurare” le distanze e gli angoli, anche in rapporto al nostro concetto di misura. Probabilmente questa constatazione, dati anche i suoi aspetti geometrici, avrebbe fatto felice Pitagora.


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Note

(8) Fritjof Capra – Il punto di svolta – Ed. Feltrinelli, 1984.


(9) Da una risposta del Dr. Milford Wolpoff riportata nell’articolo The Search for Modern Humans  di J. Putman- National Geographic, ottobre 1988.


(10) Questo è il discorso pronunciato dal Capo indiano Seath, meglio conosciuto come Capo Seattle, durante l’assemblea tribale del 1854, in preparazione dei trattati fra il governo federale e le tribù indiane dell’Oregon e dello stato di Washington, in cui le autorità federali promettevano una riserva, rendite e servizi in cambio di cessioni di terra. Capo Seattle parlò sempre nella sua lingua nativa Duvamish e il Dott. Smith, che prese nota del suo discorso, insistè molto nel dire che il suo inglese era inadeguato per rendere nella traduzione la bellezza del pensiero e dell’immaginazione di Seattle. Infatti ogni lingua riesce ad esprimere appieno solo la visione del mondo della cultura che l’ha prodotta.

Il discorso di Seattle è riportato in molte pubblicazioni riguardanti l’ecologia o le popolazioni native. Questa traduzione è stata pubblicata sul periodico Paramita n. 42, aprile-giugno 1992, con il titolo Questa terra è sacra.


(11) Guido Ceronetti – Clinton, così non salverai la Terra Madre, pubblicato sul Corriere della Sera del 23 novembre 1992.



Arne Naess, il filosofo dell’Ecologia profonda

di Guido Dalla Casa



Arne Naess, il più grande filosofo norvegese del ventesimo secolo è stato il fondatore dell’ecologia profonda.


"Riferire tutti i giudizi di valore all’umanità è una forma di antropocentrismo filosoficamente indifendibile"

Arne Naess


Il 12 gennaio 2009 Arne Naess si è spento a Oslo, all’età di quasi 97 anni.


Arne Dekke Eide Næss è considerato il più grande filosofo norvegese del ventesimo secolo: la sua formazione giovanile si è basata soprattutto su pensatori come Spinoza e Gandhi, oltre che sulla filosofia buddhista. È generalmente riconosciuto come il fondatore dell’ecologia profonda. È stato nominato professore della cattedra di filosofia all’Università di Oslo all’età di 27 anni.

Naess è stato anche un alpinista di fama e nel 1950 ha guidato la prima ascensione al Tirich Mir (7708 m), nella catena dell’Hindu Kush. Il suo rifugio più noto è sempre stato quello di Tvergastein cui era particolarmente affezionato, tanto che la sua filosofia è spesso chiamata “Ecosofia T” proprio dall’iniziale di quel rifugio, situato nel Sud della Norvegia.

La sua “messa in pratica” dell’ecologia profonda era quella che lui chiamava friluftsliv, traducibile più o meno come “vita all’aria aperta”.


L’atto di origine dell’ecologia profonda è considerato il suo articolo “The Shallow and the Deep, Long-Range Ecology Movement” pubblicato su Inquiry n. 16 del 1973 e basato su una sua conferenza del 1972. In realtà, come filosofia di fondo e di comportamento, l’ecologia profonda era ben nota agli sciamani Hopi o Lakota, ad altre culture native o ad alcune filosofie di origine asiatica, ma Naess è stato il primo a definirla in termini scientifico-filosofici occidentali. In quell’articolo diventato famoso, Naess distingue fra un’ecologia “superficiale”, che si batte per la conservazione della natura, che però rimane risorsa al servizio dell’uomo, e un’ecologia “profonda”, che sostiene il valore intrinseco delle realtà naturali. Se tutto ciò che esiste è interrelato, se cioè “tutto dipende da tutto”, l’essere umano non è più separato dal mondo naturale ma ne è solo una parte, che interagisce con le altre e verso le quali deve assumere un atteggiamento empatico.


Il grande merito dell’ecologia profonda è quello di spostare la coscienza da centrata-sull’umano a centrata-sulla-Terra. Naess definì il movimento dell’ecologia superficiale, molto più diffuso di quello dell’ecologia profonda, come “la battaglia contro l’inquinamento e l’esaurimento delle risorse, che farà spostare gli umani verso le nazioni cosiddette sviluppate”. L’approccio di superficie dà per scontata la fede nell’ottimismo tecnologico, nella crescita economica, nello sfruttamento basato sulla scienza e nella continuazione delle attuali società industriali. Naess così si esprime: “I sostenitori dell’ecologia di superficie pensano di poter modificare le relazioni dell’uomo con la Natura all’interno della struttura della società oggi esistente”.

“La maggior forza trainante del movimento dell’Ecologia Profonda – scrive Naess – se paragonato a tutta la restante parte del movimento ecologista, è l’identificazione e la solidarietà con tutta la Vita”. Il primato del mondo naturale è considerato “un’intuizione” e non un derivato filosofico o logico. In linea di principio, ogni essere vivente ha diritto ad una vita libera, autonoma e dignitosa. Per Naess vanno compresi fra gli esseri senzienti gli organismi individuali, gli ecosistemi, le montagne, i fiumi e la Terra stessa.


Il libro di Rachel Carson “Primavera Silenziosa” (1962) lo aveva colpito profondamente. Gli esseri viventi, pensava Arne Naess, hanno un valore in sé. Come gli uccelli delle sempre più silenziose campagne americane, hanno bisogno di essere protetti dall’invadenza di miliardi di umani. Bisogna cercare una nuova armonia ecologica tra gli esseri viventi che abitano il pianeta Terra. Questo rinnovato equilibrio passa a livello teorico attraverso la rinuncia a qualunque forma di antropocentrismo: il diritto alla vita di ogni essere vivente è assoluto e non dipende dalla maggiore o minore vicinanza alla nostra specie. A livello pratico il nuovo equilibrio ecologico passa attraverso la riduzione della popolazione umana, l’uso di tecnologie a basso impatto ambientale e la mancanza di interferenza umana in moltissimi ecosistemi.


Il 12 gennaio 2009 Arne Naess è tornato alla Terra. Il pensiero di Arne Naess è senza dubbio assai radicale ed intriso di pessimismo sulla capacità umana di realizzare l’armonia ecologica da lui teorizzata. Tuttavia è certo che egli ha contribuito molto ad una cultura ambientale più consapevole.

È autore di circa cinquanta libri ed un numero enorme di articoli: il libro principale tradotto in italiano ha come titolo "Ecosofia. Ecologia, società e stili di vita" (Ed. RED, 1994). Fra gli altri libri possiamo citare Freedom, Emotion and self-subsistence (1975), Ecology, community and lifestyle (1989), Life’s philosophy: reason and feeling in a deeper world (2002).

Un panorama completo degli scritti di Naess si trova nell’opera in dieci volumi “The Selected Works of Arne Naess”, pubblicato nel 2005 da Springer.


Il grande merito dell’ecologia profonda è quello di spostare la coscienza da centrata-sull’umano a centrata-sulla-Terra e di dirci quali dovrebbero essere le relazioni con il mondo naturale nel 21° secolo.

Questo è veramente un grande risultato della vita e dell’opera del filosofo norvegese. Infine il significato dell’opera di Naess è stato anche quello di presentarci una via verso il ritrovamento di una relazione pre-industriale, animistica e spirituale con la Terra, con il rispetto verso tutte le specie e non solo la specie umana. Questo è il messaggio di cui ha bisogno il nostro tempo, che la Terra non è soltanto una “risorsa” per l’umanità, qualcosa che deve essere sfruttato commercialmente.

Purtroppo i personaggi più noti del movimento ecologista non hanno mai nominato pubblicamente l’ecologia profonda, né parlato della sua grande importanza: non è per caso, dato che i suoi principi comporterebbero modifiche considerate troppo drastiche alla società e soprattutto al sistema economico.


Ora Arne è tornato alla Terra.


Sono certo di rendere un omaggio al grande filosofo, che ha spesso ispirato anche il mio pensiero, riportando qui gli otto principi dell’Ecologia profonda.


Piattaforma dell’ecologia profonda, versione ecocentrica-sintetica


1.- Il ben-essere e il fiorire della Terra vivente e delle sue innumerevoli parti organiche/inorganiche hanno un valore in sé.


2.- La ricchezza e la diversità degli ecosistemi della Terra, come pure delle forme organiche che alimentano e sostengono, contribuiscono alla realizzazione di questi valori e sono anche valori in sé.


3.- Gli umani non hanno alcun diritto di ridurre la diversità degli ecosistemi della Terra ed i loro costituenti vitali, organici ed inorganici.


4.- Il fiorire della vita e della cultura umane è compatibile con una sostanziale riduzione della popolazione umana. Il fiorire creativo della Terra e delle sue innumerevoli parti richiede come necessaria tale diminuzione.


5.- L’attuale interferenza umana con il mondo non-umano è eccessiva, e la situazione sta peggiorando rapidamente.


6.- Si devono cambiare le politiche attuali. Tale cambiamento riguarda i fondamenti dell’economia e le strutture tecnologiche e ideologiche.


7.- Il cambiamento ideologico è principalmente quello di apprezzare la qualità della vita piuttosto che aderire all’illusione di un tenore di vita sempre più alto.


8.- Coloro che sottoscrivono i punti sopra elencati prendono l’impegno di partecipare ai tentativi di implementare le necessarie modifiche.


L’ Ecosofia T di Arne Naess


di Mariella Guarraci



L’introduzione da parte del filosofo norvegese Arne Naess dell’espressone “Ecologia profonda” esprime la consapevolezza che la semplice lotta contro l’inquinamento e lo spreco delle risorse sia utile ma limitata, in quanto non affiancata e supportata da una visione d’insieme che concepisce l’Uomo come parte di quel tutto organico che è l’Ambiente. Secondo Naess per superare le crisi ambientali l’Uomo deve riuscire a ritrovare quella sua collocazione nella Natura che il riduzionismo e il meccanicismo gli

hanno fatto perdere e affinché questo possa accadere occorre che “ogni persona adulta si assuma la responsabilità di elaborare la propria risposta ai problemi attuali dell’ambiente secondo una prospettiva globale”. Ogni soggetto è dunque chiamato a prendere coscienza delle idee ecologiche e a sviluppare la propria proposta, la sua personale Ecosofia, ovvero un codice individuale di valori che orienti le proprie scelte:

“una ecosofia non è altro che una visione globale di tipo filosofico che trae ispirazione dalle condizioni di vita nell’ecosfera. Dovrebbe quindi costituire la base filosofica che permette a un individuo di informare la sua azione ai principi dell’Ecologia profonda.”

L’Ecosofia di Arne Naess, da lui definita Ecosofia T, dove T sta per Tvergastein, il rifugio di montagna in Norvegia dove venne elaborata, propone di riorientare la nostra civiltà agendo dall’interno del sistema politico, cogliendo ciò che c’è di positivo e cambiando ciò che non lo è. L’Ecosofia T infatti non si allinea con nessuna ideologia classica e non risparmia critiche alla religione cristiana e all’economia occidentale. L’egualitarismo biosferico affermato dall’Ecosofia T non rappresenta tuttavia una prospettiva estremista: non nega le grandi capacità di homo sapiens ma “propone di usarle per sviluppare un atteggiamento di responsabilità universale che le altre specie non possono né capire né condividere”.

Le regole ecosofiche sono chiare: l’Uomo deve limitare l’uccisione degli altri esseri viventi, non deve infliggere loro inutili sofferenze e non deve usarli mai solo come mezzi. L’Uomo deve coltivare un nuovo concetto olistico dove tutti gli esseri viventi sono considerati parte della Natura, ricordando che:

“prendere le distanze dalla Natura e da ciò che è naturale significa prendere le distanze da ciò che è elemento costitutivo dello stesso Io. In questo modo si demolisce la propria identità, ciò che l’individuale è, e pertanto il senso d’identità e dignità. Alcuni fattori ambientali, per esempio la madre, il padre, la famiglia, i primi amici, hanno un ruolo”.[….]

Così scrive Naess: “se un topo fosse collocato nel vuoto assoluto non sarebbe più un topo. Gli organismi presuppongono un ambiente” centrale nello sviluppo dell’Io, e lo stesso si può dire della casa e dell’ambiente che la circonda. La ricerca ecologica e quella psicologica hanno messo in luce i rapporti che il nostro sé stabilisce, nel corso del suo sviluppo, con un’infinita ricchezza e varietà di fenomeni naturali, soprattutto con la vita organica, ma anche con la natura inorganica. [...] Il bambino cresciuto, il naturalista in senso filosofico, allarga i propri sentimenti positivi a tutta la Natura in base all’intuizione che tutto sia interconnesso.”

Ogni essere vivente ha un valore intrinseco e ha il diritto alla vita, al dispiegamento delle proprie potenzialità, pertanto l’Uomo ha il diritto di realizzarsi, ma nel farlo deve tenere conto delle realizzazioni altrui. Naess chiarifica che: “L’uguaglianza del diritto a realizzare le proprie potenzialità, affermata in via di principio, non è una norma pratica che ci impone una condotta identica nei confronti di tutte le forme di vita. Piuttosto suggerisce, come criterio guida, di limitare l’uccisione di altri esseri, e più in generale di eliminare gli ostacoli alla loro realizzazione.”

Ad esempio Naess respinge l’affermazione: “io ti uccido perché valgo di più” ma non: “io ti uccido perché ho fame”. È come se la seconda affermazione contenesse una implicita richiesta di scusa : “mi dispiace, ma devo ucciderti perché ho fame.” Questo non implica una classificazione dei viventi in base al loro valore ma giustifica in qualche modo il fatto che si agisca in modo differente nei confronti di esseri viventi diversi.

Questo porta anche ad abituarsi a distinguere i meri desideri dai reali bisogni appagando questi ultimi con il minimo impatto sulla Natura.

Uno degli aspetti che possono influire notevolmente sul cambiamento di mentalità promosso dall’Ecologia profonda è rappresentato dalla capacità di identificazione con gli altri esseri viventi. L’identificazione dipende dall’ambiente, dalla cultura e dalle condizioni economiche in cui si vive e si trova alla base della percezione della Natura come unità complessa. La prospettiva ecosofica tende a sviluppare processi identificativi così profondi “che i confini del proprio sé non sono più indicati in modo adeguato dall’io personale o dall’organismo. Allora ci si sente profondamente parte della totalità della Vita. [...] Ciò implica anche una transizione da un atteggiamento del tipo io-lui a uno del tipo io-tu.”

Al contrario l’incapacità di identificarsi conduce all’indifferenza, porta a relegare oggetti o avvenimenti lontani su uno sfondo privo di importanza e di conseguenza a non intervenire fino a quando un problema non ci riguarderà direttamente, forse essere troppo tardi. Scrive Naess: “Più riusciamo a comprendere il legame che ci unisce agli altri esseri, più ci identifichiamo con loro, e più ci muoveremo con attenzione. In questo modo diventeremo anche capaci di godere del benessere degli altri e di soffrire quando una disgrazia li colpisce. Noi cerchiamo il meglio per noi stessi, ma attraverso l’espansione del sé ciò che è meglio per noi è meglio anche per gli altri. La distinzione tra ciò che è nostro e ciò che non lo è sopravvive solo nella grammatica, non nei sentimenti.”

Ancora una volta è chiamata in causa l’Educazione per promuovere l’empatia, l’espansione del proprio sé, la percezione delle interdipendenze su cui si fonda la vita e l’identificazione con la Natura. Questo non implica la rinuncia dell’uomo moderno alla propria eredità culturale ma il recupero e la valorizzazione di quella sua tendenza, o, meglio, di quel suo bisogno definito vita all’aria aperta.

In Norvegia per esprimere questo concetto si usa la parola friluftsliv che indica “una sorta di stato positivo della mente e del corpo a contatto con la Natura che ci avvicina ad alcuni dei molti aspetti dell’identificazione della realizzazione del Sé nella Natura che abbiamo perduto.”

Promuovere la friluftsliv significa incrementare un divertimento sano che ricorda le occupazioni dell’uomo preindustriale e consente di trascorrere più tempo a contatto con la Natura. Grazie a queste attività è possibile promuovere il rispetto per la Natura ed educarsi a combattere gli sprechi, valorizzare le risorse disponibili, riconoscere la bellezza e il valore della diversità, sviluppare il pensiero intuitivo e identificativo, sperimentare le interconnessioni tra e con tutto ciò che ci circonda, criticare gli interventi umani di maggiore impatto ambientale dopo averne personalmente sperimentato l’aggressività nei confronti del paesaggio. Passare più tempo immersi nella Natura consente anche di discernere i bisogni concreti da quelli superflui e di cominciare a considerare la qualità della vita anziché badare esclusivamente alla quantità di ciò che può offrire. Solo vivendo tutto questo concretamente, sulla propria pelle, è possibile sviluppare la propria Ecosofia, interiorizzare i principi dell’Ecologia profonda e modificare il proprio stile di vita, non per seguire l’ennesima proposta new-age ma perché se ne comprende il valore.

Non sarà facile raggiungere tale risultato perché spesso si attende che la situazione raggiunga livelli critici prima di intervenire per un miglioramento. Può essere di grande utilità entrare in contatto con istituzioni politiche ed economiche, ONG, ma soprattutto con insegnanti e specialisti della comunicazione di massa che possano veicolare i nuovi valori ecologici e spingere ogni persona a sostenere uno stile di vita meno miope che favorisca l’intera ecosfera di cui essa stessa è parte.



L’Ecologia di superficie

di Guido Dalla Casa



Premesse

      In questo capitolo descriverò brevemente quel tipo di “ecologia” cui ci si riferisce di solito e che viene accettata da un numero ancora esiguo ma rapidamente crescente di persone. Userò a questo scopo il linguaggio che più frequentemente viene utilizzato dai mezzi di comunicazione, quando si occupano del problema ecologico.

Secondo questa ecologia, in cui si mantiene la distinzione fra “l’uomo” e “l’ambiente”, la Terra va tenuta pulita e piacevole perché è “l’unica che abbiamo”, è “la nostra casa”, è un Pianeta fatto per noi. E’ necessario “difendere l’ambiente” perché l’umanità possa viverci meglio: le modifiche devono essere fatte “a misura d’uomo”.

In sostanza non si intaccano mai le concezioni globali dell’Occidente, il paradigma dominante resta lo stesso. Sia l’ecologia nata dalla problematica dei “limiti dello sviluppo”. Sia quella che cerca di tenere “bello” l’ambiente e abitabile la Terra lo fanno soprattutto per il benessere dell’uomo, la cui posizione centrale e particolare non viene minimamente scossa.

Anche l’idea di conservare la Terra in buono stato per le generazioni future attribuisce valore alla Natura soltanto in funzione della nostra specie: l’antropocentrismo non viene messo in discussione.


I limiti dello sviluppo

Il tipo di pensiero ecologista cui accennerò ora è nato all’inizio degli anni Settanta con la pubblicazione del famoso rapporto del Club di Roma “I limiti dello sviluppo”, titolo in cui è già evidente l’impostazione dello studio: lo sviluppo va arrestato lentamente, perché ha dei limiti fisici, oggettivi. Quindi non possiamo fare a meno di fermarlo: occorre frenare per l’uomo, anche se con grande dispiacere.

Non si intacca alcun principio dell’Occidente, anzi il mondo è considerato un sistema meccanico straordinariamente complesso: la concezione meccanicista non è minimamente messa in dubbio. La spinta all’equilibrio globale è una necessità fisica, la Terra deve essere rispettata perché diversamente non consentirà la vita dell’uomo.

Il rapporto era stato impostato semplificando il sistema mondiale con cinque grandezze: le risorse naturali, la popolazione umana, gli alimenti, l’inquinamento e la produzione industriale. Erano poi stati schematizzati i tipi di interazione fra queste grandezze su scala mondiale e si erano studiate le tendenze future estrapolando gli andamenti verificatisi dall’inizio dell’éra industriale.

Come noto, il risultato dello studio fu che il sistema sarebbe collassato attorno agli anni 2020-2030, naturalmente se non si fossero modificati gli andamenti e le interazioni, cioè il modo di vivere. Attorno al 2030, quando i cinque diagrammi dello studio “impazziscono”, la Terra avrà livelli di degradazione intollerabili: però questo fatto non era preso in considerazione come disastro “in sé”. 

A coloro che non si preoccupano più di quel rapporto perché finora non è successo niente pur essendo continuato l’andamento precedente delle grandezze in esame, è opportuno ricordare che mancano ancora trenta o quaranta anni prima che si debba notare qualcosa di macroscopico. Anzi, gli indici presi in esame stanno procedendo secondo le curve uscite allora dall’elaboratore.

Lo scienziato Paul Ehrlich ha proposto a tale riguardo una parabola che mi sembra molto istruttiva. Supponiamo, scrive Ehrlich, di trovarci a salire su un aereo e di vedere che c’è una persona che sta tranquillamente schiodando i rivetti, che sono un tipo speciale di chiodi che tengono insieme le lamiere dell’ala. Naturalmente allarmatissimi ci mettiamo a gridare all’uomo di smetterla: ma lui ci risponde di stare tranquilli perché non è la prima volta che lo fa (li rivende ad una ditta) e non è mai successo niente; anzi lui stesso sta per partire col medesimo volo, non c’è nulla di cui preoccuparsi. Ovviamente l’uomo non si rende conto che a furia di schiodare arriverà a togliere quel bullone che segna la soglia massima di resistenza dell’ala privata dei bulloni medesimi, e a quel punto succederà la catastrofe. La stessa cosa accade per il nostro pianeta: continuiamo con la più grande incoscienza ad eliminare una specie dopo l’altra, ed apparentemente non succede nulla nell’ecosistema globale. Ma ad un certo punto salterà tutto.

Ricordiamo anche il paragone di Bateson con la rana messa a bollire in una pentola con acqua fredda: se si aumenta lentamente la temperatura dell’acqua, la povera rana non riuscirà ad accorgersi quando è arrivato per lei il momento di saltar fuori e finirà lessata.

Il rapporto del Club di Roma ebbe sostanzialmente tre grossi pregi:

- di introdurre il problema con un linguaggio scientifico-matematico, che viene di solito abbastanza accettato dagli ambienti ufficiali, anche se soltanto come metodo;

-  di evidenziare l’idea di crescita esponenziale, cioè invitare alla meditazione su cosa significano i fenomeni che hanno un simile andamento nel tempo;

- di richiamare l’attenzione sulla gravità del problema demografico: se non si arresta l’attuale esplosione della popolazione mondiale, ogni altro provvedimento diventa inutile; oggi l’umanità aumenta di un milione di individui ogni quattro giorni. 

A questo proposito à bene ricordare che l’area del mondo più sovrappopolata -anche se non cresce quasi più - è l’Europa, con alte densità e con impatto altissimo, dato l’insostenibile livello di consumo pro-capite dei suoi abitanti.


La crescita esponenziale

Ritengo utile richiamare con un paio di esempi cosa significa l’andamento esponenziale, che è il modo di procedere della civiltà industriale.

Il primo esempio è un aneddoto:


Un Maragià indiano, per saldare un debito di riconoscenza verso un suo saggio suddito, gli promise di soddisfare un suo desiderio.

Il saggio chiese un certo quantitativo di grano: quello che si ottiene mettendo un chicco sulla prima casella della scacchiera, due chicchi sulla seconda, poi quattro, otto, sedici, e così via raddoppiando. Il maragià restò stupito dalla modestia di quella richiesta e ordinò che venisse portata una scacchiera ed un sacco di grano. L’incaricato a deporre i chicchi si accorse ben presto, già nella seconda fila di caselle, che si preparavano guai e che il sacco non sarebbe bastato, anche se la prima fila era andata via con quantità di grano molto modeste.

Per avere il totale dei chicchi, basta moltiplicare due per sé stesso sessantaquattro volte; provate e vi divertirete: con i calcolatorini in commercio farete prestissimo, ma il numero uscirà presto dal visualizzatore delle cifre. Il numero risultante sull’ultima casella della scacchiera ha una ventina di zeri e corrisponde al raccolto mondiale di grano per duemila anni! Secondo l’aneddoto, il maragià si trovò nell’alternativa di non mantenere la parola data o far tagliare la testa al vecchio saggio. (2) 


Un altro esempio classico può illustrare ancora meglio il tipo di rapidità nel tempo dei fenomeni che avanzano con l’andamento “del raddoppio”, che equivale ad aumentare di una percentuale annua costante il valore già raggiunto.

Supponiamo che un microorganismo in crescita esponenziale con raddoppio giornaliero “uccida” la superficie di un lago e ci metta sessanta giorni a farla fuori tutta. Se un gruppo di esperti, notando la moltiplicazione del microorganismo, si recasse a visitare il lago al 56° giorno, cioè a quattro giorni dalla morte totale, vedrebbe soltanto un sedicesimo del lago già “morto” e tutto il resto bel tranquillo: probabilmente se ne andrebbe proponendo solo qualche blando correttivo e scagliandosi contro gli “allarmisti” che ritenevano urgente un rimedio.

    E’ forse istruttivo seguire l’andamento di tale fenomeno (i valori sono arrotondati):

Se il microorganismo ha la superficie di un micron (3) quadrato e la superficie totale del lago è di un Km quadrato, si ha:

- inizialmente l’area ricoperta dal microorganismo è di un micron quadrato;

- dopo 20 giorni il microbo ha infettato un millimetro quadrato di superficie, cioè dopo un terzo del tempo totale il fenomeno non è ancora percepibile; 

- dopo 40 giorni, cioè due terzi del tempo totale, la superficie ricoperta è un metro quadrato, cioè il fenomeno è rilevabile solo con grande difficoltà; comunque nessuno darebbe importanza alla cosa;

- dopo 56 giorni, come si è detto, è ricoperto un sedicesimo del totale, cioè il fenomeno è visibile ma per molti “non ancora preoccupante”.

Dopo altri quattro giorni è tutto finito.

Alla luce di tale andamento esponenziale del fenomeno “civiltà industriale”, appare perfettamente logico che per un paio di secoli non si sia notata la vera natura distruttrice di tale civiltà. Infatti i suoi effetti reali sulla Vita non possono evidenziarsi se non pochissimo tempo prima della sua fine: ritornando all’esempio del microorganismo nel lago, chi potrebbe effettivamente accorgersi di un metro quadrato inquinato se è sparso su una superficie di un Km quadrato, cioè un milione di volte più grande? Eppure in quel momento il fenomeno ha già “lavorato” per due terzi del tempo totale a sua disposizione.

Quindi la persistenza del modello attuale per due secoli, fatto su cui poggia l’idea di continuazione della civiltà industriale sempre-crescente, costituisce invece un’ulteriore prova della sua fine imminente: come si è visto, il modello può esistere senza manifestare la sua vera natura per un tempo quasi uguale a quello della sua esistenza complessiva.

E’ utile comunque ricordare che l’impostazione al problema ecologico data dai “limiti dello sviluppo” non è stata sostanzialmente contestata sul piano scientifico, è stata soltanto ignorata dal mondo ufficiale, impossibilitato ad arrestare una spinta che persiste da due o tre secoli, proprio perché non si può cambiare il modo di vivere senza modificare il pensiero filosofico.

A questo punto viene da chiedersi che senso ha un modello culturale che non può durare per un tempo indefinito, cioè che ha in sé la certezza della propria fine.

Secondo i sacerdoti della crescita, succederà “qualcosa” che consentirà di crescere sempre. A parte che non si capisce cosa possa essere, viene da chiedersi perché questi economisti non portino subito in Banca mille lire e le lascino su un conto al sette per cento annuo di interesse, visto che - per il fenomeno esponenziale sopra accennato - dopo circa cinque secoli la somma depositata sarà diventata un milione di miliardi di lire che faranno felice qualche diretto discendente, neanche troppo lontano. Il bello è che - secondo gli stessi sacerdoti, che adorano la crescita come una divinità - se centomila persone fanno la stessa operazione, tutti si ritrovano il loro milione di miliardi dopo cinque secoli. Ancora soltanto qualche secolo in più, e la quantità di denaro di quei “conti in Banca” supera il volume di una sfera che comprende tutto il sistema solare.

Non possono accorgersi di questa assurdità proprio perché la crescita viene considerata intoccabile, cioè una divinità. 

E’ istruttivo riportare la conclusione dell’aggiornamento del famoso rapporto del Club di Roma eseguito venti anni dopo:


    Abbiamo ripetuto più volte che il mondo non si trova di fronte un futuro preordinato, ma una scelta. L’alternativa è tra modelli. Uno afferma che questo mondo finito non ha, a tutti i fini pratici, alcun limite. Scegliere questo modello ci porterà ancora più avanti oltre i limiti e, noi crediamo, al collasso.

    Un altro modello afferma che i limiti sono reali e vicini, che non vi è abbastanza tempo, e che gli esseri umani non possono essere moderati, né responsabili, né solidali. Questo modello è tale da autoconfermarsi: se il mondo sceglie di credervi, farà in modo che esso si riveli giusto, e ancora il risultato sarà il collasso.

    Un terzo modello afferma che i limiti sono reali e vicini, che c’è esattamente il tempo che occorre ma non c’è tempo da perdere. Ci sono esattamente l’energia, i materiali, il denaro, l’elasticità ambientale e la virtù umana bastanti per portare a termine la rivoluzione verso un mondo migliore.

   Quest’ultimo modello potrebbe essere sbagliato. Ma tutte le testimonianze che abbiamo potuto considerare, dai dati mondiali ai modelli globali per calcolatore, indicano che esso potrebbe essere corretto. Non vi è modo per assicurarsene, se non mettendolo alla prova. (4)


E’ comunque evidente che il terzo modello comporta una modifica profonda e radicale dei valori attuali della cultura occidentale, cioè un sistema di vita ben diverso.




I Parchi naturali

     Una delle politiche dell’ecologia di superficie è quella di tenere isolate alcune aree naturali del Pianeta salvandole dall’invadenza del cosiddetto progresso. Tale pratica, pur non intaccando i fondamenti che causano il dramma ecologico e lasciando a volte il sospetto che fuori da queste aree sia consentito ogni sfruttamento, è comunque da sostenere in ogni modo. Infatti è uno dei modi concreti in tempi brevi per salvare specie ed ecosistemi altrimenti destinati all’estinzione: essi potranno riprendersi nelle aree adatte del Pianeta quando saranno cambiati i paradigmi dominanti.

     Spesso la finalità pubblicizzata per i Parchi è piuttosto antropocentrica, cioè essi verrebbero creati per il “godimento dell’uomo”, ma questo è l’unico modo - date le premesse della cultura dominante -  perché tali Parchi possano essere accettati. 

Facciamo alcuni esempi:

Una palude va salvata perché fa da polmone nelle piene, perché è ricca di vita e quindi ci fornisce un buon sostentamento (prelevando quel tanto che non intacca l’equilibrio dell’ecosistema), perché ci possiamo ricreare andandola a vedere, e così via.

La foresta va salvata perché ci dà l’ossigeno, perché abbiamo ancora tante cose da imparare su di essa, perché molte specie potranno un giorno darci nuove colture agricole, per i nuovi medicinali e per scopi ricreativi e di conoscenza.

Già i motivi per salvare ampi spazi di deserto appaiono meno evidenti. Tuttavia alcuni deserti ci vogliono, per studiare le specie che vi si sono adattate e perché questo ambiente possa servire da palestra per il nostro ardimento, visto come un notevole valore “sportivo”.

In definitiva la posizione centrale e del tutto particolare dell’”uomo” non viene messa in discussione.


La questione etica e il problema dei “diritti”

Se portiamo il problema in termini giuridici, nell’ecologia di superficie la natura va protetta perché è “res communitatis” e non è “res nullius”. Resta comunque sempre “res”, si tratta di proprietà, di patrimonio comune, qualcosa da salvaguardare, ma che si può e si deve utilizzare o godere da parte di qualcuno o di tutti. L’uomo è sempre al centro, è il riferimento di tutto, vivente o non vivente.

Gli ecosistemi, gli animali, le piante non sono soggetti morali né di diritto, ma hanno valore solo in funzione umana (proprietari, gruppi, collettività, ecc.): l’animale o l’ecosistema sono evidentemente considerati “non coscienti” o “non senzienti”. Non si capisce proprio come venga stabilito il confine, o quale sia la caratteristica che fa attribuire la qualifica di “soggetto morale” o “soggetto di diritto”. Se fosse qualunque forma di “intelletto” o di facoltà intelligente - a parte la solita difficoltà di stabilire la “quantità di soglia” - non si capirebbe proprio come vengano assegnati diritti ben precisi (come soggetti) a un pugno di cellule o ai menomati o cerebrolesi gravi, o a persone in coma, purchè si tratti esclusivamente di umani.

E’ evidente la derivazione biblica e cartesiana di questi atteggiamenti: la distinzione nasce da un pregiudizio metafisico, di cui si parlerà in seguito.

L’etica religiosa dell’Occidente ha riservato scarsa attenzione ai non umani, escludendoli da ogni considerazione morale, o semplicemente umanitaria e relegandoli, in quanto privi di anima, nella sfera dei mezzi al servizio dell’uomo. L’ascesa della filosofia dello scientismo tecnologico, che degrada tutto a oggetto, ha ulteriormente peggiorato l’atteggiamento collettivo.

Invece non c’è nulla che impedisca di essere soggetto morale e dotato di diritti non solo a un animale, ma anche a un fiume, a una montagna, a una palude.

Oggi comunque sappiamo dall’etologia - ma anche dal senso comune - che almeno gli animali provano piacere e dolore e hanno interessi preferenziali: insomma non esistono differenze rilevanti fra umani e altri animali. Anche gli studi di neurobiologia non rivelano differenze qualitative fra le strutture umane e quelle di altri animali. Quindi non ci sono ragioni plausibili per escluderli da considerazioni etiche.

Poiché inoltre non è possibile stabilire confini fra animali e vegetali, né fra individui e “ambiente circostante” e comunque con la visione olistica e sistemica che vedremo, non c’è motivo per escludere qualunque entità naturale dall’essere soggetto etico e giuridico.

Anche per l’ecologia di superficie, cominciamo allora a vedere che cosa significa “etica ambientale”. Essa è stata definita come l’insieme dei princìpi che regolano il rapporto tra l’uomo e l’ambiente: princìpi che determinano specifici doveri a carico dell’uomo. Per mondo naturale si intende “l’intero complesso degli ecosistemi naturali del nostro pianeta, assieme a tutte le popolazioni animali e vegetali che compongono le comunità biotiche dei singoli ecosistemi”. E’ chiaro dunque che parlando di tutela delle specie in via di estinzione si parla necessariamente anche della conservazione dell’ambiente in generale; anche perché purtroppo le specie minacciate non sono poche, non si limitano a qualche uccello esotico, qualche grosso carnivoro o ad animali dalla pelliccia particolarmente pregiata o ad altri casi sporadici del genere. Si parla ormai di migliaia di specie animali e vegetali scomparse nel corso degli ultimi anni, e di decine di migliaia in immediato pericolo di estinzione. Si arriva ad ipotizzare la loro scomparsa nell’immediato futuro al ritmo di una all’ora. E’ difficile quantificare in maniera precisa, ma è evidente che ci troviamo di fronte ad un fenomeno di dimensioni tali da coincidere, in definitiva, con la sparizione stessa del mondo naturale.


L’illusione dei due sistemi

Il nostro mondo occidentale è quasi sempre spaccato in due in tutti i campi, date le sue premesse. Facciamo qualche esempio accennando alla sostanziale uguaglianza di atteggiamento verso la Natura di alcune correnti di pensiero che si credono “opposte”, ma nascondono in realtà le stesse concezioni di fondo.

Sia il dualismo metafisico credente-ateo sia quello economico capitalismo-collettivismo non sono rilevanti agli effetti del problema ecologico. Tutte le parti dicono di “difendere la natura” e accusano il polo “opposto” di essere la causa del male. Fino a qualche anno fa una fetta dell’Occidente ha sbandierato l’illusione che il dramma ecologico fosse dovuto al profitto, pur avendo il materialismo e il progresso addirittura come valori assoluti e metafisici. 

Per portare un esempio pratico, è nota la disastrosa situazione ambientale degli ex-Paesi socialisti: il prosciugamento del lago d’Aral e le sue drammatiche conseguenze, l’inquinamento del lago Bajkal, i folli piani di alterazione planetaria programmati per i fiumi siberiani.

I detentori della cultura occidentale a Ovest hanno sterminato gli amerindiani, a Est hanno distrutto tutte le culture asiatiche e artiche. L’Occidente ha mostrato lo stesso volto a Est e a Ovest, verso la Natura come verso le altre culture umane.

Non si capisce che differenza comporti - anche sul piano teorico - il fatto di perseguire “lo sviluppo” per ottenere il profitto o per avere i risultati previsti nel piano quinquennale.

L’obiettivo primario è in entrambi i casi l’espansione economica, che porta inevitabilmente con sé la distruzione della Natura. Il problema nasce dai fondamenti della civiltà industriale e non dai dettagli del sistema economico.

Ad esempio, è assai riduttivo pensare che la distruzione della foresta amazzonica o della taiga siberiana sia dovuta “alle multinazionali” o ai governi brasiliano o russo. La realtà dei fenomeni è che si tratta della continuazione di quel processo con il quale l’Occidente divora la Terra e distrugge le civiltà tradizionali già da alcuni secoli.

Non possiamo cavarcela dando “la colpa” a qualcuno.

La causa è il concetto stesso di espansione economica, pilastro su cui poggia la nostra civiltà attuale.

Anche l’opposizione credente-ateo non ha differenze sostanziali, come vedremo più diffusamente nei capitoli successivi.

Ogni movimento ecologista che derivi da concezioni marxiste, cattoliche o protestanti rientra nella categoria dell’ecologia di superficie. Tali posizioni sono figlie dell’Occidente, danno grande valore all’uomo e alla “storia” e hanno come mito il “progresso”.

Come sottofondo metafisico, queste concezioni ritengono che l’universale (cioè la “materia” o il “mondo fisico”) sia una specie di orologio che l’uomo, unico essere diverso, può e deve modificare a suo vantaggio.

Il fatto di ritenere che esista un Orologiaio (il Dio dell’Antico Testamento) oppure che non esista (materialismo) provoca differenze ben poco rilevanti. Con entrambe le posizioni ci si comporta nei confronti della Natura pressochè allo stesso modo. Da una parte si ritiene che il diritto-dovere di modificare il mondo provenga da Dio, dall’altra da una specie di “merito selettivo” che ci ha resi, in sostanza, gli unici detentori di “spirito”; ma gli effetti sono praticamente gli stessi. 

Entrambe le posizioni si ispirano alle concezioni filosofiche del pensatore francese del Seicento René Descartes, comunemente noto con il nome di Cartesio, oltre che all’idea esasperata di dominio dell’uomo sulla Natura, propria del filosofo inglese Bacone, tanto per fare solo qualche esempio.

Nell’immaginario dell’Occidente, l’Universo è un’enorme, complicatissima Macchina smontabile, con l’optional del Grande Ingegnere.

Quasi tutti i movimenti ecologisti oggi esistenti, essendo figli della cultura occidentale e della sua concezione del mondo, si ispirano ai princìpi qui accennati: del resto, se così non fosse, probabilmente avrebbero un sèguito numerico minore.

Questa posizione assomiglia abbastanza all’idea di un organismo visto come “ambiente” delle cellule nervose o di qualsiasi organo considerato come centrale (l’uomo): questo organo, o gruppo di cellule, avrebbe il diritto di modificare il corpo, tenendolo vivo, per trarne vantaggio, cioè per ottenere la sua espansione equilibrata e il suo sviluppo.

Poiché l’ecologia di superficie si inquadra nel pensiero generale dell’Occidente, non viene messa in dubbio l’idea che l’aspirazione logica di ogni individuo e di ogni collettività sia “l’affermazione” o “il successo”. In sostanza, tutto può continuare come prima, installando filtri e depuratori e salvando qualche isola di Natura in giro per il mondo.

Dall’ecologia di superficie viene anche l’illusione dello “sviluppo sostenibile”, locuzione che suona come “salita in discesa” o “pioggia asciutta”, avendo in sé una contraddizione di termini.

L’unica conclusione evidente ma che non viene detta perché è intollerabile alla civiltà occidentale (non volendo modificarne le premesse) è che lo sviluppo non è sostenibile, è un fenomeno impossibile sulla Terra, è incompatibile con il sistema biologico globale.

Cullarsi nell’illusione che stiamo per scoprire la via dello sviluppo sostenibile può essere pericoloso. E’ invece perfettamente lecito parlare di “società sostenibile”, intendendosi come tale un sistema in equilibrio dinamico, cioè senza alcuna crescita materiale permanente. 

Infine, anche questo pensiero, di provenienza amerindiana, fa parte dell’ecologia di superficie:


Quando l’ultimo albero sarà stato abbattuto, l’ultimo fiume avvelenato e l’ultimo pesce pescato, vi accorgerete che non si può mangiare il denaro depositato nelle vostre Banche. (5)


Qualche nota dall’immaginario

Se leggiamo qualche anticipazione romanzesca o cinematografica, notiamo un grado di angoscia maggiore nei racconti ambientati in un mondo immaginato come estrapolazione degli andamenti attuali rispetto a quelli in cui il mondo ha subìto un collasso che ha arrestato i fenomeni di oggi, e quindi si trova nel “giorno dopo” di un evento traumatico.

Nei primi si trovano distese di deserti al posto di foreste, il caldo è soffocante, l’acqua è rara e accaparrata dai ricchi, le specie sono poche, c’è rassegnazione e c’è il consumo “obbligatorio”.

Nei secondi si può contare sulla rinascita di un mondo cambiato, c’è almeno la speranza. La vita può riprendersi, anche se ha bisogno di tempi lunghi.

Anche nell’immaginario gli ottimisti sono coloro che prevedono la fine della civiltà industriale, o un cambiamento radicale dei paradigmi di pensiero e quindi dei modi di vivere.

Infine, una nota dall’antropologo:


Forse bisogna cercare nella natura, attorno a noi, la spiegazione del destino dell’Occidente e anche i presagi per il nostro avvenire.

I lemmings sono piccoli roditori del Nord-Europa e dell’Asia simili ai nostri topi campagnoli. In determinati periodi essi abbandonano le Alpi della Scandinavia in gruppi numerosi, come guidati da un misterioso suonatore di flauto, e si dirigono verso il mare del Nord o il Golfo di Botnia. Lungo questo tragitto, che è il loro senso della storia, essi subiscono gli attacchi dei carnivori o degli uccelli predatori che li distruggono a migliaia. Malgrado tutto, essi proseguono la loro strada e, raggiunta la meta, si gettano nel mare e vi annegano.

Le cavallette hanno anch’esse un simile senso della storia. Molte specie, tra cui la Locusta migratoria, vivono nella natura senza commettere danni: gli individui sono solitari e sparsi. A un determinato momento, per una ragione ancora sconosciuta, queste specie pullulano; le giovani cavallette che nascono e crescono in popolazioni fitte hanno colore e forma diversi: sono più grandi e di colore più chiaro, spesso di un bel verde.

I naturalisti ne hanno fatto una specie diversa: la Locusta gregaria. Esse si riuniscono in gruppi numerosi e, quando sono adulte, se ne volano tutte assieme, costituendo quelle nuvole di cavallette che i contadini del Mediterraneo temono moltissimo; esse avanzano a balzi enormi, nella stessa direzione inesorabile per molti giorni. Possono devastare ogni vegetazione in poche ore, o abbattersi su una steppa per marcirvi in mucchi al sole oppure precipitarsi a nugoli nel mare.

Che cosa potrebbero dire i lemmings se potessero scrivere la storia di una delle loro migrazioni? “Siamo in marcia verso un felice domani, la nostra nazione fortemente strutturata cresce di ora in ora, e nonostante vari attacchi, progrediamo nella stessa direzione, conservando la nostra organizzazione che, sola, permette all’individuo di marciare verso quel progresso che intravediamo già, tutto azzurro, ai piedi delle montagne”.

Le cavallette intonerebbero un canto di trionfo: “Noi procediamo in avanti. L’universo potrà nutrirci per un secolo, poiché siamo in via verso la “planetizzazione” della nostra specie”.

La storia ha un senso per le cavallette, per i lemmings e per la civiltà occidentale: essa sfocia in un suicidio collettivo, prima della “planetizzazione” di una specie. Ogni individuo vede però in questo slancio ultimo una marcia verso una situazione migliore. Più i lemmings si allontanano dal punto di partenza, dicono i naturalisti, più sono eccitati; nulla li può fermare; davanti a un ostacolo sibilano e digrignano i denti per la collera.

Anche noi, ben lontani ormai dalle nostre origini, sentiamo profondamente che nulla deve intralciare la nostra marcia verso ciò che chiamiamo il Progresso.

Noi infatti, uomini dell’Occidente, non facciamo altro che correre verso il mare, verso la morte, in file serrate. A ogni guerra, il vortice in cui siamo afferrati si inabissa sempre più, aumentando il nostro progresso materiale, sminuendo i nostri ultimi valori spirituali, annientando l’umanità fin nel cuore dell’uomo.

L’orgoglio ci fa vedere in questa caduta il desiderato compimento della nostra esistenza terrena. Come il Principe di questo Mondo, l’Occidente attira a sé l’umanità intera, promettendo i beni materiali e la conoscenza delle tecniche ma incatenandola per sempre, sostituendo ogni pensiero con l’eterno desiderio, per meglio trascinarla con sé.

La scena della tentazione si rinnova ogni volta che l’Occidente incontra una civiltà tradizionale. Ogni volta degli uomini prendono coscienza della propria nudità, del proprio sottosviluppo materiale. Con i fianchi cinti di cotonina, devono lavorare fino al limite delle loro forze e, quando il sudore della fronte non basta più, devono dare l’equilibrio della propria anima e tutta l’armonia del mondo. Allora l’Occidente trascina nella propria caduta un nuovo dannato, mentre si chiudono le porte di un paradiso, perduto una volta di più.

Se la civiltà occidentale scomparisse, l’umanità non ne sarebbe colpita, poiché già da molto tempo non è più solidale con essa: un impero avrà finito di esistere, aggiungendo ad altre rovine quelle del proprio orgoglio. I nostri monumenti saranno altrettanti enigmi per gli archeologi del futuro, perché sembrerà strano che degli uomini abbiano fatto costruzioni con il solo scopo di ammassare vertiginosamente dei materiali, senza cercare di rinchiudervi, con la chiave del loro pensiero, i numeri dell’universo. 

I popoli che ci rimpiazzeranno parleranno forse di castigo divino, senza immaginare che siamo stati noi i giudici e i carnefici di noi stessi, scrivendo ognuna delle lettere della nostra condanna con le conseguenze di ciascuno dei nostri atti. (6)


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Note

(2)-L’aneddoto riportato si trova, con qualche variante di dettaglio, in molti testi di matematica e di dinamica della popolazione (cfr. quelli di P. e A. Ehrlich) come esempio divulgativo di andamento esponenziale.

(3) millesimo di millimetro

(4) D. e D. Meadows – Oltre i limiti dello sviluppo – Ed. Il Saggiatore, 1993.

(5) Questa espressione di un nativo amerindiano è stata pubblicata sulla rivista “Il Panda” del W.W.F. italiano ed è riportata anche in un numero del periodico “Notizie Verdi”.

(6) Jean Servier - L’uomo e l’Invisibile – Ed. Rusconi, 1973


Il bioregionalismo: il senso del luogo



“Quando trovi il tuo posto lì dove sei, la pratica avviene” (Dogen).

La nostra frenesia quotidiana e il nostro stile di vita asettico e materialistico ci porta sempre più ad ignorare la conoscenza del posto in cui viviamo, alienando dalla mente ogni manifestazione naturale e bramando sempre uno status in continuo mutamento ma mai dinamico e creativo. Vivere in armonia con il luogo secondo un’esistenza equilibrata, armonica, profonda. Non è necessario tornare alle “caverne” ma semplicemente ad uno stile di vita consapevole dello spirito del proprio luogo. J. Muir“per vivere la natura selvaggia ed una vera vita” dava molta importanza allo sviluppo del senso del luogo.

La bioregione può essere giustamente definita come la migliore organizzazione naturale nel rapporto tra gli individui che cooperano tra di loro e lo spazio intimamente integrato ed unitario che li circonda. Scrivono Devall & Sessions (1989): “In un’epoca nella quale organismi governativi ed economisti discutono del ‘sistema mondiale dell’economia’ e degli usi militari dello spazio extratmosferico, volgere l’attenzione alle nostre bioregioni è un atto profondamente legato alla tradizione. La bioregione è il luogo migliore in cui cominciare ad acquisire consapevolezza ecologica.

La nozione di bioregione non è affatto nuova. Per Jim Dodge, ..... ‘è stata il princpio culturale che ha animato  al novantanove per cento la storia dell’umanità ed è vecchia almeno quanto la coscienza’.

Un secondo elemento della bioregione è l’autoregolamentazione. Come dice Dodge ‘anarchia non significa essere fuori da ogni controllo, bensì non  essere soggetto al controllo di altri’. Le comunità locali ispirate ad un interesse comune per la bioregione, per la crescita libera delle piante e degli animali del luogo, possono prendere decisioni riguardo ad azioni individuali e collettive nel rispetto dell’integrità dei processi naturali presenti. Aver cura di un luogo significa evitare lo sfruttamento.

‘Un terzo elemento che compone la nozione di bioregione è lo spirito’, spiega Dodge. Non esiste una pratica religiosa unica per questo significato di spirito bioregionale...... basata su intuizioni ecologiche profonde può essere espressa in svariati modi”.

Nel Nord America la visione della bioregione è molto sviluppata tanto che sono nati numerosi movimenti ambientalisti volti all’affermazione del “senso del luogo”. Tra questi merita un particolare cenno la fondazione Planet Drum, fondata nel 1973 da Peter Berg con sede in San Francisco. Pubblica regolarmente un giornale (Raise the Stakes) per la diffusione e l’approfondimento della filosofia bioregionalista. Ecco un breve stralcio (Welcome home!) del documento di apertura del I° Congresso Bioregionale del Nordamerica del 1984 (tratto da AA. VV., 1994): “Sempre crescente consenso sta ricevendo l’idea che, per assicurare la bontà dell’aria, dell’acqua e del cibo che ci permettono di sopravvivere, dobbiamo diventare i custodi del luogo in cui viviamo.

Si comincia ad avvertire quanto impoverisca il non conoscere i propri vicini, né la natura che più ci è prossima. Si scopre che il modo migliore di pensare a se stessi è quello di far attenzione a ciò che ci riguarda, di proteggere e, assieme, recuperare la nostra regione.

Il bioregionalismo riconosce, nutre, sostiene e celebra i legami locali: terra, piante e animali, fonti, fiumi, laghi, acque sotterranee, oceani, aria, famiglia, amici, vicini, comunità, tradizioni native, sistemi indigeni di produzione e commercio.

Il bioregionalismo afferma che è venuto il tempo di conoscere le potenzialità del luogo.

Di prestare piena attenzione alla sua natura ed alla sua storia, e di mettere in comune le aspirazioni per assicurare un futuro sostenibile.

Di sostenerci, cioè, facendo ricorso a fonti rinnovabili di cibo e di energia.....

Il bioregionalismo assicura la soddisfazione dei bisogni primari attraverso le risorse locali.

Locali devono essere l’educazione, la cura della salute ed in genere tutto ciò che può essere materia di autogoverno.

La prospettiva bioregionale ricrea un sentimento di partecipazione all’identità locale, fondata su una rinnovata coscienza critica e sul rispetto per l’integrità delle nostre comunità ecologiche.......

La sicurezza della vita comincia con l’assunzione delle responsabilità a livello locale.... “.

Si affida ora alla penna di Giuseppe Moretti (1991) - profondo conoscitore e sincero cultore del bioregionalismo - il compito di completare e presentare i concetti base di questa visione filosofica della realtà locale. “Oggigiorno sembra che l’uomo moderno abbia riscoperto la natura; il bisogno di contatto con essa è in continuo aumento; i Parchi Nazionali e le aree protette vedono aumentare il numero dei visitatori anno dopo anno.

La gravità dei problemi ambientali ha messo in moto una frenesia a sostegno di una tesi che vorrebbe ognuno di noi amante e rispettoso della natura, in tutti i settori; economico, sociale, ambientale.

Di colpo, attività, prodotti, mansioni sono diventate ecologiche.

Certo, esistono persone sincere ed iniziative lodevoli, ma decisamente chi ha a cuore le sorti dell’ecosistema Terra ha più di una ragione di sconcerto.

La protezione della natura e le pratiche cosiddette ‘ecologiche’ nel nostro sistema economico/sociale sembrano più un eco business che un reale tentativo di porre nella giusta dimensione il rapporto fra l’uomo e l’ambiente in cui vive.

I luminari della cultura tecnologica/industriale sembrano agitarsi a vuoto nelle sabbie mobili delle proprie convinzioni filosofiche; i politici, perennemente prigionieri dell’andamento del “prodotto interno lordo”.

La natura viene convenientemente definita in modo utilitaristico, dando valore e diritto all’esistenza a tutto ciò che è utile per l’uomo; manca completamente l’umiltà che contraddistingue le culture primarie, native, aborigine, per le quali la natura, e tutti gli esseri viventi che dimorano nell’ecosistema, hanno valore in sè.

Certo, non siamo nè Hopi, nè Sioux o Kayapo, nè Dayak.

Quindi, per quanto incoerente questo ravvicinamento alla natura possa sembrare, è saggio non essere negativamente pessimisti, ma piuttosto semplicemente ed umilmente dare il proprio contributo affinché il lavoro da fare trovi il giusto sentiero. Il lavoro da fare è molto più profondo e completo di quanto si possa immaginare. Quanto segue è modestissimo contributo al ri-connettere noi stessi con la NATURA. Alla base di questo concetto dimora la convinzione che non ci può essere reale, effettiva, duratura ri-connessione senza il risveglio del selvatico dentro.

Non si tratta di un lavoro effimero, platonico ma dinamico, che arricchisca l’uomo di una nuova visione di vita.

Non è cosa che si può apprendere leggendo un libro, anche se molto utili e stimolanti sono le esperienze di quanto ne hanno scritto, da David H. Thoreau e John Muir, da Aldo Leopold fino al contemporaneo Gary Snyder.

Il teatro di questa ricerca è il luogo in cui si vive, non importa quanto naturale sia rimasto; avere una situazione Wilderness dietro casa è un privilegio per pochi ormai, il vantaggio di questi non deve scoraggiare, è comprensibile pensare a posti lontani dove i processi della vita si possono capire meglio, come nella Wilderness appunto, ma si può imparare altrettanto nel proprio posto concentrandosi con quanto ci sta attorno; certo, in molti casi è un mondo nascosto dove dell’equilibrio naturale rimangono solo frammenti.

Si tratta di capire noi stessi in relazione alla comunità naturale di cui si è intrinsicamente parte.

Risintonizzarsi con il selvatico dentro non può avvenire separatamente dalla comprensione e dall’apprezzamento dello Spirito del posto, il quale non è niente di fantasioso o misterioso: ‘è nient’altro che il verso del Picchio o del Coyote, o della Ghiandaia o del vento che muove le fronde di un albero o una ghianda che casca sul tetto del garage’, come ha scritto Gary Snyder in Good Wild Sacred.

Non ci si unisce allo spirito del posto standosene davanti alla TV o ad oziare al bar; bisogna vivere il posto e viverci abbastanza a lungo, passare da mero visitatore ad occupante e pertecipante.

Entrando in contatto con il mondo selvatico si impara a guardarsi attorno prestando attenzione alla complessità delle relazioni del paesaggio, dai corsi d’acqua alle piante, dal clima ai venti dominanti, dove il Pendolino ha il suo nido o la Faina la propria tana.

Non è un esercizio meramente scientifico, un elencare quante specie di uccelli sono presenti o quante e quali specie di piante o di fiori, quanto cm. di pioggia cade nel mese di marzo ecc.....

Si tratta di un’attenzione, di un grado di attenzione più profondo, più intimo, in relazione, a volte, a una pianta o ad un animale, ad un fiume o ad una roccia in particolare.

La Terra e le sue creature ci parlano se sappiamo ascoltare.

‘L’ecosistema locale ci parla, se sai ascoltare, ma devi prima imparare ad ascoltare bene in un posto, poi puoi andare in altri posti e la Terra cointinuerà a parlarti; la Terra non ti parlerà mai veramente se non hai imparato ad ascoltare bene in un posto in particolare’ (Gary Snyder, citato in Earth Festival di Dolores LaChapelle).

Questo tipo di relazione conduce ad una identificazione morale basata sull’uso responsabile delle forme di vita necessarie per il nostro sostentamento.

‘Procurandoci il nostro cibo direttamente dalla terra abbiamo in regalo il sapere da dove esso viene, pulendolo e preparandolo sappiamo pure com’è venuto a noi, attraverso il lavoro delle nostre mani e del nostro corpo, sappiamo che cura e rispetto vanno mostrate verso gli animali che ci nutrono.

C’è un piacere speciale nel prendersi questa responsabilità per il nostro sostentamento e accettare il legame di familiarità con gli animali che ci danno la vita’ (Richard Nelson in The Island Within).

Ritrovare la propria identità, il sè profondo, il selvatico dentro pone l’uomo decisamente fuori da considerare la Natura in termini utilitaristici, di fatturato, di capitale. Ciò produce un’ampliamento della propria consapevolezza, cominciando ad imparare direttamente dalla Madre Terra.

A pensare in termini di armonia piuttosto che di prevaricazione, di conservazione piuttosto che di sfruttamento, di stabilità piuttosto che di miope progresso, di diversità piuttosto che di monocultura; comportandoci di conseguenza in relazione al posto in cui si vive, alla propria Bioregione e in relazione alle altre Bioregioni.’In Wilderness is the preservation of the world’ (H. D. Thoreau)”.

Un nitido esempio di perdita totale del senso del luogo, ci viene offerto dal turista, che, frettolosamente e disarmonicamente, si sposta da un luogo all’altro senza percepire veramente “il luogo” e senza viverlo. Immergersi in un ambiente, capirlo, viverlo fino in fondo, apprezzarne il “respiro”, sono tutte sensazioni che solo il tempo, la calma e la riflessione ci offre. I nativi nordamericani rappresentano, al contrario dei turisti, uno dei migliori esempi del bioregionalismo. La perdita del senso del luogo è forse una delle più gravi mancanze dell’uomo contemporaneo. Nessun essere distrugge integralmente e consapevolmente la fonte del proprio nutrimento!

Molto bella la riflessione di Gussow (1971, da Devall & Sessions 1989): “Oggi si fa un gran parlare di salvaguardia dell’ambiente. E’ diventato un dovere, perché è proprio l’ambiente a darci i mezzi di sussitenza. Ma, in quanto uomini, abbiamo bisogno anche di nutrimento spirituale e alcuni luoghi assolvono proprio questa funzione. Sperimentare un incontro diretto e profondo con la natura è l’evento catalizzatore che converte un appezzamento di terreno qualsiasi - un ambiente, se volete - in un luogo. Il luogo è una parte dell’intero sistema ambientale che è stata rivendicata dai sentimenti. Considerata come un semplice sistema di supporto alla vita, come una risorsa a vantaggio dell’uomo, la terra è invece un ambiente, un insieme di luoghi. E’ indicativo il fatto che, ad esempio, non parliamo di un ambiente che abbiamo conosciuto, ma ricordiamo posti e luoghi. Abbiamo nostalgia dei luoghi, li conserviamo nella memoria, e sono ancora i suoni, gli odori e le immagini dei luoghi che ci incalzano e che spesso confrontiamo con il nostro presente”. O quella di Vincent Vycinas (in Devall e Sessions, 1989): “Il significato originario di abitare non è risiedere ma creare e prendersi cura dello spazio in cui qualcosa prende possesso di ciò che gli spetta e si sviluppa. Abitare significa fondamentalmente salvare, nel senso più antico di dare la libertà a qualcosa, di diventare se stessa, di diventare ciò che è essenzialmente (...). Abitare è prestare attenzione alle cose così che se ne rilevi l’essenza (...)”.


“Com’è difficile staccarsi dai luoghi. Per quanta attenzione facciamo, ci trattengono. E lasciamo pezzetti di noi stessi sui paletti delle staccionate, piccoli stracci e brandelli della nostra vita” (Katherine Mansfield).



La sensibilità femminile e l’ecologia profonda



“Ogni cosa che dà la vita è femminile. Quando gli uomini cominceranno a capire la segreta armonia dell’universo, di cui le donne sono sempre state a conoscenza, il mondo cambierà in meglio“ (Lorraine Canoe, Mohawk - da AA. VV., 1995). Il lupo selvaggio ricorda alla donna il suo essere selvaggio e se anche le strutture sociali maschiliste le hanno imposto una maschera e un dominio assoluto, la forza dell’istinto selvaggio può tornare alla luce per ridare alla donna la sua vera essenza e per riaffermare la sua profonda visione ecologica ed unitaria della natura. “Non è azzardato affermare che lo scisma primario tra natura e umanità (uno scisma che forse ha avuto origine dalla subordinazione gerarchica della donna da parte dell’uomo) ha ingenerato enormi fratture nella vita quotidiana, oltre che nella nostra sensibilità teoretica” (M. Bookchin in AA.VV., 1987).

La sensibilità femminile è nettamente più incline a percepire quel superamento del dualismo tra mondo umano e mondo naturale e se l’uomo non le avesse imposto la sua arroganza e la sua dominanza, il mutuo rapporto tra l’essere vivente e l’universo non avrebbe subito la scissione che invece ci ha condotto verso il baratro ed ha portato la condizione femminile verso la perdita della propria dignità e del proprio respiro selvaggio. Ma l’ululato del lupo ricorda alla donna il suo essere profondo, scevro, nella sua intimità, dai meschini parametri di dominio che sono invece profondamente radicati nell’essere maschile. La donna, liberata dalle catene che l’hanno avvolta per secoli, può tornare a correre, libera ed unitaria con il mondo selvaggio che le riconosce invece, in uno spirito assoluto, il suo valore e la sua partecipazione al concerto multiforme della natura. Occorre che la sua ribellione prenda il sopravvento affinché annulli in un sol colpo, dalle fondamenta, quella gabbia in cui è stata reclusa alienandola dalla dialettica degli elementi unitari. L’ululato del lupo selvaggio ricorderà alla donna che può farcela, può gettare la maschera imposta, può liberarsi del giogo che la opprime e farle adornare il capo con il senso della profonda verità delle cose. Il lupo selvaggio ricorda alla donna che l’uomo, nella sua infinita tristezza ha incupito la sua stessa esistenza lacerando la sua compagna della vita, rinunciando a vivere in armonia con essa e rinunciando alle gioie del vivere unitario. Da qui ha infierito nella distruzione anche su se stesso, perché distruggendo la donna ha tolto da se quel saggio e profondo senso del selvaggio che lo ha condotto verso la sua misera ed angosciata esistenza. Con il dominio assoluto, l’uomo ha dimenticato e soppresso ciò che la donna aveva da insegnarli: la profonda uguaglianza tra uomini e donne e la profonda uguaglianza ed unità con tutti gli elementi dell’universo. “Rispondi. Alla voce del vento. All’invito della natura. Alle domande del cuore. Rispondi al richiamo” (N. Evans, 1998).

“L’ecofemminismo considera la dominanza patriarcale degli uomini sulle donne come il prototipo di ogni dominazione e di ogni sfruttamento nelle loro varie forme: gerarchie, militaristiche, capitalistiche, industriali. In particolare sottolinea che lo sfruttamento della Natura è andato di pari passo con quello delle donne, che in ogni epoca sono state identificate con essa. Questa antica comunione fra donna e Natura lega la storia della donna a quella dell’ambiente, ed è all’origine di una affinità ovvia tra femminismo ed ecologia. Di conseguenza, l’ecofemminismo considera la conoscenza empirica tipicamente femminile come uno dei principi fondamentaali per una visione ecologica della realtà” (Capra, 1997).

“In effetti, alcune femministe sostengono che l’ecologia profonda sia una formulazione intellettuale delle intuizioni che molte donne hanno da secoli.....

Le femministe ampliano il senso di meraviglia nella nostra vita e l’impegno per un ruolo nella società attivo, nonviolento e creativo, dal momento che ci invitano a curare le nostre relazioni personali e a esaminare più a fondo i modi di pensiero prevalenti che sono la causa dell’egoismo, della competitività, dell’astrazione e del dominio. Il femminismo, inoltre, ha svelato l’esistenza di una ‘voce per la natura’ in quanto tale, piuttosto che esclusivamente per gli esseri umani” (Devall & Sessions, 1989).

Nessun dominio dovrebbe esistere nel rapporto uomo-donna e quindi nel rapporto unitario con la natura, ma poiché un dominio è avvenuto (quello dell’uomo) nel paradosso sarebbe stato meglio che le parti si fossero invertite, che la donna avesse avuto il “sopravvento” poiché ora, anche se un atteggiamento del genere può essere ugualmente messo in discussione, non saremmo però ad una arida spiaggia senz’acqua in cui siamo invece approdati. Il rapporto unitario con la natura e il rapporto di interrelazione tra gli esseri umani sarebbe stato in ogni caso sicuramente migliore e sinceramente profondo!

Diamo spazio a Judith Plant che, nell’affrontare l’intimo rapporto tra ecofemminismo e bioregionalismo, evidenzia bene, tra l’altro, il dominio dell’uomo sulla donna (da AA. VV., 1994 pagg. 48-51): “L’ecologia è lo studio delle interdipendenze e dell’interconnessione di tutti i sistemi viventi.

E’ a partire dall’osservazione delle gravi conseguenze ambientali che ne derivano, che gli ecologisti sono obbligati a porsi in posizione critica rispetto agli attuali comportamenti sociali.

Visto che il mondo naturale è pensato come risorsa, viene sfruttato senza riguardi per il suo ruolo di supporto a tutte le specie viventi.

L’ecologia sociale cerca di opporsi a questo atteggiamento dominante, indicando nell’armonizzazione fra la natura ed i bisogni vitali, cui la società deve far fronte, la via maestra per una società giusta.....

Nella cultura umana, l’idea di gerarchia è stata usata per giustificare la pratica della dominazione sociale; è stata poi proiettata nella natura, portando alla concreta affermazione di un atteggiamento di dominio anche nei suoi confronti.

La consapevolezza che in natura non esistono reali gerarchie, il riconoscersi nel valore della diversità e in una visione non gerarchica delle cose, sono punti strettamente condivisi da ecologisti e femministe.....

Storicamente, non abbiamo mai avuto potere sociale, al di là dei confini domestici, nè ruolo nella vita intellettuale.

Se l’ecologia parla a favore dell’altro, inteso come Terra, il femminismo parla invece dell’altro nella relazione ineguale uomo-donna.

L’ecofemminismo, così, parlando per entrambi gli altri originari, cerca di comprendere le radici comuni ad ambedue i tipi di dominio e sopraffazione e di indicare i modi di resistenza e di cambiamento.

Il compito assuntosi dall’ecofemminismo è quello di sviluppare la capacità di immedesimazione nell’altro, quando ci si trovi a considerare le conseguenze delle proprie azioni, e la consapevolezza di essere ognuno parte dell’altro......

Prima che il mondo venisse meccanizzato e industrializzato, la metafora per spiegare il Sè, la Società ed il Cosmo era l’immagine dell’Organismo.

Questo in ragione del fatto che la maggior parte della gente era quotidianamente in contatto con la terra e viveva un’esistenza basata su di essa.

La terra era vista come una femmina sotto due aspetti: uno passivo, di madre nutrice; l’altro, selvaggio e incontrollabile.

Queste immagini avevano la funzione di archetipi culturali. La terra era viva, sensibile, e perciò era contrario all’etica usarle violenza.....

Nel momento in cui la società iniziò il suo mutamento (...) l’immagine di una terra passiva, gentile, svanì.

La collera, la furia della natura, sempre vista come donna, ne divennero i nuovi tratti-simbolo, da cui la ‘necessità’ del dominio. E grazie alle nuove tecnologie, l’uomo, si pensava, sarebbe stato in grado di sottometterla veramente. (...)

Le battaglie per la vita della natura ... diventano temi femministi, se posti all’interno della prospettiva che abbiamo assunto: partecipando a queste lotte contro coloro che si arrogano il diritto di dominare il mondo naturale, contribuiamo a creare una coscienza della dominazione in atto a tutti i livelli.

Ma l’ecofemminismo crea anche interessi comuni fra donne e uomini.

Noi siamo state, sì, paragonate alla natura, ma anche educate dalla società a pensare in maniera dualistica: così, esattamente come gli uomini, ci sentiamo alienate.

Il sistema sociale non è buono, né per noi né per i maschi.

E’ dunque necessario individuare un campo comune da cui muovere per creare una coscienza critica, che renda possibile influenzare le strutture profonde della relazione società/ambiente. Le forme di resistenza non violenta - come la disobbedienza civile - contro lo scempio ambientale, possono promuovere, sostenere e sviluppare una vita culturale, che esalti le molte diversità presenti in natura e ne tragga le conseguenze sul piano dei rapporti interpersonali.....

La donna e la natura, ma bisognerebbe dire l’umanità e la natura, hanno bisogno di essere viste sotto una nuova luce, in base alla quale sia possibile ricucire i legami smagliati fra gli individui, e fra questi e la Terra... “.


“Siamo pervase dalla nostalgia per l’antica natura selvaggia. Pochi sono gli antidoti autorizzati a questo struggimento. Ci hanno insegnato a vergognarci di un simile desiderio. Ci siamo lasciate crescere i capelli e li abbiamo usati per nascondere i sentimenti. Ma l’ombra della Donna selvaggia ancora si appiatta dietro di noi, nei nostri giorni, nelle nostre notti. Ovunque e sempre, l’ombra che ci trotterella dietro va indubbiamente a quattro zampe.....

La fauna selvaggia e la Donna Selvaggia sono specie a rischio.

Nel tempo, abbiamo visto saccheggiare, respingere, sovraccaricare la natura istintiva della donna. Per lunghi periodi è stata devastata, come la fauna e i territori selvaggi. Per alcune migliaia di anni, e basta guardarsi indietro perché la visione si rappresenti, resta relegata nel più misero territorio della psiche....

Non a caso le antiche lande selvagge del nostro pianeta scompaiono a mano a mano che svanisce la comprensione della nostra intima natura selvaggia.....

Dunque la parola selvaggio qui non è usata nel suo senso moderno peggiorativo, con il significato di incontrollato, ma nel suo senso originale, che significa vivere una vita naturale, in cui la creatura ha la sua integrità innata e sani confini.... “ (Pinkola Estés, 1993).

Occorre ricordare che non a caso in questo libro quando si cita la parola “uomo” ci si riferisce quasi sempre al significato letterale del termine escludendo quindi volutamente la donna. Il mondo umano anche nella terminologia è purtroppo essenzialmente volto al maschile! Facciamo un piccolo esempio al riguardo. Se si scrive un libro sul lupo e si intitola “La lupa” chiunque interpreterebbe l’argomento su una trattazione della vita della femmina del lupo anche se la pubblicazione intenderebbe approfondire la vita della specie nella sua interezza. Questo la dice fin troppo lunga. E’ palesemente evidente che anche nella semplice terminologia il mondo tende “razzisticamente” al maschile. Questa non è una supposizione ma un crudo fatto reale, assolutamente unilaterale, ma assolutamente ingiusto. Eppure la natura ci ha insegnato una ben altra universalità!!

Chi scrive si scusa se nella trattazione non ha ben evidenziato sin dal primo momento questa grave discrepanza.




Manifesto per la Terra

Ted Mosquin & J. Stan Rowe

Traduzione di Guido Dalla Casa

Un contributo alla diffusione del messaggio



Premesse


Molti movimenti artistici e filosofici hanno pubblicato un proprio Manifesto, in cui venivano esposte verità che per gli autori erano evidenti come le cinque dita della mano. Anche questo Manifesto riporta verità di per sé evidenti, così ovvie per noi come le cinque parti del meraviglioso mondo che ci circonda – terra, aria, acqua, fuoco/luce solare e organismi – e in cui viviamo e ci muoviamo: da esso alimentiamo il nostro esistere. Il Manifesto è centrato sulla Terra: viene messo a fuoco il valore centrale spostandolo dall’umanità all’Ecosfera che la comprende – quella rete di processi e strutture organiche/inorganiche/simbiotiche che costituiscono il Pianeta Terra.


L’Ecosfera è la matrice che avvolge tutti gli organismi e dà loro la Vita, è intimamente intercollegata con essi nella storia dell’evoluzione fin dal principio del tempo. Gli organismi sono formati dall’aria, dall’acqua e dai sedimenti, che a loro volta portano in sé le formazioni e le tracce organiche. La composizione dell’acqua del mare è mantenuta stabile dagli organismi, che pure mantengono in situazione stazionaria un’atmosfera che sarebbe altrimenti di composizione improbabile. Piante ed animali hanno plasmato le rocce calcaree i cui sedimenti formano le nostre ossa. Le false divisioni che abbiamo fatto fra vivente e non-vivente, biotico e abiotico, organico ed inorganico, hanno messo a rischio la stabilità e il potenziale evolutivo dell’Ecosfera.


L’esperimento dell’umanità, vecchio di diecimila anni, di adottare un modo di vita a spese della Natura e che ha il suo culmine nella globalizzazione economica, sta fallendo. La ragione prima di questo fallimento è che abbiamo messo l’importanza della nostra specie al di sopra di tutto il resto. Abbiamo erroneamente considerato la Terra, i suoi ecosistemi e la miriade delle sue parti organiche/inorganiche soltanto come nostre risorse, che hanno valore solo quando servono i nostri bisogni e i nostri desideri. E’ urgente un coraggioso cambiamento di attitudini e attività. Ci sono legioni di diagnosi e prescrizioni per rimettere in salute il rapporto fra l’umanità e la Terra, e qui noi vogliamo enfatizzare quella, forse visionaria, che sembra essenziale per il successo di tutte le altre. Una nuova visione del mondo basata sull’Ecosfera planetaria ci indica la via.


Dichiarazione di convinzioni


Ciascuno cerca un significato nella vita, e di appoggiarsi su convinzioni che prendono varie forme. Molti si rivolgono a fedi che ignorano o tolgono ogni importanza a questo mondo e non si rendono conto in senso profondo che siamo generati dalla Terra e sostenuti da essa durante tutta la vita. Nella cultura industriale oggi dominante, la Terra-come-comunità non è una percezione di per sé evidente. Pochi si soffermano giornalmente a considerare con un senso di meraviglia la matrice avviluppante da cui siamo venuti e verso la quale alla fine tutti ritorneremo. Poiché noi siamo un prodotto della Terra, l’armonia delle sue terre, mari, cielo e dei suoi innumerevoli bellissimi organismi porta ricchi significati raramente compresi.


Noi siamo convinti che, finché non viene riconosciuto che l’Ecosfera è l’indispensabile terreno comune di tutte le attività umane, la gente continuerà a mettere al primo posto il proprio interesse immediato. Senza una prospettiva ecocentrica che mantenga saldamente valori e scopi in una realtà ben più grande di quella della nostra sola specie, la risoluzione dei conflitti politici, economici e religiosi sarà impossibile. Finché la ristretta focalizzazione sulle comunità umane non viene ampliata fino a comprendere gli ecosistemi della Terra – le situazioni locali e regionali in cui viviamo – i programmi per modi di vivere sostenibili e in buona salute sono destinati a fallire.


Un attaccamento fiducioso all’Ecosfera, un’empatia estetica con la Natura circostante, un sentimento di riverente meraviglia per il miracolo della Terra Vivente e le sue misteriose armonie, è un’eredità umana oggi in gran parte non riconosciuta. Se vengono di nuovo emotivamente riconosciute, le nostre connessioni con il mondo naturale incominceranno a colmare il vuoto che si è formato vivendo nel mondo industrializzato. Riemergeranno importanti scopi ecologici che la civilizzazione e l’urbanizzazione hanno nascosto. Lo scopo è il ripristino della diversità e della bellezza della Terra, con la nostra specie ancora presente come componente cooperativa, responsabile, etica.


PRINCIPI DI BASE


1 – L’Ecosfera è il Centro di Valore per l’Umanità.


2 – La Creatività e la Produttività degli Ecosistemi della Terra dipendono dalla loro Integrità


3 – La Visione del mondo centrata sulla Terra è confermata dalla Storia Naturale


4 – Un’Etica Ecocentrica si basa sulla Consapevolezza del nostro Posto in Natura


5 – Una Visione del mondo Ecocentrica dà valore alla Diversità degli Ecosistemi e delle Culture


6 – Un’Etica Ecocentrica supporta la Giustizia Sociale.


PRINCIPI DI AZIONE


7 – Difendere e Preservare il Potenziale Creativo della Terra


8 – Ridurre la Dimensione della Popolazione Umana


9 – Ridurre il Consumo Umano di Parti della Terra


10 – Promuovere un Modo di Governare Ecocentrico


11 – Diffondere questo Messaggio


Perché questo Manifesto?


Questo Manifesto è centrato sulla Terra. In particolare è ecocentrico, che significa centrato sul complesso, piuttosto che biocentrico, che significa centrato sugli organismi. Il suo scopo è di estendere e approfondire la comprensione dell’Ecosfera e dei valori primari del Pianeta Terra, che dona e sostiene la vita. Il Manifesto consiste di sei Principi di Base che ne stabiliscono la ragione fondamentale, più cinque Principi di Azione che ne derivano ed evidenziano i doveri dell’umanità verso la Terra e verso gli ecosistemi geografici che la Terra comprende. Il Manifesto viene offerto come guida al pensiero, al comportamento e alla politica sociale etici.


Nel corso dell’ultimo secolo c’è stato qualche miglioramento nelle attitudini scientifica, filosofica e religiosa verso la Natura non-umana. Apprezziamo gli sforzi di coloro la cui sensibilità verso una Terra in rapido degrado ne ha fatto ampliare la visione verso l’esterno, fino a riconoscere il valore intrinseco delle terre, degli oceani, degli animali, delle piante e delle altre creature. Tuttavia, a causa della mancanza di una comune filosofia ecocentrica, molta di questa buona volontà si è sparsa in cento direzioni diverse. È stata neutralizzata e resa inefficace da un unico, profondo, dato-per-certo credo culturale che assegna il primo valore assoluto all’Homo sapiens sapiens e poi, in sequenza, agli altri organismi in base al loro tipo di relazione con il primo.


La recente conoscenza profonda che la Terra, l’Ecosfera, è qualcosa di valore supremo è derivata dagli studi cosmologici, dall’ipotesi Gaia, dalle foto della Terra dallo spazio e specialmente dalla comprensione dell’ecologia. La realtà ecologica centrale per gli organismi – circa 25 milioni di specie – è che sono tutti Figli della Terra. Nessuno esisterebbe senza il pianeta Terra. Ciò che chiamiamo Vita, che costituisce un mistero e un miracolo, è inseparabile dalla storia evolutiva della Terra, dalla sua composizione e dai suoi processi. Perciò la priorità etica deve spostarsi dall’umanità alla Terra, che la comprende. Il Manifesto è una traccia di ciò che consideriamo un passo essenziale verso una relazione sostenibile fra la Terra e gli umani.


PRINCIPI DI BASE


Principio 1. L’Ecosfera è il Centro di Valore per l’Umanità.


L’Ecosfera, il globo della Terra, è la sorgente che genera la creatività dell’evoluzione. Dagli ecosistemi inorganici/organici del pianeta si sono generati gli organismi: in principio le cellule batteriche e infine quei complessi sistemi di cellule che sono gli esseri umani. Pertanto, gli ecosistemi dinamici, che si esprimono in modo complesso e intercollegato in tutte le parti dell’Ecosfera, hanno un valore e un’importanza maggiori delle specie che contengono.


La realtà e il valore dell’essenza ecologica ed esterna di ciascuna persona hanno avuto scarsissima attenzione in confronto al pensiero filosofico dedicato all’essenza interiore dell’umanità, una focalizzazione individualistica che ha allontanato l’attenzione dalle necessità ecologiche e ha fatto trascurare l’importanza vitale dell’Ecosfera. Esteso alla società come interesse soltanto per il benessere della gente, questo omocentrismo (antropocentrismo) è una dottrina di egocentrismo-di-specie che porta a distruggere il mondo naturale. Il biocentrismo che estende l’empatia e la comprensione oltre la razza umana fino a comprendere gli altri organismi costituisce un avanzamento etico, ma il suo scopo è limitato. Non riesce ad apprezzare l’importanza dei “dintorni” ecologici globali. Senza l’attenzione centrata sulla priorità della Terra-come-contesto, il biocentrismo rischia di diventare facilmente uno sciovinistico omocentrismo, perché chi fra tutti gli animali è comunemente considerato il migliore e il più saggio? L’Ecocentrismo, enfatizzando l’Ecosfera come il sistema primario che dà la Vita piuttosto che un semplice supporto per la vita, fornisce il modello cui l’umanità deve richiamarsi come guida per il futuro.


Noi umani siamo espressioni coscienti delle forze generative dell’Ecosfera, la nostra “vivibilità” individuale è sperimentata come inseparabile dall’aria riscaldata-dal-sole, dall’acqua, dalla terra e dal cibo che gli altri organismi ci forniscono. Come tutti gli altri esseri viventi generati dalla Terra, siamo stati “messi in sintonia”, attraverso una lunga evoluzione, con le sue risonanze, i suoi cicli ritmici, le sue stagioni. Il linguaggio, il pensiero, le intuizioni – tutte provengono direttamente o metaforicamente dal nostro essere fisico sulla Terra. Oltre l’esperienza conscia, ogni persona incorpora un’intelligenza, un’innata saggezza del corpo che, senza alcuna partecipazione cosciente, la rende adatta a partecipare come parte simbiotica degli ecosistemi terrestri. La comprensione della realtà ecologica che gli umani sono Figli-della-Terra sposta il centro dei valori dall’omocentrico all’ecocentrico, dall’Homo sapiens al Pianeta Terra.


Principio 2. La Creatività e la Produttività degli Ecosistemi della Terra Dipendono dalla loro Integrità


“Integrità” si riferisce alla totalità, alla completezza, alla capacità di funzionare pienamente. Il modello è dato dagli ecosistemi della Natura che ricevono energia dal Sole, quando non sono danneggiati; come esempi, un tratto produttivo della piattaforma continentale marina o una foresta pluviale temperata nel tempo precedente lo sfruttamento, quando gli umani erano soprattutto raccoglitori. Sebbene questi tempi siano al di là del ricordo, gli ecosistemi di quel periodo (per quanto è dato conoscerli oggi) ci forniscono ancora gli unici modelli di sostenibilità per l’agricoltura, per la silvicoltura e per la pesca. Gli attuali gravi problemi in tutte tre queste attività industrializzate ci mostrano gli effetti del deterioramento dell’integrità; in particolare, perdita di produttività e di richiamo estetico parallelamente al progressivo scombussolamento delle funzioni vitali degli ecosistemi.


La creatività evolutiva e la produttività continuativa della Terra e dei suoi ecosistemi regionali richiedono la continuità delle loro strutture di base e dei processi ecologici. Questa integrità interna dipende dalla conservazione delle comunità con le loro innumerevoli forme di cooperazione evolutiva e di interdipendenza. L’integrità dipende da intricate catene alimentari e dai flussi di energia, da terreni non degradati dall’erosione e dai cicli di elementi essenziali come l’azoto, il potassio, il fosforo. Inoltre, le composizioni naturali dell’aria, dei sedimenti e dell’acqua sono essenziali per i processi e le funzioni della Natura. L’inquinamento di questi tre elementi, insieme con l’estrazione e lo sfruttamento di costituenti organici ed inorganici, indebolisce l’integrità degli ecosistemi e il funzionamento normale dell’Ecosfera, che è la fonte della Vita in evoluzione.


Principio 3. La Visione del mondo centrata sulla Terra è confermata dalla Storia Naturale


La Storia Naturale è la storia della Terra. I cosmologi e i geologi ci descrivono l’inizio della Terra più di quattro miliardi di anni fa, la comparsa di piccole creature marine nei primi sedimenti, l’emergere degli animali terrestri dal mare, l’Era dei Dinosauri, l’evoluzione, attraverso influenze reciproche, degli insetti, delle piante con fiori e dei mammiferi da cui, in tempi geologicamente recenti, sono venuti i Primati e quindi l’umanità. Noi condividiamo il materiale genetico e un’origine comune con tutte le altre creature che fanno parte degli ecosistemi della Terra. Queste conoscenze di cui disponiamo pongono l’umanità nel contesto naturale.


La storia della Terra che si svolge attraverso gli eoni ci mostra la nostra coevoluzione con miriadi di organismi compagni attraverso l’accordo, e non solo attraverso la competizione. Tutti gli esempi di coesistenza organica rivelano i ruoli importanti del mutualismo, della cooperazione e della simbiosi nella grande sinfonia della Terra.


I miti delle varie culture e le storie che plasmano i nostri atteggiamenti e i nostri valori vogliono dirci da dove veniamo, chi siamo, e dove stiamo andando in futuro. Queste storie sono state irrealisticamente omocentriche e/o ultraterrene. Invece, lo svolgimento, basato sull’evidenza e rivolto verso l’esterno, della storia naturale dell’umanità – fatta di polvere di stelle, dotata di grande vitalità e sostenuta dai processi naturali dell’Ecosfera – è non soltanto credibile ma anche più meravigliosa dei tradizionali miti centrati solo sull’umano. Poiché mostrano l’umanità-nel-contesto come una componente organica del globo planetario, le storie ecocentriche rivelano anche un proposito funzionale e uno scopo etico; più precisamente, con la parte umana al servizio della più grande totalità della Terra.


Principio 4. Un’Etica Ecocentrica si basa sulla Consapevolezza del nostro Posto in Natura.


L’Etica riguarda quelle azioni e quegli atteggiamenti non-egoici che provengono da valori profondi; cioè, dal senso di quello che è veramente importante. Un apprezzamento profondo della Terra ha come conseguenza un comportamento etico verso di essa. La venerazione per la Terra nasce facilmente con le esperienze infantili all’aperto e, nell’età adulta, viene rafforzata dal “vivere nel proprio luogo”, in modo che le forme della terra e dell’acqua, le piante e gli animali diventano familiari come conoscenti vicini. La visione del mondo ecologica e l’etica che trova i suoi primi valori nell’Ecosfera derivano la loro forza dal vivere nel mondo naturale e semi-naturale, in un contesto rurale piuttosto che in un contesto urbano. La consapevolezza della nostra condizione in questo mondo è fonte di meraviglia, di religiosa ammirazione e di una decisa intenzione a ripristinare, conservare e proteggere le antiche bellezze dell’Ecosfera e quelle modalità naturali che hanno resistito per lunghissimi periodi alla prova del tempo.


Il Pianeta Terra e i suoi svariati ecosistemi con i loro elementi essenziali – aria, terra, acqua e mondo organico – circondano e nutrono ciascun individuo e ciascuna comunità, ciclicamente dando la vita e riprendendosi il dono. Una consapevolezza di sé come essere ecologico, alimentato dall’acqua e dagli altri organismi, e come un animale immerso nell’aria che vive nell’interfaccia produttiva e scaldata dal sole dove l’atmosfera incontra la terra, ci dà un senso di connessione e riverenza per l’abbondanza e la vitalità della Natura sostenitrice.


Principio 5. Una Visione del Mondo Ecocentrica apprezza la Diversità degli Ecosistemi e delle Culture


La maggiore rivelazione della prospettiva centrata-sulla-Terra è la sorprendente varietà e ricchezza degli ecosistemi e delle loro parti organiche/inorganiche. La superficie della Terra presenta una diversità, di notevole attrattiva estetica, di ecosistemi artici, temperati e tropicali. All’interno di questo mosaico globale le diversissime varietà di piante, animali e umani sono dipendenti dalla variegata mescolanza circostante di forme terrestri, suoli, acque e climi locali. In tal modo la biodiversità, la diversità degli organismi, dipende dal mantenimento dell’ecodiversità, la diversità degli ecosistemi. La diversità culturale – una forma di biodiversità – è il risultato storico di umani che hanno adattato le loro attività, i loro pensieri e il loro linguaggio a ecosistemi geografici specifici. Pertanto, qualunque cosa che degrada o distrugge ecosistemi è un pericolo e una disgrazia sia biologica che culturale. Una visione del mondo ecocentrica dà valore alla diversità della Terra in tutte le sue forme, sia non-umane che umane.


Ciascuna cultura umana del passato ha sviluppato un linguaggio unico che ha radici estetiche ed etiche nelle visioni, nei suoni, negli odori, nei sapori e nei modi di sentire di quella particolare parte della Terra in cui è fiorita. Tale diversità culturale basata sull’ecosistema era vitale, poiché faceva sviluppare modi di vivere sostenibili nelle diverse parti della Terra. Oggi il linguaggio ecologico dei popoli aborigeni, e la diversità culturale che rappresentano, sono in grave pericolo come le specie delle foreste tropicali, e per le stesse ragioni: il mondo sta per essere omogeneizzato, gli ecosistemi stanno per essere semplificati, la diversità è in declino, la varietà si sta perdendo. Un’etica ecocentrica si oppone alla globalizzazione economica di oggi che ignora la saggezza ecologica incorporata nelle culture diverse, e le distrugge per un profitto a breve termine.


Principio 6.-Un’Etica Ecocentrica Supporta la Giustizia Sociale.


Molte delle ingiustizie della società umana provengono dalla disuguaglianza. Costituiscono un sottoinsieme delle più grandi ingiustizie ed iniquità compiute dagli umani sugli ecosistemi e le loro specie. Con il suo concetto esteso di comunità, l’ecocentrismo enfatizza l’importanza di tutte le componenti interattive della Terra, comprese molte le cui funzioni sono in gran parte sconosciute. In tal modo viene affermato il valore intrinseco di tutte le parti dell’ecosistema, organiche ed inorganiche, senza proibirne un impiego attento ed oculato. “Diversità con Uguaglianza” è una legge ecologica basata sul funzionamento della Natura che fornisce una guida etica per la società umana.


Gli ecologisti sociali criticano a ragione l’organizzazione gerarchica nelle culture, che costituisce una discriminazione nei riguardi di chi non ha potere, specialmente verso le donne e i bambini, che sono svantaggiati. L’argomento che la strada verso un vivere sostenibile sarà impedita finché il modello culturale ridurrà le tensioni che derivano dall’ingiustizia sociale e dall’ineguaglianza fra i sessi, è certamente corretto almeno fino ad un certo punto. Ciò che non viene preso in considerazione è che l’attuale rapida degradazione degli ecosistemi della Terra aumenta le tensioni fra gli umani mentre preclude la possibilità di un vivere sostenibile e impedisce l’eliminazione della povertà. Le questioni di giustizia sociale, per quanto importanti, non possono essere soddisfatte finché non viene fermata la distruzione degli ecosistemi ponendo fine a filosofie ed attività omocentriche.


PRINCIPI DI AZIONE


Principio 7.- Difendere e Preservare il Potenziale Creativo della Terra


I poteri creativi dell’Ecosfera si esprimono attraverso i suoi resilienti ecosistemi geografici. Perciò, come priorità principale, la filosofia ecocentrica richiede la conservazione e il ripristino degli ecosistemi naturali e delle loro specie componenti. A parte la remota possibilità di collisioni con comete e asteroidi, in grado di quasi distruggere il pianeta, l’inventiva evolutiva della Terra continuerà per milioni di anni: viene impedita soltanto dove gli umani hanno distrutto interi ecosistemi sterminando specie o avvelenando sedimenti, acqua ed aria. Le continuate e pericolose estinzioni tolgono fili dalla trama della vita, diminuendo la bellezza della Terra e la possibilità che emergano in futuro ecosistemi unici con organismi correlati, forse di sensibilità e intelligenza più grandi di quelle umane.


“La prima regola del racconciare è salvare tutti i pezzi.” (Aldo Leopold – Almanacco di un mondo semplice, 1997). Le azioni che mettono in pericolo la stabilità e la buona salute dell’Ecosfera e dei suoi ecosistemi devono essere identificate e condannate pubblicamente. Fra le più distruttive delle attività umane vi sono il militarismo e le sue spese enormi, l’estrazione di materiali tossici, la produzione di veleni biologici in tutte le forme, il modo industriale di condurre l’agricoltura, la pesca e lo sfruttamento delle foreste. Se non vengono arrestate, tali tecnologie letali, giustificate come necessarie per proteggere specifiche popolazioni umane ma che in realtà servono al profitto di grosse compagnie commerciali e a soddisfare desideri umani di possesso piuttosto che bisogni, porteranno a disastri ecologici e sociali sempre più grandi.


Principio 8. Ridurre la Dimensione della Popolazione Umana


Una causa primaria della distruzione di ecosistemi e dell’estinzione di specie è l’esplosione della popolazione umana che già oggi supera largamente ogni livello ecologicamente sostenibile. La popolazione mondiale totale, oggi di 6.5 miliardi, sale vertiginosamente e inesorabilmente di 75 milioni di unità all’anno. Ogni umano in più è un “consumatore” ecologico su un pianeta le cui capacità di mantenere tutte le sue creature è quantitativamente limitata. In tutti gli angoli della Terra la pressione numerica umana continua a minare l’integrità e la capacità di generazione degli ecosistemi terrestri, marini e di acqua dolce. La nostra monocultura umana sta sovrastando e distruggendo le policulture della Natura. Nazione per nazione, è necessario diminuire la popolazione umana riducendo il numero di concepimenti.


L’etica ecocentrica che dà valore alla Terra e ai suoi sistemi in evoluzione, al di sopra delle specie, condanna l’accettazione sociale di una fecondità umana illimitata. L’attuale esigenza di ridurre il numero di umani è maggiore nei Paesi ricchi dove è più grande l’uso pro capite dell’energia e delle risorse della Terra. Un obiettivo ragionevole è la riduzione ai livelli di popolazione esistenti prima della diffusione dell’impiego dei combustibili fossili; cioè a un miliardo di unità o meno. Questo accadrà o con l’attuazione di politiche intelligenti o inevitabilmente con epidemie, fame, guerre.


Principio 9.- Ridurre il Consumo Umano di Parti della Terra.


La minaccia principale alla diversità, alla bellezza e alla stabilità dell’Ecosfera è la sempre crescente appropriazione dei beni del pianeta per usi esclusivamente umani. Tale appropriazione ed uso eccessivo, spesso giustificati dall’aumento della popolazione, rubano i mezzi di sostentamento agli altri organismi. La visione omocentrica ed egocentrica che dà agli umani un diritto su tutti i componenti dell’ecosistema – aria, terra, acqua, organismi – è moralmente condannabile. A differenza delle piante, noi umani siamo “eterotrofi” (mangiatori di altri) e dobbiamo uccidere per alimentarci, vestirci e coprirci, ma questo non ci dà licenza di rapinare e sterminare. Il consumo accelerato di parti vitali della Terra è una ricetta sicura per la distruzione dell’ecodiversità e della biodiversità. Le nazioni ricche armate di potente tecnologia sono la causa principale dei guai: esse sarebbero in grado di ridurre i consumi e condividere i beni con le nazioni il cui livello di vita è il più basso. Comunque, nessuna nazione è innocente.


Bisogna rinunciare all’ideologia mercantile della crescita perpetua, come pure alle perverse politiche industriali ed economiche basate su di essa. La tesi dei Limiti dello Sviluppo è da seguire. Un passo razionale verso la fine dell’espansione economica di sfruttamento è la soppressione dei sussidi pubblici a quelle industrie che inquinano l’acqua, la terra o l’aria e/o distruggono organismi e suoli. Una filosofia di simbiosi, di vita in modo conforme alla posizione di membro delle comunità della Terra, assicurerà il ripristino di ecosistemi capaci di produzione evolutiva. Per le economie sostenibili, le linee-guida sono qualitative, non quantitative. “Conserva la salute, la bellezza e la stabilità di terra, acqua ed aria, e la produttività ne sarà la naturale conseguenza.” (E.F. Schumacher – Piccolo è bello).


Principio 10.- Promuovere un Modo di Governare Ecocentrico


Le concezioni omocentriche di governo che incoraggiano il super-sfruttamento e la distruzione degli ecosistemi della Terra devono essere sostituite da quelle che privilegiano la sopravvivenza e l’integrità dell’Ecosfera e dei suoi componenti. È necessario che ci siano validi difensori delle strutture vitali e delle funzioni dell’Ecosfera nelle posizioni di membri influenti delle strutture di governo. Questi “ecopolitici”, dotati di buone conoscenze sui processi della Terra e sull’ecologia umana, daranno voce a chi non ne ha. Negli attuali centri di potere, “chi parla per il lupo?” e “chi parla per la foresta pluviale temperata?”. Queste domande hanno un significato ben più che metaforico; esse rivelano la necessità di salvaguardare legalmente le molte componenti essenziali non-umane dell’Ecosfera.


E’ necessario promulgare un corpo di leggi ambientali che conferisca valore legale alle strutture e alle funzioni vitali dell’Ecosfera. Nazione per nazione, devono essere elette o nominate nelle strutture governative persone ecologicamente responsabili. Opportuni avvocati-custodi saranno i difensori degli ecosistemi e dei loro processi fondamentali quando sono minacciati. Le questioni saranno esaminate sulla base della conservazione dell’integrità degli ecosistemi, non del perseguire un guadagno economico. Al trascorrere del tempo, come conseguenze pratiche della filosofia ecocentrica, si evidenzieranno nuove visioni e dottrine nella legge, nella politica e nell’amministrazione, e avranno come conseguenza modi di governare ecocentrici. L’implementazione avverrà necessariamente con lentezza passo dopo passo sul lungo termine, via via che la gente proverà le modalità pratiche per rappresentarsi e assicurare il benessere delle parti non-umane essenziali della Terra e dei suoi ecosistemi.


Principio 11. –Diffondere il Messaggio


Coloro che sono d’accordo con i principi elencati hanno il dovere di diffonderli attraverso l’istruzione e la guida. Il compito iniziale più urgente è far prendere coscienza a tutti della loro dipendenza funzionale dagli ecosistemi della Terra, così come dei loro legami con tutte le altre specie. Ne consegue uno slittamento di importanza dall’omocentrismo all’ecocentrismo, e questo porta ad un regolatore etico esterno per le azioni umane. Tale spostamento ci segnala cosa dobbiamo fare per conservare il potenziale evolutivo ininterrotto di un’Ecosfera meravigliosa. Questo rivela la necessità di partecipare alle attività della saggia comunità della Terra, dove ciascuno gioca un suo ruolo personale nel sostenere la splendida realtà che lo circonda.


Questo Manifesto Ecocentrico non è anti-umano, tuttavia respinge l’omocentrismo sciovinistico. Promuovendo la ricerca di valori permanenti – una cultura di condiscendenza e simbiosi con questo unico Pianeta Vivente – fa sviluppare una visione unificante. La prospettiva opposta, che guarda verso l’interno senza la comprensione dell’esterno, è sempre un pericolo, come dimostrano chiaramente le religioni, le sette e le ideologie umanistiche, in continuo conflitto fra loro. La diffusione del messaggio ecologico, che pone l’enfasi sulla realtà esterna condivisa dall’umanità, apre una via nuova e promettente verso la comprensione internazionale, la cooperazione, la stabilità e la pace.



Etica della terra



“Stavamo mangiando su una sporgenza rocciosa, ai cui piedi un torrente turbolento piegava a gomito. Vedemmo quello che pensammo fosse una cerva guadare, immersa fino al torace nell’acqua bianca spuma. Quando si arrampicò sulla sponda dalla nostra parte e scosse la coda ci accorgemmo del nostro errore: era un lupo. Un’altra mezza dozzina, evidentemente piccoli già cresciuti, balzò dal folto dei salici, radunandosi per dare il benvenuto, scodinzolando e litigando giocosamente. Insomma, un vero e proprio mucchio di lupi si agitava e ruzzolava allo scoperto proprio sotto il nostro masso.

A quei tempi non avevamo mai sentito che qualcuno si lasciasse sfuggire l’occasione di uccidere un lupo. In un attimo stavamo scaricando piombo sul branco, con più eccitazione che precisione.......

Raggiungemmo l’animale agonizzante, che era una lupa, in tempo per vedere un feroce fuoco verde spegnersi nei suoi occhi. Mi resi conto allora, e non l’ho mai dimenticato, che c’era qualcosa di nuovo per me in quei occhi, qualcosa che solo lei e la montagna sapevano. A quel tempo era giovane e mi prudeva il dito sul grilletto; pensavo che meno lupi significasse più cervi, e quindi niente lupi equivalesse al paradiso dei cacciatori. Ma quando vidi spegnersi quel fuoco verde, sentii che né la lupa, né la montagna condividevano quel punto di vista......

Forse è proprio questo che significa il detto di Thoreau: ‘La salvezza del mondo si trova nella natura selvaggia’. Forse questo è il significato nascosto nell’ululato del lupo, che le montagne conoscono da molto tempo, ma che gli uomini raramente percepiscono” (A. Leopold, 1949-1997).

Nella società contemporanea per una reale conservazione degli spazi naturali e per poter adempiere ad uno sviluppo sostenibile della comunità umana è necessario mettere in gioco molteplici atti pratici, ma che prendano le mosse dall’acquisizione di una nuova mentalità che ormai, pur se in forma ancora embrionale, serpeggia in una qualche misura nel mondo. Ecco dunque affacciarsi la necessità di esprimere al meglio e con la massima chiarezza una nuova etica della terra in cui, la sommatoria di svariati aspetti, deve portare al radicamento di una conoscenza che può palesarsi nella realtà effetttiva delle cose. Non è infatti sufficiente parlare di conservazione della natura o di un nuovo stile di vita disquisento solamente su ciò che si dovrebbe fare, ma è fondamentale portare alle luce numerose questioni che riguardano soprattutto la politica, la società, la filosofia più profonda. In altri termini se non si radica nella mente del genere umano una visione olistica del tutto, ogni discorso avulsamente inalberato per affermare la giusta via, non trova nessuna base concreta di attuazione. “Che cosa ha a che fare la filosofia con i problemi ecologici? Non è forse meglio che parlino la chimica, la biologia, la geografia, l’ingegneria oppure la sociologia e la politologia? L’incombere della catastrofe ecologica provoca reazioni di rassegnazione o di cinico edonismo e trova le sue radici nella frammentazione del sapere e delle sue tecniche che sta anche alla base della crisi filosofica attuale. Il compito della filosofia appare allora quello di domandarsi come l’uomo sia arrivato a minacciare l’intero pianeta e che senso abbia, in questa prospettiva, l’idea tradizionale di progresso. Ma non solo: la filosofia deve individuare nuovi valori e categorie per reimpostare il rapporto uomo-natura in modo da formare esseri umani in grado di affrontare la crisi. Ecologia è, letteralmente, dottrina della casa. Ma oltre la dimora materiale, la Terra, è necessario ricostruire la dimora spirituale (e con essa una nuova idea della politica) che garantirà la sopravvivenza della casa planetaria” (quarto di copertina in Hosle, 1992).

A questo punto appare fondamentale ricordare i concetti, più volti citati in questo lavoro, che espresse Aldo Leopold (simbolicamente la sua presa di coscienza partì proprio dal giorno che vide spegnersi quel “fuoco verde” degli occhi della lupa). Infatti nella sua “Etica della terra” contenuta nel suo capolavoro “A Sand County Almanc”(1949, 1997), un libro che rappresenta una pietra migliare per la mentalità conservazionista, Leopold va oltre l’antropocentrismo ed elabora l’“etica della terra”; tutte le etiche si basano su un’unica premessa: che l’individuo è un membro di una comunità di parti interdipendenti ... una volta che si riconosce questo è difficile negare i diritti alle varie parti ... l’uomo essendo membro della comunità biotica della terra non può negare a questa i suoi diritti. Una decisione è giusta quando tende a preservare l’integrità, la stabilità, la bellezza della comunità biotica. E’ sbagliata quando tende all’opposto (Pagano, 2001). Con questo semplice ed acuto ragionamento Leopold è considerato la fonte più importante del biocentrismo moderno e dell’etica olistica. Scrive sempre Pagano (2001): “….. la natura non era solo un oggetto di cui l’uomo poteva disporre a piacimento. Leopold capì che rimanendo ancorati alle banalità quotidiane il pensiero diventa incapace di percepire la grandiosità della natura……. Nessuna, fino ad allora, aveva pensato ad un’etica che operasse a livello di specie, habitat e persino a processi ecosistemici. In quel breve ragionamento Leopold sostiene che l’etica umana impone dei limiti al singolo uomo in quanto parte di una comunità di parti interdipendenti: la società umana. Ma, allargando il ragionamento, se la specie umana riconosce il suo ruolo di parte integrante delle comunità ecologiche deve anche, automaticamente, riconoscere i diritti della natura. La consapevolezza di essere ‘compagni di viaggio’ degli altri essseri naturali implica che la natura ha un valore proprio indipendente da quello che gli dà l’essere umano. Scrive a tal proposito Leopold:’In breve, un’etica terresstre modifica il ruolo dell’Homo sapiens da conquistatore della terra a semplice membro e cittadino della sua comunità’”.

Ma come abbiamo accennato poc’anzi, l’affermazione di una nuova etica della terra deve confrontarsi, per poter essere realmente metabolizzata, con numerosi eventi sociali, politici e filosofici. “Il problema non è più se i problemi ambientali siano meglio risolvibili attraverso l’azione etica o l’azione politica, bensì se questi problemi siano risolvibili attraverso un’azione complementare a entrambi i livelli.

Perché questo duplice approccio alla soluzione dei problemi ambientali possa funzionare, come lo stesso Leopold vedeva chiaramente, lo Stato democratico deve educare i cittadini a quei valori ambientali che sono necessari sia per l’azione etica sia per quella politica……..L’obiettivo dell’insegnamento dei valori non deve essere l’indottrinamento, ma il chiarimento…..” (Hargrove, 1990).

Il concetto di chiarimento è molto importante perché pone la questione su un punto fondamentale: un’etica della terra biocentrica ed olistica non deve tanto essere insegnata come qualcosa partorita da un atteggiamento filosofico e metafisico avulso dalla realtà, ma semplicemente come qualcosa che è già in essere, sin dalla formazione del pianeta terra, un qualcosa che solo nel corso dei millenni il cammino dell’uomo l’ha smarrito dalla sua dimensione e che ora non lo vede più o al massimo lo percepisce molto debolmente. In altri termini non si deve affermare qualcosa di inventato da una nuova visione della vita, ma bensì “chiarire” che i precetti non antropocentrici sono già in essere nella realtà della madre terra sia a livello biotico che abiotico. Ecco dunque l’appello affinché la nuova etica della terra (occorre dire nuova perché se un tempo era presente, cammin facendo, come detto, l’abbiamo completamente smarrita), si riappropri del proprio essere e rientri trionfante nella visione del tutto da parte del genere umano.

Il compito di questo chiarimento non è affatto semplice, anche se stiamo parlando di qualcosa che esiste già, perché l’uomo contemporanea si è gettato a capofitto verso precetti che lo vedono sempre più al centro delle cose con la pretesa che ogni elemento è di sua esclusiva proprietà e lo utilizza a suo libero, ma insensato piacimento. “Ci possono essere innumerevoli scale di valori, ma da quanto accennato è evidente che il primo valore dovrebbe essere quello di consentire la vita della Biosfera, da cui dipendiamo: la sopravvivenza della Terra è essenziale.

L’etica della Terra non è solo una posizione filosofica, è soprattutto una necessità per mantenere in vita e in salute l’Organismo cui apparteniamo, assieme alle altre specie, agli ecosistemi, all’atmosfera, al mare, ai fiumi, alle montagne”. (Guido Dalla Casa).

Un riassunto schematico sui principi basilari di una reale etica della terra sono simili a quelli esposti nel capitolo sull’ecologia profonda, ma per una maggiore chiarezza e completezza è bene riesporli con ulteriore aggunte e precisazioni (da Devall & Sessions, 1989, modificato):


1. Il benessere e la prosperità della vita umana e non umana sulla Terra hanno valore per se stesse (in altre parole: hanno un valore intrinseco o inerente). Questi valori sono indipendenti dall’utilità che il mondo non umano può avere per l’uomo.

2. La ricchezza e la diversità delle forme di vita contribuiscono alla realizzazione di questi valori e sono  inoltre valori in sé.

3. Gli uomini non hanno alcun diritto di impoverire questa ricchezza e diversità a meno che non debbano soddisfare esigenze vitali.

4. La prosperità della vita e delle culture umane è compatibile con una sostanziale diminuizione della popolazione umana: la prosperità della vita non umana esige tale diminuizione.

5. L’attuale interferenza dell’uomo nel mondo non umano è eccessiva e la situazione sta peggiorando progressivamente.

6. Di conseguenza le scelte collettive devono essere cambiate. Queste scelte influenzano le strutture ideologiche, tecnologiche ed economiche fondamentali. Lo stato delle cose che ne risulterà sarà profondamente diverso da quello attuale.

7. Il mutamento ideologico consiste principalmente nell’apprezzamento della qualità della vita come valore intrinseco piuttosto che nell’adesione a un tenore di vita sempre più alto. Dovrà essere chiara la differenza tra ciò che è grande qualitativamente e ciò che lo è quantitativamente.

8. Le culture religiose antropocentriche devono mutare radicalmente la loro visione e diffondere il pricipio ecocentrico della terra.

9. Le forze che devono promuovere una visione olistica del tutto devono operare con sinergia e coinvolgere una multitudine di settori: sociologia, politica, economia, filosofia, scienza, ecc.

10. Il concetto del valore vita non deve essere riferito nelle dissertazioni solo nella sfera umana, ma deve comprendere ogni forma di essere vivente.

11. Nell’attuale diffusione della globalizzazione occorre universalizzare concetti di valore olistici ed ecocentrici e non solo aspetti di utilità economica e liberalistica. Occorre inoltre diffondere a livello mondiali precetti di sobrietà, parsimonia ed semplificazione dello stile di vita.

12. I parametri fondamentali di uno stato non devono essere misurati solo dal punto di vista economico (la cosiddetta crescita illimitata, lo sviluppo, il PIL, ecc.), ma soprattutto dalla qualità ambientale, sociale e dalla più assoluta preservazione degli spazi naturali.

13. Occorre pensare che i dovuti cambiamenti devono cominciare dal singolo e non solo dalla società nella sua interezza, altrimenti con la scusa che in generale nulla cambia, anche il singolo non opera in nessun campo. Si riccorda che la moltitudine è fatta dalla somma di tante singole unità.

14. Ricordarsi sempre di proteggere e sviluppare al massimo la biodiversità sulla terra. 

15. Chi condivide i punti precedenti è obbligato, direttamente o indirettamente, a tentare di attuare i cambiamenti necessari.


L’etica della terra deve dunque celebrarsi non secondo pricipi relativistici e incasellati in archetipi dogmatici scanditi da visioni unilaterali e miopi, ma occorre mettere in campo una larga gamma di modelli che portano con estrema chiarezza a quel chiarimento che potremmo tradurre anche con il termine “consapevolezza”. E’infatti fondamentale rendere consapevoli i cittadini del mondo per ricondurli, sia pure per gradi, verso quei valori etici e pratici che una volta erano insiti nella visione del quotidiano. Unire le forze, moltiplicare gli sforzi, ma ogni azione deve tendere con fermezza all’affermazione di una olistica etica della terra. Forse il compito e gli intenti potranno sembrare ardui e quasi utopistici, ma almeno un tentativo occorre farlo prima che il mondo degeneri nella catastrofe che è già in essere ed è ad un passo da essere completata!

“Quando si parla di ecologia e protezione della Natura, occuparsi di ‘visioni del mondo’ sembra una cosa più astratta, o meno pratica, rispetto a dare consigli sullo smaltimento dei rifiuti o la conservazione delle foreste, ma è soltanto perché parlare di ‘visioni del mondo’ ha effetti a scadenza molto più lunga. Sono però aspetti che toccano molto più in profondità il comportamento e gli atteggiamenti, rispetto ai più immediati consigli pratici di ecologia spicciola” (Dalla Casa, 1996).

Disse una volta WA-SHA-QUON-ASIN:“Questa non è la voce di Gufo Grigio che parla, ma la voce di un esercito potente e che aumenta in continuazione: i difensori della fauna selvaggia, le cui voci dovranno essere ascoltate. Che le vostre orecchie stiano aperte” (Dickson, 1999). E poi, come già citato in questo libro, per concludere, una sua bellissma quanto eloquente affermazione: “ Voi siete stanchi di questi anni di civilizzazione. Io vengo, e cosa vi offro? Una singola foglia verde”.


Appendice


Riflessione di Albert Schweitzer su etica ed il rispetto per ogni forma di vita


Dott. Albert Schweitzer (1875-1965)

Missionario e statista, Premio Nobel per la pace nel 1952

In Here's Harmlessness: An Anthology of Ahimsa, compilato da H. Jay Dinshah (fondatore della Società Vegana Americana) si trovano citazioni da Schweitzer, inclusa la seguente: “Sono conscio del fatto che mangiare carne non concordi con i sentimenti più nobili dell’animo umano e per questo evito di farlo ogni volta che posso”.

Da The Vegetable Passion, di Janet Barkas (New York, 1975): “...Schweitzer considerava il vegetarismo come una sorta di rispetto reverenziale per la vita e si doleva del fatto di non poter raggiungere pienamente quell’obiettivo, almeno non come avrebbe voluto. Durante i suoi ultimi anni di vita divenne un vegetariano più coerente: pare che Barkas ricevette queste informazioni da “Anita Daniel, la quale condivise molti pranzi e molte cene con Schweitzer, nella sua residenza del villaggio di Gunsbach, in Alsazia”.

Citazioni:

L’uomo non troverà la pace interiore finché non imparerà ad estendere la propria compassione a tutti gli esseri viventi. - The Philosophy of Civilisation

La coscienza tranquilla è un’invenzione del diavolo. - The Philosophy of Civilisation

Verso la fine del terzo giorno, nel momento stesso in cui, al tramonto... mi balenò alla mente, inattesa e repentina, la frase: “Rispetto reverenziale per la vita”.

Un uomo è etico solo quando la vita, in quanto tale, è sacra per lui, quando rispetta la vita di piante ed animali, così come quella del suo prossimo, e solo quando dedica tutto se stesso all’opera di sostegno di tutte quelle forme di vita che necessitano di aiuto.

Qualsiasi religione, o filosofia, non basata sul rispetto per la vita non è una vera religione o una vera filosofia. - Lettera ad un’organizzazione animalista giapponese, 1961

Ciò che più di tutto fa di un essere umano un vero uomo è la sua empatia per tutte le creature viventi.

Quando aiuto un insetto in difficoltà non faccio altro che cercare di espiare una parte delle colpe dovute ai crimini [degli esseri umani] contro gli animali.

Questa è la mia formica personale. Ti riterrò responsabile se le romperai le zampe (ad un bambino di dieci anni).

La felicità? Un’ottima salute e una pessima memoria, niente di più!.

Non si può permettere che qualcuno consideri leggero il peso delle proprie responsabilità. Finché vengono perpetrati tanti maltrattamenti ai danni degli animali, finché i gemiti degli animali assetati, imprigionati in vagoni merci, continuano a non essere ascoltati, finché tanta brutalità ha la meglio nei nostri mattatoi... siamo tutti colpevoli. Ogni essere vivente è prezioso proprio perché vive, perché rappresenta una delle manifestazioni evidenti di quel mistero che chiamiamo vita.

Secondo il pensiero europeo moderno stiamo vivendo una vera e propria tragedia: i legami originari tra un atteggiamento positivo nei confronti del mondo e l’etica si stanno lentamente ma irreversibilmente allentando e alla fine verranno troncati del tutto. - Out of My Life and Thought

Lo spirito dell’uomo non è morto. Continua a vivere in segreto... È giunto a credere che la compassione, sulla quale si devono basare tutte le filosofie morali, può raggiungere la massima estensione e profondità solo se riguarda tutti gli esseri viventi, e non solo gli esseri umani. - Discorso tenuto alla consegna del Premio Nobel per la pace: The Problem of Peace in the World Today.

La nostra civiltà non ha sentimenti umani. Siamo uomini troppo poco umani! Dobbiamo riconoscerlo e cercare di trovare una nuova spiritualità. Abbiamo perso di vista questo ideale, occupati come siamo a pensare agli affari degli uomini, anziché al fatto che la nostra bontà e compassione dovrebbero estendersi a tutte le creature. La religione e la filosofia non hanno insistito abbastanza sul fatto che dovremmo essere buoni e compassionevoli con tutti gli esseri viventi.- Letter to Aida Flemming, 1959

Nostro dovere è prendere parte alla vita e averne cura. Il rispetto reverenziale per tutte le forme di vita rappresenta il comandamento più importante nella sua forma più elementare. Ovvero, espresso in termini negativi: "Non uccidere". Prendiamo così alla leggera questo divieto che ci troviamo a cogliere un fiore senza pensarci, a pestare un povero insetto senza pensarci, senza pensare, orribilmente ciechi, non sapendo che ogni cosa si prende le proprie rivincite, non preoccupandoci della sofferenza del nostro prossimo, che sacrifichiamo ai nostri meschini obiettivi terreni. - Reverence for Life

Affermare la vita significa rendere più profonda, più interna la voglia di vivere ed esaltarla. Allo stesso tempo l’uomo, divenuto un essere pensante, si sente obbligato ad accordare a tutti gli esseri dotati di voglia di vivere lo stesso rispetto reverenziale di cui investe la propria esistenza. Percepisce la vita altra come simile alla sua. Comprende ciò che è bene: preservare la vita, valorizzare al massimo la vita in grado di svilupparsi; e comprende ciò che è male: distruggere la vita, nuocere alla vita, reprimere la vita in grado di svilupparsi. Questo è il principio assoluto, fondamentale, della morale ed è una necessità del pensiero. - Citato in A Treasury of Albert Schweitzer, ed. Kiernan.

Brani vari tratti da 'Memoirs of Childhood and Youth':

Ricordo di aver sempre sofferto a causa della grande miseria che vedevo nel mondo. Non ho mai conosciuto la gioia di vivere spontanea propria della fanciullezza e penso che molti bambini si sentano così, anche se spesso, visti dall’esterno, sembrano completamente felici e senza preoccupazioni.

Ciò che mi faceva più soffrire era vedere dei poveri animali costretti a sopportare così tanto dolore e tante privazioni. La vista di un cavallo vecchio e zoppicante trascinato da un uomo mentre un altro lo colpiva con un bastone mentre veniva portato al mattatoio di Colmar mi perseguitò per settimane.

Era una proposta terribile [che Albert, di otto anni, passasse il tempo con un amichetto ad uccidere gli uccelli con una fionda]... ma non osai rifiutare, perché avevo paura che avrebbe riso di me. Andammo quindi vicino ad un albero, ancora quasi del tutto spoglio, dove gli uccellini cantavano allegri al mattino e non avevano per niente paura di noi. Poi, come un indiano curvo sulla preda, il mio compagno mise un sasso nella fionda e tirò. Obbedendo al suo sguardo autoritario, feci lo stesso, non senza spaventosi rimorsi di coscienza, giurando solennemente a me stesso che avrei sparato quando lo avesse fatto anche lui. Nello stesso istante le campane della chiesa iniziarono a suonare, fondendosi in un’unica melodia con il canto degli uccelli sotto il sole. Era la campana di avviso, che suonava mezz’ora prima della campana vera e propria. Per me era come una voce proveniente dal paradiso. Buttai a terra la fionda, facendo fuggire gli uccelli, che erano così al sicuro dalla fionda del mio compagno e fuggii a casa. Da allora, ogni volta che le campane della Settimana Santa suonano tra gli alberi senza foglie, sotto il sole, ricordo con immensa gratitudine il modo in cui, allora, risuonò nel mio cuore il comandamento Non uccidere.

Solo una parte irrilevante delle immense crudeltà commesse dagli uomini può essere ascritta ad istinti crudeli. La maggior parte di esse è dovuta a superficialità o ad abitudini consolidate. Le radici della crudeltà, quindi, sono più diffuse di quanto non siano forti. Ma forse verrà il giorno in cui l’inumanità, protetta dalle abitudini e dalla superficialità, soccomberà di fronte all’umanità difesa dalla riflessione. Lasciateci lavorare per far sì che questo giorno arrivi.


Brani vari tratti da 'Civilization and Ethics'

Qual è la natura di tale degenerazione, imperante nella nostra civiltà, e perché si è creata? ... Ciò che rende la nostra civiltà un disastro è il fatto che sia molto più sviluppata materialmente che spiritualmente. C’è uno squilibrio... Ora i fatti ci invitano a riflettere. Ci dicono con parole terribilmente crude che una civiltà che si sviluppa solo dal lato materiale e non nella propria sfera spirituale... si avvia al disastro.

L’etica del rispetto reverenziale per la vita ci spinge a condividere quanto ci turba e a parlare e agire insieme senza paura per alleggerire la responsabilità di ciò che proviamo. Ci mantiene uniti nella ricerca di un’opportunità per aiutare in qualche modo gli animali, per risarcirli dell’immensa miseria arrecata loro dagli uomini e così per un momento fuggiamo dall’incomprensibile orrore dell’esistenza.

Devo interpretare le vita che mi circonda nello stesso modo in cui interpreto la mia. La mia vita è molto significativa per me. La vita che mi circonda deve essere significativa per se stessa. Se mi aspetto che gli altri rispettino la mia vita, io devo rispettare quella degli altri, per quanto strana mi possa sembrare. E non solo la vita umana, ma la vita di tutti gli esseri: le forme di vita di livello superiore al mio, se esistono; quelle di livello inferiore, che so che esistono. L’etica, come viene intesa nel mondo occidentale, è stata finora limitata ai rapporti tra uomini. Ma questa etica è limitata. Abbiamo bisogno di un’etica più vasta, che includa anche gli animali.

L’uomo è veramente etico quando rispetta l’obbligo di aiutare tutte le forme di vita che è in grado di aiutare, e quando, per evitare di danneggiare un essere vivente, cambia i suoi progetti. Non chiede in che misura questo o quell’essere vivente meriti simpatia, né se questo sia capace di provare sentimenti. Per un uomo etico la vita è sacra per se stessa. Se, dopo un temporale, quest’uomo esce in strada e vede un verme smarrito, penserà sicuramente che quel verme morirà disidratato al sole se non penserà a dargli immediatamente del terreno umido dove poter strisciare, perciò lo porta via dal mortale selciato di pietra e lo deposita nell’erba verde. Se, passando, dovesse vedere un insetto caduto in una pozza, perderebbe un po’ del suo tempo a cercare una foglia o uno stelo su cui l’insetto potrà arrampicarsi e così salvarsi.

L’uomo, divenuto un essere pensante, sente il dovere di dare ad ogni voglia di vivere lo stesso rispetto reverenziale per la vita che dà a se stesso. Percepisce tale vita altra nella propria.

L’uomo pensante deve opporsi a tutte le pratiche crudeli, per quanto profondamente radicate nella tradizione e circondate da un’aureola di santità. Nel momento in cui abbiamo la possibilità di scegliere, dobbiamo evitare di causare tormento e danno alla vita altrui, perfino quella della più piccola creatura; fare altrimenti significa rinunciare al nostro essere uomini e sobbarcarci una colpa ingiustificabile.

Destino di ogni verità è quello di essere oggetto di ridicolo la prima volta che viene pronunciata. In passato venne considerato pazzesco supporre che gli uomini di colore fossero esseri umani come gli altri e che dovessero essere trattati come tali. Ciò che in passato era una follia ora è una verità riconosciuta. Oggi proclamare il rispetto costante per tutte le forme di vita, nell’ambito di una richiesta seria di un’etica razionale, viene considerata un’esagerazione. Si sta però avvicinando il giorno in cui la gente sarà stupita che la razza umana sia vissuta tanto tempo prima di capire che nuocere distrattamente alla vita è incompatibile con una vera etica. L’etica è, nel senso più vasto del termine, un senso di responsabilità esteso a tutto ciò che ha vita.


L’etica della terra

di Guido Dalla Casa


Premesse

Oggi sappiamo abbastanza bene che cosa è l’uomo: è un animale, fa parte in tutto e per tutto dei cicli naturali, si nutre, si sviluppa, si riproduce e muore come gli altri mammiferi. Anche il suo comportamento è qualitativamente riconducibile a quello degli altri animali più simili. La differenza di informazione genetica rispetto a uno scimpanzé è di poco superiore all’uno per cento.

La percezione dell’appartenenza della nostra specie alla Natura avrebbe dovuto  essere accolta con grande serenità; era come liberarsi da un peso inutile. Invece non è stato così, o forse non ancora, almeno nella cultura occidentale. Nel linguaggio corrente, nell’etica, nel diritto, l’uomo è ancora considerato in contrapposizione con l’idea di animale. Per inciso, quanto sopra detto non significa necessariamente che l’uomo sia soltanto un animale.

Nella cultura occidentale, e quindi ormai in tutto il mondo, ancora oggi la nostra specie non è di fatto considerata una parte della Biosfera, ma come un elemento esterno rispetto al quale si misura ogni valore. Tanto è vero che l’espressione “l’ambiente” sottintende spesso “l’ambiente dell’uomo”, che resta l’unico riferimento per tutte le considerazioni etiche. Anche i cosiddetti ambientalisti parlano di solito di “tenere pulita la nostra casa”, conservare il “patrimonio di tutti”, consegnare la Terra in buono stato alle generazioni future. Il riferimento costante, considerato ovvio, è l’uomo. Oggi invece sappiamo che l’uomo non è nella posizione di “abitante di una casa”, ma è come un gruppo di cellule di un Organismo, da cui dipende totalmente. Infatti l’ecosistema globale è un Organismo e non “l’ambiente dell’uomo”: questa posizione della nostra specie deve ancora essere recepita dalle correnti filosofiche occidentali, oltre che da tutte le istituzioni.

La posizione “esterna” dell’uomo, esportata in tutto il mondo sull’onda della tumultuosa espansione dell’Occidente, è il sottofondo di pensiero che ha provocato i grossi guai in cui ci troviamo. Considerare l’uomo al di sopra o al di fuori dell’ecosistema ha causato anche il drammatico aumento di popolazione umana e la spaventosa crescita dei consumi che hanno caratterizzato gli ultimi due secoli.



Il funzionamento della Biosfera 

Per usare il linguaggio della teoria dei sistemi, un essere vivente è un sistema che si mantiene in situazione stazionaria lontana dall’equilibrio termodinamico. In altre parole, vive finché un flusso di energia lo attraversa continuamente senza che si alterino le sue condizioni generali, se si trascurano le piccole oscillazioni attorno ai valori standard. Il vivente è un sistema omeostatico, cioè è in grado di mantenersi nelle condizioni vitali autocorreggendo le variazioni accidentali non troppo grandi attraverso interazioni fra tutti i suoi sottosistemi, componenti e flussi energetici.

La Biosfera nel suo complesso si comporta come un sistema vivente, anche se in generale su tempi più lunghi. Si noti che questo discorso è indipendente dalle considerazioni, di natura metafisica, se sia un essere vivente (Gaia), se sia sede di fenomeni mentali e -in tal caso- fino a che punto sia cosciente.

Anche un ecosistema, ad esempio una porzione abbastanza grande ed inalterata di foresta pluviale equatoriale, si comporta come un sistema stazionario lontano dall’equilibrio, cioè come un essere vivente.

Quando uno di questi sistemi perde le sue capacità di omeostasi per un intervento esterno troppo drastico, si ha la morte dell’essere vivente, o comunque la fine del sistema in quanto tale. I tempi e la gravità degli interventi in grado di provocare fenomeni di questo tipo sono naturalmente molto diversi a seconda del sistema interessato. 

La cultura occidentale, considerando l’uomo al di fuori della Biosfera, ha reso possibile l’aggressione alla Natura che è iniziata da un paio di secoli, cioè da quando  si è data il potere tecnico per farlo. A causa del modo di funzionare di questo modello culturale che sta invadendo tutta la Terra, le capacità omeostatiche complessive del Pianeta non sono più in grado di riportarlo in condizioni stazionarie. Inoltre molti ecosistemi vengono distrutti e non possono essere sostituiti con altri “artificiali”, perché questi ultimi dipendono spesso da interventi permanenti esterni per essere mantenuti in condizioni vitali. Come esempio, non possiamo illuderci che la riforestazione riporti in vita la foresta originaria: è meglio di niente, ma non può sostituire la ricchezza di vita e di spiritualità di una foresta naturale. 

In realtà la Terra è stazionaria solo se si considerano tempi dell’ordine di decenni, o secoli, non lo è più se consideriamo tempi dell’ordine di milioni di anni: il problema sta nel fatto che le modifiche causate dalla civiltà industriale nei cicli naturali hanno velocità dieci-centomila volte più grandi di quelle normali, che consentono alla vita di adattarsi gradualmente alle nuove situazioni. Usando un linguaggio non rigoroso, in natura è come se si passasse da una situazione stazionaria ad un’altra, senza  transitori “pericolosi”. Comunque, agli effetti delle considerazioni qui esposte, è come se la Terra vivesse in situazione realmente stazionaria.

Oggi ci troviamo durante un transitorio “veloce”: il modo di procedere attuale non può durare a lungo. Quindi è probabile che molti parametri che caratterizzano ora il sistema globale non possano essere mantenuti se la Terra si riporta in situazione vitale. In particolare è abbastanza evidente che l’attuale popolazione umana esistente sul Pianeta è eccessiva per consentire alla Biosfera di funzionare, con un livello medio di consumi pro-capite pari a quello attuale. 


Sistema economico e popolazione umana

Il sistema economico, cioè il processo di produrre-vendere-consumare, si può ricondurre ad un’unica variabile, il denaro. Il sottosistema economico non può funzionare in un sistema complesso e stazionario lontano dall’equilibrio, come la Biosfera, che dipende da un gran numero di variabili. In sostanza il processo economico impedisce l’omeostasi della Biosfera: il sistema complessivo cessa di essere stazionario. In un  vivente questo corrisponde alla morte dell’organismo. Se poi consideriamo che il sistema economico attuale per mantenersi deve essere in crescita, a maggior ragione risulta chiaro che è incompatibile con il funzionamento del sistema più grande di cui fa parte.

Un’economia complessivamente in crescita può soltanto essere un transitorio, un fenomeno patologico nella Biosfera, che porta necessariamente verso un punto “di catastrofe”. Questo è un elemento di ottimismo: il vero pessimismo è prevedere la continuazione degli andamenti attuali, che portano ad un mondo degradato, alla scomparsa  della biodiversità, a psicopatie e criminalità, alla fine della varietà e della bellezza del mondo. 

L’uomo non evita mai le catastrofi, ma ne guarisce: speriamo che sia vero. 


È sorprendente notare che esistono ben poche ricerche su un problema come quello del numero massimo di umani che la Terra può sopportare: ad esempio, nello studio riportato nel libro Assalto al pianeta di Pignatti e Trezza (Bollati Boringhieri, 2000) si parla di una popolazione ammissibile inferiore ai due miliardi di individui, in accordo con i valori di una ricerca effettuata all’Università Cornell. In una delle proiezioni ipotizzate nel famoso rapporto I limiti dello sviluppo si perveniva ad una situazione stazionaria solo stabilizzando la popolazione mondiale attorno al 1975, il che corrispondeva ad un numero di umani di poco inferiore a quattro miliardi, con un livello di consumi medio pro-capite minore di quello attuale. Sei miliardi di umani possono stare sul pianeta solo per tempi molto limitati, perché vivono e consumano “divorando” la Terra.

Al di là di considerazioni numeriche, è comunque abbastanza evidente che, se si vogliono aumentare i consumi pro-capite, è necessario diminuire la densità di popolazione umana.

Potrebbe essere un compito della scienza valutare se un prodotto può essere realizzato e in quale quantità senza mettere in pericolo il funzionamento vitale della Terra. Come esempio, è presumibile che, se si vogliono costruire e far circolare auto private con motore a scoppio, la popolazione mondiale debba essere molto inferiore al miliardo di abitanti, ipotizzando un’auto per famiglia. 



Competizione e selezione

Una delle concezioni di fondo della nostra società è l’idea che competizione e selezione siano una specie di “molla del progresso”, anzi siano addirittura il modo di evolversi della vita. Quando, verso la metà dell’Ottocento, comparve l’idea dell’evoluzione biologica, furono messe in grande evidenza, come fattori quasi esclusivi dell’evoluzione, la lotta per la vita e la sopravvivenza del più adatto. Invece la novità principale era l’appartenenza della nostra specie alla Natura, con tutte le conseguenze che questo comporta. L’idea della sopravvivenza del più adatto come fattore di “progresso” non era una constatazione biologica, ma un bisogno della nascente civiltà industriale. I recenti studi di Lynn Margulis hanno evidenziato che l’evoluzione biologica è stata in gran parte frutto della cooperazione e della simbiosi fra organismi unicellulari durante almeno un miliardo di anni.

Con questo non si vuol dire che la competizione in natura non esista: è un fattore fra tanti.



La sacralità della Terra

Assieme all’operazione di essersi tirato fuori dalla Biosfera, ponendosi “al di sopra” di essa, l’uomo occidentale ha tolto l’anima al mondo. Ma oggi, anche senza uscire dalla nostra cultura, alcuni pensatori hanno ampliato il concetto di mente fino a renderlo indipendente dal supporto di un sistema nervoso centrale: la mente sarebbe semplicemente frutto di una certa complessità (Gregory Bateson). Anche lo psichiatra junghiano James Hillmann insiste spesso sull’idea di “Anima del mondo”. Da vie diverse ricompare la mente nella Natura, anche se per ora si tratta di idee con scarsa diffusione, sempre limitandosi alla cultura occidentale.

Ricordiamo che, oltre alle filosofie di spiriti più o meno isolati, ci sono le religioni, che hanno un’influenza ben maggiore sulle moltitudini.

Uno dei compiti principali delle religioni potrebbe essere quello di fornire una visione del mondo in cui inquadrare i fenomeni e di dare prescrizioni morali che non riguardino qualche problema immediato o a breve termine o solo questioni umane,  ma che preservino la salute della Terra, in quanto bene in sé: questo compito non può essere affidato né alla politica, né ad istituzioni “pratiche”.

Le religioni, più che pensare a quale sia “la verità”, potrebbero diffondere sentimenti di empatia e di amore verso tutti gli esseri senzienti, cioè verso tutte le entità naturali. 

A questo riguardo le tradizioni filosofico-religiose che maggiormente si sono preoccupate del bene  del  complesso naturale a tempo indefinito sono state alcune tradizioni di origine orientale (Buddhismo, Jainismo, Taoismo) e alcune culture animiste, soprattutto quelle native del continente americano. Spesso la percezione che si trattava di prescrizioni “ecologiche” non era molto evidente, almeno agli europei. 

Ho citato prima alcuni pensatori di formazione occidentale, a cui aggiungerò il biochimico e filosofo Rupert Sheldrake, che scrive: 

Che cosa cambia se consideriamo la Natura viva piuttosto che inanimata? Primo, mettiamo in crisi le ipotesi umanistiche su cui la civiltà moderna è basata. Secondo, instauriamo un rapporto diverso con il mondo naturale e acquistiamo una prospettiva diversa della natura umana. Terzo, diventa possibile una nuova sacralizzazione della natura. (La rinascita della Natura, Ed. Corbaccio, 1993).


Mi sono limitato agli scritti più recenti: si tratta di casi isolati, che non hanno avuto in pratica molto seguito, ma che comunque esistono.

Se non altro, riescono a mettere in evidenza che, perché sia presente il senso del sacro, non è assolutamente necessario postulare l’esistenza di un Dio personale ed esterno al mondo e che si occupa esclusivamente degli umani, come nelle tradizioni originarie del Medio Oriente e diffuse nella cultura occidentale.

Per quanto riguarda questi fondamenti religiosi dell’Occidente (anche della parte laica), una modifica positiva dell’atteggiamento verso il mondo naturale si avrebbe se venisse riconosciuta la matrice indiana-buddhista, e non giudaica, dell’insegnamento di Cristo.


Conclusioni

Ci possono essere innumerevoli scale di valori, ma da quanto accennato è evidente che il primo valore dovrebbe essere quello di consentire la vita della Biosfera, da cui dipendiamo: la sopravvivenza della Terra è essenziale.

L’etica della Terra non è solo una posizione filosofica, è soprattutto una necessità per mantenere in vita e in salute l’Organismo cui apparteniamo, assieme alle altre specie, agli ecosistemi, all’atmosfera, al mare, ai fiumi, alle montagne.


Se poi invece della logica sistemica vogliamo ascoltare la voce del cuore o dell’anima, ecco un’espressione di una cultura nativa del continente americano (etnìa Wintu, che si trovava nel nord-ovest degli attuali Stati Uniti):


Quando noi indiani uccidiamo, la carne la mangiamo tutta. Quando estraiamo le radici facciamo piccoli fori: quando costruiamo case facciamo piccoli buchi nel terreno. Non abbattiamo gli alberi: usiamo solo legno già morto. Ma quest’altra razza di uomo ara il terreno, abbatte gli alberi, uccide tutti gli animali. L’albero dice: “Non farlo. Mi fai male. Non ferirmi”.  Ma l’uomo bianco lo abbatte e lo taglia in pezzi. Come può lo Spirito della Terra amare quest’uomo? Dovunque egli ha toccato, la Terra ne è rimasta ferita.



(articolo pubblicato sul numero di marzo 2003 della Rivista ALDAI)




Visione olistica del mondo

di Guido Della Casa



Quando si parla di ecologia e protezione della Natura, occuparsi di “visioni del mondo” sembra una cosa più astratta, o meno pratica, rispetto a dare consigli sullo smaltimento dei rifiuti o la conservazione delle foreste, ma è soltanto perché parlare di “visioni del mondo” ha effetti a scadenza molto più lunga. Sono però aspetti che toccano molto più in profondità il comportamento e gli atteggiamenti, rispetto ai più immediati consigli pratici di ecologia spicciola.


Premesse

Riassumiamo qualche fondamento delle conoscenze attuali incompatibile con il sottofondo culturale ebraico-cristiano e con il dualismo di Cartesio:


- Né la Terra, né il Sole, né niente altro sono al centro di qualcosa: gli astri sono tutti ugualmente granelli nel mare dell’Infinito. Non c’è nessun centro di alcun tipo.


- L’umanità è una specie animale comparsa su uno dei tanti pianeti solo tre milioni di anni fa, contro i tre o quattro miliardi di anni di esistenza della Vita sulla Terra e i quindici o venti miliardi trascorsi dalla presunta nascita dell’Universo, ammesso che il Tutto non sia qualcosa di pulsante ciclicamente da sempre. Quindi il presunto “re del Creato” sarebbe arrivato un po’ tardino, mentre il suo cosiddetto “regno” lo stava aspettando con scarsa impazienza.

Inoltre, ci vuole una bella presunzione a pensare di “migliorare” ciò che ha impiegato quattro miliardi di anni per divenire ciò che è. L’umanità fa parte in tutto per tutto della Natura. I fenomeni vitali sono uguali in tutte le specie.


- La cultura occidentale ha solo due o tremila anni, la civiltà industriale ha duecento anni: si tratta di tempi del tutto insignificanti. Anche il concetto di progresso ha una vita brevissima, non più di due o tre secoli; evidentemente si può vivere anche senza questa idea fissa.

La divisione fra preistoria e storia è solo uno schema mentale della nostra cultura, che serve ad alimentare una certa visione del mondo. Non c’è alcun motivo, né alcuna scala di valori privilegiata, per considerare una cultura migliore o peggiore di un’altra. Si noti poi che si usa chiamare “storia” ciò che è accaduto negli ultimi cinquemila anni alla civiltà occidentale e viene liquidata con l’unica etichetta di “preistoria” tutta la Vita della Terra, cioè quattro miliardi di anni e cinquemila culture umane.


- Il funzionamento mentale essenziale, il comportamento, sono in sostanza simili in tutte le specie animali vicine a noi. In gran parte si tratta di fenomeni non-coscienti.


- La fisica quantistica ha dimostrato l’impossibilità intrinseca di descrivere fenomeni materiali o energetici senza considerare l’osservazione; ciò significa che, senza la mente, la materia-energia è priva di significato, non è in alcun modo descrivibile, è “priva di realtà”, è solo una specie di onda di probabilità. Della fisica meccanicista di Newton resta solo la funzione pratica, anche se nelle nostre scuole di base non c’è traccia del profondo cambiamento avvenuto.


Da questo quadro rinasce una concezione antichissima e assai diffusa: l’animismo. Una forma di “mente” deve essere ovunque, è insita nell’universale, se vogliamo evitare il paradosso dell’”osservatore” che determina la cosiddetta realtà. La distinzione fra spirito e materia cade completamente. Tornano alla memoria il Grande Spirito e lo spirito dell’albero, della Terra, del fiume, del bisonte.

C’è un’altra leggenda da sfatare, quella della cosiddetta neutralità della scienza, o indipendenza della scienza dalle concezioni metafisiche. La scienza ufficiale ricorre spesso a vere acrobazie intellettuali pur di non uscire dal paradigma cartesiano, che considera “ovvio” ed “acquisito”. Così si trova in vie senza uscita, ed a volte è costretta a negare o a non considerare i fatti non inquadrabili in quello schema concettuale, pur di non mettere in discussione le premesse: e allora deve far sparire intere categorie di fenomeni di interferenza macroscopica, o non-distinguibilità, fra spirito e materia, con la scusa che non sarebbero “ripetibili”.

Le gravi difficoltà della fisica provengono dalla disperata insistenza nel volere inquadrare le conoscenze moderne nel paradigma cartesiano.

Eppure ancora oggi, per apparire “moderne”, tante persone amano definirsi “cartesiane” o “razionali”, non sapendo di difendere invece il pensiero dell’Ottocento. Le idee del filosofo francese sono accettate dalla grande maggioranza delle persone semplicemente perché ciò che respiriamo fin dalla nascita ci appare ovvio, il che significa che non ci appare affatto. Ma il primato del razionale sull’emotivo e sull’intuitivo è solo un pregiudizio della cultura occidentale odierna.


Gli opposti

La cultura occidentale vede tutto spaccato in due: questo è già motivo di ansietà; non solo, ma considera “opposte” le due parti e le vive in modo schizofrenico, non le considera due poli indivisibili, due facce della stessa medaglia, due aspetti della stessa cosa.

Pensa che un “polo” sia migliore e pretende di far sparire l’altro polo.

Alcuni scienziati stanno perfino cercando disperatamente il “monopòlo” magnetico, cioè vogliono “scoprire” un polo nord senza il polo sud, cosa risultata finora impossibile. Ma forse anche il monopòlo sarà una creazione della mente. Perfino nel magnetismo sembra che qualcuno consideri il polo nord “un po’ più bello” del polo sud.

Se vogliamo usare la terminologia del Taoismo, l’Occidente vuole un Universo solo Yang: lo Yin deve essere abolito; come se questo avesse senso. Comunque, in tal modo si causa solo angoscia. L’Occidente vuole il sereno senza la pioggia, il tempo unidirezionale e non quello ciclico, vuole la competizione, la supremazia, l’affermazione dell’ego, il progresso verso il futuro come una semiretta. Vuole la vita senza la morte, l’Essere senza il Nulla, l’attività senza la passività, il fare senza il meditare, la crescita senza la diminuzione.

I giornalisti del mondo economico arrivano a non nominare neppure la diminuzione, vogliono esorcizzarla chiamandola “flessione”, che invece è un’altra cosa. Come se fosse possibile avere le montagne senza le valli.

Questo vedere il mondo come complementarietà di Yin e Yang e non come inseguimento di un polo solo è in fondo la filosofia per la quale era ben difficile che in Cina potessero nascere il progresso tecnologico e la civiltà industriale mille anni prima che in Occidente.


Per quanto riguarda la morte, vediamo come è venuta.

Due o tre miliardi di anni orsono, la Terra era popolata di microorganismi che si riproducevano dividendosi in due: quindi non morivano.

C’era a disposizione un patrimonio genetico che poteva rinnovarsi solo con molta lentezza attraverso qualche mutazione. Era assai difficile creare organismi nuovi.

Per consentire il sorgere di varietà, bellezza e spiritualità nella vita bisognava avere tante forme e organismi nuovi: quindi mescolare il tutto in modo molto più rapido e creativo.

Perciò la Natura - che potete chiamare anche Dio - inventò il sesso e la morte.

Ecco perché, da allora, si è resa utile e necessaria la morte per consentire la Vita. La morte è solo l’altra faccia della vita.

Oggi imperano le immagini nate dal computer, che alcuni salutano come non-meccaniche, come olistiche. Ma anche se introducono le idee non-meccaniche di informazione e di relazione, si basano – a livello elementare – su una logica binaria, ancora su un dualismo SI-NO o pieno-vuoto, quindi su una contrapposizione. Inoltre perpetuano la divisione cartesiana, ribattezzata hardware e software.

Ben difficilmente una visione di questo tipo può essere un punto di partenza per fondere o integrare le cosiddette due culture, o un approccio per integrare gli opposti.

La fisica quantistica invece ammette una logica “SI e contemporaneamente NO”, “vuoto e contemporaneamente pieno”, e può accettare posizioni non-quantitative e non-meccaniche. Con l’indeterminazione universale si possono integrare gli opposti vedendoli come complementari e compresenti. Non si tratta di una logica trinaria SI-NO-NON SO ma di una possibilità multipla indeterminata. Anche distinzioni come reale-immaginario, scoperta-invenzione, e così via, perdono significato. Con il nuovo approccio si potrebbe uscire dall’intrico delle innumerevoli particelle che vengono via via “scoperte”: altrimenti si finirà con trovare tutto quello che si cerca, pur di cercarlo in un certo modo, cioè si potranno inventare-scoprire chissà quante altre “particelle” in una sequenza senza fine. Ormai tutte queste “entità” hanno un contenuto mentale a malapena celato dal linguaggio matematico.

Con una eventuale rifondazione concettuale non-cartesiana, non si avrebbe più soltanto una “fisica” nel senso materialistico o prequantistico, ma qualcosa di più, rendendosi sempre più evanescente anche la distinzione fra fisica e metafisica, fra conoscenze “materiali” e “spirituali”. Soprattutto, in questo senso, la nuova fisica può essere il ponte per collegare le cosiddette “due culture” e portare a una progressiva scomparsa della loro distinzione.


Visioni del mondo

Fra le tantissime “visioni del mondo” presenti nell’umanità è assurdo che esista quella “vera” o “giusta” perché questo costituirebbe una inspiegabile asimmetria.

Pertanto l’idea della “verità” è una caratteristica che discende dalla visione cartesiana del mondo “oggettivo” o “reale” che “è” in un certo modo.

Le visioni del mondo sono tutte equivalenti e reali in quanto tali e in quanto manifestatesi in qualche sistema di pensiero. Non può esserci quella più “vera” o più “giusta” delle altre. Altrimenti, come potevano manifestarsi tante visioni diverse e inoltre variabili continuamente nel tempo?

Anche le religioni (componenti essenziali della visione del mondo) sono tutte ugualmente vere o non-vere. Costituiscono il nostro rapporto con l’Invisibile.

Abbiamo già accennato al concetto di verità. Le domande sono assai stimolanti, le cosiddette risposte “definitive” portano solo guai. Non si tratta di chiedersi “Non avrà ragione l’altro?” perché questo presuppone che esista una “ragione”. Non si tratta neppure di “essere sempre in dubbio” perché ciò presuppone qualcosa di sicuro e reale su cui dubitare, significa che si è in dubbio su qualche “verità”.

Il concetto di dubbio presuppone quello di verità. Diverso è abolire l’antitesi vero-falso, considerando i due termini come complementari e compresenti. Così la distinzione fra “i fatti” e “le opinioni” è illusoria, perché quelli che vengono chiamati “fatti oggettivi” sono soltanto le opinioni di un modello culturale umano: nel nostro mondo vengono chiamati fatti reali le opinioni della cultura occidentale. In ogni cultura si forma una verità, che però vale quanto qualsiasi altra.

Comunque il concetto di “verità assoluta” e la conseguente necessità di “scoprirla” possono essere assimilati a una gabbia, a un’oppressione.

L’universale appare come spirito o come materia, a seconda di cosa si cerca. Come il fisico trova particelle o onde a seconda di cosa cerca, così le culture materialiste trovano materia, le culture animiste trovano spiriti.

Ogni disputa su quale sia l’interpretazione “giusta” è priva di significato: è questo dualismo, creato da noi, che fa nascere il problema, altrimenti inesistente.

Solo in assenza del concetto di verità si può vedere qualcosa di assoluto, o non-differenziato. La verità è mutevole e sfuggente, mentre la variabilità è universale e incessante.

Cartesio ci ha condannato alla verità, ma già quattro secoli orsono Montaigne aveva scritto: Il concetto di certezza è la più solenne scemenza inventata dall’essere umano.

Del resto queste non sono neppure novità, se si pensa ad antiche affermazioni, quali ad esempio:


- “Il Tao che può essere spiegato non è il vero Tao” (Lao-Tse);


- “Quello che ho da insegnare non può essere insegnato” (Buddha);


- Infine, alla domanda di Pilato: “Cosa è la verità?”, Cristo rispose con il silenzio.


Per quanto riguarda l’integrazione di opposti del tipo “colui che agisce” e “la materia su cui si agisce”, si noti che le stesse lingue europee ci impediscono di pensare a un processo che avvenga spontaneamente, che abbia in sé la sua ragione d’essere.

Pensiamo sempre a “qualcuno” che agisce, a qualcosa di “esterno” che causa gli eventi. Non siamo psichicamente attrezzati per concepire l’immanenza; così pure traduciamo a volte come non-azione il termine taoista wu-wei, che significa “azione spontanea secondo la natura delle cose”.

Ogni verbo deve avere un pronome per soggetto, un agente: così siamo abituati a pensare che una cosa non sia al proprio posto se non c’è qualcuno o qualcosa che le assegna quel posto, se non c’è un responsabile. L’idea di un processo che avviene totalmente da solo quasi ci spaventa: ci sembra che manchi l’autorità. L’idea del Dio dell’Antico Testamento e il dualismo cartesiano ricompaiono ovunque.


Stabilità e movimento

L’antica divergenza metafisica fra Eraclito e Parmenide, cioè il contrasto fra il divenire e l’essere, è anch’essa una questione di visioni complementari. Apparentemente, con il fluire perenne e imprevedibile, con il divenire e le leggi del caos, la disputa sembra “risolta” a favore di Eraclito, dopo 2500 anni. L’universo appare un fluire incessante se teniamo il tempo come una variabile autonoma.

Adottando un approccio quadridimensionale, cioè comprendendo il tempo come variabile intercollegata a quelle spaziali, ci troviamo in un quadro diverso, che appare “immobile”. In un universo di Minkowsky – direbbero i matematici – il mondo sembra parmenideo, “immutabile”.

Ma non si tratta di visione giusta o sbagliata.

Il dilemma è insolubile, in quanto intrinsecamente inesistente. Si tratta di modalità complementari che si attirano a vicenda, non di posizioni contrarie.

In uno dei frammenti dello stesso Eraclito, si trova scritto che il mutamento incessante presuppone uno sfondo immobile senza il quale non si potrebbe apprezzare il movimento.


Conclusioni

Proviamo ad abbozzare qualche conclusione.

Esiste un approccio di tipo riduzionista mirante allo studio delle cause elementari prime di un fenomeno, che suppone sempre scomponibile in parti più semplici, e c’è un approccio di tipo olistico, che parte dalle proprietà globali di un sistema, non riducibile all’insieme dei suoi elementi.

Il fisico fa riferimento continuo alle particelle elementari, il biologo al DNA, il sociologo all’individuo, sperando di ridurre il complesso al semplice, e così viene fatto per gli ecosistemi.

Ma la recente nozione di complessità è diversa. Il tutto vale di più della somma delle parti, perché ci sono le mutue correlazioni. Non solo, anche il modo di scegliere i componenti (che singolarmente non hanno alcuna realtà autonoma) è arbitrario, perché presuppone una cornice concettuale preconcetta, un pregiudizio.

Il riduzionismo nasce dal paradigma dominante dell’Occidente, cioè dall’idea che sia possibile scomporre qualsiasi cosa, o evento, in parti separate.

L’approccio riduzionista è stato quello seguito soprattutto negli ultimi secoli e che ha portato alla visione del mondo e al modo di vivere attuali delle genti di cultura occidentale, o che hanno assorbito i valori di tale cultura. L’approccio olistico riesce difficile a chi è nato con i fondamenti del primo e sta appena cominciando a manifestarsi oggi in forma individuale o poco più.

Quindi per ora possiamo anche ritenerci liberi di immaginare, o di sperare. Il passaggio necessario per attuare e rendere abituale un nuovo modo di pensare è difficilissimo, anche per chi ne fosse convinto intellettualmente. Ciascuno può immaginare a suo modo le conseguenze che potranno derivare da un’eventuale affermazione su scala generale dell’approccio olistico.


Come esercizio, proviamo ad immaginare un mondo in cui:


- gli opposti sono soltanto aspetti complementari della stessa cosa;


- la morte è semplicemente l’altra faccia della vita: la Natura è fatta di entrambe come aspetti inscindibili dello stesso fenomeno;


- non c’è niente da combattere, niente da dimostrare, nessuna gara da vincere o perdere, non c’è alcun bisogno di graduatorie né di primati. I concetti stessi di vittoria, sconfitta e sfida sono inutili;


- non c’è nulla da conquistare, manipolare, alterare;


- i concetti di ragione e torto, merito e colpa, sono soltanto pericolose sovrastrutture della mente, che eccitano la violenza e spengono il sorriso;


- non c’è alcuna distinzione fra spirito e materia, fra umanità e natura, fra Dio e il mondo. La mente è diffusa, universale, indivisibile. Non siamo alcunchè di particolare, né di centrale.


Poiché è sparita l’idea di “realtà oggettiva”, i concetti di verità e di certezza diventano inutili: con tutto in continuo dinamismo, il concetto di verità tende a coincidere con quello di Natura e quindi, in una visione panteista, con l’idea della divinità.

E’ bene chiarire che non si tratta di una visione statica, di un mondo in cui l’assenza del concetto di “progresso” comporti un modo di vivere immutabile, sempre uguale a sé stesso, oppure “di attesa”. In un certo senso, si può paragonare ad un fiume: sembra simile a sé stesso, ma invece scorre, magari anche velocemente.

Nel torrente non ci sono mai due istanti in cui passa la stessa acqua, che è continuamente in movimento. I sassi sono là in mezzo: non vengono aggrediti o spaccati, ma lasciati dove sono. L’acqua li aggira, passa ugualmente e scende verso il piano e il mare.

Non si tratta di “non fare”, ma di agire seguendo il corso naturale delle cose, secondo la Natura. Così si può continuare a fare oscillare un pendolo colpendolo ritmicamente, purchè i colpi siano sincroni con la sua frequenza.

Inoltre, oggi nel nostro mondo c’è un’ossessiva invasione di termini come lotta, battaglia, supremazia, competizione, gara, sfida, vittoria, sconfitta e simili: basta leggere un giornale per rendersi conto di quanti fatti vengano interpretati con questo schema.

Nella nuova visione, proviamo invece a privilegiare l’aspetto cooperativo e universalizzante nei confronti di quello competitivo e autoassertivo oggi esaltato in modo abnorme dalla cultura occidentale; con altro linguaggio, si tratta di recuperare l’aspetto “femminile” del mondo…...

Non c’è alcun bisogno di “battaglie”, ma c’è bisogno soprattutto di comprendere, accettare e sorridere. La “lotta per la pace” è un’espressione ambigua, perché la pace è una condizione di non-lotta: è un atteggiamento. Si tratta di renderlo universale. Ripeto, questo non significa “far niente” o “lasciar fare”: l’azione più utile è forse quella della diffusione di idee, cioè quella di opporsi a idee correnti preconcette, magari col sorriso. Contribuire attivamente a rendere universale l’idea di non-lotta è comunque un’azione.


Il mondo non è una cosa da conquistare, ma è l’Insieme di cui facciamo parte. Se poi dobbiamo proprio cercare di “far crescere” qualcosa, vediamo di migliorare le nostre qualità percettive per raggiungere una migliore sintonia con il ritmo vitale del Cosmo. Non è che in un mondo del genere ci sia “niente da fare” o “niente a cui pensare”: si possono ammirare i fiori e gli alberi, guardare la luna e le stelle, osservare il volo degli uccelli e sentirsi in sintonia con essi, e soprattutto pensare, partecipare della simbiosi universale.

Se abbandoniamo la manìa del successo e assaporiamo il piacere della non-competizione faremo rinascere il gusto di vivere.

Nella concezione che vede mente e materia come unica espressione indivisibile della Natura, siamo certamente abbastanza lontani dall’idea della “materia bruta” mossa da qualcosa di “esterno”, dall’idea di un mondo fatto per noi e manipolabile a nostro vantaggio (!) e piacimento. La realtà di oggi, dovuta all’affermarsi di un particolare modo di pensare in una cultura umana, quella occidentale, dimostra che i disastri arrecati dalla nostra specie all’Equilibrio Globale sono di gravità infinitamente maggiore di quelli eventualmente provocati dagli altri esseri viventi, ma non si tratta solo di considerazioni etiche, perché, se non cambieranno le premesse culturali, i disastri – già enormi – diventeranno irreversibili. Anche se la Natura riuscirà su tempi lunghi a riportare un equilibrio (come fa con le altre specie, ma su scala ben più piccola), ne risulterà una situazione molto più “povera” di Vita e mente.

Il fatto di non considerarci “esseri speciali” o “in posizione centrale” non deve affatto indurre al pessimismo; anzi, è motivo di lieta serenità.

Invece del Dio-Persona distinto dal mondo e giudice delle azioni umane, troviamo il Dio-Natura immanente in tutte le cose, e quindi anche in noi stessi, che ne siamo partecipi. La Divinità osserva sé stessa anche attraverso gli occhi di una marmotta, o di una formica, o l’affascinante e misteriosa sensibilità di un albero.



Le origini culturali del problema ecologico

di Guido Dalla Casa




Premesse

Normalmente i problemi di natura ecologica vengono trattati come distinti e separati gli uni dagli altri: ad esempio si parla del problema dell’energia, di quello dell’acqua, dell’effetto serra, dell’inquinamento dell’aria, della deforestazione, e così via. 

Non potrebbe essere diversamente, dato che questo tipo di frazionamento è il modo normale di procedere della nostra cultura. Inoltre si cerca di solito di suggerire qualche “rimedio” ai singoli problemi, cioè di proporre soluzioni, anche per l’opportunità di dare un taglio pratico alle singole trattazioni dei problemi relativi all’ecologia. 

In realtà, ciò significa semplicemente che si propongono soluzioni a breve o medio termine, di solito senza porre la questione se per caso il problema ecologico non sia un problema unico, insolubile a lungo termine, a meno che non si accetti di mettere in discussione uno dei fondamenti della nostra attuale civiltà, cioè l’idea che sia indispensabile perseguire la crescita continua dei beni materiali, presi come indice del benessere, o della “felicità” umana.

Se si esaminano a fondo le soluzioni normalmente proposte alle singole questioni, ci si accorge che consistono spesso nello spostare gli inconvenienti da un ambiente all’altro, di solito con diminuzione anche notevole delle conseguenze negative, il che rende comunque utili e accettabili alcune soluzioni. Tuttavia quasi mai si sentono proposte che costituiscano -anche solo in linea teorica- una soluzione del problema ecologico, cioè la realizzazione di processi che lascino inalterato, o in condizioni stazionarie, il mondo naturale, di cui facciamo parte integrante a tutti gli effetti.

Se si esamina il problema ecologico nella sua globalità e con gli ordini di grandezza che lo rendono evidente, ci si accorge che nasce dal fatto che una cultura umana -la civiltà industriale, che è l’espressione attuale della cultura occidentale- ha iniziato a funzionare con processi di tipo aperto, cioè a prelevare qualcosa di fisso dall’esterno (le risorse) e a riversarvi ancora qualcosa di fisso (i rifiuti); ha cessato cioè di funzionare come il resto della Natura e come gran parte delle altre culture umane. Ciò corrisponde in certa misura all’avere creato il concetto di “ambiente” dell’uomo, autoproclamandosi “al centro” di qualcosa. Come se non bastasse, tale modello ha iniziato a funzionare in modo da considerare non solo auspicabile, ma addirittura necessaria, una crescita indefinita di processi di quel tipo. 

Infatti la Natura ha un tipo di funzionamento che si può definire dinamico ma stazionario, almeno se non si considerano tempi lunghissimi. In altre parole, la civiltà industriale ha dimenticato di far parte di un Organismo molto più vasto.

In un fiume non corre mai la stessa acqua, e quindi si tratta di un fenomeno dinamico: tuttavia, se la sua portata resta fluttuante attorno a valori medi stabili, è un fenomeno stazionario. La civiltà industriale è un processo non-stazionario; vuole essere come un fiume la cui portata cresce per sempre.

È facile rendersi conto che il problema ecologico esisterà sempre, e porterà prima o poi alla cessazione del fenomeno civiltà industriale come sopra definito, fintanto che non ci si riporterà in condizioni stazionarie.

In altre parole, la crescita economica continua è un fenomeno impossibile sulla Terra.


Ottimismo e pessimismo

Le considerazioni esposte nelle premesse sono in generale considerate come esempio di pessimismo, ma solo perché si ritiene ovvio che l’intera umanità aspiri allo sviluppo economico, cioè in sostanza all’incremento senza fine dei beni materiali, che darebbero un maggiore benessere, cioè aumenterebbero la “felicità” umana.

Ciò deriva dal considerare “naturali” i valori della civiltà occidentale attuale.

Ma non è possibile fare considerazioni che non risentano dei “pregiudizi” della cultura in cui viviamo che costituiscono quella griglia, quella lente deformante attraverso la quale siamo costretti a fare ogni considerazione. In questo senso la cultura in cui si vive è quel sottofondo di idee, viste come evidenti, che è stato chiamato “l’elefante invisibile”. È appena il caso di ricordare che in questo caso il termine pregiudizi non ha alcuna connotazione negativa.

Se però cambiassero le premesse culturali da cui si è sviluppato il desiderio dei consumi, non ci sarebbe più alcun bisogno della spirale produrre-vendere-consumare, e il problema ecologico cesserebbe di esistere. Ciò significa che dovrebbe modificarsi il modo di vivere, come conseguenza di una profonda modifica del modo di pensare.

Allora non ha più senso parlare di pessimismo, perché si può vivere anche con una scala di valori molto diversa dall’attuale, senza inseguire quella spirale dell’eterno desiderio che costituisce l’alimento della civiltà industriale sempre-crescente. Cinquemila culture umane vivevano con scale di valori del tutto diverse, e -in analogia con la diversità biologica- potevano convivere in simbiosi con il resto del Pianeta.


Un esempio: il problema dell’energia

Il problema energetico viene normalmente impostato come la ricerca del modo meno dannoso per produrre l’energia necessaria a coprire il fabbisogno mondiale dei prossimi anni, assumendo detto fabbisogno come una variabile indipendente, una necessità da soddisfare ad ogni costo. Ciò equivale a dire che il modo di vivere di tutto il mondo sarà quello della civiltà industriale, considerata a priori come desiderabile.

Bastano poche considerazioni quantitative per accorgersi che, se impostato in questo modo, il problema diventa comunque insolubile nel giro di alcuni decenni: anche se fosse risolvibile, la produzione di simili quantità di energia porterebbe tali catastrofiche conseguenze sul Pianeta da causare poi comunque l’arresto del processo.

Se si escludono le cosiddette fonti rinnovabili, qualunque modo di produrre energia accumula rifiuti da qualche parte. Ma anche le fonti rinnovabili non costituiscono un ciclo veramente chiuso, a meno che non si riciclino anche tutti i componenti usati per costruire gli impianti. Bisogna ricordare inoltre che un riciclaggio completo è impossibile, esistendo una specie di entropia della materia.

Resta comunque in piedi un’altra questione: dove va a finire tutta questa energia? Ad alimentare altri consumi, costruzione di altri impianti, scomparsa di risorse e accumulo di rifiuti. Strade, macchine, città, al posto di paludi, foreste e praterie. Se saltasse fuori la famosa fusione nucleare, cosa potrebbe più arrestare questo processo? 

È la crescita dei consumi la causa dei problemi: senza toccare questo tabù, si può solo guadagnare tempo, che è comunque un risultato di grande utilità, perché può consentire di arrivare ai tempi lunghi necessari per il cambiamento dei fondamenti culturali sopra accennato.

Solo come esempio, facciamo un piccolo esercizio: supponiamo che la produzione industriale e i consumi di energia aumentino con legge esponenziale con un tempo di raddoppio di venti anni.

Facciamo poi l’ipotesi di ottenere un risultato eccezionale, cioè di diminuire il consumo di energia per unità di prodotto del 50%: ciò significa consumare la metà di oggi per ottenere la stessa produzione industriale. In tal caso per venti anni il consumo energetico resta lo stesso, e poi riprende a salire con un nuovo rapporto rispetto al prodotto industriale, ma con lo stesso andamento di prima. Abbiamo soltanto guadagnato venti anni per ritrovarci con gli stessi problemi. La vera causa dei guai è il tabù della crescita. Si noti che non abbiamo preso in considerazione il fatto che anche tutte le industrie che fabbricano i componenti relativi al mercato dell’energia hanno fatto i loro bravi piani di espansione e forse si troverebbero in difficoltà in quei vent’anni, in cui dovrebbero chiudere.

I vari protocolli di Kyoto, di Rio o di altri convegni internazionali, pur animati dalle migliori intenzioni, non potranno mai essere rispettati. Se diminuiscono le emissioni di anidride carbonica, crescerà qualche altro inquinamento o qualche altro guaio se non vogliamo toccare la crescita! Siccome nessun governo parlerà mai in tal senso, quegli impegni non potranno essere rispettati anche se vengono presi in buona fede. È infatti evidente che un governo che non inneggia allo ”sviluppo economico” non resta in carica neanche un’ora.

Il problema energetico non consiste nella ricerca delle fonti più opportune per soddisfare i fabbisogni imposti dal modello ma è uno dei segni dell’impossibilità di persistenza nel tempo del modello industriale sempre-crescente.


Quello dell’energia è solo un esempio: è evidente che le stesse considerazioni si possono fare per i fabbisogni di acqua, per l’accumulo dei rifiuti, per la distruzione delle foreste, e così via. Si noti che abbiamo evitato considerazioni morali.


Origini della crisi ecologica

Fino a qualche secolo fa esistevano sulla Terra circa cinquemila culture umane; quasi tutte mantenevano condizioni dinamiche e stazionarie nei confronti della Terra stessa.

Ben poche avevano ai primi posti della loro scala di valori l’incremento indefinito dei beni materiali; in presenza di un valore di questo tipo non è possibile mantenersi in equilibrio dinamico con l’ecosistema terrestre. Per inciso, anche l’aumento del tempo libero e la diminuzione del lavoro fisico sono fenomeni illusori propagandati da questa civiltà perché si confronta solo con il suo stesso passato: ora che il lavoro fisico è notevolmente diminuito, siamo costretti a “divertirci” a pagamento nelle palestre. Si tratta di un modo per aumentare i consumi, giustificato solo da motivi psicologici.

In molte culture vernacolari o tradizionali non si dedicavano più di tre o quattro ore al giorno ad attività inerenti alla sopravvivenza materiale. È forse superfluo ricordare che le culture chiamate vernacolari o tradizionali sono di norma etichettate come primitive.

L’origine della civiltà tecnologica è da ricercarsi nella forma di pensiero che si è diffusa nelle masse di cultura occidentale alcuni secoli orsono: non è nata da scoperte di tipo tecnico, che ne sono state la conseguenza. È da un sottofondo filosofico che nasce un modo di vivere. In Cina molte scoperte c’erano già, ma la civiltà industriale sempre-crescente non poteva svilupparsi in un mondo ispirato al Taoismo, dove l’universale è visto come azione di forze complementari e non opposte, dove non esiste il polo giusto e quello sbagliato. Volere la crescita senza la diminuzione sarebbe stato considerato come volere le montagne senza le valli.

È stata la diffusione in Occidente delle idee di pensatori come Cartesio, Bacone, Locke ed altri che ha fatto nascere la civiltà industriale: erano necessarie le idee del mondo-macchina e del dominio esclusivo dell’uomo sulla natura, considerata inerte e al servizio della nostra specie, per arrivare senza alcun problema ad uno sfruttamento illimitato. Per il filosofo francese solo la mente umana è res cogitans; tutto il mondo, vivente e non vivente, è res extensa, perciò si può manipolare a piacimento senza problemi, tanto non vale niente. E Bacone, nell’affermare che lo scopo dell’uomo è quello di dominare la natura piegandola ai suoi voleri, dimenticava semplicemente che noi siamo Natura.


L’obiezione principale che viene di solito avanzata alle idee che criticano lo sviluppo, è che “anche i Paesi del Terzo Mondo vogliono arrivare al nostro livello”; ma non dimentichiamo che questa affermazione ha senso solo dando come scontate le concezioni e la scala di valori dell’Occidente: già l’idea di nazione e il concetto di “Terzo Mondo” sono quasi-esclusivi della nostra cultura. Per il fatto che ci sono Paesi e governi vuole già dire che siamo nell’ambito della cultura occidentale, cioè di quel modello che ha iniziato ad invadere completamente il Pianeta attorno al sedicesimo secolo, concludendo l’opera ai giorni nostri. Anche l’idea che si voglia “arrivare al nostro livello” sottintende già tutti pregiudizi di un modo di pensare, perché il concetto di un livello cui arrivare comporta la necessità dell’accettazione di una data scala di valori, considerata quella “buona”. Ma nessuna scala di valori può essere assoluta.

Più che preoccuparci di aumentare i consumi, dovremmo renderci conto che sei miliardi di umani in condizioni stazionarie non possono stare sulla Terra, almeno a tempo indefinito.

Anche l’idea che si debba essere in una continua competizione, che sarebbe una specie di “molla del progresso”, non è una caratteristica generale dell’umanità. 

Concludo con una citazione (J. Servier, L’uomo e l’Invisibile, Rusconi, 1973):

Nessun moralista ha mai posto il problema della responsabilità dell’Occidente in questa creazione di bisogni artificiali, che mascheriamo sotto il nome di “civiltà” o di “tenore di vita”, che ha l’unico scopo di far lavorare le nostre fabbriche.


(pubblicato su DirigentIndustria, rivista mensile dell’ALDAI, settembre 2000)



Che cos’è lo sviluppo

Analisi di un mito

di Guido Dalla Casa



Premesse

Vediamo che significato si dà di solito al termine sviluppo, soprattutto nel linguaggio corrente e nei mezzi di comunicazione di massa.

Il concetto espresso con questa parola è di norma l’aumento del fluire dei beni materiali attraverso il processo produrre-vendere-consumare. È evidente che, con questo significato, lo sviluppo richiede l’aumento dei consumi. In altre parole, il termine sviluppo significa oggi la crescita economica, come dimostra anche la traduzione inglese più frequente (growth). Gli abituali indicatori dello sviluppo sono sostanzialmente quantitativi.

In genere si pensa che questa crescita aumenti il benessere dell’umanità, indipendentemente dai valori e dalla cultura che li esprime. Inoltre, fino ad oggi non si è mai presa in considerazione la possibilità che l’aumento dei consumi sia incompatibile con il funzionamento della Biosfera, anche perché è mancata la percezione che l’uomo fa parte integrante della Biosfera stessa.

Le discussioni sulla differenza fra crescita e sviluppo hanno senz’altro un significato profondo, ma di fatto i due termini sono impiegati come sinonimi dal mondo ufficiale e dalle componenti economiche, politiche, industriali e sindacali.


La Biosfera

Per usare il linguaggio della teoria dei sistemi, un essere vivente è un sistema che si mantiene in situazione stazionaria lontana dall’equilibrio termodinamico. In altre parole, vive finché un flusso di energia lo attraversa continuamente senza che si alterino le sue condizioni generali, se si trascurano le piccole oscillazioni:  la Biosfera nel suo complesso si comporta come un unico organismo vivente, anche se in generale su tempi molto lunghi. Se si considerano tempi dell’ordine di decenni, o secoli, e non geologici, la Terra è stazionaria: il problema sta nel fatto che le modifiche causate dallo sviluppo economico nei cicli naturali hanno velocità dieci-centomila volte più grandi di quelle normali, che consentono alla vita di adattarsi gradualmente alle nuove situazioni.

La crescita economica continua è un processo che impedisce il funzionamento della Biosfera perché ne disarticola i cicli: è quindi un fenomeno impossibile. Un’economia complessivamente in crescita può soltanto essere un transitorio, un fenomeno patologico che -se non arrestato rapidamente- porta necessariamente verso un punto “di catastrofe”. 

Anche l’idea che lo sviluppo costituisca sempre un miglioramento non ha validi fondamenti: è probabile che, se si potesse disegnare un diagramma che riporta l’andamento del benessere psicofisico (anche soltanto umano, o di una particolare cultura) in funzione dei consumi materiali o degli oggetti a disposizione, non si avrebbe una funzione sempre-crescente, ma una specie di curva a campana. Ad una certa quantità di beni materiali la funzione raggiunge un massimo: il corrispondente valore di consumi è già stato abbondantemente superato in tutto il mondo occidentale. Un ulteriore aumento peggiora la qualità della vita. Se poi mettiamo in conto anche la bellezza del mondo e il benessere degli altri esseri senzienti, la situazione si aggrava ulteriormente. 

Ci si può rendere conto di questo fatto se si pensa a una qualunque località rivisitata a distanza di qualche decennio: la si troverà inesorabilmente peggiorata, sia sul piano naturale, sia dal punto di vista estetico ed umano. La varietà dei viventi è sempre diminuita.

È forse superfluo ricordare il totale fallimento sul piano ecologico dello “sviluppo di Stato” un tempo perseguito nell’Est europeo, in cui il materialismo era addirittura portato al rango di metafisica ufficiale.


Lo sviluppo sostenibile

Recentemente è stato formulato il concetto di sviluppo sostenibile, definito dalla Commissione Bruntland dell’ONU come “lo sviluppo che soddisfa le esigenze del presente senza compromettere la possibilità, per le future generazioni, di soddisfare i propri bisogni”.

Successivamente il concetto di sostenibilità è stato ulteriormente analizzato e suddiviso in due posizioni diverse (K. Turner e D. Pearce - Economia Ambientale):

- Una sostenibilità debole, che si realizza quando, a fronte di un deterioramento ambientale, si ottiene una compensazione uguale o superiore in altre forme di capitale.

 - Una sostenibilità forte, dove si richiede che il capitale naturale non decresca mai, mentre le altre forme di capitale possono crescere o restare costanti.

Queste definizioni della sostenibilità sono decisamente insufficienti: inoltre danno per scontata un’assoluta centralità della nostra specie, su cui si possono avere fondati dubbi sul piano scientifico-filosofico: già la definizione di “capitale” data al Complesso dei viventi, o alla Biosfera, o alla Terra stessa, denota la posizione di partenza, anche nella sostenibilità “forte”. Mi sembra invece che si possa definire sostenibile solo una forma di sviluppo che consente a tempo indefinito la vita della Biosfera, cioè ne mantiene le condizioni stazionarie complessive.

In sostanza, se non modifichiamo profondamente il significato del termine, la locuzione sviluppo sostenibile è contraddittoria e non ha alcun senso. L’unico “sviluppo” che può durare a tempo indefinito è un processo di tipo stazionario.  

Se poi facciamo anche considerazioni morali o filosofiche, lo sviluppo è finora sempre partito dall’idea dogmatica che l’unico soggetto di diritti e l’unico essere in grado di provare “benessere” sia l’uomo, relegando gli altri esseri senzienti, gli ecosistemi e tutto il mondo naturale al rango di “materia” a nostra disposizione.

Oggi invece sappiamo che l’uomo non è nella posizione di “abitante di una casa”, ma è come un gruppo di cellule di un Organismo, cioè l’ecosistema globale, da cui dipende totalmente: questa posizione della nostra specie deve ancora essere recepita da tutte le istituzioni.

Riassumendo, come fenomeno complessivo visto “dall’esterno”, lo sviluppo -nel significato del mondo ufficiale- appare come un processo che:

- sancisce la sopraffazione della nostra specie su tutte le altre specie viventi, sugli ecosistemi e in genere sul mondo naturale: distrugge la diversità biologica;

- impone a tutta l’umanità di vivere secondo il modello occidentale;

- sostituisce materia inerte al posto di sostanza vivente; mette strade, macchine, impianti, dove c’erano foreste, paludi, savane.


L’etica del lavoro e l’etica della Terra

Di solito nel nostro mondo si è formata l’idea che il lavoro sia sempre qualcosa di positivo, da premiare indipendentemente da ogni altra considerazione.

Così si pensa che chi lavora di più debba automaticamente guadagnare di più, che in sostanza sia più bravo di chi lavora di meno: il lavoro ha acquistato un valore etico in sé, anche se si tratta di lavoro che danneggia l’intero Organismo terrestre o contribuisce a qualche patologia della Biosfera. Solo recentemente si è cominciato a considerare negativa almeno la produzione di sostanze inquinanti, limitando però l’esame ad ogni singolo processo locale, come se fosse possibile isolarlo.

Non si è mai tenuto come valore etico il mantenimento in condizioni vitali della Biosfera terrestre, oppure degli ecosistemi di cui il processo fa parte. Non si è neppure considerato il danno, se non in tempi recentissimi e limitatamente a specie “rare”, arrecato ad altre specie viventi o a processi naturali. In sostanza, è mancata la percezione della non-separabilità di ogni processo lavorativo umano dall’ecosistema globale.

È invece indispensabile avere sempre presente questa percezione, tenere come primo valore l’etica della Terra.


I consumi 

Oggi si assiste in modo macroscopico, anche senza più giri di parole, ad un fenomeno che rende  evidente la natura di quello che viene chiamato sviluppo: tutto il mondo economico-industriale-sindacale fa il possibile per fare aumentare i consumi. Si è arrivati a distribuire, anche se indirettamente, denaro ai potenziali consumatori per invitarli a “comprare”. Se per caso questa continua pressione non dovesse avere  esito, sarebbe proprio l’unico segnale positivo: se i consumi non aumentano, può essere che cominciamo ad averne abbastanza di oggetti materiali che in realtà non portano alcun miglioramento. Forse siamo stanchi di consumi, malgrado un intollerabile bombardamento pubblicitario che investe tutti i momenti della vita. Il mondo ufficiale è arrivato a propagandare gli acquisti, anche senza dire che cosa si debba acquistare! Si invita a “rottamare”, cioè a buttare in montagne di rifiuti apparecchi perfettamente funzionanti!

Pochi giorni dopo un evento terroristico della gravità del crollo delle Torri Gemelle, il presidente USA ha pubblicamente invitato i cittadini americani a riprendere i consumi, ad aumentare gli acquisti il più possibile!

Nelle città non si gira più, la mobilità diminuisce all’aumentare del numero di macchine, l’aria è irrespirabile, e il mondo ufficiale non sa escogitare altro che “il rilancio dell’auto”. Inoltre, gli inviti alla sicurezza stradale difficilmente avranno gli esiti sperati quando tutti i mezzi di informazione sono una continua esaltazione -anche inconscia- della velocità come valore. Nel mondo occidentale le prime cause di morte fra i giovani sono gli incidenti stradali e i suicidi, ma la massima preoccupazione  dei responsabili è il Prodotto Interno Lordo.

Forse è davvero venuto il momento di diminuire i consumi materiali e di pervenire ad un’economia stazionaria. Naturalmente si deve svincolare l’occupazione dalla crescita, ma questo è un problema che riguarda solo il sistema economico e non le leggi naturali del Pianeta: dovrebbe quindi essere risolvibile.

Qualcuno obietterà che lo sviluppo porta miglioramenti “a chi non ha”, ma basta fare la considerazione che la forbice fra “ricchi” e “poveri” si è sempre allargata: con la crescita economica, il solco aumenta e non diminuisce. Per inciso, i concetti di ricchezza e povertà sono spesso solo un’esportazione dell’Occidente.

È inoltre abbastanza chiaro che il discorso vale in termini complessivi: in linea teorica potrebbero aumentare i consumi pro-capite a condizione che diminuisca in proporzione il numero di consumatori.


Qualche citazione

Dal libro La Terra scoppia di G. Sartori e G. Mazzoleni (Ed. Rizzoli, 2003):

Per le persone di normale buonsenso il problema è che la Terra è malata di sovraconsumo: noi stiamo consumando molto più di quanto la natura può dare. Pertanto a livello globale il dilemma è questo: o riduciamo drasticamente i consumi, oppure riduciamo altrettanto drasticamente i consumatori.

Si noti che Sartori e Mazzoleni partono da posizioni completamente antropocentriche e non si pongono il problema della liceità morale della distruzione di ecosistemi e dei danni agli altri esseri senzienti. Infatti usano i termini uomo e natura come se fossero distinti o in contrapposizione, fatto abituale nella nostra cultura. Anche così i due Autori non hanno alcun dubbio sul fatto che è assolutamente necessario ridurre i consumi.


Nel libro Assalto al pianeta di S. Pignatti e B. Trezza (Ed. Bollati Boringhieri, 2000) viene evidenziato il sorpasso, avvenuto a cavallo del 1970, dell’energia di origine tecnologica rispetto a quella della fotosintesi, ma “Non si tratta soltanto di una questione di quantità: infatti l’output del processo fotosintetico è costituito da ossigeno e molecole biologiche, completamente compatibili con i processi dei viventi e riciclabili. L’output derivante dall’uso dell’energia industriale, invece, è formato da scorie e da inquinanti atmosferici. La produzione di energia tecnologica continua ad aumentare secondo il modello esponenziale.  

Un capitolo dello stesso libro è dedicato ai rischi che comporta l’accettazione del mito dello sviluppo sostenibile. A pag. 267 si legge: “Trattare la sostenibilità come un problema di risorse scarse è dunque un’impostazione fuorviante che, potendo venire facilmente confutata, può addirittura venire utilizzata come alibi da chi vuole negare il problema”. Il libro contiene un’accurata analisi dell’impossibilità della continuazione del processo di sviluppo, in quanto disarticola i cicli vitali della Terra.


Da un articolo di Guido Ceronetti, pubblicato su La Stampa del 9 marzo 1993:

... La sola voce concorde, universale, in alto e in basso, grida che nessuna industria si fermi o chiuda, qualsiasi cosa produca, sia pure inutilissima o micidialissima, sia pure destinata a restare invenduta; la sola voce concorde invoca che si aprano cantieri su cantieri e che si investano finanze in nuovi progetti industriali: a costo di qualsiasi inquinamento e imbruttimento, a costo anche di fare accorrere, per l’immediata ritorsione morale che colpisce chi accolga progetti simili, le furie di una intensificata violenza. E se deve, sul mare delle voci tutte uguali, planare una promessa rassicurante, è sempre la stessa: ci sarà la “ripresa”, ne avrete il triplo di questa roba...

Dal libro di Edward Goldsmith Processo alla globalizzazione (Ed. Arianna, 2003):

Lo sviluppo economico, nonostante i suoi devastanti effetti sulle società e l’ambiente, resta il principale obiettivo delle agenzie internazionali, dei governi nazionali e delle corporazioni transnazionali che sono naturalmente i suoi principali sostenitori e beneficiari. Ciò viene giustificato col fatto che solo lo sviluppo, e ovviamente il libero commercio globale che alimenta, può sradicare la povertà. Oggi quasi nessuno di coloro che occupano posizioni di comando sembra disposto a mettere in discussione questa tesi, sebbene non sia sostenuta da prove teoriche né empiriche, né serie.

Tanto per cominciare, si consideri che poco dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando il commercio mondiale e lo sviluppo economico erano davvero in atto, quello è aumentato di diciannove volte e questo non meno di sei volte – una performance senza precedenti. Appare evidente che se questi processi fornissero veramente la risposta alla povertà mondiale, allora questa dovrebbe ormai essere stata ridotta a poco più di un vago ricordo del nostro barbarico e sottosviluppato passato. Invece, è vero il contrario. 

Seguono numerosi dati quantitativi a sostegno di queste affermazioni.

Si noti che anche questo libro non esce da posizioni antropocentriche.


Dal Giornale di Fisica n. 2, 1979 (Energia e stabilità di Luigi  Sertorio):

I pregi di un’economia stazionaria sono stati illustrati con parole che oggi appaiono molto affascinanti forse per il linguaggio un po’ arcaico (1858) sereno e profondo, da John Stuart Mill. Tale bellezza naturalmente ha colpito rari spiriti isolati, mentre il resto dell’umanità, se è stato in grado di farlo, proprio a partire dall’epoca del positivismo, è partito sulla strada della growth economy.


Conclusioni

Lo sviluppo economico continuo è un fenomeno impossibile sulla Terra, perché incompatibile con il suo funzionamento. L’unico “sviluppo” che consente la vita della Biosfera è un processo completamente non-materiale, qualcosa che significhi l’evolversi di cultura, arte, spiritualità, pensiero, informazione, e così via. Ma in tal caso, visto che il significato attuale del termine è consolidato ormai da un paio di secoli, sarebbe meglio cambiarlo.

Sintetizzando al massimo, due sono le cause dei guai del mondo: l’eccesso di popolazione umana e l’eccesso dei consumi. Entrambi i fattori non possono restare in crescita ancora per molto tempo.

Ma cosa può succedere? Proviamo a formulare qualche ipotesi:

- Lo sviluppo economico prosegue ad oltranza: in tal caso si arriva ad un mondo    terribilmente degradato, con gli ecosistemi naturali scomparsi, migliaia di specie estinte o degenerate, le foreste distrutte, l’atmosfera irrespirabile, fino a manifestazioni macroscopiche di impossibilità di vita; 

-  Lo sviluppo economico prosegue fino a un punto “di collasso”, dopo il quale si ha la rinascita di culture umane con valori diversi da quelli attuali;

-  Lo sviluppo economico si arresta gradualmente per la progressiva quasi-scomparsa della filosofia che ne costituisce il fondamento (il materialismo).

L’ipotesi più pessimista sembra la prima, quella più probabile la seconda; resta la speranza che si verifichi la terza.


Nel mondo moderno lo sviluppo è visto come un tabù intoccabile, una divinità, ma proprio per questo è opportuna qualche considerazione in controtendenza.

Dopotutto, nella seconda metà dell’Ottocento, i “sacerdoti” dello sviluppo erano convinti che la crescita economica avrebbe fatto terminare la fame e le guerre, che un'era di prosperità senza fine si stava aprendo all’umanità e che la criminalità sarebbe presto diventata un ricordo del passato. Quindi mi sembra che non ci siano dubbi perlomeno sul fatto che c’è qualcosa che non va in questo “sviluppo”.


(pubblicato sul numero di ottobre 2004 di DirigentiIndustria)



Il riduzionismo scientifico 

e il problema ecologico

di Guido Dalla Casa



Premesse


Il problema ecologico è nato dalla visione del mondo che si è andata affermando in Occidente nel diciassettesimo secolo, che -innestandosi sulla tradizione giudaico-cristiana che costituisce il fondamento della cultura occidentale- ha dato origine alla cosiddetta scienza moderna, che, nella sua versione ufficiale, resta ancorata alla visione cartesiana-newtoniana da cui è nata. Infatti in questa visione la nostra specie è al di sopra della natura, che è completamente al nostro servizio. Tutto l’universo -compresa la natura vivente sulla Terra, che ne è una parte- è assimilabile a una gigantesca macchina smontabile e ricomponibile: questo è quello che viene chiamato in due parole il riduzionismo scientifico. Come conseguenza, la natura è priva di ogni rilevanza morale. Da qui è nata l’aggressione alla Natura, e quindi il problema ecologico.

Per inciso, è solo per questa visione e per il forte influsso del pensiero di Bacone che -nell’immaginario collettivo- la scienza è praticamente identificata con la tecnica e tenuta ben distinta dalla filosofia.

Per evidenziare la visione cartesiana-newtoniana che domina la scienza ufficiale e accennare ad una sua possibile modifica nascente, in correnti per ora minoritarie, è stato immaginato un colloquio fra la scienza dominante e il metodo scientifico, in forma di dialogo “divertente”, per non appesantire troppo la trattazione.

Per quanto detto sopra, è evidente che mettere in discussione e riuscire progressivamente a modificare su vasta scala questa visione del mondo cartesiana avrebbe un forte impatto positivo sul problema ecologico.


Riporto dal libro di Roberto Germano Fusione fredda (Ed. Bibliopolis, 2000):


Il problema è la visione del mondo meccanicistica che, malgrado tutto, risulta purtroppo ancora imperante. Dalla nuova Fisica non emerge una visione del mondo come costituito da oggetti separati che interagiscono urtandosi più o meno forte, ma una visione del mondo, invece, che scopre come grazie alla “sintonia” e all’interrelazione, alla cooperazione, si possano “evocare”, quasi magicamente, correlazioni inusitate, potenzialità finora inimmaginabili.


DIALOGO FRA IL SIGNOR M. S. (metodo scientifico) E LA SIGNORA S. U. (scienza ufficiale) CHE SI INCONTRANO OGNI TANTO 

NELL’ARCO DI TRE SECOLI


S.U.  Partiamo insieme alla scoperta di come è fatto il mondo. Cominciamo a fare esperimenti e in base a questi costruiremo teorie che ci aiuteranno a farci sempre più un’idea di come funziona la natura. Se gli esperimenti successivi smentiscono una teoria, la scarteremo e la sostituiremo con un’altra. Davanti a noi sta la natura: esploriamola.


M.S. - Fai attenzione: stai già partendo da qualcosa che non è accettato da tutta l’umanità, ma solo da una determinata cultura umana. Se pensi di poter essere accettata da tutti, devi partire da qualcosa di certo, di universale. La maggior parte delle culture umane non pensa affatto che ci sia una natura esterna che noi possiamo “esplorare”.

Poiché non c’è nulla che sia accettato da tutti, dovrai partire completamente da zero.


S.U. - Ma come si fa a partire da zero? Da uno zero esce solo uno zero! E poi parto da qualcosa di ovvio ed evidente.


M.S. - Ciò che consideri ovvio ed evidente è soltanto il sottofondo filosofico della cultura in cui ci troviamo. Se parti da queste basi non potrai mai trovare qualcosa di universale. Però possiamo fare così: partiamo da quanto mi hai detto, ma ricordati sempre che si tratta solo di ipotesi di lavoro: devi essere pronta ad abbandonarle non appena trovi qualcosa che le contraddica. Non devi sforzarti per far rientrare quanto troveremo nel tuo quadro di partenza, che è fatto soltanto di ipotesi che non danno alcuna garanzia. 

Partiamo quindi dall’ipotesi che esista un mondo costituito di materia-energia indipendente da qualunque fattore non-materiale, se esiste. Supponiamo anche che questo mondo proceda secondo leggi sue proprie; poi prendiamo provvisoriamente per buone l’impenetrabilità dei corpi (cioè il dualismo vuoto-pieno) e la logica che “A non è non-A”. Inoltre fai attenzione prima di suddividere ogni problema, ogni cosa, ogni processo in parti, perché qualunque suddivisione risente di qualche “pregiudizio” e non può essere neutrale e valida per tutti.

Poi ci ritroveremo fra qualche tempo a fare il punto della situazione.


S. U. - Hai visto quante belle cose ho trovato! Ho princìpi sicuri e leggi universali: Ho il principio di conservazione dell’energia, conosco la struttura della materia, il funzionamento del corpo, e così via. So abbastanza bene come funziona la natura e proseguo attivamente il mio lavoro.

Inoltre, come certamente ricordi, all’inizio abbiamo trovato insieme che la Terra gira attorno al Sole e non viceversa.


M.S. - Quanto a quest’ultima scoperta, sai bene che ci stiamo facendo l’occhiolino, perché entrambi sappiamo che si tratta semplicemente di un cambio del sistema di riferimento: in un sistema di riferimento solidale con la Terra, è il Sole che gira. L’unica differenza è che, nel sistema solidale con la Terra, la descrizione del moto degli altri pianeti è mostruosamente complicata e praticamente ingestibile. Si è trattato quindi soprattutto di una faccenda di eleganza e comodità di calcoli. Il sistema solidale con il Sole è molto più comodo e più “bello”. Ma allora avevamo fatto un bel colpo.


S.U. - D’accordo, ma dovrai ammettere che il principio di conservazione dell’energia-materia è un principio universale della natura ed è stato confermato da innumerevoli prove.

Le teorie che contraddicono questi princìpi provati vengono inesorabilmente eliminate come impossibili. Tutto è controllato rigorosamente in laboratorio.


M.S. - Veramente mi sembra che tu abbia chiamato energia proprio l’entità che si conserva e che, per far tornare i conti, tu abbia inventato il concetto di energia potenziale. Si tratta senz’altro di un artificio molto comodo, che ti ha semplificato i conti e dato altri vantaggi, ma mi sembra eccessivo considerarlo un principio universale. 

Inoltre, ti sembra corretto prendere a prestito energia dal vuoto, anche se la restituisci entro breve tempo? Se il tempo è infinitamente piccolo, il prestito può essere infinitamente grande. Per un principio universalmente valido, si tratta di una forzatura: mi sembra piuttosto una convenzione, anche se comoda.


S.U. - Ho però al mio attivo un buon quadro della struttura della materia. Verifico sempre tutto in laboratorio: tutto ciò che non è confermato da prove ripetibili e sempre riuscite viene scartato, e magari deriso. Così imparano a tentare di imbrogliarmi. 

Ho già scoperto qualche centinaio di particelle-onde, e la ricerca non è finita.


M.S. - In realtà hai scartato tutti i fenomeni che contraddicevano la nostra ipotesi di lavoro iniziale! Il fatto che non li puoi ripetere in laboratorio in condizioni rigidamente controllate è un pretesto, perché parti dall’ipotesi indimostrabile che l’installazione delle apparecchiature di laboratorio non influenzi le possibili cause dei fenomeni che non appartengano al mondo energetico-materiale, cioè continui a considerare un dogma invalicabile quella che era soltanto un’ipotesi di lavoro! Continui a ripetere gli esperimenti finché non ti danno i risultati che ti attendi, almeno quando si tratta di questioni di base.

Inoltre, se ripeti molte volte un esperimento che ti dà certi risultati in nove prove su dieci, scarti quella che non ti piace considerandola un evidente errore di qualche strumento.

Per quanto riguarda la struttura della materia, ho visto che hai descritto qualche particella-onda mediante matrici con numero infinito di righe e di colonne: mi sembra una delle tante interferenze di natura mentale. È proprio venuto il momento di rivedere le ipotesi di partenza. Non riesci più a nascondere, neppure con il linguaggio matematico, il contenuto mentale di tutte le tue cosiddette particelle.

Mi sembra che uno dei tuoi problemi sia di non riuscire a trattare le entità non quantificabili e non misurabili: quindi sei costretta a negarle. Ma non eravamo d’accordo così: dovresti darti degli strumenti per trattarle. Hai tutto il tempo per farlo, o perlomeno provarci.


S.U. - Hai visto quante scoperte ho fatto sul funzionamento del corpo? E quanti farmaci ho trovato per guarire le malattie? Hai visto quanto é aumentata la vita media umana?


M.S. - Anche questo è un punto interessante. In realtà riesci a fare un’ottima terapia d’urgenza, cominciando col salvare la vita a chi è in pericolo imminente. E così hai allungato la vita media umana. Ma non hai ottenuto molto per guarire i mali ”cronici” (la distinzione -come al solito- non è netta e serve solo per intenderci). Inoltre ti rifiuti di esaminare o prendere in considerazione tutti i metodi di cura, che si basano su cause non-materiali, soprattutto per questi mali cronici. Anche se queste cure funzionano, più o meno quanto le tue medicine, non ti piace esaminarle, forse perché non hai gli strumenti necessari. Ultimamente hai fatto il grande sforzo di tollerare qualcosa, battezzandolo medicina psico-somatica, termine ancora abbastanza rassicurante per salvare le tue premesse, ma consideri questo campo con grande sospetto. 


S.U. - Sai che i farmaci che io fornisco sono tutti rigorosamente provati in laboratorio. 

Tutto il resto è privo di dimostrazione. 


M.S. - I farmaci che produci vengono provati spesso a prezzo di terribili sofferenze ad altri esseri senzienti. Dopo tutto non hai nessuna prova che la sofferenza non resti impressa nell’inconscio (o nella mente) per generare successivamente nuova sofferenza. Già, dimenticavo che il termine inconscio, specie se non legato ad un individuo, per te non ha a priori alcun significato. Non parliamo poi del termine anima.

Per caso non continuerai a trattare così gli altri esseri viventi per un eccesso di fiducia nel tuo vecchio maestro (Cartesio)? Se ben ricordi, pare che abbia gettato un gatto dalla finestra per dimostrare la sua convinzione che “non poteva soffrire”. Konrad Lorenz ha ampiamente dimostrato l’assoluta infondatezza del pensiero cartesiano dell’animale-macchina. Gli altri animali soffrono, provano emozioni, pensano. 

Comunque, la vita media umana è aumentata, ma non é affatto migliorato il grado di salute medio. Come spieghi il vertiginoso e continuo aumento delle malattie di tipo psichico (depressioni e suicidi) e di tipo degenerativo (cancro) anche in persone in giovane età? 


S.U. - Solo come esempio, prendiamo la medicina omeopatica. Ma lo sai che in molte medicine omeopatiche non resta neppure una molecola del farmaco? E’ impossibile che abbiano qualche effetto! 

E i meridiani dell’agopuntura non corrispondono ad alcun “canale” materiale o energetico!

Per quanto riguarda le depressioni, si tratta di carenze di sostanze nei neurotrasmettitori, o nei neuroni, o comunque di altre cause materiali nell’individuo.


M.S. - Ma davvero pensi che milioni di persone continuino a curarsi con acqua fresca? 

E che i cinesi si siano divertiti per tremila anni a prendere il corpo per un puntaspilli? Dovresti esaminare le cose con più serenità e meno superbia. È ben poco probabile che l’umanità sia stata sempre scema (in cinquemila culture umane diverse) e sia diventata improvvisamente intelligente in una sola cultura nel diciassettesimo secolo.

Inoltre eravamo d’accordo di non usare il termine impossibile, come segno di cautela.

Mi sembra che anche e soprattutto in medicina sia venuto il momento di abbandonare l’ipotesi di lavoro che il corpo abbia un funzionamento suo proprio indipendente dalla mente. Tale ipotesi è ormai ampiamente smentita, anche dalla psicoanalisi. Le cure che hai etichettato come non-scientifiche sono spesso basate sullo studio del complesso mente-corpo-società-natura e talvolta danno buoni risultati, soprattutto nei mali “cronici”.

Anche la faccenda delle “molecole” potrebbe essere rivista: nulla è certo e immutabile. Dopo tutto le tue varie “particelle” si sono poi rivelate come costituite da altre cosiddette particelle che si risolvono infine nel vuoto quantistico, cioè in un tutto-niente.

Mi risulta che esiste una teoria recente sulla coesione della materia, che spiegherebbe sia la memoria dell’acqua (farmaci omeopatici), sia la fusione fredda. Non ti sembra che andrebbe almeno esaminata e sottoposta a quelle che tu chiami “prove”? In tale teoria, per spiegare la coesione della materia, vengono prese in considerazione più le equazioni di Maxwell che la legge di Coulomb: quindi sempre materiale a te ben accetto.

E, per le depressioni, come fai a spiegare l’enorme aumento numerico nello stesso periodo -cioè negli ultimi decenni- di tante cause materiali che dovrebbero manifestarsi in ciascun sistema nervoso individuale, in modo indipendente una dall’altra? Non vorrai “spiegare” tutto con il caso. Le probabilità sono praticamente zero. È molto più logico pensare che siano malate la mente collettiva, o l’anima del mondo.

Inoltre i tuoi farmaci servono solo nella fase acuta, dopo costituiscono una specie di mantenimento, ma non risolvono il problema, evidentemente di natura non-materiale.


S.U. - È mia costante preoccupazione non uscire dal mio campo. Del resto sai bene che mi sto dedicando a fondo al problema mente-cervello, che è comunque molto difficile.


M.S. - Il fatto che vuoi limitare lo studio del dualismo mente-materia al solo problema mente-cervello è un’ulteriore dimostrazione di attaccamento alle idee di Cartesio, che poneva in una ghiandola presso l’encefalo il suo preteso unico punto d’incontro fra quelli che lui considerava due mondi ben distinti e separati: ma tale limitazione non è giustificata da niente altro. Tra l’altro, per lui ciò avveniva soltanto nel cervello umano. E tu stessa hai trovato che le differenze di funzionamento con gli altri viventi sono minime e di natura quantitativa. Senza contare che sono passati tre o quattro secoli.

Solo di recente e con grande sforzo hai cominciato a parlare di problema mente-corpo, non più inteso soltanto come cervello. È una piccola estensione, alla quale opponi una certa resistenza, ma é meglio di niente.

Dovresti però fare almeno un altro passo, perché la questione é ben più vasta. È proprio giunto il momento di rivedere le ipotesi di lavoro iniziali, che stanno vacillando da tutte le parti. Ti faccio un altro esempio.

Esistono numerosi esperimenti rigorosi (non idee di qualche filosofo indù!) da cui risulta che, anche isolando e schermando al loro interno gruppi di termiti di un termitaio da tutti i campi conosciuti possibili, quegli insetti sono in grado di realizzare la struttura del termitaio con precisione ultramillimetrica, da ogni parte degli schermi. È come se esistesse un unico piano ben preciso, non supportato da nessun campo energetico di alcuna natura. Inoltre ogni termite percepisce istantaneamente qualunque turbativa venga data al termitaio a qualunque distanza si trovi e al di là di qualsiasi tipo di schermatura. E ciò accade anche se le singole termiti provengono in origine da termitai diversi, purché, al momento dell’esperimento, il nuovo termitaio -come entità- sia già stato costituito. L’ipotesi più logica è semplice: il termitaio ha (o è) una mente -o, se preferisci, un’anima. In altri termini: le termiti di un termitaio sono emotivamente collegate da continui scambi telepatici istantanei. Detta così, la cosa ti irrita, ma si tratta soltanto di parole diverse. Hai tentato inutilmente altre spiegazioni che salvassero la nostra ipotesi di lavoro iniziale, trasformata quindi in un dogma, poi hai relegato tutti questi esperimenti nel campo dell’impossibile e hai messo l’etichetta di misticismo a tutte le teorie che non ti piacciono.

Non eravamo d’accordo così quando abbiamo cominciato!

Il termitaio è solo un esempio che puoi applicare a tante altre entità (o forse tutte), come una società, una cultura, una specie, un ecosistema, una cellula, un albero, la Biosfera,e così via.

Occorre darsi strumenti per trattare queste entità, che possono essere menti, il che non significa necessariamente che siano coscienti, almeno ad un certo livello.

Il vero problema è che non vuoi neppure sentir parlare di mente, di psiche o di anima se non in strutture legate ad un sistema nervoso individuale.


S.U. - Si tratta di una materia in evoluzione, ma non voglio uscire dal mio campo, dal campo che mi sono data inizialmente.


M.S. - In questo caso devi perlomeno rinunciare all’universalità e all’idea di considerarti “oggettivamente valida”: devi riconoscerti semplicemente come fenomeno nato in una sola cultura umana in un determinato momento della sua storia.

Non sarebbe ora invece di riesaminare le ipotesi di lavoro iniziali? Dopo tutto la logica “A non è non-A” e l’impenetrabilità dei corpi (dicotomia vuoto-pieno) sono naufragate nel vuoto quantistico. I fenomeni non ripetibili potrebbero avere spiegazioni considerando anche cause non-materiali: naturalmente dopo aver elaborato gli strumenti cui ti ho accennato prima. E non dimenticare il tacchino di Popper.

Gli esperimenti di laboratorio provano soltanto il fatto che tu li consideri a priori uno strumento sempre valido: ma quando installi le apparecchiature, hai già in mente cosa vuoi provare o non-provare! Le domande che poni all’esperimento non sono mai neutrali, perché non possono esserlo, ma presuppongono già il tipo di risposta che deve saltar fuori.

Non puoi “dimostrare” che le concezioni di Galileo sono migliori o “più vere” di quelle di Alce Nero impiegando le conseguenze delle idee di Galileo! In quel modo hai già in mente che le idee di Galileo sono quelle “buone”!

Se poi introduci delle scale di valori, ti poni automaticamente in una posizione relativa.

Eravamo partiti considerando come punto di forza l’umiltà, cioè la disponibilità a mettere in discussione qualunque ipotesi, non appena si manifestassero dubbi sulla sua “validità”, cioè a non considerare come “certi” neppure i punti di partenza. Ora mi sembra invece che tu consideri “acquisite” e quindi dogmaticamente valide alcune premesse; in sostanza ti sei comportata come gli altri campi di attività di cui cercavamo di limitare le pretese.

È ormai ora di rivedere le basi senza pregiudizi, cercando di imparare qualcosa da tutte le culture umane, finché ne resta ancora qualche traccia.

Spero che potremo rivederci presto.



Noi e gli altri animali

di Guido Dalla Casa



- L’ uomo e gli altri animali

        L’idea di umanità è stata “costruita”, nella nostra cultura, in antitesi con l’idea di animalità, e questo è insostenibile sotto tutti i punti di vista, soprattutto quello scientifico.

Anche il linguaggio abituale è improprio, perché l’uomo è un animale.

  Siamo animali a tutti gli effetti, anche facilmente classificabili: questo non significa necessariamente essere materialisti. Comunque siamo una parte integrante dell’Ecosistema, della Biosfera, della Terra.  

        La nostra cultura si ispira a un racconto “della Creazione” che ci fa “metafisicamente” diversi: sulla Terra sono esistite, fino a un secolo fa, circa cinquemila culture umane, e ciascuna aveva un proprio “mito delle origini”. Non ha senso basarsi su uno solo di questi miti.


     -   Posizione della nostra specie in Natura. 

   La posizione antropocentrica, che dà valore a qualunque cosa solo in funzione umana, è la più diffusa nella nostra cultura. Invece una visione del mondo biocentrica assegna “valore in sé” a tutte le entità viventi, una visione ecocentrica dà valore a tutte le entità naturali e alle loro relazioni.  

   Gli umani, le loro culture, le relazioni fra di esse, sono indubbiamente entità naturali, e quindi anch’esse degne di “valore in sé”.

   L’uomo sta alla Natura come la parte al Tutto, come un tipo di cellule sta all’Organismo psicofisico di cui fa parte. Un gruppo di cellule ha maggior “valore in sé” se lo si vede come parte integrante di un Organismo più grande di quanto ne abbia se considerato isolato. 

Dare un valore “in sé” a tutte le entità naturali e alle relazioni che le legano vuol dire attribuire un profondo significato alla Vita e al mondo, accettarne e comprenderne la spiritualità immanente.

   Gran parte delle posizioni attuali della cultura occidentale derivano dalle religioni che si sono originate nella regione medio-orientale ed hanno invaso il mondo, spesso con la violenza, diffondendo ideologie mostruosamente antropocentriche. Le istituzioni che le rappresentano continuano quest’opera: a parte le amenità sul concetto di “anima”, anche sul piano pratico si agitano non poco per quattro cellule surgelate (purchè umane) e non dicono una parola sulle spaventose sofferenze inflitte a tanti esseri senzienti. Il pensiero materialista non ha cambiato nulla mantenendo l’uomo “al centro” attraverso una specie di “merito selettivo”, che gli ha conservato l’esclusiva mentale-spirituale. A tutte queste ideologie è mancata totalmente la percezione che la nostra specie è strettamente collegata dall’interno a tutto il resto del mondo naturale.

   In effetti queste religioni hanno cercato di perpetuare l’idea che l’uomo è metafisicamente diverso dagli altri viventi ed hanno sempre mostrato un totale disinteresse (nella migliore delle ipotesi) per il mondo naturale. Ma la differenziazione drastica o la contrapposizione uomo-animale sono oggi scientificamente insostenibili. 


- Il libero arbitrio

   La posizione tradizionale della nostra cultura, di derivazione giudaico-cristiana ma ulteriormente rinforzata dalla visione cartesiana-newtoniana, cioè che l’uomo è dotato di libero arbitrio mentre il mondo naturale (compresi tutti gli altri animali!) è soggetto alle immutabili “leggi fisiche”, non ha più alcun significato. 

   Anche il determinismo totale tipo Laplace, gradito alla scienza “ufficiale”, è largamente superato.

   Ogni entità naturale, ogni processo, ogni sistema complesso, ha un pizzico di libero arbitrio, potendo scegliere la via da prendere ad ogni biforcazione-instabilità. Infatti, attribuire “al caso” la via presa dopo la biforcazione in ogni sistema complesso e a “una libera scelta” quando c’è di mezzo il cervello umano, è un puro pregiudizio culturale.

   Solo la “quantità” di tale facoltà è diversa da caso a caso. Secondo la visione detta “del cane al guinzaglio”, tutte le entità (uomo compreso)  hanno un guinzaglio, più o meno lungo, in mano alle forze sistemiche, che non sono soltanto “fisiche” o energetico-materiali, ma anche mentali. 

     Il cane può talvolta far cambiare completamente direzione a chi tiene il   guinzaglio, se a un bivio si dirige da una parte piuttosto che dall’altra.

   Le possibilità di scelta di animali come mammiferi e uccelli sono piuttosto evidenti: in ogni caso le differenze con le scelte umane sono soltanto quantitative.

   Inoltre il grado di imprevedibilità che si manifesta in diverse comunità di insetti, di mammiferi o di uccelli, non è molto diverso da quello dei gruppi umani. Inoltre le società di molte specie sono notevolmente strutturate. 


- Etica e diritti degli altri animali

   Se c’è qualche differenza fra umani e altri animali, è solo di natura quantitativa. L’uomo è un animale: anche l’etica deve tenerne conto quando si occupa degli altri esseri viventi, e senzienti.

    Non sono bastati gli studi di Konrad Lorenz, e di numerosi altri scienziati, per riconoscere una profonda vita soggettiva agli altri animali. Altre recenti idee, per ora di minoranza, attribuiscono una mente immanente a tutti i sistemi complessi e quindi a tutte le entità naturali.

   Gli altri animali soffrono, amano, sono coscienti. Qual è la facoltà che consente di attribuire dei “diritti soggettivi”? Se fosse qualche forma di coscienza o consapevolezza, non si capisce con quale logica si riconoscono diritti alle persone in coma o agli embrioni umani e non si considera degno di considerazioni morali soggettive un essere consapevole e senziente come un orango, un delfino o un lupo.


CITAZIONI


Nessuna verità sembra a me più evidente di quella che gli animali sono dotati di pensiero e di ragione al pari degli uomini. Gli argomenti sono a questo proposito così chiari, che non sfuggono neppure agli stupidi e agli ignoranti.          

      (David Hume)


Ho conversato a lungo, su questi argomenti, con Konrad Lorenz, padre dell’etologia moderna. Alla domanda se anche gli animali siano consapevoli, con il tono passionale e affascinante che lo distingue, risponde: “Nessuna persona seria dovrebbe dubitare di questo. Sono pienamente convinto, dico pienamente, che gli animali hanno una coscienza. L’uomo non è il solo ad avere una vita interiore soggettiva”. E aggiunge che l’uomo è troppo presuntuoso, troppo preso di sé. Naturalmente, dice ancora il grande scienziato, il fatto che gli animali abbiano una coscienza “solleva dei problemi”. Forse l’uomo ha paura di fare altri passi in questa logica: riconoscendo una vita interiore agli animali, sarebbe costretto a inorridire per il modo con cui li tratta.

Lorenz mi ha parlato anche dell’infallibilità con cui gli animali conoscono subito le intenzioni di chi sta loro di fronte. Ma non c’è bisogno di scomodare tanta autorità, per commentare l’episodio del gorilla in questione. Solo una mente rozza o malata di dogmatismi, potrebbe dubitare delle buone intenzioni dell’animale. E i cani di Vienna, compresi quelli di Lorenz, non sono mai minacciosi per istinto o perché capiscono che la gente li ama e non farebbe loro mai del male?

In fondo l’etologia va confermando quello che Giordano Bruno aveva intuito con il suo genio filosofico, e cioè che tutti gli esseri viventi sono fenomeni diversi di un’unica sostanza universale. Traggono dalla stessa radice metafisica e la loro differenza è quantitativa non qualitativa o, per usare il linguaggio di Kant, fenomenica non noumenica. L’intelletto, che serve a intuire la relazione delle cose tra di loro, è comune, sia pure proporzionato ai bisogni, a tutti gli esseri viventi. Questo insegnano i grandi pensatori, a incominciare da Schopenhauer, e questo sostiene, in ultima analisi, Lorenz.

Sarebbe pura cecità considerare l’uomo come qualche cosa di completamente avulso dal resto del regno animale. La scoperta che gli animali mentono - per esempio i gracchi alpini e corallini, ma Lorenz mi ha parlato anche di altri animali - e quindi sono capaci di astrazione ha fatto cadere perfino il dogma che solo l’uomo avesse la facoltà di riflettere in abstracto.

La filosofia occidentale è troppo impregnata di teologia. Lo riconosceva perfino Nietzsche, che pure parlava e predicava come un prete capovolto. Il male è già all’inizio: “Crescete e moltiplicatevi, e popolate la terra, ed assoggettatevela, e signoreggiate i pesci del mare e i volatili del cielo, e tutti gli animali che si muovono sulla terra.  Signoreggiate, cioè opprimete, tormentate e uccidete tutti gli altri esseri viventi: parla così, un Dio? E non poteva anche risparmiarsi queste parole, dopo aver creato un essere malvagio come l’uomo? Lorenz, sia pure dopo una disamina di carattere storico, definisce “satanico” un simile comandamento.

   Quale penoso contrasto con le sublimi parole che Buddha rivolse al suo cavallo quando lo lasciò libero: “Và! Anche tu, un giorno, sei destinato al nirvana”.

Questo episodio faceva tremare di commozione Schopenhauer e Wagner, ma non impressiona minimamente la corteccia cerebrale dei nostri filosofi-teologi. A loro è più congeniale Cartesio, che considerava gli animali delle semplici macchine.

Vicino a Lorenz si respira meglio sia scientificamente che moralmente. Proprio perché ha scandagliato come nessun altro la vita interiore degli animali, sa anche quale responsabilità morale questo comporti…

(Anacleto Verrecchia, La Stampa, 8 settembre 1986)


Un omaggio alla memoria di Grey Owl 

(WA-SHA-QUON-ASIN)



“Gufo Grigio, indiano della tribù Ojibway, affascinò il mondo con il suo messaggio in difesa della natura e delle tradizioni del popolo indiano. In America, come in Europa, folle incantate lo seguivano quando parlava dell’antica armonia e della marea distruttrice della civiltà.

Ma solo dopo la sua morte, nel 1938, che si scopre la sua vera identità.

Il suo nome di battesimo è Archibald Belaney. Cresciuto nella rigida società inglese di fine secolo ottocento, incapace di accettarne le dure costrizioni, Archibald fugge in Canada a 17 anni per poter finalmente coronare il suo grande sogno: vivere tra gli indiani d’America. Rinnega le sue origini, diventa più indiano di un indiano, prende il nome di Gufo Grigio. Con al suo fianco la giovane Anahero (che svolse un ruolo molto importante per la visione fortemente conservazionistica di Grey Owl - N.D.A.) trova infine la sua vera missione: difendere la natura dall’aggressione dell’uomo bianco.

La storia della vita di Gufo Grigio è più affascinante di un romanzo. E ci porta un messaggio profondo di libertà e di rispetto per la vita......Gufo Grigio era un poeta. Dalle sue parole scaturivano visioni di foreste lontane, laghi blu, colline verdi e cieli puri dove gli animali vagavano liberi e gli uomini conoscevano ancora l’armonia del tutto” (dalla presentazione del libro sulla vita di Gufo Grigio di L. Dickson, 1999).

Questo breve capitolo è un breve ricordo di Gufo Grigio, un uomo che dedicò la sua esistenza alla conservazione del mondo selvaggio e ad un coerente stile di vita perfettamente in sintonia con lo spirito di natura. Buona parte del brano che segue è tratto dalla presentazione del suo libro più noto “Pellegrini della foresta” (Pilgrims of the Wild) edito in Italia nel 1940 la cui nota fu egregiamente e profondamente curata da Mario Ghisalberti (ed. Corticelli, Milano). 

“Gufo Grigio morì il 13 aprile 1938........

La storia di Gufo Grigio consiste nello sforzo di un uomo per raggiungere l’unità spirituale, la pace interiore, l’armonia fra se stesso e il mondo.

Fanciullo, a Hastings, è già un solitario, uno straniero. La casa, la città lo soffocano. Non sogna che le immense distese vergini delle colonie, il contatto con la Natura incontaminata in tutte le sue manifestazioni. A sedici anni, con cinque sterline in tasca, s’imbarca per il Canada. La sua sete di avventura ha di che abbeverarsi. Diventa vogatore di canoa sui fiumi rapinosi e sugli immensi laghi, cacciatore di animali da pelliccia per le profonde foreste nevose, portatore, guida, in un paese sconfonato, dove le distanze si contano a centinaia di chilometri, e l’uomo è solo col suo coraggio, come una bestia selvatica, di fronte alla Natura vergine e ostile.

Ma Gufo Grigio è poeta, anche se non ha ancora preso in mano la penna. L’ambiente grandioso, l’asperità del clima, le marce massacranti, le solitudini, le privazioni, le violenze, l’incertezza continua del domani che bisogna guadagnarsi con la propria destrezza fisica e mentale, invece di abbatterlo, agiscono sulla sua fantasia, la esaltano, si compongono in un mito epico, che egli si limita a vivere tumultuosamente, in attesa del giorno, in cui contemplando dal punto fisso della sua raggiunta coscienza di sé, lo canterà come poeta. E’ l’afflalto pànico della Foresta, l’unità della Vita in tutte le sue forme, che lo investe: quella Foresta col l’F maiuscolo che divdenterà il tema conduttore di tutta la sua opera, il Selvatico in cui non v’è nulla di di gretto né di meschino, nemmeno nei suoi delitti, sia esso concentrato in un abete gigante, o nel ruggito d’una cascata, o in una bestia, o in un indiano che aggattona la preda.

La Guerra lo richama in  Europa. Quando ritorna alla Foresta, la sua salute è minata dalle ferite. Trascorre cinque anni insieme con una tribù di Indiani Ojibway che lo adottano e gli impongono il nome di Wa-Sha-Quon-Asin, Gufo Grigio, perché egli ama viaggiare di notte.

Il lungo intimo contatto con questi veri figli della Foresta determina in lui la crisi risolutiva.

Dalla civiltà anglossane...... si sente sempre più lontano. Conclude che non sempre il Progresso si identifica con la civiltà, né la Prosperity tanto decantata col benessere comune, e neppure l’abbondanza con la ricchezza  tutta interiore dello spirito. L’esistenza eroica e semplice di quei suoi compagni primitivi gli sembra più vicina alla pace interiore, all’agognato accordo tra l’individuale e universale, che non gli isterismi e i mostruosi sussulti di una civiltà che a furia di adorare la macchina s’è meccanizzata essa stessa, s’è sollevata in una torre di rigido acciaio perdendo interamente il senso della terra senza con questo avvicinarsi al cielo d’un palmo. E, a torto o a ragione, si convince che l’indiamento dell’uomo meccanico, il far di lui una parte a sé dell’universo totalmente avulsa da tutto il resto, con potestà dispotica nel suo ambiente, superiore alle Leggi di Natura e all’Ordine Supremo, è un assurdo, una follia che potrà magari permettergli di trasferirsi in un batter d’occhio da un punto all’altro del suo dominio, di comunicare e vedere a distanze enormi, di costruire di sanare di sovvertire di uccidere con potenza impensata, ma non gli farà muovere un passo verso la felicità, l’armonia, la pace dello spirito, l’equilibrio al quale tende fatalmente ogni sforzo.

Per i suoi compagni invece, per questi cosiddetti selvaggi, l’uomo non è che una parte del tutto, un elemento di una compagine. Più modesti, e secondo lui anche più saggi, costoro non cercano di dominare il loro ambiente, ma di intonarcisi; sentono il ritmo della vita universa e su questo cercano di accordare la loro esistenza particolare. La legge del più forte vale per loro come per tutte le altre creature; soltando non pretendono che sia monopolio dell’uomo; passano con umiltà religiosa là dove gli altri irrompono con superbia demoniaca; adorano mentre gli altri bestemmiano; si profondano nello spirito mentre gli altri cozzano contro la materia.

Nel campo spirituale la scelta di Gufo Grigio è già fatta: i suoi fratelli sono costoro, anche se la sua pelle è bianca; la loro cultura è la sua.

Ma c’è di più.L’ambiente grandioso e selvaggio in cui questa vita ritmica può svolgersi ed ha perciò ragione di essere, la Foresta, sta scomparendo. La marcia del Progresso la distrugge. Incendi immani spianano la via alle traversine ferroviarie e alle fabbriche. Gli eroi primordiali, i mistici silvestri debbono diventare manovali e operai, o morire di fame. Incapaci di rinunciare ad un modo di vivere che è tipicamente loro e di adattarsi ad una mentalità che è agli antipodi della loro concezione del mondo, gli Indiani si ritraggono, stentano la vita in isole più e più circoscritte di foresta, soggiacciono a malattie terribili, muoiono come mosche di tubercolosi e d’alcolismo, entrano in agonia insieme con l’ambiente cui davano e da cui suggevano la linfa vitale.

E allora, seguendo un impulso generoso, cui c’è da far di cappello più che a qualunque certificato di nascita, Gufo Grigio non s’accontenta più d’una mera fratellanza spirituale con le vittime: vuole anche una fratellanza di sangue, se ne cinge come d’una corona di spine, e divide con loro il martirio......

Il messaggio che “I Pellegrini della Foresta” ci recano consiste in questo Spirito della Foresta che è sul punto di scomparire per sempre. E’ l’invocazione, lanciata prima che sia troppo tardi, da una civiltà che ha ancora qualche cosa da dire e da insegnarci, e che scomparendo totalmente ci lascerebbe spiritualmente più poveri. E’ la protesta di Pan contro il prepotere artificioso di Hermes.

Questo libro non condanna soltanto l’estinzione spietata ed inutile di una specie di animali selvatici, né la rovina degli ultimi lembi di Foresta; bensì la distruzione del Principio universale, del patrimonio spirituale, degli assoluti che s’incarnano in codesti aspetti della Vita. Fa sentire, fra i fumi della benzina, il fresco profumo di qualche fiore selvaggio; addita, fra gli scatti geometrici dei congegni meccanici, l’armonia e la bellezza presenti nelle movenze di un animale selvatico o di un Indiano nel loro ambiente grandioso; mostra, fra squallide quinte di cemento e travature metalliche, fondali d’alberi secolari e montagne e laghi e fiumi, e silenzi verdi e bianchi, e orizzonti limpidi e sgombri, e uomini semplici e forti come eroi di leggenda........

..... Parlando di se come scrittore, Gufo Grigio dichiara: Per me il fucile ha sempre avuto più possa della penna. Il bordo della canoa contro l’anca, lo schizzare della schiuma in pieno viso, il ritmo della marcia con le racchette da neve, il richiamo di montagne e vallate lontane, la maestà della tempesta, la calma e taciturna presenza degli alberi che sembrano meditare nel loro silenzio, l’ingenua fiducia delle piccole creature viventi, la compagnia di uomini semplici: ecco la mia ispirazione e la mi guida...”.

Gufo Grigio testimonia anche lo sforzo e la forza del singolo per la salvaguardia del mondo selvaggio, cominciando a proteggere avidamente la vita dei castori vittime di cacciatori e bracconieri la cui specie stava rapidamente estinguendosi. Fu un vero e proprio precursore della conservazione della natura, un precursore che maturò spontaneamente questa necessità e che cercò di comunicare al mondo tutto sia con i suoi messaggi diretti (conferenze) che con bellissimi e partecipi scritti.

Non si potrebbe portare quasi a conclusione questo breve capitolo su Grey Owl senza citare due suoi bellissimi passi tanto eloquenti quanto profondamenti veri. Dal mondo dei castori il richiamo che sentì per la scomparsa di due suoi cari “amici”: “Talvolto lo sentiamo in mezzo alla bufera, o nel silenzio della sera, all’alba nel canto degli uccelli, o nel richiamo di una civetta, in lontananza nella notte. Risuona nelle cadenze di un canto indiano e si alza nelle note profonde di un organo suonato dalla leggera mano di un maestro, sussurra nel suono dei torrenti sonnacchiosi e mormora nel rumore del fiume, nell’incessante fragore delle onde contro la riva di un lago. Ognuna di queste è una nota della complessa armonia della Natura, sono corde suonate a caso dalla maestosa sinfonia dell’infinito che risuona per sempre nelle vaste sale del tempo”. 

E poi più in generale sul mondo selvaggio:“Una foresta ininterotta si stende da tutte le parti della capanna in cui scrivo, fluisce innanzi, in un cupo fiotto ondeggiante, verso settentrione, fino all’Oceano Artico. Nessuna ferrovia la traversa, per bruciare e distruggere, nessun colonizzatore la rovina col fuoco e con l’ascia. Da ogni eminenza, si possono contemplare leghe innumerevoli di Foresta, che non nutrirà mai le fauci affamate del commercio.

Questo è un posto differente, è un’altra giornata.

In nessun luogo qui la vista delle ceppaie e delle nobili vette abbattute offende l’occhio o rattrista lo spirito; nè la bellezza strana, selvaggia, inimmaginabile di questi tramonti nordici è sfigurata da filari e filari di alberi scheletrici ed orrendi......... Ritorno alle origini? Forse sì; ma ci hanno portato fortuna.

Tutti i sogni sono diventati veri, e anche più. Scomparsa è la paura assillante di una mano vandalica. La vita selvatica in tutte le sue  numerose varietà, animali ritenuti timidi ed elusivio ci passano ora quasi a portata di mano, e a volte si fermano presso la capanna, ed osservano. Ed uccelli, e bestie minute e grosse, e creature piccole e grandi, si sono raccolti qui intorno, e frequentano il posto, e volano e nuotano o camminano corrono secondo la loro natura.

Piomba la Morte, come deve pure talvolta, e sorge la Vita al suo posto. La natura vive e procede e fluisce tutto intorno nel suo assetto armonioso e metodico.

Le cicatrici degli antichi incendi pian piano scompaiono; gli alti alberi diventano ancora più grandi. Si riaffollano le città dei castori. Il ciclo continua.... “.

E nel rispetto dei sentimenti profondi che Grey Owl nutriva per i suoi castori, non possiamo non ricordare le gesta di McGinnis e McGinty, due castorini strappati alla morte e che furono all’origine della sua presa di coscenza e che lo portarono all’indefessa azione di tutela della specie. Un saluto anche a “Pellaccia”, all’amatissima Jelly Roll e, nell’insieme, a tutto il popolo dei castori poeticamente declamati da Grey Owl nella sua bellissima opera “Pilgrims in the wild”.

Addio e grazie Grey Owl e che il tuo messaggio risuoni negli spazi del tempo infinito. Quando morì a soli cinquant’anni la causa apparente sembrò essere la polmonite ma scrisse Dickson (1999)  “La causa della morte era la consunzione: consunzione delle speranze e degli scopi che nascono dall’immaginazione e che infine segnalano al cuore quando fermarsi”.

Disse una volta WA-SHA-QUON-ASIN:“Questa non è la voce di Gufo Grigio che parla, ma la voce di un esercito potente e che aumenta in continuazione: i difensori della fauna selvaggia, le cui voci dovranno essere ascoltate. Che le vostre orecchie stiano aperte” (Dickson, 1999). E poi, come già citato in questo libro, per concludere, una sua bellissima quanto eloquente affermazione: “ Voi siete stanchi di questi anni di civilizzazione. Io vengo, e cosa vi offro? Una singola foglia verde”.



Il ridimensionamento dell'antropocentrismo



“L’uomo è un fenomeno filosofico sorpassato. L’universo è fin troppo vasto perché solo l’uomo vi dimori” (H. D. Thoreau). E' triste doverlo ammettere, ma l'impatto che l'uomo esercita sul territorio è in drammatica contrapposizione con le esigenze dell'economia naturale. Sarebbe auspicabile pervenire ad una drastica riduzione della pressione demografica, ma un tale auspicio si colora purtroppo di folle utopia. "Ridurre drasticamente la pressione demografica: un grande atto di altruismo verso la natura"; è questo il precetto che ognuno di noi dovrebbe imparare a memoria, ma sappiamo bene che l'invocazione ha poche possibilità di essere ascoltata. E' inutile discutere sulla riduzione dei consumi, sull'inversione delle tendenze o sul controllo dell'inquinamento: sono solo parole che vanno via con il vento. La realtà è un crudo aut-aut, o si ridimensiona l'uomo o la natura. E' l'uomo che deve adattarsi alle esigenze della natura e non viceversa. La natura deve essere salvata e rispettata per il suo valore in sé, non per un nostro interesse, materiale, etico o spirituale che sia. Il binomio uomo-natura deve affrancarsi definitivamente dalla conflittualità che lo ha distinto nel corso dei millenni, e deve emendarsi dalla inveterata visione antropocentrica dell’universo, per dare finalmente luogo al ristabilirsi di un rapporto armonico e unitario tra uomo e natura e per riaffermare il valore in sé delle cose. Scrisse Aldo Leopold (1949 in Devall & Sessions, 1989) “.... siamo solo compagni di viaggio di tutte le altre creature nell’odissea dell’evoluzione.... . Acquisire una consapevolezza ecologica cambia il ruolo dell’homo sapiens da conquistatore a semplice membro e cittadino della comunità-terra. Questo implica rispetto per i propri compagni e anche per la comunità come tale”.

Tutti siamo colpevoli: chi scrive più degli altri. Con le nostre esigenze attuali anche la vita più tranquilla è distruttiva per la natura. 

Fin quando l'umanità persevererà nell'attuale modello di sviluppo, gli animali selvatici vedranno ridurre il proprio spazio vitale giorno dopo giorno per fare posto al "signore uomo" re del creato.

Scrive J. Passmore (1986): “.... penso che sia vero che gli uomini abbiano bisogno di una nuova metafisica genuinamente non antropocentrica..... L’elaborazione della nuova metafisica mi sembra che sia il compito più importante della odierna filosofia..... il sorgere di nuovi atteggiamenti morali verso la natura è quindi connesso al sorgere di una nuova filosofia della natura vista nella sua totale e onnicomprensiva globalità. Questo è l’unico fondamento adeguato di un’efficace sensibilità ecologica”. Completano bene il discorso Devall & Sessions quando dicono: “L’ideologia dominante è il sistema dei valori, opinioni, costumi e norme che formano la struttura di riferimento per una collettività, per esempio una nazione..... Raramente si tengono dibattiti sui presupposti generali della concezione del mondo. Per i problemi vari si trovano giustificazioni, mentre le posizione diverse non sono affrontate apertamente. Spesso si taccia di eresia chi ha messo in discussione le tesi basilari dell’ideologia dominante”. I nuovi eretici del XXI° secolo sono proprio quelli che mettono in discussioni le certezze delle ideologie dominanti antropocentriche. Nella introduzione alla sua ottima opera Dalla Casa (1996) scrive che: ”il problema ecologico nasce dall’atteggiamento della cultura dominante, dal pensiero di fondo della civiltà industriale, dal suo inconscio collettivo. E’ un problema filosofico, molto più che un problema pratico e tecnico. Se non si modifica profondamente la visione del mondo, si ottengono solo risultati transitori, effetti di spostamento del tempo, pur utilissimi, di problemi insolubili. Perché si cambi una visione del mondo, cioè una cultura, si richiedono di solito tempi dell’ordine di un paio di secoli. Ma non si salverà la madre Terra senza un tale capovolgimento, cioè senza la fine della civiltà industriale, che è l’espressione attuale della cultura occidentale e l’applicazione pratica del materialismo. Invece, una volta scomparsa o modificata profondamente la visione del mondo dell’Occidente, il problema ecologico non esisterà più........

....... Una delle obiezioni che viene mossa all’ecologia profonda è che non comporterebbe azioni concrete: è bene evidenziare ancora che le svolte culturali non sembrano concrete solo perché si svolgono su tempi lunghi. Sono però molto più profonde e radicali”.

Giuseppe Acerbi, esploratore italiano del settecento, dopo l’esperienza di una lungo viaggio nel grande nord finlandese scrisse (in Francescato, 1988): “.... Non andrà colà per ammirare le opere dell’uomo incivilito; ma bensì per contemplarvi la natura, l’ordine, l’armonia prevalenti in tutte le produzioni della creazione, l’immutabile legame della catena delle cose.... con che disegno sono poste nell’economia della natura queste aurore boreali, quegli spettacoli sì brillanti dell’aria...; quei laghi, quei fiumi, quelle cataratte... fin tanto che si riterrà persuaso ch’egli è il re delle cose create e si abbandonerà all’idea presuntuosa che tutte le cose poste su questo globo non per altro esistono che per esso lui....

è una verità provata dall’esperienza quotidiana, sia per gli individui che per intere società, che la loro felicità diminuisce in proporzione al loro allontanamento dalla natura”.

Solo la totale scomparsa dell'antropocentrismo salverà la vita sul pianeta terra! Ogni altro compromesso sarà destinato a fallire. Per dovere di chiarezza è bene riportare, sul termine “antropocentrismo”, quanto scrive Hargrove (1990): “Vi è inoltre molta confusione provocata dai due significati conflittuali del termine antropocentrismo usato nell’etica ambientale. Come si è già notato, la parola è spesso usata a significare ‘utilitaristico’, ma anche, altrettanto spesso, ‘umano’ o ‘concepito in termini di consapevolezza umana’. I non antropocentristi, da un lato, richiedono spesso il riconoscimento, o la scoperta, del valore non antropocentrico, così che le cose naturali non vengano più trattate in modo puramente utilitaristico. Gli antropocentristi, d’altro lato, che non vogliono trattare tutte le cose naturali utilitaristicamente e che definiscono il termine nella seconda accezione, rispondono che anche se attribuiamo valore non antropocentrico ad animali e a oggetti naturali, i valori saranno sempre antropocentrici o ‘umani’, in quanto sono sempre valori creati da uomini che valutano”. Noi crediamo che ciò è vero solo se ci dimentichiamo del “valore in sé delle cose”, valore indipendente ed autonomo che prescinde la percezione umana.

Scrive Dalla Casa (1996): “...Non è possibile pensare di salvare il mondo dalla catastrofe ecologica senza analizzare il concetto di sviluppo e senza ricordare che questo concetto è il prodotto di una sola cultura umana in un determinato momento della sua storia: la Natura viene distrutta dal dèmone del fare che divora l’Occidente e dalla sua smania di modificare il mondo.

L’Occidente, preda dei dèmoni dell’avere e del fare, ha dimenticato il vivere, il conoscere e l’essere...”.

I popoli nativi, come più volte espresso in questo lavoro, rappresentano un illuminato esempio di integrazione ambientale e di sviluppo spirituale ecocentrico, ben lontano dai concetti antropocentrici. Scrive J.D. Hugues (1983 in Devall & Sessions, 1989): “(...) I modelli culturali degli indiani d’America, basati su una caccia e una agricoltura attente e in accordo con le percezioni spirituali della natura, hanno effettivamente conservato la vita sulla terra e la terra stessa (...). La concezione indiana dell’universo e della natura deve essere esaminata seriamente come valido modo di relazione con il mondo e non come visione superstiziosa, primitiva e non evoluta.... Forse l’intuizione principale che può essere tratta dall’eredità indiana è il grande rispetto per la terra e la vita (...). E’ importante per noi imparare dalla natura come fecero i primi indiani d’America, tenendo l’orecchio al suolo, e riconquistare una nostra prospettiva sperimentando spesso un contatto diretto con il mondo non artificiale, con gli animali e gli spazi selvaggi.... Nella visione tradizionale degli indiani la gente, gruppo sociale interdipendente, vive in armonia con la natura (...)”.



L’errore antropocentrico

di Guido Dalla Casa


Premesse 

I movimenti che si ispirano a idee ecologiste più profonde di quelle usuali dei mezzi di comunicazione e delle Associazioni ambientaliste (risorse, rifiuti, pulizia, inquinamento, parchi, ecc.) si stanno fortunatamente moltiplicando. Come esempi: l’Ecologia Profonda, La Decrescita Felice, l’Ecopsicologia, il Bioregionalismo, lo studio delle culture native, la critica alla civiltà, la spiritualità al di fuori delle religioni organizzate, e altri.

Alcuni di questi movimenti non riescono a liberarsi completamente da un sottofondo di pensiero che per la civiltà occidentale è più che millenario: l’antropocentrismo. Tutto viene riferito all’uomo come unico depositario di valori. A mio parere, se non ci si libera da questa idea di base, l’azione ecologista è destinata a fallire.

Dei movimenti sopra citati, l’Ecologia Profonda ha come sottofondo l’ecocentrismo: l’abbandono dell’idea antropocentrica è la sua premessa fondamentale. Degli altri, qualcuno non si occupa in modo particolare del problema o non manifesta una piena consapevolezza dell’aspetto negativo dell’antropocentrismo.

Secondo la critica alla civiltà, l’umanità dei raccoglitori-cacciatori si vedeva spontaneamente in una rete interconnessa di viventi, con spazio per gli altri esseri senzienti pari a quello umano. Per quanto riguarda l’ecopsicologia, l’inconscio ecologico comprende l’umanità e la pone all’interno della comunità dei Viventi.

Questi due movimenti sono quindi consapevoli della necessità di una critica profonda all’antropocentrismo corrente.

Se ci riferiamo a istituzioni, documenti ufficiali o istanze di tipo politico, l’antropocentrismo è sempre presente, anzi è considerato ovvio.

Come esempio, diamo un’occhiata al testo della Commissione Europea L’economia degli ecosistemi e della biodiversità, che pure è un documento con le migliori intenzioni. Il linguaggio è strettamente economico. Alcuni esempi: “nostro stock di capitale naturale”, “capitale naturale della terra”, “ampliare il nostro concetto di capitale fino a includere il capitale umano, sociale e naturale”. Il concetto di capitale è ripetuto più volte, anche quello di capitale “naturale”!

L’idea sempre presente è la collocazione degli umani al di fuori del mondo della Natura: questa è un’assurdità da tutti i punti di vista. L’essere umano appare come un elemento estraneo, al di sopra di tutto: è lo scopo e l’utente finale di tutti i servizi.

Anche in documenti con intenzioni filo-ecologiste, si parla di “patrimonio dell’umanità”, non soltanto per qualcosa come le piramidi d’Egitto o un’opera d’arte, ma per le Dolomiti o il Grand Canyon del Colorado, che sono lì da centinaia di milioni di anni, mentre la nostra specie ha soltanto due o tre milioni di anni! Anche tenere in buono stato il mondo “per le generazioni future” è un’espressione fortemente antropocentrica.


La scienza

E’ ormai noto alla scienza, fin dai tempi di Lamarck, cioè da un paio di secoli, che l’uomo è una specie animale a tutti gli effetti, anche facilmente classificabile: Classe Mammiferi, Ordine Primati. La nostra specie partecipa completamente della vita del complesso ecosistemico, le nostre funzioni cellulari e fisiologiche sono le stesse degli altri mammiferi, anche il comportamento non presenta particolari eccezionalità qualitative. Gli altri animali, in particolare Mammiferi e Uccelli, soffrono, amano, ragionano, curano la prole, hanno una vita sociale strutturata, trasmettono cultura.

Quindi due secoli sono passati invano.

Le differenze genetiche fra un umano e uno scimpanzé bonobo sono dell’ordine dell’1%. Tuttavia la scienza “ufficiale” riduzionista-meccanicista-materialista-cartesiana dimentica le sue stesse conoscenze: per non dover parlare di rispetto per la Vita ed evitare le conseguenze sull’etica, ha sostituito il precedente “diritto divino” con una specie di “merito selettivo” ed ha non solo legittimato e continuato l’opera di sfruttamento del mondo naturale e di sterminio dei viventi, ma anche giustificato “esperimenti” che comportano terribili sofferenze a tanti esseri senzienti.

Recentemente è stato pubblicato in italiano un libro di uno scienziato olandese (R.Corbey – Metafisiche delle scimmie – Bollati Boringhieri, 2008), in cui, oltre ad altre considerazioni, si ricerca quali possano essere le caratteristiche che dividono l’umano dall’animale. In un recente passato si è sempre dovuto spostare questo confine, man mano che si accumulavano nuove scoperte e nuovi studi, ma infine il tentativo di mantenere comunque una divisione è fallito: il confine non esiste. Gli altri animali giocano, soffrono, amano, hanno emozioni profonde, tengono un comportamento del tutto paragonabile a quello umano. L’antropocentrismo è privo di qualunque base scientifico-filosofica.

Gli altri animali comunicano certamente fra loro. Se il criterio di divisione fosse la scrittura, dovremmo relegare “dall’altra parte” quasi tutte le culture umane, in cui le conoscenze sono trasmesse oralmente: ma oralità e scrittura sono solo modalità diverse di trasmissione, non c’è alcun “progresso” da una all’altra. Altrimenti saremmo costretti a descrivere la “storia” entro il solito paradigma che porta all’Occidente e poi alla civiltà industriale come al vertice del “progresso”, cosa ormai superata da tutti i punti di vista.

Ricordo benissimo di aver letto, una trentina di anni orsono, che uno scienziato aveva condotto un esperimento di fecondazione “in vitro” che interessava due gameti, di cui uno umano e l’altro di scimpanzé. In uno dei tentativi la fecondazione era riuscita e si era sviluppato un embrione in vitro, in fase molto iniziale. Non ho alcuna garanzia sulla veridicità del fatto, ma non mi sembrerebbe una cosa tanto strana. Comunque la civiltà occidentale non poteva sopportare una notizia simile: così non se ne è più sentito parlare. Era un’evidenza in più della nostra completa appartenenza alla Natura, se pure ce ne fosse stato bisogno.

Il tutto alla faccia del metodo scientifico, dell’illuminismo e della ragione.


Studi recenti

I brani che seguono sono riportati dall’articolo “Minds of their Own – Animals are smarter than you think” (La loro mente – Gli animali sono più intelligenti di quanto crediate) di Virginia Morell, pubblicato sul numero di marzo 2008 del National Geographic. L’articolo è una sintesi dei risultati di trent’anni di studi sulla mente, sul comportamento e sulle capacità di apprendimento di molti esseri senzienti non-umani da parte di Irene Pepperberg e altri scienziati. La Pepperberg iniziò il suo progetto nel 1977: si portò in laboratorio un pappagallo di nome Alex con l’intento di insegnargli la lingua inglese. Ma leggiamo qualche brano dell’articolo:


“Alex contava, riconosceva colori, forme e dimensioni, aveva un’elementare nozione del concetto di zero”.

“Gli scimpanzé, i bonobo e i gorilla sono capaci di apprendere il linguaggio dei segni e di utilizzare simboli per comunicare con noi. Il bonobo Kanzi porta con sé una lavagna piena di simboli che gli permette di “parlare” ai ricercatori, e ha inventato, per esprimersi, nuove combinazioni simboliche”.

“Azy (un orango) ha una ricca vita interiore. Oltre a comunicare i suoi pensieri con i simboli di una tastiera, Azy mostra anche una “teoria della mente” (cioè comprende il punto di vista di un altro), e fa scelte logiche che dimostrano una notevole flessibilità mentale”.

“Oggi un ampio numero di studi indica che l’intelligenza è una dote flessibile, e le sue radici nel mondo animale sono estese e profonde”.

“Non siamo i soli a saper inventare, a pianificare le nostre azioni, ad avere un’immagine di noi stessi; e neppure i soli a mentire e ingannare”.

“L’intelligenza è un albero dalle mille ramificazioni: non ha un tronco unico che punta solo nella nostra direzione”.

“Dotati di un grosso cervello e agili tentacoli, i polpi sanno bloccare le loro tane con delle rocce, e si divertono sparando acqua a bersagli come bottiglie di plastica o ai ricercatori”.

“Kanzi, un bonobo, da piccolo ha imparato a comunicare spontaneamente osservando gli scienziati che addestravano sua madre. A 27 anni, questo bonobo “parla” grazie a più di 360 simboli di tastiera, e capisce il significato di migliaia di parole dette a voce. Kanzi sa formulare delle frasi, eseguire nuove istruzioni, e fabbricare strumenti di pietra, cambiando tecnica a seconda della durezza del materiale. Crea strumenti come quelli dei primi umani”.

“Le ghiandaie sanno ragionare: sapendo di essere ladre, spostano le provviste di cibo se un’altra ghiandaia le osserva; pianificano i pasti futuri, e nel fare provviste tengono conto dei bisogni futuri piuttosto che della fame del momento”.

“I delfini hanno ottima memoria, estro creativo e capacità linguistiche; sono versatili, sia dal punto di vista cognitivo che comportamentale. Hanno un grande cervello generalista, proprio come noi. Modificano il proprio mondo per rendere possibili nuove cose”.


E’ anche evidente che si ragiona sulle medie: il più intelligente dei bonobo ha (o è) più mente-psiche-spirito del meno dotato degli umani.

Un altro ottimo articolo di Mary Roach (Almost Human: National Geographic, aprile 2008), riporta frasi come “Yet it is impossible to spend any time with chimpanzees and not be struck by how similar they are to us” (E’ impossibile trascorrere qualche tempo con gli scimpanzé e non restare colpiti dalla constatazione di quanto sono simili a noi): vi sono interessanti considerazioni sulle diverse culture degli scimpanzé, anche in un’area limitata, a seconda dell’habitat in cui si trovano a vivere.

Ancora dal National Geographic, ottobre 2010, ecco un’affermazione di Jane Goodall: “You cannot share your life with any animal with a well-developed brain and not realize that animals have personalities” (E’ impossibile vivere insieme a qualsiasi animale con un cervello sviluppato senza rendersi conto che ogni animale ha una personalità).

Se poi ci avventuriamo a studiare la mente di un termitaio o il comportamento degli esseri collettivi, ci accorgiamo ancora di più dell’assurdità delle concezioni meccanicistiche correnti.



L’ambiente

Viene usato assai spesso, quando si tratta di problemi collegati all’ecologia, la parola ambiente, termine fuorviante, perché trasmette l’idea che si tratti di un’entità inerte, “non viva”.

Si usa chiamare “ambiente” un complesso di:

- oltre venti milioni di specie di esseri senzienti;

- tutti gli ecosistemi che, secondo recenti teorie scientifico-filosofiche, si possono considerare pure esseri senzienti;

- sostanze in continuo scambio e movimento;

- relazioni fra tutti gli elementi e le entità interne al complesso.

Il termine deriva dall’idea di ambiente dell’uomo, cioè è impregnato dal fortissimo antropocentrismo della cultura occidentale. L’uomo resta l’unico punto di riferimento. In sostanza si usa chiamare “ambiente” un Organismo Totale vivente-senziente, come se fosse un “contorno” di alcune sue cellule (la nostra specie).

La Terra non è “il nostro ambiente” o “la nostra casa”, ma è l’Organismo di cui facciamo parte: siamo un suo tessuto, siamo come un tipo di cellule integrate in un organismo biologico, e che dipendono in modo totale dalle sue possibilità di omeostasi, cioè dalla capacità del Pianeta di autocorreggersi mantenendosi in condizioni stazionarie.


Le tradizioni religiose nate nel Medio Oriente

Riporto dalla versione cattolica della Bibbia pubblicata da Marietti nel 1970:


Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza, e abbia dominio sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sul bestiame, su tutte le fiere della terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra” (Genesi, 1/26).

...e Dio disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela e abbiate dominio sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sul bestiame e su tutte le fiere che strisciano sulla terra”. (Genesi, 1/28).

Dio benedisse Noè e i suoi figli e disse loro: “Siate fecondi, moltiplicatevi e riempite la terra. Il timore di voi e il terrore di voi sia in tutte le fiere della terra e in tutto il bestiame e in tutti i volatili del cielo. Per quanto concerne ciò che striscia sul suolo e tutti i pesci del mare, essi sono messi in vostro potere”. (Genesi, 9/1-2).


Qui non c’è l’idea di “custodia” affidata al bravo amministratore, che sarebbe già una posizione fortemente antropocentrica, c’è ben di peggio.

Forse qualche istituzione vorrebbe ancora far credere che un pitecantropo, o un australopiteco, si è svegliato una mattina e si è accorto di avere qualcosa che prima non aveva (l’“anima”), oppure che un cucciolo di questi viventi sia improvvisamente nato “umano”. E il Neanderthal, che ha vissuto con il Sapiens in Europa per decine di migliaia di anni, “aveva” o “non aveva” l’anima? Spero che non si raccontino più simili amenità, neppure ai bambini! Forse è più facile pensare che tutti questi esseri senzienti sono sempre stati immersi nell’Anima del mondo, per usare un’espressione dello psichiatra junghiano James Hillmann.

Ma qualche idea diversa c’era in alcune culture umane, come dimostrano questi pensieri, tratti da antichi testi indiani:


“Ogni anima va rispettata e per anima si intende ogni ordine, ogni vitalità che la sostanza possa assumere: il vento è un’anima che si imprime nell’aria, il fiume un’anima che prende l’acqua, la fiaccola un’anima nel fuoco, tutto questo non si deve turbare”.


In uno dei sutra si loda chi non reca male al vento perché mostra di conoscere il dolore delle cose viventi e si aggiunge che far danno alla terra è come colpire e mutilare un vivente.


Il valore intrinseco della Natura

Le autorità, i governi, “le persone che contano” hanno tutti lo stesso dio: lo sviluppo, l’aumento indefinito dei beni materiali, che comporta l’aggressione al resto della Natura, considerata al nostro servizio e senza alcun valore “in sé”. Tutto in funzione umana, come cosa ovvia! Finché non ci liberiamo da questo sottofondo, ogni azione alla lunga sarà inutile.

Anche dire che la Natura (o un’entità naturale) è “patrimonio di tutti” o costituisce una risorsa sottintende una concezione fortemente antropocentrica; così pure dire di voler salvare un “ambiente naturale” per poterlo trasmettere “alle generazioni future”. Sono tutte espressioni che considerano la centralità dell’uomo come ovvia.

Secondo un tipo di pensiero degno di ogni considerazione anche se assai raro in Occidente, i valori non esistono solo nell'uomo, ma pure negli altri animali e nelle piante. Il punto di partenza più naturale per trovare i valori è di cercarli negli altri animali, che certamente hanno emozioni e sentimenti, oltre alla capacità di soffrire.

Per un lupo, l'alce ha un valore strumentale, come preda che sostiene la vita e il benessere del lupo. Lo stesso lupo può considerare i membri del proprio branco come esseri con un valore intrinseco, e non li tratta solo come strumenti. Gli altri esseri creano valori indipendentemente da ciò che l'essere umano pensa di loro.

Ci sono anche i valori delle piante. Tutti gli organismi hanno la propria “mente”: l'essere umano può sia promuovere che danneggiare questa qualità, che però rimane indipendente dall'uomo. Che una pianta di casa cresca rigogliosa o meno può dipendere dagli umani, però il suo benessere o malessere è una qualità propria della pianta. Il problema nasce dall'affermazione della mancanza d'identità nelle piante, affermazione priva di ogni fondamento.

Ci dobbiamo poi domandare se i sistemi, o gli “esseri collettivi”, possono avere valori non riconducibili ai singoli individui. La tradizione lega i valori agli individui e perciò non comprende che una montagna possa avere un valore intrinseco. Ci dobbiamo anche chiedere se la Natura come un tutto possa essere un soggetto con una mente, e se una montagna o un fiume possano provare esperienza. Le ricerche attuali sulla coscienza e sull'intelligenza artificiale potrebbero gettare nuova luce su questi problemi.

Sugli argomenti sopra accennati sono assai interessanti gli scritti e le considerazioni della studiosa finlandese Leena Vilkka, docente di filosofia all’Università di Helsinki.


Noi siamo la Terra

Siamo immersi nell’Anima del Mondo o, se preferite, nell’Inconscio collettivo, nell’Inconscio ecologico, la Mente della Terra: noi siamo la Terra! Questo è uno degli approcci soprattutto dell’ecopsicologia. Siamo la parte più “cosciente” della Terra, non c’è alcun distacco uomo-Natura. La repressione dell’inconscio ecologico è la radice profonda del male insito nella società industriale. Ritrovare l’accesso verso l’inconscio ecologico vuol dire ritrovare la via verso la salute psicofisica dell’individuo, della società e dell’ecosistema.

E’ necessario emancipare l’ecologia da semplice branca della biologia dalla quale è nata a una scienza delle relazioni e dell’insieme.

Siamo parte integrante del mondo in cui viviamo tanto quanto i fiumi e gli alberi, intessuti dello stesso intricato flusso di materia-energia e mente.


Il sentimento religioso è una prerogativa umana?

Lascio la parola a Jane Goodall, che ha trascorso 40 anni fra gli scimpanzé:


Nel profondo della foresta di Gombe c’è una spettacolare cascata. Talvolta, mentre gli scimpanzé si avvicinano e il rombo dell’acqua che cade si fa più intenso, il loro passo si affretta, i peli si rizzano dall’eccitazione. Quando raggiungono il corso d’acqua mettono in atto scene magnifiche, alzandosi in piedi, ondeggiando ritmicamente da un piede all’altro, sbattendo le zampe nell’acqua bassa e in corsa, raccogliendo e lanciando grosse pietre. A volte salgono sulle liane che penzolano dall’alto e fanno l’altalena fra gli spruzzi dell’acqua che cade. Questa “danza della cascata” può durare dieci o quindici minuti, dopodiché può accadere che uno scimpanzé si sieda su una roccia, con gli occhi che seguono il percorso dell’acqua. Che cos’è, quest’acqua? Continua ad arrivare, continua ad allontanarsi, eppure c’è sempre.

Probabilmente gli scimpanzé provano un’emozione simile a una meraviglia o ad un riverente rispetto. Se hanno un linguaggio parlato, se possono discutere delle emozioni che innescano queste magnifiche scene, ciò significa che hanno una religione animistica “primitiva”.

La cascata è sempre stato il luogo più spirituale di Gombe, e ora sappiamo che era considerata un luogo sacro dal popolo che vi viveva un tempo, un luogo in cui gli uomini-medicina eseguivano cerimonie una volta all’anno. Mi chiedo se non abbiano mai osservato, come rapiti, le danze selvagge degli scimpanzé. - Jane Goodall


Conclusioni

Se non usciamo dall’antropocentrismo, così radicato nella cultura occidentale e nella filosofia di fondo del pensiero di derivazione giudaico-cristiana-islamica, tutti i tentativi di reintegrazione nel mondo naturale sono destinati a fallire: sarà ben difficile ottenere la fine del mito della crescita e la salvezza della Terra continuando a pensare che tutto è fatto per l’uomo. Se insisteremo in quell’idea di fondo, sarà l’Ecosistema totale a provvedere a un ridimensionamento della nostra specie, probabilmente con un transitorio poco piacevole.

Dobbiamo perseguire il benessere dell’Ecosistema, perché se continuiamo nell’illusione del cosiddetto benessere dell’uomo senza tenere conto della Totalità ci comportiamo come cellule patologiche di un Organismo.

La visione ideologica che ci fa credere unici e inconfondibili fra tutti gli altri esseri viventi sul pianeta, è solo un delirio di grandezza.



E se provassimo a guardare 

il mondo alla rovescia?



La nostra esistenza è scandita da categorie spesso rigide ed immutabili basate su archetipi strutturali che possono appartenere alle più svariate origini: religiose, ligislative, mentali, culturali, tradizionali, ecc. Queste categorie collocano il nostro modo di vedere le cose in settori del tutto parziali perché sono sempre in riferimento a modelli “costruiti” dalle variegate ed artificiose convenzioni. Ma, una semplice analisi mostra subito ciò che regge tutto questo: la relatività del tutto. Per chiarire facciamo qualche esempio. Hannu (sono nomi fittizi) rimane affascinato quando vede un albero naturalmente seccatosi, contorto, senza foglie e in procinto di cadere. Poi arriva Karen che dice che le piante secche non gli piacciono perché per lei è bello osservare un grande albero rigoglioso che vegeta nello splendore di un bosco. Poi arriva Igor che dice che la sua vita è nella città e si trova molto bene perché ha gli amici, i luoghi in cui ritrovarsi e passare allegre serate. Poi arriva Arrigo che dice che per lui la città è insopportabile e vorrebbe fuggire in campagna in compagnia degli uccelli, delle messi e dei vigneti. Poi arriva Alfred che dice che tutto è stato creato da Dio e tutto è a disposizione dell’uomo per poterne goderne i frutti e raccoglierne le gioie. Poi arriva Dolores che dice di non credere in nessun dio e vuole che la sua vita sia libera dal suo alienante lavoro di operaia in una fabbrica di tessuti e gli piace molto andare in bicicletta. Poi arriva Alexander che afferma di non accettare che gli venga proibito di gridare per la strada contro il modo di fare degli altri. Poi arriva James che dice che per lui è molto bello guidare la macchina, mentre Sebastian afferma che lui odia la macchina e preferisce andare a piedi. Poi arriva Sigmund che ricorda che per una corretta morale pubblica ognuno dovrebbe contenersi in mille modi per il decoroso vivere “civile”. Poi arriva Francoise che attraversa un periodo di crisi e vede ogni cosa in salita ed insopportabile. Poi lo stesso Francoise, in ripresa psicologica, osserva che gli elementi che prima gli sembravano impossibili ora li vede di più facile approccio e non è poi tanto difficile affrontarli. Poi arriva….., poi arrivano molti altri, a centinaia, a migliaia che affermano altro….. questo è buono; no risponde Antoine, a me non piace…… Insomma  occorre fermarsi con gli esempi altrimenti potremmo coprire le pagine di una infinita enciclopedia. Inseriamo ora, per meglio rendere l’idea, un piccolo brano di Erasmo da Rotterdam tratto dalla sua celeberrima opera “Elogio della follia” (1994 – capitolo XLVII. La felicità… sta in quel che si crede): “….. Può capitare per esempio che uno vada matto per il pesce in salamoia andato a male, al cui odore tutti si turano il naso. Quell’uomo è senz’altro contento mangiando il suo pesce, ma non lo sarebbe se gli dessero dello storione, giudicato eccellente da tutti, che a lui però dà la nausea….. E se qualcuno acquista una crosta da quattro soldi, e se la rimira soddisfatto come se fosse un quadro di Apelle o di Zeusi, non è forse più felice di chi possiede davvero un’opera di tale fama, costata magari un patrimonio, ma non prova alcun vero piacere nel contemplarla?…”. 

Ma in tutto questo c’è qualcosa che non collima. Perché su tante argomentazioni anche similari c’è chi le vede in un modo e chi in un altro? Come detto in premessa, la risposta è sin troppo facile: sono le categorie di riferimento che guidano il giudizio e il pensiero di una circostanza, categorie personali o, più spesso, categorie artificiosamente costituite dalle comunità sociali. Ecco che allora tutto diventa relativo perché ogni cosa ha un valore solo se traslata verso qualche schema di riferimento, che sia codificato mentalmente ed accettato sino a diventare inconscio o che sia imposto, non accettato ma ugualmente applicato. In altri termini la categorizzazione di tutti gli elementi della vita, ed allora, se cade un parametro, cade a sua volta la visione della circostanza riferita a quel parametro. Siamo quindi tutti ingabbiati in schemi e credenze che ci fanno apparire la realtà in un determinato modo, la cui realtà con un altro schema potrebbe apparire ben diversa. Ed allora per una ulteriore comprensione è bene inserire qui un brano di Anna Corbella Ortalli nella sua presentazione nella citata opera ”Elogio della follia” di Erasmo da Rotterdam (1994): “ ‘Nessuna società e nessuna unione potrebbero esistere senza un pizzico di follia’. Guardare il mondo sempre dallo stesso verso non lo fa cambiare, anzi, rende dogmaticamente ostinati nel farlo a tutti i costi corrispondere alla rappresentazione che la sapienza umana ne ha dato. E, per quanto grande ed autorevole sia, si tratta sempre di una sapienza più piccola del mondo. Guardarlo allora alla rovescia, come fanno i folli, può rivelarne aspetti insospettati, sorprendenti, stimolanti, o quanto meno, rivelare l’unilateralità delle regole che disciplinano la convivenza tra gli uomini”.

Uscire dagli schemi dualistici del cartesianesimo è un passo fondamentale per strutturare una concezione olistica per ricomporsi fuori dalle dicotomie concettuali. Si tenta ad agire seguendo “schemi già precostituiti” non rendendoci conto che quei “concetti” non sono altro che artifici che hanno un valore assolutamente relativistico. Siamo mentalmente abituati ad accettarli ed a misurare le cose solo seguendo quei parametri. Se nel tempo ne fossero nati altri ora staremo a disquisire su altri concetti. Ma anche in questo caso saremmo ingabbiati all’interno di una visione relativa e priva di universalità. Solo la compenetrazione degli opposti e l’annullamento delle visioni divisorie e dualistiche riporta nella giusta misura l’argomentare di cui ci occupiamo. Posizionandosi a vedere il mondo in una dimensione olistica ci colloca in una situazione senza sfaccettature e punti definiti, senza aspetti dominanti di osservazione, ma semplicemente all’interno di una dimensione universale e priva di parametri di definizione. Ed in questo caso anche se guardassimo le cose alla rovescia saranno ugualmente valevoli come se lo facessimo alla dritta, poiché sono diventate una sol cosa.



Wildness mind



…… i lupi selvaggi vanno via. Lo spirito del selvaggio va via. Il respiro del selvaggio va via. Foreste silenti e senza fine vanno via. Ogni cosa, libera e selvaggia sta andando via. Il tempo scorre e il selvaggio va via. La luce che illumina il selvaggio trascolora. Tutto ciò che fluisce senza tempo sta andando via. Forse lo stesso ricordo del selvaggio sta andando via. Stiamo perdendo la nostra vera essenza. Stiamo migrando nel vuoto della vita e stiamo, poco a poco, sommessamente spegnendoci. Siamo sempre più poveri della verità del selvaggio, siamo sempre più poveri della stessa vita, siamo ancor più poveri dell’ululato del lupo. Una lontana e flebile melodia vuole cantarci il mondo della wilderness, ma ci sta suonando note di infinita tristezza, perché ci siamo ritratti dinanzi all’assolutezza del selvaggio. Canta pure o melodia e sveglia l’anima assopita del nostro spirito che ormai non contempla più il mondo della natura. Addio lupo fiero e gentile, addio lupo fiero ed indomito, addio luci selvagge dello spirito che, nel dissolversi, portano il nostro cuore verso l’oscurità più tetra e, melanconicamente, verso una strada senza uscita e senza più anima né speranza. Le foreste ci osservano attonite mentre perlustriamo vanamente un mondo che è sempre meno selvaggio, scevro dalla verità dell’ululato del lupo. Io grido con forza contro tutto questo, perché so che perdendo il selvaggio, perdendo l’ultima frontiera della natura vuol anche dire perdere la vita e lasciarsi dietro alle spalle un mondo fatto di bellezze infinite e di silenti foreste. No, io non lo accetto! Il selvaggio deve tornare e, se potrà accadere, dovremo a quel punto riacquistarlo e riviverlo in tutto il suo splendore. Ma ora, dinanzi a questo baratro, sull’ululato del lupo potremo riflettere a lungo e scrivere tante parole e fors’anche diremo tante cose, ma la nostra retorica non ci porterà mai all’essenziale! E’ questo è proprio quello che ci manca: l’essenziale ed allora ci ritroviamo improvvisamente soli. Una solitudine che abbiamo voluto, fortemente voluto perché non abbiamo ormai più l’udito per ascoltare l’ululato del lupo. L’ululato del selvaggio……!


* * *


Un lago si dispiegava dinanzi alla vista del cuore. Un senso di vita albergava nell’aria, ma nel mio spirito sembrava mancare qualcosa, qualcosa di profondo che mi estraniava dal mondo circostante. Ero come un fantasma che si muoveva in una atmosfera stupenda ma per me quasi irreale ed opalescente.

Capivo che non era l’ambiente a determinare il mio profondo intimo, ma il mio spirito che ovunque vagasse portava con se qualcosa di oscuro e di incomprensibile. Sentivo tristezza, senso di non appartenere a nulla, di essere fuori dal mondo reale anche se così bello ed irripetibile.

Ero privo di vita interiore, non conoscevo più nulla, e tutto mi appariva senza senso e non vitale. Sentivo di amare la morte, ma in fondo di non volerla perché avevo un solo timore: perdere per sempre la possibilità di riuscire a calarmi nel mondo selvaggio.

Il giorno, alle prime luci dell’alba nordica, tutto continuava così. Ero vuoto, non riconoscevo la vita con la sua forza e pareva manifestarsi solo la tristezza e la melanconia. La mia mente vagava tra il nulla e il vuoto totale e niente sembrava appagarmi. Ero troppo triste ed interiormente solo. Nessuna cosa mi scuoteva e mi dinamizzava. Era pura follia mentale di non vita! 

Una piacevole passeggiata nella foresta alternata da laghi e paludi. Ma il mio spirito era altrove. Non sentivo il respiro della vita anche se l’ambiente ne diffondeva in abbondanza. Sentivo la mancanza di qualcosa di essenziale nel mio animo. Perché questa follia mentale? Forse non sapevo o forse ne ero consapevole appieno ma non volevo svelarlo a me stesso. Sentivo il respiro del mio corpo ma continuavo a respirare la non vita. Una brutta e vacua sensazione. Non vivere mentre si vive è qualcosa di allucinante e di indescrivibile.

Io probabilmente avevo dentro me il segreto di questa tristezza, di questa insanabile melanconia, ma nulla pareva scuotermi e vivificarmi. Vivevo da alieno, come se appartenessi ad un mondo non mio nel quale non riuscivo a adattarmi. Ma non parlavo di un mondo estraneo dal punto di vista esteriore, ma solo ed esclusivamente di un mondo interiore.

Vivere la vita è bellissimo, ma bisogna viverla veramente e consumarla. Non occorre morire dentro poco per volta e non sentire nulla. E’ meglio sublimarsi subito corporalmente, è meglio perire spiritualmente per annullarsi nel vuoto della vera ed inalienabile morte. Ti avevo sempre amato o vita ma purtroppo non ti vivevo ancora. 

Perché non sentivo il tuo respiro o il tuo pulsante cuore? Mi mancavi. Mi mancavi molto, troppo per continuare a vivere senza viverti. Sentivo così tanto l’inespresso mondo del selvaggio.

Il giorno dopo fu una giornata funesta. Tensione, iracondia, tristezza, asprezza. Una strana luce adombrava la mia giornata. Non c’era possibilità di armonia. Solo settorialità e meschine menzogne. Il vento alimentava la mia angoscia e nulla mi allietava se non il pensiero rivolto alla possibilità di connettermi con la wildness dell’anima. Sentivo un profondo amore e un inafferrabile senso di perdita. Sapevo che potevo perdere qualcosa di bello per sempre, per l’eternità e ciò era per me funesto ed inaccettabile. Cercavo una mediazione, una sana follia, ma non trovavo altro che cenere e i resti consunti delle cose. 

Non avevo la forza di reagire, di controbattere e lasciavo andare le cose così contrariamente al mio vero volere. Fu una ennesima giornata triste, densa e tetra che alla fine mi allontanò per l’ennesima volta dal mio vero io. Sentivo la follia, il senso della perdita e nulla poteva arrecarmi conforto, nulla, proprio nulla. Ma oh natura ispiratrice, dammi la forza di reagire, di ricostruire il mio essere, anche poco alla volta.

Siate felici o miei adorati lupi. Che ogni cosa vi sorrida sempre e che il malefico uomo con la sua scure vi sia lontano mille miglia. Ero felice per loro, mentre la mia vita si stava spegnendo! Non osavo pensare a loro, ma nello stesso tempo erano dentro di me. Mi faceva troppo male non poterli stringere simbolicamente tra le mie braccia perché stavano scomparendo poco per volta. Sentivo però la loro presenza occulta e ciò alleviava almeno un po’ la mia tristezza. Sentivo il loro profumo, il loro respiro e sentivo che il loro cuore, ignaro di tutto, batteva ricco di speranze. Le lacrime improvvise rigavano il mio volto, la tristezza si espandeva dentro me, ed ogni cosa si perdeva nella nullità della mia vacua esistenza. Forse questi erano i miei ultimi versi, ma una strana sensazione mi induceva a reagire e a sperare ancora. Ma ero ugualmente pessimista, non vedevo nulla intorno a me che potesse darmi la forza di reagire. Non appartenevo più a nulla, il vuoto intorno a me. Ero sempre assente, non ascoltavo nulla, e nulla sembrava  poter ascoltare me. Addio giornata triste, addio mondo girevole. Io volevo tanto uscire di scena, per sempre e con certezza.

Alcuni giorni dopo la giornata ancora iniziava con un’angoscia nel cuore dopo una notte costellata da incubi e da emozioni dal profondo. Ma forse mi sembrava che la fresca aria del mattino potesse portare un po’ di conforto e di “ottimismo”. Sarà vero? Lo avrei verificato più tardi.

L’angoscia, nella sera, ebbe invece il sopravvento, perché dovetti fare ciò che mai avrei voluto. Trovarmi dinanzi ad un bivio e dover scegliere quale strada percorrere. Non era assolutamente il momento adatto e forse non lo sarebbe mai stato. Preferivo trovare alterne vicende, anche disagevoli ma sempre su un unico sentiero da percorrere. Invece, il caso della mia vita sembrava riservarmi questa grave ambascia. Che dolore nel petto, nel profondo. Amare lacrime solcavano il mio viso e gocce di sangue uscivano dal mio cuore.

L’indomani fu una giornata a fasi alterne, ma la tristezza era sempre ancora padrona di me. Una bella escursione  tra i boschi non fu affatto sufficiente a sollevarmi almeno un po’.

Stavo ormai percorrendo un sentiero perché sia pure a malincuore probabilmente sembrava che lo avessi preferito ad un’altro. Quante belle cose sapevo di perdere per l’eternità. Non era certo una bella sensazione. E’ vero, probabilmente nessuna via porta a qualche parte, ma io ne soffrivo amaramente e bruciavo ardentemente nel mio profondo io. Sapevo che stavo perdendo per sempre qualcosa di “speciale”, qualcosa di irripetibile, eppure sembrava che lo stessi facendo e per di più per colpa mia. Stavo infatti perdendo l’unità con la natura, stavo perdendo per sempre lo spirito selvaggio. Ma mi rendevo conto che non avrei affatto dovuto scegliere. Che pazzia. Questa si che sarebbe stata la follia peggiore.

La luce d’intorno non mi illuminava minimamente, anzi dentro di me si incupiva sempre più.

L’angoscia era ancora la mia padrona, ma da una parte compresi un po’ il significato delle mie insofferenze. In fondo le meritavo perché nella mia vita il mio comportamento era stato troppo disarmonico con la natura e l’immagine che avevo dato ad altri esseri probabilmente non rispondeva affatto alla mia vera essenza. Non si può dalla vita prendere sempre le cose nel modo proprio e secondo  le proprie necessità “domestiche”. Avevo capito che se nascono dei rapporti con il mondo e con altri esseri era necessario attivare un comportamento più universale e meno egoistico.

Un giorno feci un’altra utile riflessione. Non è possibile vivere la vita proiettandola solo nel futuro. Camminare sempre spostato in avanti. Oppure fare le cose facendo finta di dimenticarne altre. Non serviva a nulla perché ad ogni angolo sarebbero riapparse sempre le angosce e le delusioni. Quanta insanabile tristezza invece era ancora dentro di me. Quanta sfiducia! Mi sentivo come un principe che prima aveva avuto molto, un molto però fatto di fantasticherie, rapporti inespressi, continui e ricchi pensieri; poi d’improvviso il vuoto ed ecco che il principe si ritrova povero e privo delle vere cose. Ero diventato veramente povero. Avevo perso o forse stavo perdendo i miei sogni, le cose più belle, le sensazioni più forti, la mia unica verità: il lato selvatico di se stessi. Stavo solcando probabilmente il sentiero sbagliato lontano dalla wilderness della vita.

L’ambiente intorno era per me fortemente in unisono con il mio io, almeno in apparenza, ma un disagio continuo mi attanagliava e la disarmonia mi struggeva il cuore. Non riuscivo a controllarla ed a non farla appartenere al mio spirito. Non sapevo fin quando sarebbe durata la mia vita, ma in quel modo era impossibile proseguirla. Non potevo farcela. No, non potevo farcela.

Anche quella giornata era dunque cominciata nella più nera negatività! 

Un giorno decisi di riflettere con più prospezione sul mio stato di essere.

Finalmente stavo forse reagendo un po’ positivamente per attraversare quel tunnel di negatività che ormai mi sembrava infinito.

La luce d’intorno mi appariva alquanto più chiara e un labile ottimismo sembrava presentarsi al mio cuore. Forse un sogno liberatore mi aveva aiutato ed in quei decisivi momenti riuscivo finalmente ad intravedere qualcosa. Si, in verità in quel giorno forse stavo riuscendo a risollevare il mio spirito. Sentivo il ritorno della verità e gli interessi per le cose, almeno in piccola parte. Sicuramente era il momento buono per cominciare a cambiare rotta e ad imboccare la via “maestra” della natura. Avrei visto le effettive conseguenze nei giorni successivi. Ero fortemente speranzoso. Un sicuro aiuto mi veniva certamente dalla tranquilla esistenza dei luoghi in cui mi muovevo anche se a tratti tutto mi pareva fortemente estraneo.

Dopo il cauto ottimismo di alcuni giorni mi tornò l’angoscia probabilmente a causa delle difficoltà non ancora superate sulla struttura del mio futuro interiore. Sentivo ancora la vita selvaggia sfuggirmi e nulla appariva chiaro e riposante. Ma non avrei dovuto tirare i remi in barca perché con un po’ di perseveranza e di pazienza forse ce l’avrei potuta fare. D’altra parte ormai era quasi normale che la sofferenza mi appartenesse e sapevo che se volevo costruire qualcosa di nuovo non avrei mai dovuto guardarmi indietro!

Un giorno giunse un momento cruciale. Mi ritrovavo di nuovo dinanzi ad un sentiero che d’improvviso cambiava rotta. E’ forse quello giusto e non è proprio questione di percorso?

Pensavo ai mie sogni del selvaggio e di leggerezza e un lupo dei boschi mi appariva dinanzi come un vanescente fantasma. Ne vedevo le sembianze, le leggiadre fattezze e perdevo a tratti la sua visione. Perché?

Le stelle cadevano nel cielo ed i miei desideri reconditi si moltiplicavano nella mente. Ascoltavo il silenzio mentre le mie sofferenti vestigie mi portavano compagnia. 

Un vuoto si diffonde nell’aria e trasmigra tra le anime dell’eterno. Ne odoro la volontà e ne recepisco la libertà......

Quando la luna apparve nel cielo tardivo fu una sera delle rimembranze, la sera della mia pacata certezza. Mi stavo forse allontanando da una insensata perdizione. La luna si rifletteva sul lago filtrata da una magica opalescenza delle nebbie. Il senso di calma e di mistero si rafforzava d’improvviso anche se perdevo il mio controllo emotivo......Le stelle cadenti venivano giù a grappoli ed io per ognuna di esse esprimevo sempre lo stesso desiderio……. In quel momento ero per così dire felice, gioioso ed avrei voluto fermare il tempo, ma cosa mi tratteneva?

Poi d’improvviso compresi finalmente qualcosa: non potevo chiudermi nelle mie sofferenze interiori, vivere nella natura, amarla, ma essere lontano perché ottenebrato da chissà quali lugubri pensieri, essere sempre timoroso di tutto e continuamente succube della mia mente prigioniera di se stessa, essere sopraffatto da un’angoscia partorita dalle vanescenti minacce esistenziali, dal non saper affrontare veramente le cose, dal non coltivare e riportare alla luce il mio lato selvatico, spegnermi poco alla volta di consunzione…..ma a questo punto non posso, in verità, procedere nel discorso perché il grande dilemma rimane: affronterò veramente la realtà della wilderness della vita? Mi farò governare dalla saggezza e dal giusto coraggio? Farò stupidamente prevalere il lato domestico a quello selvatico? Non so quello che farò, o meglio so quello che dovrei fare per essere in verità, ma solo se lo realizzerò potrò vederne i meravigliosi effetti positivi. Intanto ringrazio quel misterioso e sicuramente metaforico lupo dei boschi, per le sua essenza, la sua verità e per la sua bellezza; sarò con il suo spirito, in ogni caso, per sempre unito ed irrevocabilmente inseparabile! Il mio spirito non cesserà mai di sognarlo anche se egli sarà lontano da me. Il selvaggio se lo hai perso o lo hai sfuggente lo senti sempre dentro ugualmente, in ogni caso. 

Che io possa ritrovarti un giorno lupo solatario per poterti accarezzare la folta pelliccia così soffice per l’incipiente inverno, fosse pure in un’altra vita……


* * *


Mi trovo solo nella capanna. La neve cade copiosamente ed ogni cosa pare sublimarsi nella bellezza della materia e dello spirito. Sto scegliendo una vita diversa, ma devo impegnarmi a vivere e a respirare il nuovo. Non devo avere timore di cambiare e di unirmi al tutto. Devo trasfigurare me stesso in me stesso. Devo camminare nella notte, volare nella mente ed assaporare il significato recondito della verità naturale. Mi trovo solo nella capanna e devo attingere l’acqua dal pozzo e riscaldarmi con la legna che ho raccolto....... E’ proprio vero. E’ difficile ritornare semplici, è veramente difficile farlo e soprattutto sentirlo dentro. Mi inebrio delle luci interiori e trasfiguro nell’infinito, ma respiro a fondo e mi alimento con il mio nuovo pensiero. Sento a tratti la verità celata che poco a poco torna alla luce. La luce, una parola bellissima che si contrappone alle tenebre, non quelle della notte, ma quelle dello spirito quando è impegnato a ricercare l’effimero e il vacuo. La luce mi riporta alla vita, fors’anche unita alla morte stessa, ma la verità poco alla volta mi penetra nella solitudine e nella smarrita via. Mi trovo solo nella capanna. Il vento porta con sé turbini di neve, gelide sensazioni, ma trasferisce anche nell’aria il richiamo del selvaggio e limpide visioni che il frusciare delle fronde degli alberi amplifica teatralmente. Mi chiudo nel mio io, cerco di guardarmi dal mio interno e vedo i miei errori, le mie indecisioni, le mia fugacità e mi spingo oltre, oltre il mio limite e, con sorpresa, comincio ad intravedere la riva giusta dove ogni cosa è come deve essere e come sempre sarà. Caro lupo solingo, torna nella mia mente, aiutami ad aprimi al mondo selvaggio affinché possa ritrovarvi il carico di verità e di bellezza. Grazie spiriti dei boschi. La vostra voce annuncia la libertà, annuncia la giusta via ed io, in balia della vera vita, trasmigro lentamente verso l’assoluto, un assoluto che in forma opalescente ricordo che un tempo lontano era in me, in ogni essere umano poi...... la ‘magica’ parola civilizzazione ce lo ha portato via ed io mi sono stancato, è vero, mi sono stancato. Riconosco tutti i miei errori, uno ad uno e difficilmente cerco di trovarvi in mezzo qualche atto di saggezza. Poi d’improvviso ne trovo uno: la consapevolezza, l’essere consapevole di qualcosa. E’ un grande possesso, perché è il primo passo verso la giusta via. Ma a questo punto non devo più tornare indietro. E’ troppo bello per perderla di nuovo. Non me lo posso permettere. Perdonatemi tutti se un giorno lo potete. Mi sento meschino ed effimero, ma ho cominciato ad essere ora veramente consapevole ed ora non posso far altro che andare avanti per un illuminante ed onnipresente percorso. Sento ululare i lupi. Finalmente lo comprendo nel modo giusto ed indiscusso. Ma soprattutto ora lo vivo veramente. Esco dalla capanna e mi unisco a quel penetrante suono perché nel mio cuore finalmente sento che posso ricominciare, ricominciare davvero.


* * *


Nel pieno dell’inverno nordico mi trovo raccolto nella capanna circondato dall’infinita taiga che nell’apparente sonno ti dona la vita e il ‘respiro’ del sangue. Torna in me continuamente la sensazione della libera libertà, con il vigile sguardo metaforico del lupo selvaggio. Non comprendo più il peso delle falsità e delle maschere, sento la verità affiorare dalla mia pelle e nulla, proprio nulla può distrarmi da tale stato d’animo. Essere nella natura selvaggia significa essere sempre se stessi, messi a nudo con le proprie debolezze e con tutti i limiti che ogni esistente porta nel proprio fardello della vita. Ogni azione delle membra e dello spirito sono essenziali, ed ascoltare, saper ascoltare il silenzio e la solitudine è ormai una cosa da apprendere e non più da constatare. Nulla può toglierci il desiderio di respirare il vero, e nessuna cosa può impedirci di svincolarci dalle inutili catene che ci siamo progressivamente imposti. Ma dobbiamo voler farlo.

Ascoltare il silenzio, l’immoto silenzio che dona la riflessione, la calma e la vera serenità. L’alienazione di un uomo solo tra le mura della civiltà è forte e lo conduce pian piano verso la sua rovina e la sua perdizione. Si estingue da sé, si toglie il respiro da sé e non c’è cosa che lo possa svegliare dal profondo sonno del proprio spirito. Io ho imparato ad ascoltare, ormai molto bene, la calma e la voce della mia parte interiore che alla fine si compenetra perfettamente con il grande respiro dell’essenza della vita selvaggia.

Ero prigioniero e schiavo dell’angoscia e dell’ansia, e non ero affatto padrone di me stesso. Ero una sorta di burattino i cui fili erano mossi dalla brama della vita apparente, e non conoscevo più i segreti delle mie verità nascoste.

Mi sono recato, per farlo, ai margini del vorace grande cerchio della civiltà, che tutto assembla uniformemente e riduce ogni cosa simile ad una “macchina” che produce, guadagna e, soprattutto, consuma. Uscirne sostanzialmente fuori, o almeno porsi ai margini vuol dire aver compreso che dentro ogni vita pulsa qualcos’altro che non sia denaro, potere ed effimere chimere. La piccola e semplice socialità potrebbe condurre ad un rapporto multiforme, armonico e sapiente, ma la grande, globale e insensata socialità, o meglio ‘asocialità’, trasforma le cose difformemente anche se in apparenza le accomuna e conduce, direi, repentinamente verso l’abisso e la fine del saper ascoltare il ‘silenzio’.

L’interiore visione della vita non sembra più appartenere all’uomo contemporaneo, e vengono alla luce tutti i malanni di un tale stato. L’uomo dunque degenera credendo che con il suo operato stia facendo sempre meglio per ‘uscire’ progressivamente da una vita che gli sembrava insofferente e priva di cose ‘utili’. Sta cadendo dunque nel tranello di se stesso, in una trappola che alla fine può non consentire una via di ritorno. 

Io rifletto sul senso della mia vita e riconosco che essa non è una scelta, ma un dovere, un dovere che deve essere onorato nel migliore dei modi. Se annullo me stesso per trascorrere un’ esistenza senza significato è come se mi rifiutassi di vivere, e ciò non è bene. Devo reagire alle negatività che mi impongo o che a volte mi sono indirettamente imposte. Devo sprigionare la mia energia positiva per dedicarla alla qualità dell’esistenza. 

D’intorno la taiga sembra che dorma, ma mi ammonisce, mi risveglia il senso di me, e mi conduce direttamente verso la via dell’essenza. Così io prendo il mio spirito e lo lascio scorrere per il fiume della vita. Una vita di qualità e di essenza dove il vacuo e le nullità non trovano più posto. Ho finalmente compreso che il sogno e la realtà si fondono in un’unica muliebre sostanza dove la bellezza di ciò che è natura respira dentro me e dentro le cose.

Sento veramente nel mio essere la wilderness della vita, il richiamo del selvaggio. E’ inutile inalberare grandi discorsi se si uccide la natura. Ce ne andiamo tutti. Dobbiamo invece respingere il nostro egoismo ed accettare l’universa bellezza che il semplice ululato del lupo può già ben rappresentare. Perché ciò che offende il senso delle cose, il senso della natura, offende in un sol colpo la totalità del tutto. Sento di voler amare la vita con la natura, perché la natura è amore e vita stessa. Per me ogni cosa che offenda la natura era inconcepibile e da questo punto di vista la mia netta tendenza è, o tutto bianco o tutto nero. La mia mente non concedeva alcuna sfumatura all’opera distruttrice del mondo naturale  da parte dell’uomo.

Io mi ritrovo nella capanna nel cuore della taiga e scrivo queste righe, il racconto di ciò che ‘disse e non disse’ il lupo, il racconto dell’amore. E sento un canto, un canto di dolore, quando l’uomo per suo spontaneo volere toglie ed annienta ciò che crede non gli appartenega più. Canta il suo errore, il suo malefico errore, ed io provo a riconoscere il giusto, in armonia ed in pace. Ascolto poi il canto della natura e piango per la gioia che emana, ma piango anche per la mano che la offende. Oh uomo perché offendi tua madre? Io credo di capire il tuo gesto. Hai semplicemente perduto il senno della ragione e non hai più un’anima di universalità e di amore. Ed allora distruggi te stesso e le cose della natura che poi, alla fine, sono la medesima cosa.

Ma le parole sagge non sono ascoltate, non entrano minimamente nell’animo ormai indurito e nemmeno nelle membra. Non si ascolta, non si vede, non si sente. E’ non è cosa buona. Perché, o uomo, rifuggi la verità? Io me lo chiedo, lo domando e non ottengo mai risposta.

Nel mio trascorso, come ho già annunciato, ero anch’io cieco e sordo ed ero caduto nell’angoscia esistenziale e nella tristezza della vita. Ma lo spirito della foresta, lo spirito del Grande Nord mi hanno risvegliato, mi hanno fatto comprendere e mi hanno ridato la speranza dell’esistenza. Ho cominciato così ad allontanarmi dalle certezze non ‘certe’ della falsa vita quotidiana ed ho iniziato a prendere le distanze anche da quello strano malessere esistenziale. E piano piano, ascoltando anche l’ululato del lupo, ho ridato a me stesso ciò che mi apparteneva.

Quando finisce qualcosa non è importante ciò che finisce, ma quello che inizia. Tutte le cose sono unite, anche quando sono diverse. Sta alla propria saggezza capire quale strada seguire.

Il tempo sembra trascorrere lentamente, ma la taiga mi ha insegnato molte cose pratiche, e direi soprattutto quelle essenziali dello spirito. Il mio seguire a lungo la vita dei lupi mi ha confermato e nello stesso tempo svelato molte cose della loro arguta esistenza. Il branco è eccezionalmente compatto, netto, perfettamente adattato a sopravvivere in un ambiente che, soprattutto nel lungo inverno, è tutt’altro che facile. La dinamica dei suoi membri, estremamente attiva e multiforme, ispira moltissimo a resistere sempre nella vita, perché bisogna lottare fino in fondo. Non bisogna mai arrendersi e occorre penetrare, le incombenze della sopravvivenza, con lo stimolo della propria energia. Lo sguardo tagliente di un lupo o il suo vero, ma anche simbolico ululato, ci ricorda sempre che esiste ancora una natura indomita e selvaggia, anche se credo che noi non possiamo comprendere appieno tutti i messaggi, perché ci sono molte cose che non percepiamo poiché ci viene meno quello che i lupi non possono dirci direttamente! 

Ma comunque sia, noi non vogliamo più imparare, non vogliamo nemmeno ascoltare e non vogliamo ovviamente comprendere. Ora io mi chiedo: se non facciamo nulla di queste cose, chi reggerà il mondo? L’uomo vive continuamente a credito, ma sta finendo il suo fondo: la natura. Ci pensi bene prima di continuare……….


Lupa blanca



Quella mattina fu un risveglio traumatico. E pensare che la sera prima mi ero coricato pieno di fiducia ed ottimismo sapendo che l’indomani sarei dovuto partire per una lunga escursione.

Il risveglio fu traumatico perché la notte ebbi un sogno surreale di per sé estremamente bello e colmo di riflessioni, ma ricco di reconditi ed inspiegabili significati; queste furono infatti le prime sensazioni che percepii. Tale situazione mi portò, appunto al risveglio, ad una sorta di strana inquietudine che non mi davano, per così dire, pace.

Poiché come tutti i sogni con il trascorrere delle ore essi tendono, soprattutto nei particolari, progressivamente ad affievolirsi, decisi subito di annotarlo su un mio quaderno,“colorandolo”  inevitabilmente con le trasposizioni e le licenze che permette la scrittura, aggiungendo soprattutto le sensazioni che avevo provato all’interno della vicenda, senza però stravolgerne in nessun passaggio il suo sviluppo di base. Presa la giusta concentrazione, scrissi……..

“Fu come un’improvvisa folgorazione. Un sincero e profondo sentimento nacque per una sfuggente lupa selvaggia chiamata da me “Lupa blanca”, questo per l’indissolubile legame di simbolico amore che mi unì subito a lei dopo averla incontrata in una silente foresta a nord della mia capanna. La chiamai “blanca” perché il suo mantello ero candidamente bianco e, come in ogni essere non umano, il suo cuore era privo di maschere e di menzogne.  Si accese un amore speciale, direi indescrivibile e profondissimo. Forse fu la sua pura ed assoluta selvaticità, la sua continua nettezza, la sua amorevolezza, il suo elegante portamento, per tutto in blocco…. Non so. Quello che so è che in ogni caso mi appassionai perdutamente di lei. Lupa blanca era, per me, un essere unico, irripetibile che, con leggiadri balzi, svaniva tra le ombrose  foreste della taiga come per ricordarmi ognora l’evanescenza delle nostre effimere quanto false “certezze”. Emetteva una sorta di attrazione sublime. Sentivo un sincero legame che mi univa alla sua profonda anima. I giorni trascorsi con il suo spirito mi rimandavano continuamente al suo essere. Arrivai a volte ad “associare” a lei molti eventi, ritrovando, nei più disparati reconditi recessi della realtà, le sue fattezze e la sua amorevolezza. Giunsi a concepire il tempo in un’altra dimensione tanto che avevo l’impressione di averla sempre conosciuta e vissuta. Ero stato con lei in indescrivibili significativi momenti e non credo di cadere nella retorica se dico i più belli in assoluto. Fu tutto molto intenso, passionevole, infinito e c’era, tra noi, una sorta di affinità elettiva. Era per me qualcosa di non definibile. Lupa blanca era sempre nel mio spirito e, grazie al suo esistere, la mia vita poteva continuare il suo piacevole decorso.

Una sera, stando vicino ad un fuoco, Lupa blanca si avvicinò, si strinse a me con il suo candido mantello e mi trasmise una sorte di energia telepatica così intensa che mi causò un fervido brivido vitale. Poi girò intorno al fuoco, mi guardò, ululò brevemente e con un agile balzo superò il tronco in cui ero seduto e velocemente se ne tornò nella sua foresta. Quel grande amore per Lupa blanca mi stava insegnando molte cose, forse le più importanti della vita e portava il mio cuore ad innalzarsi alle più alte vette dei sentimenti. Riflettei a lungo, a tratti pensavo amaramente ciò che Lupa blanca voleva anche farmi idealmente capire. La distruzione della terra, la fine delle foreste, l’alienazione dei sentimenti di amore e di comprensione. Con il suo diretto esempio e con quelle che elettivamente mi trasmetteva cominciai poco a poco a comprendere meglio e più a fondo i molti segnali di avvertimento sulla distruzione della wilderness della terra.

Lupa blanca era la sublimazione assoluta della selvatichezza allo stato puro, e mi faceva anche percepire quell’armoniosa melodia che poteva vibrare tra lo spirito dei popoli, tra lo spirito unitario tra uomo e natura. Sembrava voler riconnettere un legame brutalmente reciso dall’uomo verso l’anima della vita. Lupa blanca creò con me un feeling indissolubile anche perché vi leggevo nei suoi profondi occhi una passione di grande verità e, quando mi sembravano lucidi, li immaginavo che si commuovevano anche per me. Era praticamente nato un indefesso amore transpersonale dove Lupa blanca recitava la parte dello spirito sensoriale del femminile e io, ovviamente, quello maschile, la cui sensibilità poteva solo essere presa in dono. Era proprio così infatti: l’anima femminile consente in genere di far trasmigrare in quella maschile quel senso di buono che può regnare nell’animo dell’essere.

Una sera, stanco e affaticato, dopo una lunga giornata di cammino e di lavoro, caddi esausto accanto al fuoco che ero riuscito, a mala pena, ad accendere per cucinare qualcosa; nella successiva dormienza ebbi un turbinio di sogni molti dei quali il giorno seguente non li ricordavo affatto, ma, alcune scene in cui io e Lupa blanca correvamo liberi e leggiadri nella foresta di abeti, me le ritrovai tutte nitide e scandite nella riposata mente del mattino e fu un tutt’uno recitare, entro me stesso, mentre il mio pensiero era sempre per Lupa blanca, un bellissimo canto d’amore Inuit che conoscevo da molti anni…..“Questa notte ti ho sognata. Nel sogno camminavi sui ciottoli della riva, e io camminavo con te. Ti ho sognata, e sembrava fossi sveglio: ti inseguivo, ti desideravo, e tu eri desiderabile...... Così ti ho sognata, così eri desiderabile”.

Trascorsero molte lune e, tranne qualche pausa, mi capitava spesso di incrociare lo sguardo di Lupa blanca, anche se a tratti gli eventi della vita ci portavano lontano o ci facevano cangiare i nostri sentieri altrimenti quasi sempre congiunti. Quando ci rincontravamo dopo qualche tempo i suoi balzi di gioia e le mie lacrime di giubilo erano gli istanti più esaltanti dell’incontro; poi spesso Lupa blanca prendeva a correre sulle rive di un lago o sembrava che giocasse a nascondino tra i colonnati dei secolari abeti della foresta. Io cercavo di seguirla, di osservarla, di gioire con lei e, ogni tanto, ad essere sinceri, anche in quei momenti di positività trasaliva nel mio dentro una sorta di mancamento perché mi veniva di pensare o meglio di ricordare che Lupa blanca era una lupa selvaggia e prima o poi avrebbe anche potuto prendere una sua strada che l’avrebbe condotta verso lidi lontani dai miei. Quegli attimi di improvviso dolore mi smarrivano non poco anche se comprendevo la reale possibilità dell’evento. Mi ricordo che un giorno, mentre la pioggia con gran forza veniva giù, Lupa blanca passò vicino alla mia capanna, annusò l’aria, si volse verso me che nel frattempo mi ero precipitato sull’uscio e, come per non farlo sembrare una sorta di addio, si allontanò senza rivolgermi nessuna attenzione. Ricordo i miei momenti di panico quando la vidi svanire nella foresta …… Mi girai intorno, gridai il suo nome, corsi nel bosco e Lupa blanca non c’era più…. Tornai sconsolato nella capanna e mi raccolsi in un intrinseco dolore. Pensai che non l’avrei mai più rivista. Non so il perché, ma ebbi quella sensazione. Passarono settimane di sofferenza, di triste tristezza, di abbandono di me stesso….. poi improvvisamente una notte, era una notte stellata, la sentii ululare non lontano dalla capanna. Uscii di getto, corsi quasi senza direzione e, sotto le grandi ombre degli alberi illuminati dalla limpida luce della luna, il biancore di Lupa blanca apparve come un angelo avvolto in un simbolico mantello fosforescente. Mi corse incontro, gli corsi incontro e, quando arrivò ad un metro da me, si sollevò con le zampe posteriori e poggiò quelle anteriori sulle mie spalle. Io l’abbracciai con tutta la forza che avevo e non mi fu possibile trattenere la commozione e lunghe righe di lacrime scesero sulle guance. Fu un altro ennesimo momento di gioia che Lupa blanca mi offriva nella più totale spontaneità.

Trascorse qualche settimana, poi un giorno ciò che da tempo sommessamente pensavo prese maggior vigore dentro il mio cuore. Pensavo: Lupa blanca è un essere libero, perché la tengo legata a me che forse non possiedo più il mio lato selvatico? Non era certo un legame di forza, era un “patto” di amore ma cosa gli davo io effettivamente? Nulla. Proprio nulla. Era Lupa blanca che dava tutto a me e da parte mia mai nulla. Entrai in un tunnel di profondo sconcerto, di pacata rassegnazione e pensai che forse era meglio che io sparissi da lei per lasciarla volare sulle ali della sua libertà. Era pur vero che la mia presenza era fortemente accettata dalla lupa che a suo modo certamente mi amava, ma lei chissà se in tutto questo trovava qualche sofferenza o impedimento nel dispiegamento dei ritmi della sua esistenza? Avevo dubbi, incertezze, contorsioni esistenziali….. poi però feci scemare il tutto anche perché era sempre Lupa blanca che spontaneamente si presentava a me.

Trascorse qualche settimana e furono molti gli eventi che accaddero. Un giorno Lupa blanca aveva catturato un gallo forcello e la trovai vicino al letto del fiume mentre tenacemente ne smembrava le carni. Io mi avvicinai e lei, ma, ignorandomi del tutto, proseguì il suo da farsi. Io per contrappasso, andai a prendere la canna da pesca e, raggiunto nuovamente il fiume, in meno di un quarto d’ora, catturai una trota di un paio di chili. La cucinai proprio sulla riva del fiume, mentre Lupa blanca, posta ad una decina di metri di distanza, avendo ultimato il suo pasto, si era coricata su un fianco, ed ogni tanto mi dava una occhiata. Quando la trota fu ben cotta e parzialmente affumicata, ne lanciai un pezzo alla lupa che senza troppo entusiasmo lo mangiò con estrema calma. Probabilmente era sazia o non voleva darmi la soddisfazione di divorare con solerzia un boccone offerto da me. Ovviamente questi erano pensieri scherzosi, ma non facevano altro che contribuire ad unire sempre più il nostro legame di particolare amicizia. 

Qualche giorno dopo accadde un fatto, tanto per cambiare, alquanto strano. Era mattina presto ed io ero vicino al lago ad osservare con il cannocchiale le strolaghe ed i cigni selvatici che arricchivano, con la loro amena e armoniosa presenza, le bellezze di quello specchio d’acqua, specchio d’acqua lambito in tutto il suo perimetro da una maestosa foresta fatta di pini i silvestri, abeti rossi, betulle ed ontani. Mentre era intento a quella piacevole incombenza, sopraggiunse Lupa blanca, con un andamento così felpato, tanto che non mi accorsi della sua venuta. Portava con la bocca un rametto di betulla adorno di gemme e, accostatasi a me, me lo depositò al mio fianco sinistro. Poi, allontanatasi di qualche metro per entrare nel sottobosco, raccolse una pigna di pino silvestre e fece lo stesso gesto. Quindi, rientrata nel bosco, dopo qualche minuto mi portò una pigna di abete. E fece sempre lo stesso gesto. Io tralasciai le mie osservazioni ornitologiche e, stupito per quel comportamento, chiamai a me Lupa blanca  e le chiesi, ovviamente fittiziamente (non pensavo proprio che potesse comprendere il mio parlare), che cosa volesse farmi capire. Come palesavo non manifestò nessuna reazione al mio dire e si coricò tranquillamente ad un metro da me. Io meditati qualche minuto, poi mi alzai, presi i tre “reperti”, ed istintivamente andai a sotterrarli ai margini del bosco. Ovviamente la mia interpretazione fantastica fu quella che il gesto voleva simboleggiare il rinnovarsi della vita della foresta e nel contempo la salvaguardia della sua esistenza. Mi venne spontaneo chiedermi come faceva Lupa blanca a concepire qualcosa del genere, ma facilmente approdai alla conclusione che tutti quei suoi gesti rituali, forse non significavano proprio nulla, ma a me piacque pensare che invece erano un monito, un avvertimento sottile, sulla distruzione delle foreste che procedeva, nel mondo, ad una ritmo incalcolabile. Ovviamente l’immensa taiga era a pieno titolo, come le foreste tropicali, soggetta a quella incontrollata annientazione e giorno dopo giorno, immoti giganti di quell’immenso mare verde, venivano giù sotto la “scure” dei moderni buldozer taglia alberi.

Fu una sensazione spiacevole, ma purtroppo sin troppo veritiera. Il mondo selvaggio non era da tempo più presente nella mente umana e, gli immensi doni che ci offriva la natura, erano visti solo come un qualcosa di esterno da sfruttare per le più infime necessità di una società squilibrata, una società che vedeva solo ed esclusivamente il cosiddetto “sviluppo”. La mente malsana dell’uomo lo concepiva sempre assolutamente in continua crescita, altrimenti il sistema sarebbe andato in blocco.

La mia, a quel punto, fu una doppia interpretazione. La prima, quella simbolica del comportamento di Lupa blanca, frutto probabilmente della mia fantasia, la seconda, quella realistica e purtroppo inarrestabile cui tendeva con estrema solerzia il genere umano, ormai ingigantito da una incommensurabile globalizzazione. Era nata, ormai già da tempo, una società unica, ma fortemente diseguale che non risparmiava nessuna parte degli esseri umani e dell’intero pianeta terra! 

Un altro piccolo evento catturò la mia attenzione. Stavo riscaldandomi la minestra della sera prima, quando sull’uscio di casa, sentii raspare la porta. Era Lupa blanca, probabilmente da tempo arrivata, ma con il mio affaccendarmi in cucina, non ne avevo scorto la presenza. Aprii la porta e, presa con me la gavetta colma di minestra fumante, mi andai a sedere sulla panca esterna, mentre Lupa blanca, dopo essersi avvicinata a me, si diresse verso il limitrofo punto fuoco dove aveva adagiato una lepre bianca, da poco catturata. Io la guardai, posai la gavetta e le dissi che ora voleva occuparsi anche del mio menù alimentare. Rimasi un po’perplesso, poi presi la lepre, la pulii come soleva farsi ed accesi il fuoco. Prima di cuocerla alla brace tagliai un bel trancio e la detti alla lupa. Non esitò un solo istante e con veemenza presa la sua meritata porzione. Io rinunciai alla mia minestra (mi sembrava uno sgarbo verso la lupa non accettare il suo pranzo)  e di buon grado mangiai quel prelibato boccone che mi era stato elargito.

Un altro bellissimo esempio di fraterna amicizia profusami da Lupa blanca, mi fu offerto un giorno quando sul calar del sole ella si presentò alla mia capanna con un fare dinamico e pieno di energia. In sé non vi sarebbe nulla di strano poiché la sua forza vitale era sempre palesemente espressa nel suo globale modo di agire. Ma il mistero fu che proprio quel giorno io mi sentivo profondamente melanconico, avevo dentro di me una sensazione angosciosa senza nessuna apparente causa scatenante. Stavo giù di corda e niente più. Lupa blanca, invece, arrivò con un piglio estremamente dinamico, più dinamico del suo normale agire. Mi girò più volte intorno e, ululando in tono interrogativo, pareva chiedermi cosa stesse succedendomi. V’era praticamente in atto tra noi una vera e propria connessione telepatica. Io rimasi immoto, osservandola con un misto di curiosità e di meraviglia. La lupa si avvicinò a me, mi tirò leggermente per i pantaloni come per invitarmi a seguirla. Io interpretai quell’evento a “scoppio ritardato”, tanto che dopo quel tentativo della lupa di scuotermi dal mio torpore, ella stessa esitò sul suo proseguo, visto che da parte mia non vi era nessuna reazione. Ma poco dopo lupa blanca insistette sul suo intento di “trascinarmi” da qualche parte e, alla fine, mi feci prendere dall’evento. La seguii lungo il breve sentiero che ci conduceva al lago e li si fermò bruscamente guardando verso l’altra sponda. Una palla di fuoco illuminava la zona di un rosso purpureo, mentre d’intorno si diffondeva un’aria fresca e cristallina. Io assistetti a quei due semplici eventi: Lupa blanca che guardava il sole al tramonto e la luce che pacatamente trascolorava. Lupa blanca incominciò ad ululare, mentre il sole si andava spegnendo dietro la “grande muraglia” degli abeti. Rimasi in quel momento senza pensiero, e le mie precedenti malinconie, forse perché distratto da quei particolari accadimenti, mi si allontanarono leggermente. Poi, quando il sole tramontò e Lupa blanca cessò di ululare, un gran silenzio sovrastò la scena, ma ormai il concerto cui era stato invitato ad ascoltare stava per manifestarsi in tutte le sue forme. Un improvviso anelito di vento, scosse la stasi immota degli alberi, mentre le strolaghe nel lago emettevano i loro interrogativi e lupini guaiti. La luminosità declinante rese il paesaggio sempre più opalescente e a quel punto la lupa si girò verso di me per poi rivolgere nuovamente lo sguardo verso il lago morente di luce. Rimanemmo in tale stato per circa una mezz’ora ed io stavo avvertendo una sorta di inquietudine, quando, come se fosse un’apparizione improvvisa, si unì al concerto estatico la pienezza della luna. A quel punto le cose mi divennero chiare: Lupa blanca voleva palesarmi che la vita è strutturata con un andamento variante e multiforme e non c’è momento che il cangiarsi delle situazioni non siano ricche di forme e contrasti forti e variegati. A similitudine, anche la vita del singolo aveva questi dinamici connotati e vi era un’unico spazio cui non era consentito entrare, perché era uno spazio che non poteva esistere: era quello della rinuncia al dinamismo della vita, era quello di essere melanconici e pessimisti, era quello di vedere le cose da un solo e opinabile punto di vista. Era un monito chiaro, fattomi palese da semplici e comuni eventi che ogni giorno si manifestano, rinnovati, nella vita.

Presi respiro, guardai Lupa blanca ed ancora una volta constatai la sua particolare sensitività nel carpire i miei a volte sin troppo frequente stati di abbandono e di pacata tristezza. Capii allora che nella vita, pur se sovviene un attimo di smarrimento o di perduta gioia, essa, la gioia appunto, è sempre dietro l’angolo e ci attende con il massimo del suo splendore. Venga pure il pessimismo, la tristezza o la rassegnazione, ma, se daremo ascolto al libero dispiegarsi della vita selvaggia, la gioia e la forza positiva del vivere avrà sempre il sopravvento. In natura, termini come melanconia, tristezza, pessimismo ed altri ancora, non trovano mai alcun spazio cui manifestarsi, perché sono in profonda ed incolmabile antitesi con il dono del quotidiano esistere. La forza del singolo si prova quando deve confrontarsi con un atto di coraggio e di robustezza. Lupa blanca mi aveva insegnato che ciò che di negativo a volte subentra all’interno dell’anima, è normalissimo, ma è solo un brevissimo istante di contrasto su ciò che è la vita vera e su ciò che è l’unico percorso da seguire. Con l’animo ristorato, nel colmo della notte, rientrai nella capanna.

Insomma, come detto, tutti questi piccoli eventi, pur se non spiegabili razionalmente, mi avvicinavano elettivamente sempre più alla cara Lupa blanca e mi pareva cosa estremamente remota, forse per una sorta di rimozione froidiana, che un giorno quella amena amicizia si potesse improvvisamente interrompere. Erano troppi i segni e gli insegnamenti che la lupa mi elargiva ed io cercavo di scorgere in ciascun atteggiamento, anche piccolo che fosse, quale significato vi era celato, se significato doveva esserci.

In un’altra occasione presi a camminare lungo il bosco con la lupa che mi seguiva come un mansueto cagnolino. Mi appariva sempre così strana quella sua confidenza, tanto che una volta feci una prova. Mentre procedevamo sul bordo di una palude distanziati una trentina di metri, mi fermai e la chiamai a me; subito, con una obbedienza militaresca, mi raggiunse prontamente e si fece accarezzare come niente fosse. Un vero e proprio apparente comportamento addomesticato. 

Nei meandri degli eventi un giorno arrivai alla fine a pensare che Lupa blanca non era una lupa selvatica, ma forse fuggita da qualche presunto “proprietario” che, avendola presa sin da cucciola, era ormai avvezza alla compagnia umana. Ma il suo modo di fare smascherava facilmente questo mio poco convinto pensiero. Era una abilissima cacciatrice, scompariva per settimane per riapparire improvvisamente a suo piacimento; manteneva, pur nella sua apparente docilità, un’espressione e un modo di agire che le davano tutti i connotati di essere selvaggio e, pur se mi sforzavo di descrivere il suo comportamento, nel profondo non trovavo mai i giusti attributi. Ero inevitabilmente limitato dai miei concetti di essere umano secolarmente addomesticato.

Insomma, i giorni trascorrevano alacremente ed io mi sentivo sempre entusiasta e fiero di me di avere come compagna, sia pure non costante, una lupa selvaggia. A volte infatti mi domandavo se il tutto era vero o il semplice frutto della mia “testarda” fantasia.  Di tanto in tanto mi chiedevo se Lupa blanca fosse una essere solitario, come la vedevo io, o apparteneva a qualche branco che frequentava quando spesso era assente dalla mia capanna. Probabilmente, vista la sua forza e il suo carattere era una femmina alfa e a suo volere decideva, quando ne aveva le opportunità, di allontanarsi dal suo gruppo per venire da me. Non sapevo, ma ero dubbioso sulla sua totale solitudine rispetto ai suoi simili. Ma, in ogni caso, non la vidi mai insieme ad altro lupo.

Tuttavia, nel suo complesso, quel mio tangibile legame con Lupa blanca, come già detto, in certi momenti mi sembrava estremamente strano e non vi scorgevo, lo ripeto ancora, il significato della situazione soprattutto da parte del comportamento della lupa.

Passarono ancora diverse settimane ed erano almeno sei mesi che Lupa blanca veniva spesso a stare con me. Ma con il tempo che trascorreva, pur se mi sentivo adagiato sugli allori, ricaddi nuovamente in quella crisi, forse ingiustificata, ma che in ogni caso pervadeva tutto il mio essere. Era veramente cosa buona che Lupa blanca stesse tutto quel tempo insieme alla mia mediocre domestichezza? I dubbi mi si concretizzavano sempre più pur non notando nulla di strano nel comportamento dell’amata lupa. Ma, dopo una sua assenza di cinque giorni, quando ella tornò mi trovò, in uno stato mentale fortemente assente, seduto sulla panca che contornava il punto fuoco. Lupa blanca, come era suo solito, mi girò intorno, emise un piccolo guaito seguito da un breve cenno ululante, come per dirmi di “svegliarmi” ed io, in quella circostanza, le dimostrai una sorta di freddezza, pur se il termine era un po’esagerato. Poi, forse colto da un profondo senso di colpa, non so, la guardai con l’intenzione di scacciarla violentemente, ma mi frenai, perché il mio spirito non se la sentiva di allontanarla…... Ma qualche tempo dopo, d’improvviso, in un giorno di primavera, allo sciogliersi delle ultime nevi, mentre Lupa blanca dopo un’assenza di due giorni veniva verso di me, in una specie di trans, le gridai contro, la intimorii, le brandii un bastone e le continuai ad urlare all’eccesso. La lupa ovviamente con meraviglia si spaventò non poco e, pur con un trotto non eccessivamente sostenuto, si allontanò, prendendo la direzione della foresta…… Il giorno successivo della lupa non v’era traccia ed allora approfittai per riempire la mia sacca da viaggio con l’intenzione di approdare, temporaneamente, in un luogo estremamente remoto dove Lupa blanca non poteva raggiungermi………. Il tempo avrebbe fatto il resto…...!”

Così si dissolse il sogno e questo è quanto annotai su di esso. Ma mi domandavo: perché rinunciai al selvaggio in quel bellissimo e nel contempo conturbante sogno? Perché mi sembrava che rifiutavo l’evidenza della fine della terra fattami comprendere da Lupa blanca? Perché al contrario degli eventi ora volevo ritrovare dinanzi ai miei occhi fantasticanti Lupa blanca e riabbracciarla con il massimo dell’amore e dell’unione? Fu forse la mia rinuncia all’ammissione di non potermi più riconnettermi con il mondo selvaggio? Mi ponevo questi ed altri quesiti, ma, dopo un indescrivibile conturbamento, preferii in conclusione di non pensare più a nulla e a lasciare sepolto nel mio inconscio quello che cercavo palesare. Pensai infatti che forse le cose migliori avevano il loro massimo splendore quando rimanevano inespresse.

E fu così che alla fine rimase tutto praticamente incompiuto, sperando che lo sviluppo della mia vita mi conducesse, nel suo decorso, a ritrovarla, a comprendere veramente, senza fallanze e forse senza averne coscienza, ciò che si celava dietro la leggiadra favola di Lupa blanca. “Amica mia, ora non posso credere che per causa mia il tempo per noi sia finito, no, perché non posso sopravvivere alla tua perdita. La mia anima ne muore……….. 

Ma mi ricordo che ogni fiore selvaggio, anche se appassisce in fretta, prima di morire dona al vento infiniti semi...”.


Il punto di ascolto per una 

spiritualità della natura



D’improvviso un giorno decisi di partire, ma forse fu più una viaggio della mente e della mia fantasia che una partenza fisica, non so; esso mi avrebbe dovuto condurre verso nuovi lidi, per aprimi le porte verso una realtà ben diversa, in parte inaspettata, ma da me inconsciamente voluta e forse già nota. Issai le “vele” e presi il largo anche se la navigazione si sarebbe potuta presentare tutt’altro che agevole. Avrei dovuto comporre un complicato puzzle senza averne l’immagine guida.

Trovavo delle luci cangianti, delle aurore musicali, delle voci inusitate e, alla fine, un lungo e indecifrabile ascolto di un qualcosa che si librava in alto tra le cime dello spirito.

Era cominciata la mia ricerca, una ricerca che era senza soggetto ne personaggi, una ricerca eterea dove il fluire delle silenti ed indissolubili anime conducevano ad un necrologio di vita.

Proseguivo a tratti con difficoltà, perché ciò che è profondamente vero non sempre è così facile. Aprii il mio cuore, spalancai i miei pertugi e ascoltai in silenzio ciò che non udivo. Le luci, dopo la loro scomposizione, si ricongiunsero, ma sembravano sfuggire come foglie mosse da un forte vento.

Attraversai dune alberate, superai massi disarmonici, camminai lungo un sentiero che non vedevo, ma alla fine giunsi ad una improvvisa ed amena radura: aprii il mio petto e lasciai che le lacrime se ne andassero fluenti senza porre ostacoli. Era il veleggiare senza vento, ma un duro, veritiero risvegliarsi delle membra.

Fu così che partii dentro me stesso per trovare ciò che restava della natura, una natura morente che stava per essere sepolta, ma che io volevo ancora vedere e soprattutto sentire prima che l’ultima manciata di terra fosse versata sui suoi resti. E, cosa di non secondaria importanza, volevo ancora capire e dire qualcosa. Avrei dovuto viaggiare a lungo, molto a lungo per riconnettermi con un mondo ormai perduto da cui io stesso, forse, ne volli essere escluso. Dovevo trovare un luogo, un punto di ascolto, dove sentire un “vento”, una spiritualità che probabilmente poteva insegnarmi qualcosa. 

Ero costretto a viaggiare con la mia mente perché il silenzio della primavera mi obbligava a farlo. Non un passo, non un fremito fendeva l’aria immota e nulla, nulla sembrava voler elargire parola.

Mi accostai ad un tronco caduto, ormai trasformato in humus, il pane della vita; un tronco millenario che racchiudeva nei suoi vanescenti resti la storia di un declino. Non il suo - quell’albero ne era stato solo un testimone - ma quello del nostro io che pian piano si spegneva con la volontà decisa di farlo.

Giunsi ad un bivio. Due sentieri quasi impercettibili, ma in fondo palesemente delineati. Ne scelsi uno a caso, ma il tragitto che pensavo alternativo fu breve. Solo un centinaio di passi ed i sentieri si sovrapposero d’improvviso. Era forse un monito ad una finta scelta dove l’obbligo del procedere pareva che regalasse un diversivo. Il segno era chiaro: il cammino doveva essere percorso in unico senso privo di deviazioni e scevro di corruzioni. Poi vidi un impronta nel fango, una impronta di un animale etereo, plastico, vanescente, sublime. Era passato da poco e in quel dagherrotipo di immagine scorsi agevolmente l’autore: un lupo. Vidi in quell’orma un mondo infinito, un mondo di ululati, fughe, corse a perdifiato e rigogli di gioie estinte. Mi soffermai, riflettei, fotografai col mio pensiero e poi compresi: quanti incontri avrei potuto fare nel mio viaggio e quale giusta via seguire senza una guida? Decisi così, in un sol fiato, di farmi “portare” spiritualmente dal quel simbolo della wilderness della terra. Presi quella guida, la nominai più volte nel mio io e fui così rinfrancato che avrei sicuramente trovato il mio luogo di ascolto! Ma il mio ascolto non era concepito solo come un udire qualcosa, ma soprattutto percepire dei messaggi, dei simboli, delle comprensioni eteree, delle sensazioni profonde che avrebbero travalicato lo spirito al di sopra di un meccanicismo palesemente tangibile.

Il mio viaggio era volto a settentrione, il grande nord della madre terra dove al freddo fisico che pungeva l’anima si contrapponeva la luce della limpidezza. Avevo ora almeno un punto di riferimento, un punto cardinale chiaro e definito. Ed avevo, soprattutto, la mia guida spirituale.

Sapevo di calpestare la mia ombra, ormai raggelata per la sua ineluttabile vanità. Calpestavo il mio dolore e la mia inerzia dinanzi al cangiarsi delle remote stagioni dell’anima. Seguivo intanto la pista del lupo e scorgevo, ai bordi del sentiero, le inevitabili devianze cui la mente tende. Distorsioni esistenziali, vacuità delle cose e, sopra ogni elemento, lo spirito fuggente che perde l’attimo per carpire il significato della terra. La nuda terra sotto i miei piedi e, dinanzi al chiaro vedere delle cose, l’oscura ombra di me stesso, intrisa di speranze egoistiche e centripete.

Il giorno fu lungo, il cammino incessante, ma la mia meta, il punto di ascolto nel grande nord, doveva essere raggiunta. Solo lì percepivo che avrei potuto ascoltare l’assoluto e l’inossidabile vento delle magie dove ogni parametro si sarebbe disgregato per ricomporsi nel giusto verso della spiritualità della natura in una affinità elettiva senza compromessi.

Ignare follie, tristezze certe, allucinazioni reali e, nel mezzo, la mia ombra ormai unificata a quella della mia guida. Il desiderio di avere, di possedere, calunniava ciò che c’era di più puro nella madre terra. Io, la mia ombra, il mio intero stava ben appollaiato da un lato e, distinta e allontanata, la natura sembrava che mi osservasse sgomenta perché da me “volutamente” disgiunta. Avevo reciso ciò che era indivisibile, avevo rimosso ciò che era inamovibile ed ero entrato, classicamente e con spavalderia, nella mia mente divisoria rinunciando a quell’unicum che era il flebile, ma incessante vento delle origini.

Ero una pietra, un sasso lanciato nel vuoto e traslavo tutta la mia pazzia verso il nulla della dualità. AVEVO SCISSO l’inscindibile, avevo sciolto l’indissolubile ed avevo gridato al mondo, forse ignaro del grave errore, il mio successo nel fare tutto ciò..........

Camminai molto, giorni e giorni, lasciando dietro alle mie spalle latitudini dopo latitudini. Cangiava ogni elemento, le foreste di conifere prendevano il posto a quelle delle latifoglie, e gli animali, sempre nuovi, mi guidavano verso settentrione. Un orso bruno nel fitto della foresta, un’alce da qualche parte, una grande diga di un castoro che implacidava l’andare delle acque e, la mia guida, il lupo, che, pur se non vedevo, mi indicava ognora la via. Ero a tratti stanco, ma sapevo che dovevo farcela.

Trascorsero molte lune e, giorno dopo giorno, guadagnai centinaia di chilometri. Non sapevo dove mi sarei dovuto fermare, ma fidavo nel mio senso interiore. Intanto nella mia mente si susseguivano velocemente le immagini della mia e soprattutto di tutta la vita dell’uomo con le sue “quiete disperazioni esistenziali” e con il suo procedere verso un luogo non definito, ma chiarissimo: la disintegrazione totale dell’ordine caotico della madre terra. Una disintegrazione che portava seco anche se stessi, ma, anche se non del tutto ignari, procedeva con estrema determinazione, come il fluire di un impetuoso tratto di fiume: “l’Occidente è una nave che sta colando a picco, la cui falla è ignorata da tutti. Ma tutti si danno da fare per rendere il viaggio più confortevole”.(Emanuele Severino) Quelle immagini mi scorrevano l’una dietro l’altra e tutte avevano un unico filo conduttore: recidere drasticamente il senso di unità con la terra. Era la stessa sensazione che avevo in me stesso, ma in questa occasione essa era traslata all’intera razza umana, almeno quella gran parte che rincorre il nulla e la divisione. Ma nel complesso, anche se in fondo non ci riuscivo, cercano con forza di non farmi soggiogare dal pensiero della sofferenza. Ricordai a tal proposito un bellissimo passo di un libro che ebbi la fortuna di scorrere qualche tempo prima: “Ogni infelicità è in parte, per così dire, l’ombra o il riflesso di se stessa: non è soltanto il proprio soffrire, ma anche il dover pensare continuamente al proprio soffrire. Io non solo vivo ogni interminabile giorno nel dolore per la sua morte, ma lo vivo pensando che vivo ogni giorno nel dolore.......”.(Lewis, 1990)

Cieli plumbei, crepuscoli dorati, aurore vanescenti e luci che nella loro intensità illuminavano a giorno il mio pensare.

Il grido del cuore, l’effimero innalzato, l’inutile arricchito e l’essenziale ignorato.

Il vento sulle guance, il fruscio delle foreste e, d’improvviso, il fragore del tuono dopo il fulmine.

Il mio procedere era rallentato perché sentivo che la mia guida ora progrediva non più linearmente, ma si fermava ad annusare l’aria, zigzagava a destra e a sinistra, come per dirmi che il momento di fermarmi era molto vicino. Ma non sarebbe stato certamente un fermarmi statico, ma fondamentalmente dinamico e soprattutto riflessivo e costruttivo perché per comprendere appieno l’essenza dei fatti, l’unico modo era quello di ascoltare la natura. Il segno mi sarebbe quando prima arrivato.

Mi trovavo in uno scenario quasi surreale: articolate colline sullo sfondo, un sinuoso e a tratti impetuoso fiume nelle vicinanze e, dappertutto, una grandiosa, millenaria foresta primigenia. Un ambiente che toglieva il respiro, che concedeva all’essere il più profondo senso della wilderness dei luoghi e dello spirito. Ero forse giunto al mio luogo di ASCOLTO, dove avrei probabilmente compreso il giusto esistere e avrei respirato nella mente l’aria dell’armonico vivere. Ascoltare, comprendere, riflettere........... Mi sovvenne a quel punto una riflessione che un tempo non la condividevo in pieno, ma ora forse vi scorgevo qualcosa di coinvolgente:

“La vita va vista attraverso tutte le sue sfumature come i colori di un prisma. Occorre lasciarsi penetrare dalle mille luci che la attraversano, perché poi alla fine del processo tornano a ricomporsi, basta non opporre resistenza; ci sono cose che vanno vissute con partecipazione, come il male e il bene, l'amore e la gioia. E’ necessario farsi attraversare da loro e guardarle, in modo distaccato ma presente, facendo capire a chiunque che sei tu il padrone di te stesso, della tua mente e del tuo corpo”.

Fu questa la mia prima sensazione di pensiero ora che mi toccava il compito più arduo. Ricomporre il mio dissidio con la natura attraverso la penetrazione nei più reconditi recessi del proprio cuore onde demolire poco alla volta tutto quel trascorso errato e tangibile, ma del tutto effimero di cui la mia mente, ben rappresentante di tutto il genere umano, era così fortemente incastonata. Era come dover lavorare in una miniera per rimuovere il superfluo e trovare la vena madre, la fonte di tutte le ricchezze.

Dovetti muovermi ancora per una decina di giorni, valicare numerose colline e guadare piccoli fiumi, ma alla fine mi resi conto che il mio procedere non aveva più senso. La pista della mia “guida” era infatti scomparsa. Avevo percorso un lunghissimo cammino ed ora mi accorsi che ciò che cercavo potevo scoprirlo in tutta la sua interezza. Dovevo semplicemente, per modo di dire, ripulire a fondo le incrostazioni del mio essere, togliere i tappi dalle orecchie e cominciare ad ascoltare la grande spiritualità della wilderness........


Con profonda umiltà decisi di non riprendere più il mio viaggio a ritroso dal“punto di ascolto”, solitario e silente luogo dove lo spirito rientrava nella natura. Il mio peregrinare e la mia meta, forse più mentale, surreale ed interiore che fisica, mi indusse a riflettere bene poiché ora era forte in me la piena consapevolezza dell’amaro destino cui il genere umano a grandi passi si dirigeva ormai da troppo tempo. La mia ormai completa presa di coscienza sulla “verità nascosta”, mi spinse ad argomentare e a scrivere un ultimo passo riflessivo…... 

“Il palese monito della comprensione rivolto al viaggiatore errante difficilmente verrà in sincerità compreso, soprattutto nella sua profondità. Infatti in ‘superficie’ si registrano molti segni di parziale consapevolezza, ma nel reale e nell’esecutivo i cambiamenti appaiono solo fittizi e ‘scenografici’. E’ come essere caduti nelle sabbie mobili: ci si aggrappa disperatamente  a qualcosa per uscirne fuori, ma quel qualcosa è un effimero filo d’erba che velocemente si distacca. Ed allora l’affondare sarà inevitabile!

L’ultima frontiera della wilderness sta svanendo ormai sempre più. Un crepuscolo che conclude un giorno particolare, il cui giorno rappresenta lo stadio ultimo della vita libera ed incorrotta che ora, con il sopraggiungere delle tenebre, non si sa se l’indomani nella soffusa luce potrà continuare ancora ad esistere. Anche le vie più lunghe e tortuose prima o poi giungono al termine o al limite confluiscono in altre, ma ormai anche le altre hanno già esaurito il loro tragitto. Il cui andare, quindi, non potrà più dispiegarsi verso una consueta meta al di là da venire e si giunge, nella più profonda mestizia, alla conclusione che ormai non c’è più via da percorrere. Fermi, attoniti, ci si guarda intorno e ovunque si scorgono ampie distese fumanti che oscurano la profondità dei sensi visivi ed allora gli animi, perduti nell’ignoto, non scorgono più la via che potrebbero intraprendere. Nel paradosso ci si illude, ma solo per qualche istante, che una via, da qualche parte c’è, ignari che il nostro precedente andare ci aveva progressivamente portati verso il capolinea. Ed ora che l’incedere non è più concesso, nella mente riappaiono, tutto in una rapido baluginare di eventi, gli errori compiuti e le distruzioni perpetrate quando, all’epoca, si era sicuri che la via non sarebbe finita mai. Per conservare l’abbondanza, quando essa è tale, occorre amministrarla con parsimonia e con armonia, e mai, dico mai al di sopra delle sue capacità sostenibili e autogeneranti. In questo vi sono tutte le cose che lo spirito selvaggio, in un certo senso, non ha mai espressamente ‘detto’ perché lo ha sempre esternato, ogni ora, nell’intimo e sottile legame che nell’introspezione regge e unisce ogni affinità elettiva. Noi non abbiamo voluto ascoltare sia perché il nostro procedere ce lo ha sempre impedito e sia perché il nostro agire non voleva affatto percepire l’essenza delle cose. Per tutta l’esistenza siamo stati troppo ‘occupati’ nella pratica del saccheggio di ogni qual cosa ci venisse a tiro - noi stessi inclusi – senza la pur minima parvenza di coscienza e, alla resa dei conti: a cosa servono le lacrime più amare, lacrime che sigillano con il loro potentissimo materiale collageno, le luci ormai fattesi tenebre? E, nell’immenso baratro che si apre, sarà inevitabile il precipitare senza soluzione di continuità nel più profondo degli abissi; ma, cosa ancor più grave e come atto di perfidia finale, arrecando seco ogni cosa esistente, animata e non che era apparsa in quella che fu chiamata ‘madre terra’.

Quando, dunque, il ‘vento selvaggio’, la spiritualità della wilderness ci portava da sempre il monito degli errori, non abbiamo voluto in alcun modo percepirlo. Ma ora è forse troppo tardi per risalire dal profondo fosso, anche se eravamo stati fatti - parafrasando Rousseau - abbastanza forti affinché non potessimo cadervi. Quello che non poteva prevedersi è che noi abbiamo voluto rinunciare a quella forza!!”.


“La natura deve essere rispettata e salvaguardata per il suo valore in sé. E’ l'uomo che deve adattarsi alle sue esigenze e non viceversa. Se è possibile, si deve fare in modo che il mondo selvaggio viva nella sua libera continuità e nella sua fierezza, quella libertà e quella fierezza che l'uomo, prigioniero e schiavo delle proprie convenzioni, forse inconsciamente invidia.


Dopo questa mia ultima, triste, quasi disperata constatazione, mi raccolsi profondamente nel mio io mentre osservavo, melanconicamente, le luci che filtravano tra il fitto della foresta. A quel punto sapevo che una volta che si è rientrati nello spirito dell’ultima frontiera della natura, la “saggezza” ci dice di non tornare, in nessun caso, mai indietro. E, con estrema angoscia, scrissi “Se perderemo veramente il mondo selvaggio..... - parafrasando un famoso scritto (Cassandra di C. Wolf) - il dolore si impadronirà di noi. Ma grazie ad esso, dopo, e qualora un dopo ci sarà, ci rincontreremo e se dovessimo rivivere il selvaggio creeremo forse finalmente con esso un eterno rapporto di verità, di spiritualità, di unione, d’infinito ed indissolubile rispetto.........”.



Uno spirito superiore, uno spirito diverso



“E’ beato colui che anche in seguito non avrà mai a pentirsi del suo attimo di vita” (J. G. Herder). Pochi esseri umani hanno trascorso la propria esistenza con verità, con intensità, con coerenza e senza compromessi rilevanti. Pochi esseri umani sono stati in grado di “ribellarsi” realmente allo status negativo delle ambiguità sociali o alle distruzioni verso la natura. Pochi esseri umani sono stati in grado di operare e di vivere senza utilizzare le situazioni a proprio vantaggio e a proprio interesse. Pochi esseri umani hanno guardato negli occhi la giustizia, la franchezza e la lealtà ed hanno gridato al mondo gli errori, i soprusi, le prevaricazioni e le distruzioni che il genere umano provoca di continuo a sé stesso e alla natura. Pochi esseri umani hanno universalizzato il proprio spirito e sono stati veramente liberi. Pochi esseri umani hanno avuto una visione unitaria dell’intero universo e finanche dell’infinito. Pochi esseri umani sono stati decisi nell’affermare il proprio pensiero e le proprie convizioni, giuste o sbagliate che siano state. Pochi esseri umani hanno detto “finché un uomo è in catene nessun essere umano è libero” (Che Guevara) oppure “...la cosa più viva è la più selvaggia. Non ancora sottomessa all’uomo....” (H.D. Thoreau). Pochi esseri umani hanno combattuto realmente l’infinita battaglia per la conservazione della natura e per una società migliore. Pochi esseri umani hanno respirato l’essenza della vita ed hanno affermato che nella natura selvaggia è la salvezza del mondo........ Pochi esseri umani si sono chiamati Grey Owl (WA-SHA-QUON-ASIN, l’uomo indimenticabile che camminava nella notte), John Muir, Henry David Thoreau, Robert Marshall, Aldo Lepold, Sigurd Ferdinand Olson, Arne Naess, Gary Steiner, Edward Goldsmith, Gregory Tah-Kloma, Dian Fossey, Chico Mendes, Pëtr Kropotkin, Lev Tolstoj, Rosa Luxburg, Vandana Shiva, Ernesto Che Guevara, ecc., più i nomi “sconosciuti” di coloro che hanno tributato la loro vita per la salvaguardia della natura e delle miserie umane (la lista di tutti coloro che hanno dato un senso alla loro vita ed un risvolto pratico verso le tematiche socio/ambientali, non è assolutamente completa ed esaustiva ma in ogni caso non sarebbe molto lunga).

“I mortali abitano in quanto accolgono il cielo come cielo. Essi lasciano al sole e alla luna il loro corso, alle stelle lasciano il loro cammino, alle stagioni dell’anno le loro benedizioni e la loro inclemenza, non fanno della notte giorno, né del giorno un affannarsi senza sosta” (Heidegger, 1976).

Pochi esseri umani ci hanno fatto rendere conto della nostra mediocrità fatta di piccolezze, di meschinità, di falsità, di superbia, di arrivismo e di vuote certezze. Scrisse Che Guevara in una lettera ai figli (in Bucellini, 1995, già citata nel testo):“Ai miei figli.

Carissimi Hildita, Aleidita, Camilo, Celia ed Ernesto.

Se un giorno leggerete questa lettera sarà perché io non ci sarò più. Quasi non vi ricorderete di me: i più piccoli non ricorderanno nulla. Vostro padre è un uomo che agisce come pensa e sicuramente è stato leale con le proprie convinzioni. Crescete come buoni rivoluzionari......

Soprattutto siate sempre capaci di sentire nel più profondo di voi stessi qualsiasi ingiustizia commessa contro qualsiasi persona, in qualsiasi parte del mondo. E’ la qualità più bella di un rivoluzionario ...... “.

Forse l’infinita battaglia per la conservazione della natura è una battaglia già persa in partenza, ma nulla e nessuno ci impedirà, parafrasando Rousseau, di gridare al mondo che il fossato è troppo profondo per uscirne fuori, ma eravamo stati fatti abbastanza forti affinché non potessimo cadervi!


“Quando non può più lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l’andatura di cappa (il fiocco a collo e la barra sottovento) che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela. La fuga è spesso, quando si è lontani dalla costa, il solo modo di salvare la barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all’orizzonte delle acque tornate calme. Rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l’illusoria fortuna di poter seguire la rotta dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione ... “ (Laborit, 1990).


Commiato



"La civiltà, non è altro che il distacco dell'uomo dalla natura. Quando l'uomo viene distaccato dalla natura perde l'innocenza naturale, perde la semplicità della vita e conseguentemente aumenta le proprie ambizioni e miserie..." (Lao-Tse).

“Mi sembra inconcepibile che un rapporto etico con la terra possa esistere senza provare per essa amore, rispetto e ammirazione, e senza un’alta considerazione del suo valore. Parlando di valore mi riferisco, naturalmente, a qualcosa di molto più vasto del semplice valore economico, intendendo quindi il termine in senso filosofico.

Forse il pericolo che minaccia più gravemente l’evoluzione di un’etica della terra è il fatto che i nostri sistemi educativi ed economici vanno nella direzione opposta a quella che li condurrebbe verso lo sviluppo di un’intensa consapevolezza della terra. L’uomo moderno è separato dalla terra da troppi intermediari e arnesi; non ha un rapporto vitale con essa e per lui ‘terra’ significa solo la spazio fra una città e l’altra, dove si producono i raccolti. Se lo si lascia libero un giorno in campagna, in un luogo che non sia un campo da golf o un belvedere, si annoierà a morte..... In poche parole, la terra ormai gli va stretta” (A. Leopold, 1949-1997).

La svolta filosofica, sociale ed economica impressa dall’Illuminismo al mondo occidentale a partire dal XVIIIº secolo, poi continuata col positivismo, è approdata nei nostri giorni nell’acritico trionfo del razionalismo tecnologico. Effetti così radicali, prodotti da una sì complessa “weltanschauung”, non possono essere contrastati che mediante una diversa filosofia. Ma è purtroppo vero che all’interno del pensiero filosofico di cui il mondo occidentale si è nutrito sin dal tempo dell’antica Grecia, si cercherebbe invano una visione della vita sottratta al determinante influsso dell’antropocentrismo espresso dal gruppo ed ispirata ad una concezione unitaria e paritetica del rapporto uomo-natura. Occorrerebbe eliminare dalla mente il “razionalismo eccessivo” ed uscire dalla simmetria degli elementi e degli eventi. Uno “status asimmetrico”, genererebbe continue variabili che, come detto in precedenza, favorirebbero la compenetrazione degli opposti fusi in un tutto unico all’interno della dialettica della natura. “E’ così triste vedere la gente cercare di uniformarsi agli altri. Per essere tutti la stessa cosa. Ebbene, noi siamo come i fiori della terra. Sarebbe davvero una noia uscire dalla propria casa e non vedere che pratoline, pratoline nere e bianche. Un popolo diverso, delle idee e delle credenze diverse: ecco ciò che rende la vita molto più interessante” (Cecilia Pitchell, Mohawk - in AA. VV., 1995).

Da qualche parte si è tuttavia pensato di poter individuare nel pensiero anarchico una costruzione filosofica che per i suoi stessi presupposti riesce ad affrancarsi all’idolatria del potere esercitato dall’uomo nelle sue varie forme associative, che vanno dalla famiglia, al clan, allo Stato. Occorre però chiarire senza indugio che le poche tendenze ambientalistiche inclini alle seduzioni dell’antica matrice anarchica, si rifanno soltanto all’anarchia intesa come costruzione filosofica, non certamente all’anarchia che, come movimento politico, ha fatto parlare a lungo di sé, attraverso la voce di William Godwin, Max Stirner, Michail Bakunin, Petr Kropotkin, e lo stesso Pierre Joseph Proudhon. Proprio lo Stirner, pur esponente della sinistra egheliana, si opponeva fermamente alle conclusioni del grande filosofo tedesco che vedeva dissolversi nella onnicomprensività dello Spirito infinito anche l’individuo, che è invece, per lo Stirner, l’unica realtà e l’unico valore.

All’interno della filosofia anarchica si sviluppa, per così dire, il dominio assoluto dell’individuo e della personalità singola, che per esprimere le sue esigenze primarie non ha bisogno di delegarle alla famiglia, al clan o allo Stato, in quanto può e deve esprimerle in prima persona, certo che la somma delle felicità individuali fanno la felicità dell’intera collettività. In tal modo si pensa di poter rovesciare il rapporto società-ambiente, nel senso che sono da ritenere inutili i precetti imperativi se ogni singolo individuo non regola liberamente sé stesso, così che sarà il singolo individuo a determinare il comportamento del gruppo, e non viceversa. In questo senso appare assai appropriato ed efficace quanto scrive Odin (in Boussinot, 1978): “Noi vogliamo che l’umanità sia felice. Ma l’umanità non è un’entità reale, solo gli individui che lo compongono sono delle entità reali. Quindi quando dico: voglio che l’umanità sia felice, voglio che gli individui siano felici. Contrariamente alle apparenze non si tratta della famosa felicità di ognuno grazie alla felicità di tutti, ma esattamente dell’inverso: puramente e semplicemente la felicità di ognuno (e tutti gli ognuno riuniti fanno effettivamente tutti). Questa felicità di ognuno ha ognuno come agente. La società deve quindi essere concepita in tale maniera da far sì che, nella più totale libertà indispensabile, ognuno sia l’agente della propria felicità.......Dato che ogni individuo è unico, insostituibile e incarna l’umanità intera, che faccia prima di ogni altra cosa la sua rivoluzione personale! Che si liberi per primo e che aiuti gli altri a liberarsi, uno dopo l’altro!”. Tuttavia, a proposito dell’anarchismo storico, occorre dire che esso, nelle grandi linee, non ha trasferito sulle problematiche ambientali le proprie idee sociali. Forse il periodo temporale dello sviluppo di quelle idee, la visione antropocentrica di fondo e la mancanza delle basi “naturali” della filosofia occidentale, possono aver causato un tale “silenzio”. Resta comunque il fatto che le idee anarchiche hanno in un certo qual modo contribuito a mettere in discussione le “certezze” della socialità borghese occidentale. La scuola anarchica contemporanea, probabilmente conscia della profonda crisi ecologica della sociatà attuale, ha però inserito nelle proprie argomentazioni libertarie il riferimento al mondo naturale. Ne è un vivido esempio Murray Bookchin più volte citato nel testo con la sua “ecologia sociale” e Paul Goodman che “elaborò la sua critica al sistema opponendo alla ‘civiltà tecnologica’ l’idea della natura e della realtà umana come un tutto funzionale e unitario, in cui domina l’interazione e la simbiosi tra l’individuo e l’ambiente. Ecco perché non è allo specialista che tocca pianificare la vita sociale: così si perderà di vista l’unitarietà del fenomeno con il  rischio perenne di distruggere la comunità originaria esistente” (Zanantoni, 1996).

Scrive Bookchin a proposito dello spirito rivoluzionario: “Per quanto inquinati, ideali di libertà continuano ad esistere fra noi. Eppure il progetto rivoluzionario non è mai stato così compromesso dall’’imborghesimento’ temuto da Bakunin nell’ultimo periodo della sua vita. Né si è presentato in termini tanto ambigui come oggi. Parole come ‘radicalismo’ e ‘sinistra’ sono diventate di significato misterioso, ed esiste il serio pericolo che perdano completamente di senso. Quanto oggi passa per rivoluzione, radicalismo e sinistra, solo un paio di generazioni fa sarebbe stato rifiutato come riformismo ed opportunismo politico. Il pensiero sociale si è lasciato attrarre così addentro le viscere dell’attuale società che le persone che si considerano ‘di sinistra’ (socialisti, marxisti o radical che siano) rischiano di venirne digeriti senza neppure accorgersene”. 

Riferendoci ancora a Murray Bookchin, scrive Berti (1998): “Portando all’estrema coerenza teorica i presupposti fondamentali del pensiero ecologico, di cui è stato un pioniere, Bookchin dimostra che il principio informatore di tutta la civiltà esistente - il principio del dominio - è la causa della rovina totale dell’uomo. Non si tratta di una rovina morale, o religiosa, o sociale, o culturale, o psicologica, ma di una rovina totale dal momento che la catastrofe ecologica finirà col disseccare le fonti stesse della vita umana. Se ne deve dedurre che la salvezza dell’umanità sta nel dissolvimento del principio su cui si fonda la civiltà esistente: il principio del dominio.

Secondo Bookchin solo l’idea anarchica riflette per intero una concezione ecologica coerente perché il suo principio è universale. Esso non è più espressione di un movimento storico-sociale, ma l’unico altro modo di intendere e di organizzare la vita umana. A fronte della civiltà del dominio sta contrapposta la civiltà della vita presa nella sua interezza. Ecologia radicale, ovvero consapevolezza teorica delle interconnessioni necessitanti che ‘tengono’ il sistema natura-uomo-società, ovvero assunzione etica dei diritti dell’esistente in tutta la complessità delle sue forme, che sono, in termini ecologici, la garanzia dell’equilibrio e quindi dell’infinità multiformità del reale. Con Bookchin ritornano le grandi intuizioni di Kropotkin, soprattutto quella difficile equazione secondo cui la forma culturale più alta della socialità è quella che (paradossalmente) riflette la forma più alta di autentica naturalità”.

Tra le nostre considerazioni non possiamo esimerci dal ribadire che la primaria soluzione dei problemi ambientali si fonda soprattutto su una revisione radicale o meglio in una ricostruzione ex novo del pensiero e conseguentemente del modello di vita personale e sociale, ed è con una siffatta convinzione che ci piace citare qui di seguito quanto scrive C.G. Jung con una saggezza spartana degna di essere imitata: “Ho rinunciato alla corrente elettrica: io stesso accendo il focolare e la stufa, e a sera accendo le vecchie lampade. Non ho acqua corrente, e pompo l’acqua da un pozzo; spacco la legna, e cucino il cibo. Questi atti semplici rendono l’uomo semplice: e quanto è difficile essere semplici!”. La profonda riflessione di Jung ci apre una piccola speranza perché: “Le api vivono nell’ombra dell’alveare, ma ritrovano sempre la strada per la luce”

E sulle critiche di coloro che vogliono annullare il significato dei pensieri radicalmente opposti all’attuale modo di fare si riporta un passo molto significativo di Devall e Sessions (1989): “Inventare un futuro ecotopico ha un valore pratico. Ci aiuta a puntualizzare i nostri obiettivi, offre un ideale, che, se non si realizzerà forse mai completamente, mantiene sempre desta però l’attenzione verso la sua realizzazione. In base a questo ideale possiamo anche orientare le azioni personali e le decisioni di politica collettiva su controversie specifiche…… Grazie a questa visione possiamo cogliere la distanza fra come la realtà dovrebbe essere e com’è oggi nella società industrial-tecnocratica”.


“Da qualche parte a est un lupo ululò in tono leggermente interrogativo. Riconobbi la voce perché l’avevo udita molte volte in precedenza..... Ma per me era una voce che parlava del mondo perduto un tempo nostro, prima che scegliessimo un ruolo in contrasto con esso; un mondo di cui avevo avuto un barlume e in cui era quasi entrato ..... soltanto per restarne escluso, alla fine, dal mio stesso io”(F. Mowat, 1973).




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Non potremmo concludere questi appunti soffusi di incolpevole pessimismo, con parole più appropriate di quelle che appaiono nel seguente scritto profetico di Leonardo da Vinci, intitolato Della crudeltà dell’omo. “Vedrassi animali sopra la terra, i quali sempre combatteranno infra loro e con danni grandissimi e spesso morte di ciascuna delle parte. Questi non aran termine nella loro malignità; per le fiere membra di questi verranno a terra gran parte degli alberi delle gran selve dell’universo; e poi ch’è saran pasciuti il nutrimento dei lor desideri sarà di dar morte e affanno e fatiche e paure e fughe a qualunque cosa animata. E per la loro ismisurata superbia questi si vorran levare inverso il cielo, ma la sperchia gravezza delle lor membra gli terrà in basso. Nulla cosa resterà sopra la terra. o sotto la terra e l’acqua, che non sia perseguitata, remossa o guasta; e quella d’un paese remossa nell’altro; e ‘l corpo di questi si farà sepoltura e transito di tutti i già lor corpi animati. O mondo come non t’apri, e e’ precipita nell’alte fessure de’ tua gran balatri e spelonche, e non mostrare più al cielo sì crudele e dispietato mostro.” (tratto da Simonetta, 1976).



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“L’uomo deve trovare la pace con se stesso per illuminare il proprio cammino”


“Se perderemo veramente il mondo selvaggio..... - parafrasando un famoso scritto (Cassandra di C. Wolf) - il dolore si impadronirà di noi. Ma grazie ad esso, dopo, e qualora un dopo ci sarà, ci rincontreremo e se dovessimo rivivere il selvaggio creeremo forse finalmente con esso un eterno rapporto di verità, di unione, d’infinito ed indissolubile rispetto.........”.



LATHE BIOSAS

(vivi nascostamente)




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Zunino F. Consultazioni varie da: “Documenti Wilderness” (Bollettino dell’Associazione Italiana per la Wilderness). 



SOMMARIO



Prefazione


Parte prima - Per un’ecologia sociale


Il contratto sociale

La globalizzazione e la sua vulnerabilità

Problemi del Sud del mondo

Le fonti energetiche

L’urbanesimo

L’assenza dei valori

La rivolta del ‘68

Ecologia della disoccupazione e l’economia in stato stazionario

La fisiocrazia

La zootecnia/agricoltura e il vegetarianesimo

La scelta vegana

Il concetto del consumo

La religione

L’uomo contemporaneo nella società contemporanea

Guerra e ambiente

Un piccolo omaggio ad un grande rivoluzionario e pensatore russo: Pëtr Kropotkin

Messaggio delle sei nazioni Irochesi confederate al mondo occidentale

La filosofia cinica


Parte seconda - Per un’ecologia della conservazione


L’ecologia

Il noumeno naturale - Il valore in sé della natura

La filosofia della conservazione

L’estetica ambientale

La longevità “apparente” e la sovrappopolazione

La tecnologia e la pressione demografica

L’uomo da cacciatore/raccoglitore a uomo tecnologico

La caccia

La pesca

Turismo e ambiente

La grave minaccia del turismo

Il mercato dell’ecologia

Il naturalista/biologo contemporaneo

Lo “sviluppo” tecnologico e scientifico. Un mondo in antitesi alla natura

Lo stile di vita

Le aree protette

La gestione delle aree protette

La paura di perdersi

Il concetto di Wilderness

Per una Wilderness superiore

Wilderness: il "lato selvatico" e non conformista americano di Eduardo Zarelli

Vivere lo spirito della Wilderness di Franco Zunino

Una dedica ad alcune autorevoli figure dello spirito Wilderness

L’ecologia profonda

L’Ecologia profonda di Guido Dalla Casa

Arne Naess, il filosofo dell’Ecologia profonda di Guido Dalla Casa

L’Ecosofia T di Arne Naess di Mariella Guaracci

L’ecologia di superficie di Guido Dalla Casa

Il bioregionalismo: il senso del luogo

Femminismo ed ecologia

Manifesto per la terra

Etica della terra

L’Etica della terra di Guido Dalla Casa

Visione olistica del mondo di Guido Dalla Casa

Le origini culturali del problema ecologico di Guido Dalla Casa

Che cos’è lo sviluppo – Analisi di un mito di Guido Dalla Casa

Il riduzionismo scientifico e il problema ecologico di Guido Dalla Casa

Noi e gli altri animali di Guido Dalla Casa

Un omaggio alla memoria di Grey Owl

Il ridimensionamento dell’antropocentrismo

L’errore antropocentrico di Guido Dalla Casa

E se provassimo a guardare il mondo alla rovescia?

Wildness mind

Lupa blanca

Il punto di ascolto per una spiritualità della natura

Uno spirito superiore, uno spirito diverso

Commiato