lunedì 27 aprile 2020

Uno spirito superiore, uno spirito diverso

Wild Nahani


Illustrazione di Elzbieta Mielczarek


“E’ beato colui che anche in seguito non avrà mai a pentirsi del suo attimo di vita” (J. G. Herder). Pochi esseri umani hanno trascorso la propria esistenza con verità, con intensità, con coerenza e senza compromessi rilevanti. Pochi esseri umani sono stati in grado di “ribellarsi” realmente allo status negativo delle ambiguità sociali o alle distruzioni verso la natura. Pochi esseri umani sono stati in grado di operare e di vivere senza utilizzare le situazioni a proprio vantaggio e a proprio interesse. Pochi esseri umani hanno guardato negli occhi la giustizia, la franchezza e la lealtà ed hanno gridato al mondo gli errori, i soprusi, le prevaricazioni e le distruzioni che il genere umano provoca di continuo a sé stesso e alla natura. Pochi esseri umani hanno universalizzato il proprio spirito e sono stati veramente liberi. Pochi esseri umani hanno avuto una visione unitaria dell’intero universo e finanche dell’infinito. Pochi esseri umani sono stati decisi nell’affermare il proprio pensiero e le proprie convizioni, giuste o sbagliate che siano state. Pochi esseri umani hanno detto “finché un uomo è in catene nessun essere umano è libero” (Che Guevara) oppure “...la cosa più viva è la più selvaggia. Non ancora sottomessa all’uomo....” (H.D. Thoreau). Pochi esseri umani hanno combattuto realmente l’infinita battaglia per la conservazione della natura e per una società migliore. Pochi esseri umani hanno respirato l’essenza della vita ed hanno affermato che nella natura selvaggia è la salvezza del mondo........ Pochi esseri umani si sono chiamati Grey Owl (WA-SHA-QUON-ASIN, l’uomo indimenticabile che camminava nella notte), John Muir, Henry David Thoreau, Robert Marshall, Aldo Lepold, Sigurd Ferdinand Olson, Arne Naess, Gary Steiner, Edward Goldsmith, Gregory Tah-Kloma, Dian Fossey, Chico Mendes, Pëtr Kropotkin, Lev Tolstoj, Rosa Luxburg, Vandana Shiva, Ernesto Che Guevara, ecc., più i nomi “sconosciuti” di coloro che hanno tributato la loro vita per la salvaguardia della natura e delle miserie umane (la lista di tutti coloro che hanno dato un senso alla loro vita ed un risvolto pratico verso le tematiche socio/ambientali, non è assolutamente completa ed esaustiva ma in ogni caso non sarebbe molto lunga).

“I mortali abitano in quanto accolgono il cielo come cielo. Essi lasciano al sole e alla luna il loro corso, alle stelle lasciano il loro cammino, alle stagioni dell’anno le loro benedizioni e la loro inclemenza, non fanno della notte giorno, né del giorno un affannarsi senza sosta” (Heidegger, 1976).

Pochi esseri umani ci hanno fatto rendere conto della nostra mediocrità fatta di piccolezze, di meschinità, di falsità, di superbia, di arrivismo e di vuote certezze. Scrisse Che Guevara in una lettera ai figli (in Bucellini, 1995, già citata nel testo):“Ai miei figli.

Carissimi Hildita, Aleidita, Camilo, Celia ed Ernesto.

Se un giorno leggerete questa lettera sarà perché io non ci sarò più. Quasi non vi ricorderete di me: i più piccoli non ricorderanno nulla. Vostro padre è un uomo che agisce come pensa e sicuramente è stato leale con le proprie convinzioni. Crescete come buoni rivoluzionari......

Soprattutto siate sempre capaci di sentire nel più profondo di voi stessi qualsiasi ingiustizia commessa contro qualsiasi persona, in qualsiasi parte del mondo. E’ la qualità più bella di un rivoluzionario ...... “.

Forse l’infinita battaglia per la conservazione della natura è una battaglia già persa in partenza, ma nulla e nessuno ci impedirà, parafrasando Rousseau, di gridare al mondo che il fossato è troppo profondo per uscirne fuori, ma eravamo stati fatti abbastanza forti affinché non potessimo cadervi!


“Quando non può più lottare contro il vento e il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l’andatura di cappa (il fiocco a collo e la barra sottovento) che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela. La fuga è spesso, quando si è lontani dalla costa, il solo modo di salvare la barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all’orizzonte delle acque tornate calme. Rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l’illusoria fortuna di poter seguire la rotta dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione ... “ (Laborit, 1990).

lunedì 30 marzo 2020

Il punto di ascolto per una spiritualità della natura

Wild Nahani






NB. Testo tratto dal libro "Napapiiri" - Ritorno al selvatico


D’improvviso un giorno decisi di partire, ma forse fu più una viaggio della mente e della mia fantasia che una partenza fisica, non so; esso mi avrebbe dovuto condurre verso nuovi lidi, per aprimi le porte verso una realtà ben diversa, in parte inaspettata, ma da me inconsciamente voluta e forse già nota. Issai le “vele” e presi il largo anche se la navigazione si sarebbe potuta presentare tutt’altro che agevole. Avrei dovuto comporre un complicato puzzle senza averne l’immagine guida.

Trovavo delle luci cangianti, delle aurore musicali, delle voci inusitate e, alla fine, un lungo e indecifrabile ascolto di un qualcosa che si librava in alto tra le cime dello spirito.

Era cominciata la mia ricerca, una ricerca che era senza soggetto ne personaggi, una ricerca eterea dove il fluire delle silenti ed indissolubili anime conducevano ad un necrologio di vita.

Proseguivo a tratti con difficoltà, perché ciò che è profondamente vero non sempre è così facile. Aprii il mio cuore, spalancai i miei pertugi e ascoltai in silenzio ciò che non udivo. Le luci, dopo la loro scomposizione, si ricongiunsero, ma sembravano sfuggire come foglie mosse da un forte vento.

Attraversai dune alberate, superai massi disarmonici, camminai lungo un sentiero che non vedevo, ma alla fine giunsi ad una improvvisa ed amena radura: aprii il mio petto e lasciai che le lacrime se ne andassero fluenti senza porre ostacoli. Era il veleggiare senza vento, ma un duro, veritiero risvegliarsi delle membra.

Fu così che partii dentro me stesso per trovare ciò che restava della natura, una natura morente che stava per essere sepolta, ma che io volevo ancora vedere e soprattutto sentire prima che l’ultima manciata di terra fosse versata sui suoi resti. E, cosa di non secondaria importanza, volevo ancora capire e dire qualcosa. Avrei dovuto viaggiare a lungo, molto a lungo per riconnettermi con un mondo ormai perduto da cui io stesso, forse, ne volli essere escluso. Dovevo trovare un luogo, un punto di ascolto, dove sentire un “vento”, una spiritualità che probabilmente poteva insegnarmi qualcosa. 

Ero costretto a viaggiare con la mia mente perché il silenzio della primavera mi obbligava a farlo. Non un passo, non un fremito fendeva l’aria immota e nulla, nulla sembrava voler elargire parola.

Mi accostai ad un tronco caduto, ormai trasformato in humus, il pane della vita; un tronco millenario che racchiudeva nei suoi vanescenti resti la storia di un declino. Non il suo - quell’albero ne era stato solo un testimone - ma quello del nostro io che pian piano si spegneva con la volontà decisa di farlo.

Giunsi ad un bivio. Due sentieri quasi impercettibili, ma in fondo palesemente delineati. Ne scelsi uno a caso, ma il tragitto che pensavo alternativo fu breve. Solo un centinaio di passi ed i sentieri si sovrapposero d’improvviso. Era forse un monito ad una finta scelta dove l’obbligo del procedere pareva che regalasse un diversivo. Il segno era chiaro: il cammino doveva essere percorso in unico senso privo di deviazioni e scevro di corruzioni. Poi vidi un impronta nel fango, una impronta di un animale etereo, plastico, vanescente, sublime. Era passato da poco e in quel dagherrotipo di immagine scorsi agevolmente l’autore: un lupo. Vidi in quell’orma un mondo infinito, un mondo di ululati, fughe, corse a perdifiato e rigogli di gioie estinte. Mi soffermai, riflettei, fotografai col mio pensiero e poi compresi: quanti incontri avrei potuto fare nel mio viaggio e quale giusta via seguire senza una guida? Decisi così, in un sol fiato, di farmi “portare” spiritualmente dal quel simbolo della wilderness della terra. Presi quella guida, la nominai più volte nel mio io e fui così rinfrancato che avrei sicuramente trovato il mio luogo di ascolto! Ma il mio ascolto non era concepito solo come un udire qualcosa, ma soprattutto percepire dei messaggi, dei simboli, delle comprensioni eteree, delle sensazioni profonde che avrebbero travalicato lo spirito al di sopra di un meccanicismo palesemente tangibile.

Il mio viaggio era volto a settentrione, il grande nord della madre terra dove al freddo fisico che pungeva l’anima si contrapponeva la luce della limpidezza. Avevo ora almeno un punto di riferimento, un punto cardinale chiaro e definito. Ed avevo, soprattutto, la mia guida spirituale.

Sapevo di calpestare la mia ombra, ormai raggelata per la sua ineluttabile vanità. Calpestavo il mio dolore e la mia inerzia dinanzi al cangiarsi delle remote stagioni dell’anima. Seguivo intanto la pista del lupo e scorgevo, ai bordi del sentiero, le inevitabili devianze cui la mente tende. Distorsioni esistenziali, vacuità delle cose e, sopra ogni elemento, lo spirito fuggente che perde l’attimo per carpire il significato della terra. La nuda terra sotto i miei piedi e, dinanzi al chiaro vedere delle cose, l’oscura ombra di me stesso, intrisa di speranze egoistiche e centripete.

Il giorno fu lungo, il cammino incessante, ma la mia meta, il punto di ascolto nel grande nord, doveva essere raggiunta. Solo lì percepivo che avrei potuto ascoltare l’assoluto e l’inossidabile vento delle magie dove ogni parametro si sarebbe disgregato per ricomporsi nel giusto verso della spiritualità della natura in una affinità elettiva senza compromessi.

Ignare follie, tristezze certe, allucinazioni reali e, nel mezzo, la mia ombra ormai unificata a quella della mia guida. Il desiderio di avere, di possedere, calunniava ciò che c’era di più puro nella madre terra. Io, la mia ombra, il mio intero stava ben appollaiato da un lato e, distinta e allontanata, la natura sembrava che mi osservasse sgomenta perché da me “volutamente” disgiunta. Avevo reciso ciò che era indivisibile, avevo rimosso ciò che era inamovibile ed ero entrato, classicamente e con spavalderia, nella mia mente divisoria rinunciando a quell’unicum che era il flebile, ma incessante vento delle origini.

Ero una pietra, un sasso lanciato nel vuoto e traslavo tutta la mia pazzia verso il nulla della dualità. AVEVO SCISSO l’inscindibile, avevo sciolto l’indissolubile ed avevo gridato al mondo, forse ignaro del grave errore, il mio successo nel fare tutto ciò..........

Camminai molto, giorni e giorni, lasciando dietro alle mie spalle latitudini dopo latitudini. Cangiava ogni elemento, le foreste di conifere prendevano il posto a quelle delle latifoglie, e gli animali, sempre nuovi, mi guidavano verso settentrione. Un orso bruno nel fitto della foresta, un’alce da qualche parte, una grande diga di un castoro che implacidava l’andare delle acque e, la mia guida, il lupo, che, pur se non vedevo, mi indicava ognora la via. Ero a tratti stanco, ma sapevo che dovevo farcela.

Trascorsero molte lune e, giorno dopo giorno, guadagnai centinaia di chilometri. Non sapevo dove mi sarei dovuto fermare, ma fidavo nel mio senso interiore. Intanto nella mia mente si susseguivano velocemente le immagini della mia e soprattutto di tutta la vita dell’uomo con le sue “quiete disperazioni esistenziali” e con il suo procedere verso un luogo non definito, ma chiarissimo: la disintegrazione totale dell’ordine caotico della madre terra. Una disintegrazione che portava seco anche se stessi, ma, anche se non del tutto ignari, procedeva con estrema determinazione, come il fluire di un impetuoso tratto di fiume: “l’Occidente è una nave che sta colando a picco, la cui falla è ignorata da tutti. Ma tutti si danno da fare per rendere il viaggio più confortevole”.(Emanuele Severino) Quelle immagini mi scorrevano l’una dietro l’altra e tutte avevano un unico filo conduttore: recidere drasticamente il senso di unità con la terra. Era la stessa sensazione che avevo in me stesso, ma in questa occasione essa era traslata all’intera razza umana, almeno quella gran parte che rincorre il nulla e la divisione. Ma nel complesso, anche se in fondo non ci riuscivo, cercano con forza di non farmi soggiogare dal pensiero della sofferenza. Ricordai a tal proposito un bellissimo passo di un libro che ebbi la fortuna di scorrere qualche tempo prima: “Ogni infelicità è in parte, per così dire, l’ombra o il riflesso di se stessa: non è soltanto il proprio soffrire, ma anche il dover pensare continuamente al proprio soffrire. Io non solo vivo ogni interminabile giorno nel dolore per la sua morte, ma lo vivo pensando che vivo ogni giorno nel dolore.......”.(Lewis, 1990)

Cieli plumbei, crepuscoli dorati, aurore vanescenti e luci che nella loro intensità illuminavano a giorno il mio pensare.

Il grido del cuore, l’effimero innalzato, l’inutile arricchito e l’essenziale ignorato.

Il vento sulle guance, il fruscio delle foreste e, d’improvviso, il fragore del tuono dopo il fulmine.

Il mio procedere era rallentato perché sentivo che la mia guida ora progrediva non più linearmente, ma si fermava ad annusare l’aria, zigzagava a destra e a sinistra, come per dirmi che il momento di fermarmi era molto vicino. Ma non sarebbe stato certamente un fermarmi statico, ma fondamentalmente dinamico e soprattutto riflessivo e costruttivo perché per comprendere appieno l’essenza dei fatti, l’unico modo era quello di ascoltare la natura. Il segno mi sarebbe quando prima arrivato.

Mi trovavo in uno scenario quasi surreale: articolate colline sullo sfondo, un sinuoso e a tratti impetuoso fiume nelle vicinanze e, dappertutto, una grandiosa, millenaria foresta primigenia. Un ambiente che toglieva il respiro, che concedeva all’essere il più profondo senso della wilderness dei luoghi e dello spirito. Ero forse giunto al mio luogo di ASCOLTO, dove avrei probabilmente compreso il giusto esistere e avrei respirato nella mente l’aria dell’armonico vivere. Ascoltare, comprendere, riflettere........... Mi sovvenne a quel punto una riflessione che un tempo non la condividevo in pieno, ma ora forse vi scorgevo qualcosa di coinvolgente:

“La vita va vista attraverso tutte le sue sfumature come i colori di un prisma. Occorre lasciarsi penetrare dalle mille luci che la attraversano, perché poi alla fine del processo tornano a ricomporsi, basta non opporre resistenza; ci sono cose che vanno vissute con partecipazione, come il male e il bene, l'amore e la gioia. E’ necessario farsi attraversare da loro e guardarle, in modo distaccato ma presente, facendo capire a chiunque che sei tu il padrone di te stesso, della tua mente e del tuo corpo”.

Fu questa la mia prima sensazione di pensiero ora che mi toccava il compito più arduo. Ricomporre il mio dissidio con la natura attraverso la penetrazione nei più reconditi recessi del proprio cuore onde demolire poco alla volta tutto quel trascorso errato e tangibile, ma del tutto effimero di cui la mia mente, ben rappresentante di tutto il genere umano, era così fortemente incastonata. Era come dover lavorare in una miniera per rimuovere il superfluo e trovare la vena madre, la fonte di tutte le ricchezze.

Dovetti muovermi ancora per una decina di giorni, valicare numerose colline e guadare piccoli fiumi, ma alla fine mi resi conto che il mio procedere non aveva più senso. La pista della mia “guida” era infatti scomparsa. Avevo percorso un lunghissimo cammino ed ora mi accorsi che ciò che cercavo potevo scoprirlo in tutta la sua interezza. Dovevo semplicemente, per modo di dire, ripulire a fondo le incrostazioni del mio essere, togliere i tappi dalle orecchie e cominciare ad ascoltare la grande spiritualità della wilderness........


Con profonda umiltà decisi di non riprendere più il mio viaggio a ritroso dal“punto di ascolto”, solitario e silente luogo dove lo spirito rientrava nella natura. Il mio peregrinare e la mia meta, forse più mentale, surreale ed interiore che fisica, mi indusse a riflettere bene poiché ora era forte in me la piena consapevolezza dell’amaro destino cui il genere umano a grandi passi si dirigeva ormai da troppo tempo. La mia ormai completa presa di coscienza sulla “verità nascosta”, mi spinse ad argomentare e a scrivere un ultimo passo riflessivo…... 

“Il palese monito della comprensione rivolto al viaggiatore errante difficilmente verrà in sincerità compreso, soprattutto nella sua profondità. Infatti in ‘superficie’ si registrano molti segni di parziale consapevolezza, ma nel reale e nell’esecutivo i cambiamenti appaiono solo fittizi e ‘scenografici’. E’ come essere caduti nelle sabbie mobili: ci si aggrappa disperatamente  a qualcosa per uscirne fuori, ma quel qualcosa è un effimero filo d’erba che velocemente si distacca. Ed allora l’affondare sarà inevitabile!

L’ultima frontiera della wilderness sta svanendo ormai sempre più. Un crepuscolo che conclude un giorno particolare, il cui giorno rappresenta lo stadio ultimo della vita libera ed incorrotta che ora, con il sopraggiungere delle tenebre, non si sa se l’indomani nella soffusa luce potrà continuare ancora ad esistere. Anche le vie più lunghe e tortuose prima o poi giungono al termine o al limite confluiscono in altre, ma ormai anche le altre hanno già esaurito il loro tragitto. Il cui andare, quindi, non potrà più dispiegarsi verso una consueta meta al di là da venire e si giunge, nella più profonda mestizia, alla conclusione che ormai non c’è più via da percorrere. Fermi, attoniti, ci si guarda intorno e ovunque si scorgono ampie distese fumanti che oscurano la profondità dei sensi visivi ed allora gli animi, perduti nell’ignoto, non scorgono più la via che potrebbero intraprendere. Nel paradosso ci si illude, ma solo per qualche istante, che una via, da qualche parte c’è, ignari che il nostro precedente andare ci aveva progressivamente portati verso il capolinea. Ed ora che l’incedere non è più concesso, nella mente riappaiono, tutto in una rapido baluginare di eventi, gli errori compiuti e le distruzioni perpetrate quando, all’epoca, si era sicuri che la via non sarebbe finita mai. Per conservare l’abbondanza, quando essa è tale, occorre amministrarla con parsimonia e con armonia, e mai, dico mai al di sopra delle sue capacità sostenibili e autogeneranti. In questo vi sono tutte le cose che lo spirito selvaggio, in un certo senso, non ha mai espressamente ‘detto’ perché lo ha sempre esternato, ogni ora, nell’intimo e sottile legame che nell’introspezione regge e unisce ogni affinità elettiva. Noi non abbiamo voluto ascoltare sia perché il nostro procedere ce lo ha sempre impedito e sia perché il nostro agire non voleva affatto percepire l’essenza delle cose. Per tutta l’esistenza siamo stati troppo ‘occupati’ nella pratica del saccheggio di ogni qual cosa ci venisse a tiro - noi stessi inclusi – senza la pur minima parvenza di coscienza e, alla resa dei conti: a cosa servono le lacrime più amare, lacrime che sigillano con il loro potentissimo materiale collageno, le luci ormai fattesi tenebre? E, nell’immenso baratro che si apre, sarà inevitabile il precipitare senza soluzione di continuità nel più profondo degli abissi; ma, cosa ancor più grave e come atto di perfidia finale, arrecando seco ogni cosa esistente, animata e non che era apparsa in quella che fu chiamata ‘madre terra’.

Quando, dunque, il ‘vento selvaggio’, la spiritualità della wilderness ci portava da sempre il monito degli errori, non abbiamo voluto in alcun modo percepirlo. Ma ora è forse troppo tardi per risalire dal profondo fosso, anche se eravamo stati fatti - parafrasando Rousseau - abbastanza forti affinché non potessimo cadervi. Quello che non poteva prevedersi è che noi abbiamo voluto rinunciare a quella forza!!”.


“La natura deve essere rispettata e salvaguardata per il suo valore in sé. E’ l'uomo che deve adattarsi alle sue esigenze e non viceversa. Se è possibile, si deve fare in modo che il mondo selvaggio viva nella sua libera continuità e nella sua fierezza, quella libertà e quella fierezza che l'uomo, prigioniero e schiavo delle proprie convenzioni, forse inconsciamente invidia.


Dopo questa mia ultima, triste, quasi disperata constatazione, mi raccolsi profondamente nel mio io mentre osservavo, melanconicamente, le luci che filtravano tra il fitto della foresta. A quel punto sapevo che una volta che si è rientrati nello spirito dell’ultima frontiera della natura, la “saggezza” ci dice di non tornare, in nessun caso, mai indietro. E, con estrema angoscia, scrissi “Se perderemo veramente il mondo selvaggio..... - parafrasando un famoso scritto (Cassandra di C. Wolf) - il dolore si impadronirà di noi. Ma grazie ad esso, dopo, e qualora un dopo ci sarà, ci rincontreremo e se dovessimo rivivere il selvaggio creeremo forse finalmente con esso un eterno rapporto di verità, di spiritualità, di unione, d’infinito ed indissolubile rispetto.........”. 

giovedì 27 febbraio 2020

Lo stile di vita

 Wild Nahani


Illustrazione di Elzbieta Mielczarek


NB. Testo tratto dal libro "L'Uomo naturale"


“Come l’albero non finisce con le punte delle sue radici o dei suoi rami, e l’uccello non finisce con le sue piume e col suo volo, e la terra non finisce con i suoi monti più alti: così anch’io non finisco con le mie braccia, i miei piedi, la mia pelle, ma mi espando di continuo con la mia voce e il mio pensiero, oltre ogni spazio e ogni tempo, perché la mia anima è il mondo” (N. H. Russel, indiano Cherokee).

Il mondo della vita scorre come un fiume, a tratti placido a tratti impetuoso, e lungo il suo possente cammino accoglie nel suo letto tutti gli elementi dell’ambiente circostante e delle proprie interiorità. Si sente ormai nel cuore che occorre mutare il proprio stile di vita, occorre chiudere il cerchio per uscire dall’infame mondo dello “spirito” contemporaneo per collocarsi, quanto più possibile, alle parti marginali, per non ritrovarsi in punto di morte (parafrasando un po’ Thoreau) incatenati alle assurdità, alle sudditanze ed essere stati complici della morte della natura per poi non fare altro che amaramente comprendere di non aver vissuto.   

Nei secoli che precedettero l’Evo moderno il rapporto di dipendenza che intercorre tra un individuo e l’altro, e - con più ampia accezione - tra un individuo e la società che lo esprime, era di una semplicità estrema, ed egualmente semplici erano le conseguenti sovrastrutture socio - politiche. La produzione agricola, fondamento dell’economia, era affidata ad una società di contadini al cui interno ogni singola unità familiare costituiva un “unicum” economicamente autarchico. Si consumavano carboidrati, proteine e grassi che erano prodotti in proprio, si filava e si tesseva la lana ricavata dalla tosatura degli armenti, e si illuminavano le modeste dimore con le lucerne alimentate dall’olio ricavato dai propri oliveti.

Si coglie qui l’opportunità fornitaci dal riferimento alla lucerna per effettuare un raffronto tra quella convivenza “arcaica” e la convivenza di oggi: quando una famiglia appartenente a quell’antica società decideva di accendere la lucerna non doveva compiere che un atto semplice, sottratto ad ogni mediazione, riempiva cioè la lucerna con l’olio conservato nei grandi recipienti di terracotta; l’accensione di una lampadina elettrica è invece oggi un atto che mette in moto una centrale (p.e. la centrale atomica Phoenix in territorio francese), attiva una condotta elettrica ad alta tensione, e mette in moto tutta una serie di sinergie e di controlli che la grande distribuzione di energia richiede. L’accensione della lampadina è una esemplificazione che vuole emblemizzare l’odierna complessità tecnica - economica del rapporto consumo/produzione ma, com’è ovvio, vi sono altre migliaia di consumi che attivano rapporti altrettanto complessi, anzi spesse volte di una complessità ben maggiore, articolata com’è in innumerevoli variabili. “L’uomo ha smarrito la propria via nella giungla della chimica e dell’ingegneria, e dovrà ritornare sui suoi passi, per quanto doloroso ciò possa essere. Dovrà scoprire dove ha sbagliato, e far pace con la natura. Nel far questo, forse potrà riacquistare il ritmo della vita e l’amore per le cose semplici della vita, che saranno per lui una gioia che si rinnova ogni giorno” (R. St. Barbe-Baker in Goldsmith, 1997).

Occorre altresì sottolineare che la maggior parte dei consumi oggi disponibili esprime una straordinaria forza di seduzione nei confronti dei potenziali utilizzatori; così, ad esempio, la disponibilità di una sfarzosa illuminazione, o dell’acqua corrente e del riscaldamento automatico, ci dà l’illusione di essere più liberi perché più ricchi della facoltà di scelta, ma in effetti solo chi fa luce con la fiamma dell’olio che ha prodotto, solo chi va ad attingere l’acqua del torrente, solo chi si riscalda al fuoco della legna che ha precedentemente raccolto, può dirsi un uomo veramente libero, in quanto la sua personalità non si lascia manipolare dalla catena “esasperazione dei bisogni - consumo - produzione”. Parafrasando J.J. Rousseau si può affermare che eravamo nati liberi, e ovunque siamo in catene. “The mass of men lead lives of quiet desperation” (La maggior parte degli uomini trascorre una vita di quieta disperazione - Henry D. Thoreau).

Non a tutti appare chiaro che il modello di sviluppo basato sulla predetta catena non è un archetipo della natura, né affonda le proprie radici lontano nel tempo, ma è al contrario una costruzione umana abbastanza recente, anzi potremmo dire quasi contestuale al nostro tempo, se consideriamo che, per diversi, lunghi millenni, altri furono i rapporti economici che regolavano la convivenza civile. Il sorgere dell’organizzazione capitalistica della società, e perciò della produzione di massa, si fa risalire da alcuni al XVI secolo col nascere delle prime città commerciali, da altri al processo di industrializzazione avviatosi nella seconda metà del settecento; tra i fattori che si pongono alla base di tale processo, v’è nell’Inghilterra del XVI secolo la recinzione (enclosures) delle terre di uso comune e la loro appropriazione da parte dei latifondisti, col conseguente esodo della popolazione rurale verso le città, ove essa si trasformava in manodopera per la nascente industria. Il sorgere di grandi imperi coloniali, col conseguente afflusso di materie prime a basso prezzo, l’immissione di grandi quantità di metalli preziosi in Europa, l’effetto esercitato dalle “enclosures” di cui si è già detto, furono gli eventi che crearono le condizioni necessarie al sorgere del capitalismo moderno attraverso “l’accumulazione originaria”, alla quale contribuirono, secondo alcuni, anche la pirateria e la tratta degli schiavi.

Occorre considerare non di meno che il capitalismo ha attraversato diverse fasi storiche; quella che si distingue per l’incentivazione dei consumi ha inizio dalla crisi degli anni 30 (del secolo trascorso), quando - su suggerimento del Keynes - essa fu usata come antidoto alla grave depressione dell’economia mondiale. Ma quella che doveva rappresentare una fase congiunturale si è poi trasformata in una fase strutturale fino a raggiungere, tramite l’ossessiva aggressione pubblicitaria, la paradossale catena che abbiamo poco prima definita “esasperazione dei bisogni - consumo - energia”. Tuttavia la società occidentale capitalistica odierna non potrà perdurare nel futuro: il crollo repentino e globale sarà totale a meno che non rinunci alla “creazione” dei bisogni e ponga urgentemente in atto i provvedimenti indirizzati alla protezione dell’ambiente; ma questo è in netta antitesi con i principi stessi del meccanicismo capitalistico. Il clamoroso fallimento del distorto socialismo reale lascia momentaneamente e illusoriamente ampio spazio. La totale assenza dei rapporti unitari con le cose e con se stessi è la peggiore manchevolezza dell’uomo contemporaneo: 

“Le mie parole non sono che una cosa sola. 

Con la grandezza delle montagne,

Con la grandezza delle rocce,

Con la grandezza degli alberi,

Esse non sono che una cosa sola con il mio corpo

Esse non sono che una cosa sola con il mio cuore.

Voi tutti mi verrete in aiuto

Grazie al vostro potere soprannaturale.

E tu, giorno, E tu, notte!

Voi tutti mi guardate

E io non sono che una cosa sola con il mondo” (Preghiera, Yokuts - in AA. VV., 1995)


Dalla Casa (1996) citando l’ecologo Paul Ehrlich, scrive: “Supponiamo di trovarci a salire su di un aereo e di vedere che c’è una persona che sta tranquillamente schiodando i rivetti, che sono un tipo speciale di chiodi che tengono insieme le lamiere dell’ala. Naturalmente allarmatissimi ci mettiamo a gridare all’uomo di smetterla: ma lui ci risponde di stare tranquilli perché non è la prima volta che lo fa (li rivende ad una ditta) e non è mai successo niente; anzi lui stesso sta per partire col medesimo volo, non c’è nulla di cui preoccuparsi. Ovviamente l’uomo non si rende conto che a furia di schiodare arriverà a togliere quel bullone che segna la soglia massima di resistenza dell’ala privata dei bulloni medesimi, e a quel punto succederà la catastrofe. La stessa cosa accade per il nostro pianeta: continuiamo con la più grande incoscienza ad eliminare una specie dopo l’altra, ed apparentemente non succede nulla nell’ecosistema globale. Ma ad un certo punto salterà tutto”. 

Il mutamento del proprio stile di vita è dunque una tappa essenziale per la salvaguardia di tutti gli ecosistemi del mondo, ma sarebbe un grave errore considerare questi cambiamenti solo in qualche settore particolare. Scrive infatti Giovanni Salio (1989): “Occorre allora un cambiamento su più fronti, da quello culturale ed etico, a quello politico, normativo, relazionale, sociale tecnologico. Mi è difficile pensare che un cambiamento di queste proporzioni possa avvenire senza una filosofia di base ispirata sì ad una vita che renda gli esseri umani più felici, ma non attraverso un semplice edonismo materiale, che porta quasi inevitabilmente a una rincorsa senza fine di bisogni indotti, quanto piuttosto a uno stile di vita ispirato a una scelta di ‘semplicità volontaria’ che renda più ricchi interiormente, anche se più poveri esteriormente”. Integra il discorso Devall & Sessions (1989):  “Nelle società industrial-tecnocratiche propaganda e pubblicità incessanti stimolano falsi bisogni e desideri distruttivi atti a favorire un aumento di produzione e consumo. Questo ci distoglie spesso dall’affrontare la realtà in modo oggettivo e dal cominciare il ‘vero lavoro’ di crescita e maturità spirituale”.

“Il risanamento della spaccatura fra la coscienza dell”uomo e la natura è tappa inalienabile per chi vuole vivere così come la natura pensava che avremmo dovuto vivere” (concetto tratto dalla terza e quarta parte del libro di D. LaChapelle, 1978 in Devall e Sessions, 1989).

Annota Giuseppe Moretti (1995): “C’è una precisa sequenza che traccia la genesi del rapporto uomo natura nella cultura occidentale:

- dalla natura totemica delle genti primarie, cacciatori raccoglitori, dove ogni forma di vita aveva un significato perché parte di un ampio e misterioso insieme (la natura selvaggia era la loro casa);

- alla natura madre delle genti divenute agricoltori allevatori, dove la natura era sacra, era madre/nutrice perché premiava con ricchezza di messi le loro fatiche;

- alla natura prodotto, dove le logiche matematiche né misurano l’importanza ed il valore.

La natura non è più né sacra né totemica, ma merce di potere, di arricchimento o di semplice svago.

Noi apparteniamo a questa terza fase. Ogni giorno sul posto di lavoro, sui giornali, sul tram, nelle conferenze, ci viene ricordato che apparteniamo all’era moderna, che la natura è inscindibilmente parte di un’irrinunciabile crescita del PIL (prodotto interno lordo). Che non si può tornare indietro. Ma c’è una linea di pensiero, giunta sino a noi, custodita nelle liriche dei poeti, nelle visione dei mistici, nei miti, negli archetipi e nella saggezza delle genti semplici native, che ci parla di una continuità di immagine simbiotiche con il mondo naturale che troppo sbrigativamente abbiamo messo da parte.

Il recente fiorire di una sensibilità ecologica che chiede all’umano moderno di ‘fermarsi’, di ‘riflettere’, di far chiarezza su quello che è il proprio ruolo sulla terra, non è altro che la reazione dell’umano selvatico dentro di noi alla distruzione del verde delle foreste, della chiarezza delle acque, della salute del suolo. A questa consapevolezza istintiva  deve seguire una ricostruzione concettuale e pratica della nostra appartenenza alla trama della vita. Una ricostruzione che, secondo Gary Snyder, è ‘istruita dal posto - informata sulla situazione eco-biotica, socio-politica e sulla storia sociale e ambientale del proprio luogo’”.

Per completare lasciamo la parola al sempre attuale pensiero di Rousseau che osserva: “Vivere non è respirare, è agire, è far uso dei nostri organi, dei nostri sensi, delle nostre facoltà, di tutte le parti di noi stessi che ci danno il senso della nostra esistenza. L’uomo che ha vissuto di più, non è quello che ha contato un maggior numero di anni, ma quello che più ha sentito la vita.

Tutta la nostra saggezza consiste in pregiudizi servili; tutti i nostri usi non sono che soggezione, molestia e angoscia. L’uomo civile nasce, vive e muore in schiavitù: alla nascita lo si serra nelle fasce; alla morte lo si inchioda in una bara; finché conserva aspetto umano è incatenato dalle nostre istituzioni.

Osservate la natura e seguite la via ch’essa vi traccia.....”.

Ecco una bellissima poesia di Edgar Lee Masters su cui riflettere:


“Molte volte ho studiato

la lapide che mi hanno scolpito:

una barca con vele ammainate, in un porto.

In realtà non è questa la mia destinazione

ma la mia vita.

Perché l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno;

il dolore bussò alla mia porta, e io ebbi paura;

l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti.

Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita.

E adesso so che bisogna alzare le vele

e prendere i venti del destino,

dovunque spingano la barca.

Dare un senso alla vita può condurre a follia

ma una vita senza senso è la tortura

dell’inquietudine e del vano desiderio -

è una barca che anela al mare eppure lo teme.”

(George Gray di Edgar Lee Masters dalla traduzione di Fernanda Pivano, nell’edizione Einaudi, Torino 1974).


“In un piccolo regno con poca popolazione,

farei sì che gli strumenti per dieci e cento uomini non fossero adoperati.

Farei sì che al popolo calesse di morire

E che lontano non se ne andasse,

che pur avendo carri e navigli

non vi salisse,

che pur avendo armi e corazze

non le schierasse.

Farei sì che tornasse alle cordicelle annodate

e di esse si servisse,

che trovasse gustoso il suo cibo,

belle le sue vesti, comoda la sua dimora,

dilettevoli i suoi costumi.

Gli stati vicinori si vedrebbero l’un l’altro,

le voci dei galli e dei cani

si risponderebbero l’un l’altra,

ma i popoli giungerebbero alla morte per vecchiaia

senza aver commercio l’un con l’altro”.

(Starsene per proprio conto, in Testi taoisti, UTET, 1977 da Devall & Sessions, 1989).


“Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto” 

Henry David Thoreau


“Mentre compi la tua scelta nella vita, non dimenticarti di vivere” 

Samuel Johnson


“Non si può chiedere ad un lupo di diventare altro da sé. E’ una violenza. Difendi sempre la tua essenza contro ogni tentativo di esproprio. Scopri che animale sei e vai. Avrai fortuna. Segui la legge della natura. Sii te stesso. Questo è il mio augurio caro fratello mio......

Ricordati che ogni fiore selvaggio, anche se appassisce in fretta, prima di morire dona al vento infiniti semi....”.