lunedì 30 marzo 2020

Il punto di ascolto per una spiritualità della natura

Wild Nahani






NB. Testo tratto dal libro "Napapiiri" - Ritorno al selvatico


D’improvviso un giorno decisi di partire, ma forse fu più una viaggio della mente e della mia fantasia che una partenza fisica, non so; esso mi avrebbe dovuto condurre verso nuovi lidi, per aprimi le porte verso una realtà ben diversa, in parte inaspettata, ma da me inconsciamente voluta e forse già nota. Issai le “vele” e presi il largo anche se la navigazione si sarebbe potuta presentare tutt’altro che agevole. Avrei dovuto comporre un complicato puzzle senza averne l’immagine guida.

Trovavo delle luci cangianti, delle aurore musicali, delle voci inusitate e, alla fine, un lungo e indecifrabile ascolto di un qualcosa che si librava in alto tra le cime dello spirito.

Era cominciata la mia ricerca, una ricerca che era senza soggetto ne personaggi, una ricerca eterea dove il fluire delle silenti ed indissolubili anime conducevano ad un necrologio di vita.

Proseguivo a tratti con difficoltà, perché ciò che è profondamente vero non sempre è così facile. Aprii il mio cuore, spalancai i miei pertugi e ascoltai in silenzio ciò che non udivo. Le luci, dopo la loro scomposizione, si ricongiunsero, ma sembravano sfuggire come foglie mosse da un forte vento.

Attraversai dune alberate, superai massi disarmonici, camminai lungo un sentiero che non vedevo, ma alla fine giunsi ad una improvvisa ed amena radura: aprii il mio petto e lasciai che le lacrime se ne andassero fluenti senza porre ostacoli. Era il veleggiare senza vento, ma un duro, veritiero risvegliarsi delle membra.

Fu così che partii dentro me stesso per trovare ciò che restava della natura, una natura morente che stava per essere sepolta, ma che io volevo ancora vedere e soprattutto sentire prima che l’ultima manciata di terra fosse versata sui suoi resti. E, cosa di non secondaria importanza, volevo ancora capire e dire qualcosa. Avrei dovuto viaggiare a lungo, molto a lungo per riconnettermi con un mondo ormai perduto da cui io stesso, forse, ne volli essere escluso. Dovevo trovare un luogo, un punto di ascolto, dove sentire un “vento”, una spiritualità che probabilmente poteva insegnarmi qualcosa. 

Ero costretto a viaggiare con la mia mente perché il silenzio della primavera mi obbligava a farlo. Non un passo, non un fremito fendeva l’aria immota e nulla, nulla sembrava voler elargire parola.

Mi accostai ad un tronco caduto, ormai trasformato in humus, il pane della vita; un tronco millenario che racchiudeva nei suoi vanescenti resti la storia di un declino. Non il suo - quell’albero ne era stato solo un testimone - ma quello del nostro io che pian piano si spegneva con la volontà decisa di farlo.

Giunsi ad un bivio. Due sentieri quasi impercettibili, ma in fondo palesemente delineati. Ne scelsi uno a caso, ma il tragitto che pensavo alternativo fu breve. Solo un centinaio di passi ed i sentieri si sovrapposero d’improvviso. Era forse un monito ad una finta scelta dove l’obbligo del procedere pareva che regalasse un diversivo. Il segno era chiaro: il cammino doveva essere percorso in unico senso privo di deviazioni e scevro di corruzioni. Poi vidi un impronta nel fango, una impronta di un animale etereo, plastico, vanescente, sublime. Era passato da poco e in quel dagherrotipo di immagine scorsi agevolmente l’autore: un lupo. Vidi in quell’orma un mondo infinito, un mondo di ululati, fughe, corse a perdifiato e rigogli di gioie estinte. Mi soffermai, riflettei, fotografai col mio pensiero e poi compresi: quanti incontri avrei potuto fare nel mio viaggio e quale giusta via seguire senza una guida? Decisi così, in un sol fiato, di farmi “portare” spiritualmente dal quel simbolo della wilderness della terra. Presi quella guida, la nominai più volte nel mio io e fui così rinfrancato che avrei sicuramente trovato il mio luogo di ascolto! Ma il mio ascolto non era concepito solo come un udire qualcosa, ma soprattutto percepire dei messaggi, dei simboli, delle comprensioni eteree, delle sensazioni profonde che avrebbero travalicato lo spirito al di sopra di un meccanicismo palesemente tangibile.

Il mio viaggio era volto a settentrione, il grande nord della madre terra dove al freddo fisico che pungeva l’anima si contrapponeva la luce della limpidezza. Avevo ora almeno un punto di riferimento, un punto cardinale chiaro e definito. Ed avevo, soprattutto, la mia guida spirituale.

Sapevo di calpestare la mia ombra, ormai raggelata per la sua ineluttabile vanità. Calpestavo il mio dolore e la mia inerzia dinanzi al cangiarsi delle remote stagioni dell’anima. Seguivo intanto la pista del lupo e scorgevo, ai bordi del sentiero, le inevitabili devianze cui la mente tende. Distorsioni esistenziali, vacuità delle cose e, sopra ogni elemento, lo spirito fuggente che perde l’attimo per carpire il significato della terra. La nuda terra sotto i miei piedi e, dinanzi al chiaro vedere delle cose, l’oscura ombra di me stesso, intrisa di speranze egoistiche e centripete.

Il giorno fu lungo, il cammino incessante, ma la mia meta, il punto di ascolto nel grande nord, doveva essere raggiunta. Solo lì percepivo che avrei potuto ascoltare l’assoluto e l’inossidabile vento delle magie dove ogni parametro si sarebbe disgregato per ricomporsi nel giusto verso della spiritualità della natura in una affinità elettiva senza compromessi.

Ignare follie, tristezze certe, allucinazioni reali e, nel mezzo, la mia ombra ormai unificata a quella della mia guida. Il desiderio di avere, di possedere, calunniava ciò che c’era di più puro nella madre terra. Io, la mia ombra, il mio intero stava ben appollaiato da un lato e, distinta e allontanata, la natura sembrava che mi osservasse sgomenta perché da me “volutamente” disgiunta. Avevo reciso ciò che era indivisibile, avevo rimosso ciò che era inamovibile ed ero entrato, classicamente e con spavalderia, nella mia mente divisoria rinunciando a quell’unicum che era il flebile, ma incessante vento delle origini.

Ero una pietra, un sasso lanciato nel vuoto e traslavo tutta la mia pazzia verso il nulla della dualità. AVEVO SCISSO l’inscindibile, avevo sciolto l’indissolubile ed avevo gridato al mondo, forse ignaro del grave errore, il mio successo nel fare tutto ciò..........

Camminai molto, giorni e giorni, lasciando dietro alle mie spalle latitudini dopo latitudini. Cangiava ogni elemento, le foreste di conifere prendevano il posto a quelle delle latifoglie, e gli animali, sempre nuovi, mi guidavano verso settentrione. Un orso bruno nel fitto della foresta, un’alce da qualche parte, una grande diga di un castoro che implacidava l’andare delle acque e, la mia guida, il lupo, che, pur se non vedevo, mi indicava ognora la via. Ero a tratti stanco, ma sapevo che dovevo farcela.

Trascorsero molte lune e, giorno dopo giorno, guadagnai centinaia di chilometri. Non sapevo dove mi sarei dovuto fermare, ma fidavo nel mio senso interiore. Intanto nella mia mente si susseguivano velocemente le immagini della mia e soprattutto di tutta la vita dell’uomo con le sue “quiete disperazioni esistenziali” e con il suo procedere verso un luogo non definito, ma chiarissimo: la disintegrazione totale dell’ordine caotico della madre terra. Una disintegrazione che portava seco anche se stessi, ma, anche se non del tutto ignari, procedeva con estrema determinazione, come il fluire di un impetuoso tratto di fiume: “l’Occidente è una nave che sta colando a picco, la cui falla è ignorata da tutti. Ma tutti si danno da fare per rendere il viaggio più confortevole”.(Emanuele Severino) Quelle immagini mi scorrevano l’una dietro l’altra e tutte avevano un unico filo conduttore: recidere drasticamente il senso di unità con la terra. Era la stessa sensazione che avevo in me stesso, ma in questa occasione essa era traslata all’intera razza umana, almeno quella gran parte che rincorre il nulla e la divisione. Ma nel complesso, anche se in fondo non ci riuscivo, cercano con forza di non farmi soggiogare dal pensiero della sofferenza. Ricordai a tal proposito un bellissimo passo di un libro che ebbi la fortuna di scorrere qualche tempo prima: “Ogni infelicità è in parte, per così dire, l’ombra o il riflesso di se stessa: non è soltanto il proprio soffrire, ma anche il dover pensare continuamente al proprio soffrire. Io non solo vivo ogni interminabile giorno nel dolore per la sua morte, ma lo vivo pensando che vivo ogni giorno nel dolore.......”.(Lewis, 1990)

Cieli plumbei, crepuscoli dorati, aurore vanescenti e luci che nella loro intensità illuminavano a giorno il mio pensare.

Il grido del cuore, l’effimero innalzato, l’inutile arricchito e l’essenziale ignorato.

Il vento sulle guance, il fruscio delle foreste e, d’improvviso, il fragore del tuono dopo il fulmine.

Il mio procedere era rallentato perché sentivo che la mia guida ora progrediva non più linearmente, ma si fermava ad annusare l’aria, zigzagava a destra e a sinistra, come per dirmi che il momento di fermarmi era molto vicino. Ma non sarebbe stato certamente un fermarmi statico, ma fondamentalmente dinamico e soprattutto riflessivo e costruttivo perché per comprendere appieno l’essenza dei fatti, l’unico modo era quello di ascoltare la natura. Il segno mi sarebbe quando prima arrivato.

Mi trovavo in uno scenario quasi surreale: articolate colline sullo sfondo, un sinuoso e a tratti impetuoso fiume nelle vicinanze e, dappertutto, una grandiosa, millenaria foresta primigenia. Un ambiente che toglieva il respiro, che concedeva all’essere il più profondo senso della wilderness dei luoghi e dello spirito. Ero forse giunto al mio luogo di ASCOLTO, dove avrei probabilmente compreso il giusto esistere e avrei respirato nella mente l’aria dell’armonico vivere. Ascoltare, comprendere, riflettere........... Mi sovvenne a quel punto una riflessione che un tempo non la condividevo in pieno, ma ora forse vi scorgevo qualcosa di coinvolgente:

“La vita va vista attraverso tutte le sue sfumature come i colori di un prisma. Occorre lasciarsi penetrare dalle mille luci che la attraversano, perché poi alla fine del processo tornano a ricomporsi, basta non opporre resistenza; ci sono cose che vanno vissute con partecipazione, come il male e il bene, l'amore e la gioia. E’ necessario farsi attraversare da loro e guardarle, in modo distaccato ma presente, facendo capire a chiunque che sei tu il padrone di te stesso, della tua mente e del tuo corpo”.

Fu questa la mia prima sensazione di pensiero ora che mi toccava il compito più arduo. Ricomporre il mio dissidio con la natura attraverso la penetrazione nei più reconditi recessi del proprio cuore onde demolire poco alla volta tutto quel trascorso errato e tangibile, ma del tutto effimero di cui la mia mente, ben rappresentante di tutto il genere umano, era così fortemente incastonata. Era come dover lavorare in una miniera per rimuovere il superfluo e trovare la vena madre, la fonte di tutte le ricchezze.

Dovetti muovermi ancora per una decina di giorni, valicare numerose colline e guadare piccoli fiumi, ma alla fine mi resi conto che il mio procedere non aveva più senso. La pista della mia “guida” era infatti scomparsa. Avevo percorso un lunghissimo cammino ed ora mi accorsi che ciò che cercavo potevo scoprirlo in tutta la sua interezza. Dovevo semplicemente, per modo di dire, ripulire a fondo le incrostazioni del mio essere, togliere i tappi dalle orecchie e cominciare ad ascoltare la grande spiritualità della wilderness........


Con profonda umiltà decisi di non riprendere più il mio viaggio a ritroso dal“punto di ascolto”, solitario e silente luogo dove lo spirito rientrava nella natura. Il mio peregrinare e la mia meta, forse più mentale, surreale ed interiore che fisica, mi indusse a riflettere bene poiché ora era forte in me la piena consapevolezza dell’amaro destino cui il genere umano a grandi passi si dirigeva ormai da troppo tempo. La mia ormai completa presa di coscienza sulla “verità nascosta”, mi spinse ad argomentare e a scrivere un ultimo passo riflessivo…... 

“Il palese monito della comprensione rivolto al viaggiatore errante difficilmente verrà in sincerità compreso, soprattutto nella sua profondità. Infatti in ‘superficie’ si registrano molti segni di parziale consapevolezza, ma nel reale e nell’esecutivo i cambiamenti appaiono solo fittizi e ‘scenografici’. E’ come essere caduti nelle sabbie mobili: ci si aggrappa disperatamente  a qualcosa per uscirne fuori, ma quel qualcosa è un effimero filo d’erba che velocemente si distacca. Ed allora l’affondare sarà inevitabile!

L’ultima frontiera della wilderness sta svanendo ormai sempre più. Un crepuscolo che conclude un giorno particolare, il cui giorno rappresenta lo stadio ultimo della vita libera ed incorrotta che ora, con il sopraggiungere delle tenebre, non si sa se l’indomani nella soffusa luce potrà continuare ancora ad esistere. Anche le vie più lunghe e tortuose prima o poi giungono al termine o al limite confluiscono in altre, ma ormai anche le altre hanno già esaurito il loro tragitto. Il cui andare, quindi, non potrà più dispiegarsi verso una consueta meta al di là da venire e si giunge, nella più profonda mestizia, alla conclusione che ormai non c’è più via da percorrere. Fermi, attoniti, ci si guarda intorno e ovunque si scorgono ampie distese fumanti che oscurano la profondità dei sensi visivi ed allora gli animi, perduti nell’ignoto, non scorgono più la via che potrebbero intraprendere. Nel paradosso ci si illude, ma solo per qualche istante, che una via, da qualche parte c’è, ignari che il nostro precedente andare ci aveva progressivamente portati verso il capolinea. Ed ora che l’incedere non è più concesso, nella mente riappaiono, tutto in una rapido baluginare di eventi, gli errori compiuti e le distruzioni perpetrate quando, all’epoca, si era sicuri che la via non sarebbe finita mai. Per conservare l’abbondanza, quando essa è tale, occorre amministrarla con parsimonia e con armonia, e mai, dico mai al di sopra delle sue capacità sostenibili e autogeneranti. In questo vi sono tutte le cose che lo spirito selvaggio, in un certo senso, non ha mai espressamente ‘detto’ perché lo ha sempre esternato, ogni ora, nell’intimo e sottile legame che nell’introspezione regge e unisce ogni affinità elettiva. Noi non abbiamo voluto ascoltare sia perché il nostro procedere ce lo ha sempre impedito e sia perché il nostro agire non voleva affatto percepire l’essenza delle cose. Per tutta l’esistenza siamo stati troppo ‘occupati’ nella pratica del saccheggio di ogni qual cosa ci venisse a tiro - noi stessi inclusi – senza la pur minima parvenza di coscienza e, alla resa dei conti: a cosa servono le lacrime più amare, lacrime che sigillano con il loro potentissimo materiale collageno, le luci ormai fattesi tenebre? E, nell’immenso baratro che si apre, sarà inevitabile il precipitare senza soluzione di continuità nel più profondo degli abissi; ma, cosa ancor più grave e come atto di perfidia finale, arrecando seco ogni cosa esistente, animata e non che era apparsa in quella che fu chiamata ‘madre terra’.

Quando, dunque, il ‘vento selvaggio’, la spiritualità della wilderness ci portava da sempre il monito degli errori, non abbiamo voluto in alcun modo percepirlo. Ma ora è forse troppo tardi per risalire dal profondo fosso, anche se eravamo stati fatti - parafrasando Rousseau - abbastanza forti affinché non potessimo cadervi. Quello che non poteva prevedersi è che noi abbiamo voluto rinunciare a quella forza!!”.


“La natura deve essere rispettata e salvaguardata per il suo valore in sé. E’ l'uomo che deve adattarsi alle sue esigenze e non viceversa. Se è possibile, si deve fare in modo che il mondo selvaggio viva nella sua libera continuità e nella sua fierezza, quella libertà e quella fierezza che l'uomo, prigioniero e schiavo delle proprie convenzioni, forse inconsciamente invidia.


Dopo questa mia ultima, triste, quasi disperata constatazione, mi raccolsi profondamente nel mio io mentre osservavo, melanconicamente, le luci che filtravano tra il fitto della foresta. A quel punto sapevo che una volta che si è rientrati nello spirito dell’ultima frontiera della natura, la “saggezza” ci dice di non tornare, in nessun caso, mai indietro. E, con estrema angoscia, scrissi “Se perderemo veramente il mondo selvaggio..... - parafrasando un famoso scritto (Cassandra di C. Wolf) - il dolore si impadronirà di noi. Ma grazie ad esso, dopo, e qualora un dopo ci sarà, ci rincontreremo e se dovessimo rivivere il selvaggio creeremo forse finalmente con esso un eterno rapporto di verità, di spiritualità, di unione, d’infinito ed indissolubile rispetto.........”. 

giovedì 27 febbraio 2020

Lo stile di vita

 Wild Nahani


Illustrazione di Elzbieta Mielczarek


NB. Testo tratto dal libro "L'Uomo naturale"


“Come l’albero non finisce con le punte delle sue radici o dei suoi rami, e l’uccello non finisce con le sue piume e col suo volo, e la terra non finisce con i suoi monti più alti: così anch’io non finisco con le mie braccia, i miei piedi, la mia pelle, ma mi espando di continuo con la mia voce e il mio pensiero, oltre ogni spazio e ogni tempo, perché la mia anima è il mondo” (N. H. Russel, indiano Cherokee).

Il mondo della vita scorre come un fiume, a tratti placido a tratti impetuoso, e lungo il suo possente cammino accoglie nel suo letto tutti gli elementi dell’ambiente circostante e delle proprie interiorità. Si sente ormai nel cuore che occorre mutare il proprio stile di vita, occorre chiudere il cerchio per uscire dall’infame mondo dello “spirito” contemporaneo per collocarsi, quanto più possibile, alle parti marginali, per non ritrovarsi in punto di morte (parafrasando un po’ Thoreau) incatenati alle assurdità, alle sudditanze ed essere stati complici della morte della natura per poi non fare altro che amaramente comprendere di non aver vissuto.   

Nei secoli che precedettero l’Evo moderno il rapporto di dipendenza che intercorre tra un individuo e l’altro, e - con più ampia accezione - tra un individuo e la società che lo esprime, era di una semplicità estrema, ed egualmente semplici erano le conseguenti sovrastrutture socio - politiche. La produzione agricola, fondamento dell’economia, era affidata ad una società di contadini al cui interno ogni singola unità familiare costituiva un “unicum” economicamente autarchico. Si consumavano carboidrati, proteine e grassi che erano prodotti in proprio, si filava e si tesseva la lana ricavata dalla tosatura degli armenti, e si illuminavano le modeste dimore con le lucerne alimentate dall’olio ricavato dai propri oliveti.

Si coglie qui l’opportunità fornitaci dal riferimento alla lucerna per effettuare un raffronto tra quella convivenza “arcaica” e la convivenza di oggi: quando una famiglia appartenente a quell’antica società decideva di accendere la lucerna non doveva compiere che un atto semplice, sottratto ad ogni mediazione, riempiva cioè la lucerna con l’olio conservato nei grandi recipienti di terracotta; l’accensione di una lampadina elettrica è invece oggi un atto che mette in moto una centrale (p.e. la centrale atomica Phoenix in territorio francese), attiva una condotta elettrica ad alta tensione, e mette in moto tutta una serie di sinergie e di controlli che la grande distribuzione di energia richiede. L’accensione della lampadina è una esemplificazione che vuole emblemizzare l’odierna complessità tecnica - economica del rapporto consumo/produzione ma, com’è ovvio, vi sono altre migliaia di consumi che attivano rapporti altrettanto complessi, anzi spesse volte di una complessità ben maggiore, articolata com’è in innumerevoli variabili. “L’uomo ha smarrito la propria via nella giungla della chimica e dell’ingegneria, e dovrà ritornare sui suoi passi, per quanto doloroso ciò possa essere. Dovrà scoprire dove ha sbagliato, e far pace con la natura. Nel far questo, forse potrà riacquistare il ritmo della vita e l’amore per le cose semplici della vita, che saranno per lui una gioia che si rinnova ogni giorno” (R. St. Barbe-Baker in Goldsmith, 1997).

Occorre altresì sottolineare che la maggior parte dei consumi oggi disponibili esprime una straordinaria forza di seduzione nei confronti dei potenziali utilizzatori; così, ad esempio, la disponibilità di una sfarzosa illuminazione, o dell’acqua corrente e del riscaldamento automatico, ci dà l’illusione di essere più liberi perché più ricchi della facoltà di scelta, ma in effetti solo chi fa luce con la fiamma dell’olio che ha prodotto, solo chi va ad attingere l’acqua del torrente, solo chi si riscalda al fuoco della legna che ha precedentemente raccolto, può dirsi un uomo veramente libero, in quanto la sua personalità non si lascia manipolare dalla catena “esasperazione dei bisogni - consumo - produzione”. Parafrasando J.J. Rousseau si può affermare che eravamo nati liberi, e ovunque siamo in catene. “The mass of men lead lives of quiet desperation” (La maggior parte degli uomini trascorre una vita di quieta disperazione - Henry D. Thoreau).

Non a tutti appare chiaro che il modello di sviluppo basato sulla predetta catena non è un archetipo della natura, né affonda le proprie radici lontano nel tempo, ma è al contrario una costruzione umana abbastanza recente, anzi potremmo dire quasi contestuale al nostro tempo, se consideriamo che, per diversi, lunghi millenni, altri furono i rapporti economici che regolavano la convivenza civile. Il sorgere dell’organizzazione capitalistica della società, e perciò della produzione di massa, si fa risalire da alcuni al XVI secolo col nascere delle prime città commerciali, da altri al processo di industrializzazione avviatosi nella seconda metà del settecento; tra i fattori che si pongono alla base di tale processo, v’è nell’Inghilterra del XVI secolo la recinzione (enclosures) delle terre di uso comune e la loro appropriazione da parte dei latifondisti, col conseguente esodo della popolazione rurale verso le città, ove essa si trasformava in manodopera per la nascente industria. Il sorgere di grandi imperi coloniali, col conseguente afflusso di materie prime a basso prezzo, l’immissione di grandi quantità di metalli preziosi in Europa, l’effetto esercitato dalle “enclosures” di cui si è già detto, furono gli eventi che crearono le condizioni necessarie al sorgere del capitalismo moderno attraverso “l’accumulazione originaria”, alla quale contribuirono, secondo alcuni, anche la pirateria e la tratta degli schiavi.

Occorre considerare non di meno che il capitalismo ha attraversato diverse fasi storiche; quella che si distingue per l’incentivazione dei consumi ha inizio dalla crisi degli anni 30 (del secolo trascorso), quando - su suggerimento del Keynes - essa fu usata come antidoto alla grave depressione dell’economia mondiale. Ma quella che doveva rappresentare una fase congiunturale si è poi trasformata in una fase strutturale fino a raggiungere, tramite l’ossessiva aggressione pubblicitaria, la paradossale catena che abbiamo poco prima definita “esasperazione dei bisogni - consumo - energia”. Tuttavia la società occidentale capitalistica odierna non potrà perdurare nel futuro: il crollo repentino e globale sarà totale a meno che non rinunci alla “creazione” dei bisogni e ponga urgentemente in atto i provvedimenti indirizzati alla protezione dell’ambiente; ma questo è in netta antitesi con i principi stessi del meccanicismo capitalistico. Il clamoroso fallimento del distorto socialismo reale lascia momentaneamente e illusoriamente ampio spazio. La totale assenza dei rapporti unitari con le cose e con se stessi è la peggiore manchevolezza dell’uomo contemporaneo: 

“Le mie parole non sono che una cosa sola. 

Con la grandezza delle montagne,

Con la grandezza delle rocce,

Con la grandezza degli alberi,

Esse non sono che una cosa sola con il mio corpo

Esse non sono che una cosa sola con il mio cuore.

Voi tutti mi verrete in aiuto

Grazie al vostro potere soprannaturale.

E tu, giorno, E tu, notte!

Voi tutti mi guardate

E io non sono che una cosa sola con il mondo” (Preghiera, Yokuts - in AA. VV., 1995)


Dalla Casa (1996) citando l’ecologo Paul Ehrlich, scrive: “Supponiamo di trovarci a salire su di un aereo e di vedere che c’è una persona che sta tranquillamente schiodando i rivetti, che sono un tipo speciale di chiodi che tengono insieme le lamiere dell’ala. Naturalmente allarmatissimi ci mettiamo a gridare all’uomo di smetterla: ma lui ci risponde di stare tranquilli perché non è la prima volta che lo fa (li rivende ad una ditta) e non è mai successo niente; anzi lui stesso sta per partire col medesimo volo, non c’è nulla di cui preoccuparsi. Ovviamente l’uomo non si rende conto che a furia di schiodare arriverà a togliere quel bullone che segna la soglia massima di resistenza dell’ala privata dei bulloni medesimi, e a quel punto succederà la catastrofe. La stessa cosa accade per il nostro pianeta: continuiamo con la più grande incoscienza ad eliminare una specie dopo l’altra, ed apparentemente non succede nulla nell’ecosistema globale. Ma ad un certo punto salterà tutto”. 

Il mutamento del proprio stile di vita è dunque una tappa essenziale per la salvaguardia di tutti gli ecosistemi del mondo, ma sarebbe un grave errore considerare questi cambiamenti solo in qualche settore particolare. Scrive infatti Giovanni Salio (1989): “Occorre allora un cambiamento su più fronti, da quello culturale ed etico, a quello politico, normativo, relazionale, sociale tecnologico. Mi è difficile pensare che un cambiamento di queste proporzioni possa avvenire senza una filosofia di base ispirata sì ad una vita che renda gli esseri umani più felici, ma non attraverso un semplice edonismo materiale, che porta quasi inevitabilmente a una rincorsa senza fine di bisogni indotti, quanto piuttosto a uno stile di vita ispirato a una scelta di ‘semplicità volontaria’ che renda più ricchi interiormente, anche se più poveri esteriormente”. Integra il discorso Devall & Sessions (1989):  “Nelle società industrial-tecnocratiche propaganda e pubblicità incessanti stimolano falsi bisogni e desideri distruttivi atti a favorire un aumento di produzione e consumo. Questo ci distoglie spesso dall’affrontare la realtà in modo oggettivo e dal cominciare il ‘vero lavoro’ di crescita e maturità spirituale”.

“Il risanamento della spaccatura fra la coscienza dell”uomo e la natura è tappa inalienabile per chi vuole vivere così come la natura pensava che avremmo dovuto vivere” (concetto tratto dalla terza e quarta parte del libro di D. LaChapelle, 1978 in Devall e Sessions, 1989).

Annota Giuseppe Moretti (1995): “C’è una precisa sequenza che traccia la genesi del rapporto uomo natura nella cultura occidentale:

- dalla natura totemica delle genti primarie, cacciatori raccoglitori, dove ogni forma di vita aveva un significato perché parte di un ampio e misterioso insieme (la natura selvaggia era la loro casa);

- alla natura madre delle genti divenute agricoltori allevatori, dove la natura era sacra, era madre/nutrice perché premiava con ricchezza di messi le loro fatiche;

- alla natura prodotto, dove le logiche matematiche né misurano l’importanza ed il valore.

La natura non è più né sacra né totemica, ma merce di potere, di arricchimento o di semplice svago.

Noi apparteniamo a questa terza fase. Ogni giorno sul posto di lavoro, sui giornali, sul tram, nelle conferenze, ci viene ricordato che apparteniamo all’era moderna, che la natura è inscindibilmente parte di un’irrinunciabile crescita del PIL (prodotto interno lordo). Che non si può tornare indietro. Ma c’è una linea di pensiero, giunta sino a noi, custodita nelle liriche dei poeti, nelle visione dei mistici, nei miti, negli archetipi e nella saggezza delle genti semplici native, che ci parla di una continuità di immagine simbiotiche con il mondo naturale che troppo sbrigativamente abbiamo messo da parte.

Il recente fiorire di una sensibilità ecologica che chiede all’umano moderno di ‘fermarsi’, di ‘riflettere’, di far chiarezza su quello che è il proprio ruolo sulla terra, non è altro che la reazione dell’umano selvatico dentro di noi alla distruzione del verde delle foreste, della chiarezza delle acque, della salute del suolo. A questa consapevolezza istintiva  deve seguire una ricostruzione concettuale e pratica della nostra appartenenza alla trama della vita. Una ricostruzione che, secondo Gary Snyder, è ‘istruita dal posto - informata sulla situazione eco-biotica, socio-politica e sulla storia sociale e ambientale del proprio luogo’”.

Per completare lasciamo la parola al sempre attuale pensiero di Rousseau che osserva: “Vivere non è respirare, è agire, è far uso dei nostri organi, dei nostri sensi, delle nostre facoltà, di tutte le parti di noi stessi che ci danno il senso della nostra esistenza. L’uomo che ha vissuto di più, non è quello che ha contato un maggior numero di anni, ma quello che più ha sentito la vita.

Tutta la nostra saggezza consiste in pregiudizi servili; tutti i nostri usi non sono che soggezione, molestia e angoscia. L’uomo civile nasce, vive e muore in schiavitù: alla nascita lo si serra nelle fasce; alla morte lo si inchioda in una bara; finché conserva aspetto umano è incatenato dalle nostre istituzioni.

Osservate la natura e seguite la via ch’essa vi traccia.....”.

Ecco una bellissima poesia di Edgar Lee Masters su cui riflettere:


“Molte volte ho studiato

la lapide che mi hanno scolpito:

una barca con vele ammainate, in un porto.

In realtà non è questa la mia destinazione

ma la mia vita.

Perché l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno;

il dolore bussò alla mia porta, e io ebbi paura;

l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti.

Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita.

E adesso so che bisogna alzare le vele

e prendere i venti del destino,

dovunque spingano la barca.

Dare un senso alla vita può condurre a follia

ma una vita senza senso è la tortura

dell’inquietudine e del vano desiderio -

è una barca che anela al mare eppure lo teme.”

(George Gray di Edgar Lee Masters dalla traduzione di Fernanda Pivano, nell’edizione Einaudi, Torino 1974).


“In un piccolo regno con poca popolazione,

farei sì che gli strumenti per dieci e cento uomini non fossero adoperati.

Farei sì che al popolo calesse di morire

E che lontano non se ne andasse,

che pur avendo carri e navigli

non vi salisse,

che pur avendo armi e corazze

non le schierasse.

Farei sì che tornasse alle cordicelle annodate

e di esse si servisse,

che trovasse gustoso il suo cibo,

belle le sue vesti, comoda la sua dimora,

dilettevoli i suoi costumi.

Gli stati vicinori si vedrebbero l’un l’altro,

le voci dei galli e dei cani

si risponderebbero l’un l’altra,

ma i popoli giungerebbero alla morte per vecchiaia

senza aver commercio l’un con l’altro”.

(Starsene per proprio conto, in Testi taoisti, UTET, 1977 da Devall & Sessions, 1989).


“Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto” 

Henry David Thoreau


“Mentre compi la tua scelta nella vita, non dimenticarti di vivere” 

Samuel Johnson


“Non si può chiedere ad un lupo di diventare altro da sé. E’ una violenza. Difendi sempre la tua essenza contro ogni tentativo di esproprio. Scopri che animale sei e vai. Avrai fortuna. Segui la legge della natura. Sii te stesso. Questo è il mio augurio caro fratello mio......

Ricordati che ogni fiore selvaggio, anche se appassisce in fretta, prima di morire dona al vento infiniti semi....”.

mercoledì 29 gennaio 2020

Le aree protette

Wild Nahani




NB. Testo tratto dal libro "L'Uomo naturale"


L’istituzione di aree protette rappresenta un passo importante e decisivo per la salvaguardia di interi ecosistemi e per la protezione della flora e della fauna. Tuttavia tali aree non possono essere considerate sufficienti ad una vera conservazione del mondo naturale se non sono accompagnate da una visione unitaria, profonda ed ecocentrica di tutta la realtà biotica e abiotica. Fermarsi alla protezione superficiale di questa e quella area senza mutare radicalmente il pensiero antropocentrico, non solo non garantirà realmente alcun successo alla conservazione del mondo, ma vanificherà la stessa creazione delle specifiche aree “protette”.

L’istituzione di tali aree muove dalla necessità di assicurare una valida difesa degli spazi vitali ancora totalmente o parzialmente incontaminati, al solo scopo di proteggere la natura. Ma occorre purtroppo rilevare che nella realtà storica tale nobile intento è spesso prevaricato da motivazioni derivanti da interessi antropici di tipo turistico-ricreativo; non a caso il primo parco nazionale istituito nel mondo, quello di Yellowstone, nacque sotto il segno di una siffatta ambiguità originaria. Accade a volte che, aree nate col genuino intento di salvare la natura vedano successivamente stravolgere il loro “status” a causa “dell’esplosione” turistica che inevitabilmente apporta costruzione di strade, di punti di ricezione, di rifugi, di sentieri e di altre strutture, spesso sollecitate dagli interessi economici delle popolazioni che vivono in contiguità col parco. E' soltanto da sperare che una siffatta contaminazione di intenti non coinvolga col passare degli anni i grandi parchi che si estendono in zone disabitate come quelle del Canada e della Siberia, ma non si pecca di eccessivo pessimismo se si profetizza anche per quelle aree un futuro gravido di insidie. Per quanto attiene in particolare alle problematiche afferenti alle aree protette che si sviluppano in territorio italiano, occorre sconsolatamente osservare che l’alta densità demografica della penisola genera spesso situazioni conflittuali tra l’amministrazione dell’area e le popolazioni locali, da cui consegue un confronto dialettico che si conclude spesso con compromessi che vanno immancabilmente a scapito della natura (occorre “indennizzare” le popolazioni locali per evitare o ridurre lo sviluppo di attività non compatibili con l’ambiente o finanziare invece ogni iniziativa compatibile con la tutela del territorio). E' perciò auspicabile che nel futuro non vengano vanificati gli statuti dei parchi, né si verifichino cedimenti nei confronti di egoistiche pressioni di tipo economico. Ovviamente, occorre ricordare, le popolazioni locali non vengono affatto considerate quando si opera in località del terzo mondo o in ogni caso in località dove gli abitanti del luogo non hanno un “peso” politico e sociale. L’uomo occidentale distrugge l’ambiente e poi chiede ai “locali” i sacrifici. Perché spesso si parla di spostare interi villaggi da un luogo all’altro per determinati interessi (per esempio per la deviazione di un corso d’acqua o per la costruzione di una diga) ma stranamente quegli spostamenti non riguardano mai luoghi “altolocati” (proviamo a chiedere di spostare Manhattan!!!). Il “peso” che un’area protetta scarica sulle eventuali popolazioni locali deve essere assorbito da tutta la comunità che deve farsi carico delle operazioni nell’interesse collettivo. Mettere in condizioni di “far produrre” un’area protetta per favorire i locali, significa, sicuramente favorire i locali, ma significa anche distruggere l’obiettivo che si era posto per la conservazione reale di un territorio (leggasi in prima istanza “sviluppo turistico”). Quindi, come si esporrà più compiutamente poco oltre, occorre operare con la politica dell’indennizzo e del decentramento delle attività a forte impatto in luoghi a bassa valenza ambientale.  

E' importante notare che l’istituzione di aree protette può assolvere anche il compito di scongiurare l’estinzione di animali o di piante che soltanto con un’adeguata tutela possono sopravvivere. Un emblematico esempio di protezione di specie animali conseguente all’istituzione di un’area protetta è il salvataggio dell’orso bruno marsicano e del camoscio d’Abruzzo grazie alla creazione del Parco Nazionale d’Abruzzo. 

Da queste considerazioni appare chiaro che, attesa la estrema gravità del degrado ambientale, occorre intervenire radicalmente, senza compromessi, ponendo la salvaguardia dell’ambiente in posizione preminente rispetto a qualsiasi altro interesse; ciò può essere spesso conseguito, almeno in parte del territorio, attraverso l’istituzione di aree protette, nelle quali non solo è limitato o precluso l’intervento umano, ma a volte la presenza dell’uomo è tassativamente vietata (riserve di tipo integrale). E' da tenere inoltre presente che, ove una riserva voglia effettivamente esplicare la propria funzione protettiva, deve inglobare una vasta porzione di un territorio che si configuri come un’espressione completa, armonica ed omogenea sotto l’aspetto territoriale, fitologico e zoologico (un’area protetta deve essere più grande possibile, ma sempre in riferimento alla qualità ambientale e non alla “strumentalizzazione” del territorio per estendere fortemente la superficie del parco con chiari intenti “speculativi” economici). E' inoltre necessario che l’area protetta sia circoscritta entro una fascia di rispetto esterna che funga da ammortizzatore tra l’area protetta stessa e il restante territorio antropizzato. Purtroppo però aree realmente protette di tipo integrale, oltre che limitate numericamente, hanno quasi sempre un’estensione di scarso rilievo, il che deriva certamente dal fatto che questo tipo di protezione tutela realmente l'ambiente ma non indulge ad interessi di natura economica. Scrive Dorst (1988): “Agli occhi dei naturalisti, la prima e più importante misura da adottare è la costituzione di riserve naturali integrali poste sotto il controllo dell’amministrazione pubblica e in cui sia tassativamente proibita qualsiasi azione umana, tendente a modificare gli habitat o ad apportare perturbazioni di qualsivoglia genere ed entità alla fauna o alla flora. In queste riserve la natura deve essere lasciata a se stessa, come se - in teoria - l’uomo non esistesse”.  

Con quanto detto sinora non si vuole affatto affermare che tutte le aree protette debbano essere precluse alle persone, trascurando in tal modo l’importante funzione educativa e di ricreazione spirituale che a volte quelle possono svolgere per la sensibilizzazione delle masse alla protezione dell’ambiente. Ma, per fare ciò è necessario imporre severi vincoli poiché un’area protetta è un’oasi di natura, e non un giardino pubblico. Quindi si consideri pure l’apertura di parchi nazionali e di riserve naturali almeno nelle parti meno delicate, ma a condizione che la presenza umana, vuoi quella connessa ai visitatori occasionali, vuoi quella rappresentata dalle comunità locali, sia rigidamente controllata ed armonizzata al ritmo della natura.

Alcune volte appare utile l’istituzione di aree protette “orientate” nelle quali si mira a ripristinare le condizioni naturali compromesse dall’attività antropica; tale obiettivo si consegue a volte mediante la reintroduzione di specie faunistiche presenti in epoche anteriori e distrutte dall'uomo, altre volte attraverso l'eliminazione di opere umane come strade, dighe, costruzione di altri manufatti, ecc. Ovviamente questo tipo di intervento potrà essere attuato solamente in quelle aree che presentino condizioni abbastanza integre, che abbiano un minimo di capacità di ripresa e conservino la potenzialità necessaria ad accogliere le precedenti forme di vita. In altri termini se in un’area si vuole reintrodurre una specie faunistica che era presente in passato, non basta proteggere solamente tale area per procedere senz'altro alla reintroduzione della specie, ma è necessario accertarsi che in quelle località ci siano ancora le condizioni necessarie a che la specie animale reintrodotta possa affermarsi e prosperare nuovamente. Se la gestione reputasse utile dar corso ad una qualche forma di reintroduzione all'interno dell'area protetta, dovrebbe far precedere gli eventuali interventi da lunghi e meticolosi studi, come ad esempio: raccolta delle testimonianze storiche sulla passata presenza della specie, individuazione delle cause che hanno determinato la scomparsa della specie, rilievi sulle esistenti condizioni ecologiche dell’area al fine di appurarne la compatibilità con le specie da reintrodurre (se la specie reintrodotta ha un vasto areale di spostamento, occorre valutare anche le “reali” condizioni ambientali e protezionistiche dei territori circostanti al fine di garantire condizioni idonee alla specie reintrodotta anche se sconfina dalla Riserva/Parco). Gli interventi ritenuti scientificamente attuabili dovranno ridurre al minimo le manomissioni del territorio (se p.e. sarà necessario costruire recinti di acclimatazione, occorre ubicarli in luoghi a basso impatto ambientale, preoccupandosi altresì di costruirli con strutture poco appariscenti).

Sarebbe gravissimo errore procedere all'introduzione o reintroduzione di specie animali o vegetali storicamente assenti nella zona oppure reintrodurre specie animali che, pur non trovando nella Riserva le condizioni ecologiche necessarie per la loro sopravvivenza (p.e. le fonti alimentari), vengano mantenute esclusivamente con aiuti umani artificiali. Altrettanto grave errore sarebbe quello di reintrodurre/introdurre una specie per soli fini estetici (molti esempi ci vengono offerti dall’operato degli Anglosassoni come in Gran Bretagna, in Nuova Zelanda, in Australia).

La nascita di un’area protetta dovrebbe quindi essere motivata esclusivamente dall’esigenza di conservare il territorio fine a se stesso, ponendo da parte qualsiasi fine utilitaristico diretto. La realtà dei fatti però smentisce in molti casi questa considerazione perché, come già detto in premessa, ancora non si avverte la mutazione del pensiero umano, sempre rivolto ai propri egoistici e miopi interessi. E’ quanto mai opportuno ricordare le parole scritte in merito  da Franco Zunino che ci aiutano, senza altri approfondimenti, ad esporre chiaramente il nostro punto di vista (da Wilderness Documenti Anno IX n°2, 1994). “La protezione di un territorio naturale può certamente avere molti ruoli, molte finalità, ma credo che solo uno debba essere lo scopo per cui la si debba attuare: conservare il territorio fine a se stesso. E conservarlo vuol dire, o dovrebbe voler dire, far si che non venga alterato volutamente, vuol dire decidere di sottrarlo alla logica dello sviluppo (che è la logica del profitto) che è prettamente umana.

Decidere di conservare un luogo è decidere di tenere per quel luogo un comportamento ancestrale, animale, quale è la nostra origine, che è l’unico modo per poterci definire in equilibrio con l’ambiente: nessun cervo, nessun lupo, nessun orso ha mai potuto o preteso di “sviluppare” o “valorizzare” o “far produrre” il proprio habitat. Semplicemente da millenni lo utilizzano per quello che spontaneamente esso offre loro e lasciandolo immutato per altre generazioni. E’ solo l’uomo l’unica specie animale ad essere uscita da questo “cerchio della vita”.

Lo spirito che sta all’origine dell’istituzione delle aree protette non può essere stato che questo: decidere di non interferire con l’intelligenza nella logica delle cose naturali che succedono in un certo luogo. Almeno, questo è quello che si coglie leggendo più di una relazione, discorso od atto relativo alla nascita dei primi parchi nazionali del mondo sul finire del secolo scorso e all’inizio del nuovo. Ed è questo il significato vero, originario, che, solo, dovremmo dare al termine conservare: lasciare tutto come è!

E’ ovvio che sia poi stata la logica dello sviluppo a prendere comunque il sopravvento, a fare in modo che questo semplicissimo concetto venisse alterato, riportando le istituzioni che sono i parchi nella logica del profitto dalla quale idealmente le avevamo sottratte. John Muir alla fine del secolo scorso disse che “la battaglia per la conservazione della natura continuerà indefinitivamente, perché essa è parte dell’universale battaglia tra il giusto e l’errore”. Aveva ragione, perché da allora nulla è cambiato! Solo, per meglio comprenderlo, bisognerebbe sostituire i termini: giusto = conservazione, errore = sviluppo.

Ovviamente la decisione di voler conservare un certo luogo per sè e di per sè, se non altro come conseguenza o come scopo per questa scelta, può anche scaturire da disparate motivazioni: perché il luogo è insolito per bellezza, o perché è l’ultimo lembo di uno stato ambientale che a causa di un sovrasviluppo è sparito quasi ovunque, o perché ne siamo innamorati per la sua usualità nella nostra vita. Se questo principio, perché un principio ritengo che sia, fosse sempre stato tenuto presente quando si sono costituiti parchi e riserve, pur riconoscendo l’esistenza delle dette motivazioni come spunto per la sua applicazione, sono certo che sì, oggi avremmo un numero assai minore di “aree protette” ed “aree protette” più piccole, che potremmo realmente definire, considerare e presentare al mondo come tali!

Settant’anni dopo la nascita dei nostri parchi nazionali storici, Abruzzo e Gran Paradiso, anche la difesa, la conservazione dei loro angoli più belli, più di valore scientifico, più amati, è ancora in forse! Questa è la conseguenza della continua mancata osservanza di quel principio.

Ancora assistiamo quotidianamente alla battaglia interpretativa sul perché di quelle leggi istitutive e sul come vadano applicate per realizzare le finalità che premettevano e promettevano. Ancora ritorniamo a visitare questi parchi scoprendo sempre qualcosa di antropico in più là dove ricordavamo essere natura. Sempre meno natura e sempre più “umanità”, un processo ripetitivo propagatosi di parco in parco come una malattia inarrestabile. Ciò perché nel nostro Paese il principio di cui ho detto non è stato praticamente mai realmente posto come fondamento alla progettazione ed istituzione di un parco o di una riserva naturale.

Nella stragrande maggioranza dei casi i parchi nazionali, regionali ed altre aree protette, sono stati voluti, progettati ed istituiti con alla base un principio economicista piuttosto che conservativo. Si sono istituiti dei parchi come si sarebbe potuto creare delle strutture o “holding” turistiche. Si è tentato di dare o voler dare, con un parco, quelle stesse cose che hanno dato o si vorrebbe dare con certe iniziative di promozione turistica quali bacini sciistici, centri residenziali, porticcioli, eccetera. Ed è in ciò che sta l’errore di base perché, mentre nulla impedisce ad un centro turistico di adeguarsi sempre di più per soddisfare la richiesta di mercato, per un parco si finisce per creare attorno ai parchi o nei parchi stessi, tanti piccoli centri che producono economia, cosicché il parco divenga anch’esso una fonte di guadagno, di posti di lavoro, di soddisfazione turistico-ricreativa, eccetera; in buona fine, si viene a fare di un parco tutto l’opposto di quello che un parco dovrebbe divenire. Tutto ciò perché, si sono sempre confusi i due principi - quello conservativo e quello economico - mettendoli su un piano di parità, mentre il secondo dovrebbe essere solo subalterno. E, addirittura, per le forze politiche subalterno è finito per divenire il primo! E’ sufficiente leggere certi rapporti, articoli giornalistici, interviste a politici ed autorità, per comprendere come nella nascita di ogni nuovo parco la logica prima non è già di conservare un angolo di natura per motivazioni etiche, bensì di risolvere i problemi economici e occupazionali di una regione.

Ancora oggi questa logica domina in assoluto tra le forze politiche e tra quelle, ed è più grave, ambientaliste più politicizzate: parco uguale a risorsa economica per lo sviluppo di aree depresse. E’ un binomio consuetudinario. Ecco quindi parchi con territori enormi per tutelare aree di scarso valore; ecco quindi vincoli che non esistono o talmente “adattabili” da permettere ogni forma di intervento; ecco quindi che questo “male di non protezione” vengono a soffrire anche quelle parti centrali dei parchi che invece, uniche, meritavano il parco e la rigida tutela che un parco presuppone. Certo, inversamente facendo si sarebbe salvato, conservato, un territorio con vincoli severi su minore spazio: ma nella logica dei politici e politicanti non si sarebbero stanziati miliardi e miliardi per “valorizzare” il parco, per fare del parco un centro turistico e grande resa economica.

Parco come investimento, quindi, non già come garanzia di tutela di un qualcosa di bello, unico, o di valore scientifico a prescindere dal prezzo economico che potrebbe avere per la società o vi si potrebbe ricavare “valorizzandolo”............

Ci si continua a chiedere cosa debba rappresentare un’area protetta, quando questa domanda è quasi pleonastica tanto è semplice la risposta: ovvero, alla difesa di un luogo affinché non muti mai più nell’aspetto esteriore.

Si continua a legare strettamente la concezione di parco alla politica economica, i parchi come investimento, mentre i parchi sono e dovrebbero restare solo cultura e valori interiori in quanto dovrebbero sempre prescindere da quello che di economico potrebbero anche dare.

Ecco quindi e perché la logica del profitto legata ai parchi. I parchi che devono rendere. Così in questa logica, per farli rendere, si scende ai compromessi più deleteri se non per essi come istituzioni, almeno per i complessi ideologici che devono preservare, per la bellezza dei luoghi, per le aspettative dei visitatori più sensibili i quali vengono a perdere in qualità di sentimenti, di emotività, di gioia.

Una delle certezze degli ambientalisti è il non voler riconoscere che i parchi rappresentano dei sacrifici per chi li vive; che i parchi facciano paura agli abitanti locali per i vincoli che impongono. Ed è su questa certezza che poi viene basata la logica dei parchi legata al profitto. Ma è vero invece il contrario! E il problema va risolto non già istituendo dei parchi che non facciano paura (quello che si sta facendo da noi): perché sarebbero ( e sono) dei falsi parchi! Va risolto istituendo dei parchi coscienti del fatto che i parchi sono un lusso, se lo vogliamo dire con un brutto termine. Quindi è giusto che questo lusso lo paghi la società tutta facendo in modo che ciò non avvenga solo sulle spalle di chi li abita, di chi ne è “proprietario” per radici sociali.

Alla logica del profitto va opposta la logica che ovunque un parco arrechi un danno, un aggravio, questo danno e questo aggravio vanno pagati, indennizzati, operando quindi con una logica esattamente opposta a quella del profitto. Solo così i parchi potranno essere degli organismi democratici inseriti in un sistema democratico senza che perdano la loro funzione primaria.

Che un parco possa portare ricchezza a piccoli centri o a singoli individui od anche a nuclei famigliari è un dato assodato ed anche estremamente ovvio, ma non bisogna fare di questo fatto, o fatti, delle motivazioni con valori assoluti e ripetibili per giustificare l’istituzione di altri parchi, perché non potrà mai essere così per tutti i parchi, per tutti i centri dei parchi, per tutti gli abitanti dei parchi.

I parchi devono essere concepiti ed esistere come valori culturali, spirituali; se poi da tali valori ne sprigionano anche degli interessi tangibili, ma senza che li si debba prostituire a questo fine, allora ben vengano questi interessi: ma solo come si offre una mancia per un buon servizio, non per pagare il conto!

E’ illusorio ritenere che un parco possa “pagare il conto”, portare tanta ricchezza quanta ne porterebbe la stessa area lasciata allo sviluppo normale ed imprenditoriale del libero mercato. E’ questa la grande menzogna che accompagna la nascita dei nostri parchi; il male oscuro per cui si continua a lottare prima per istituire i parchi, poi per salvarli da questa logica della “valorizzazione”, del profitto, su cui vengono fondati.

Toccasana di questa logica è il turismo. Del turismo ebbe a dire lo scrittore francese Jean Mistler: “è quell’attività consistente nel trasportare persone che starebbero meglio a casa propria in luoghi che sarebbero migliori senza di loro”. C’è in questa frase la filosofia più profonda del perché di un parco che “rende” secondo la logica del profitto, finisce col non essere più quell’istituzione la cui finalità doveva essere la conservazione di un luogo, l’istaurazione di un qualcosa di per sé, divenendo invece solo un qualcosa al servizio del turismo e del sistema economico.

I parchi vanno invece prioritariamente istituiti per salvare, conservare un luogo.......”.

In alcune regioni italiane, paradossalmente, gli assessorati alle aree protette sono a volte associati al turismo e allo sport. Ciò la dice lunga! Inoltre, le regioni presentano le proprie aree protette non come realtà territoriali di vera e disinteressata conservazione della natura, ma piuttosto come aree destinate a “produrre” a “rendere” ad essere “utilizzate”. La “produttività dei parchi”, uno dei slogan che sta più a cuore degli amministratori, ma anche a buona parte degli ambientalisti, si realizza appieno con le guide regionali ai servizi e alla fruizione turistica. Le aree protette, infatti, vengono presentate secondo ciò che “offrono” di più umano possibile: aree attrezzate, centri visita, musei, sentieri autoguidati, percorsi ciclabili, percorsi ginnici, percorsi a cavallo, piste per sci di fondo, sentieri segnati, ecc. La logica è ancora una volta quella dell’ “uso” della natura, magari ricreativo, turistico, ma sempre dell’uso. Occorre però ricordare che la parola conservazione è sempre in contrasto con qualsiasi attività di massa dell’uomo. Un po’ di minimalismo non farebbe certo male alla società contemporanea.