venerdì 27 novembre 2020

Guerra e ambiente

Wild Nahani




Questo argomento (guerra e ambiente) potrebbe avere un exscursus storico e un decorso descrittivo praticamente infinito, perché la tematica si connatura radicalmente nei rapporti o meglio negli attriti che l’uomo ha sempre innescato con i propri simili (o almeno da qualche migliaio di anni). Ma, in questa sede, non possiamo sviluppare anche una semplice casistica che riassuma i continui eventi che si sono protratti nel corso dei millenni senza soluzione di continuità, altrimenti ci vorrebbero decine di volumi al riguardo pur mantenendo un rigoroso schema di sintesi. Ci limiteremo a sottolineare ciò che le guerre portano al mondo naturale e che tutti si sono ben guardati dall’evidenziare sia per malafede e sia perché non ne vedono affatto il problema. E anche qui, come sempre, il mondo naturale può solo subire passivamente gli eventi. Questo non significa, si badi bene, che si vuole ignorare e tacere sugli immani genocidi che i popoli e le singole persone hanno vissuto e pagato sulla propria pelle, ma, per affrontare i risvolti ambientali di una tale spinosa tematica, è stato doveroso impostare un taglio diverso. Le miserie, le apocalittiche sofferenze, le più atroci privazioni, i fiumi di sangue sparsi rimarranno per sempre incisi su quella parte abominevole (che rappresenta la maggioranza) della storia dell’umanità.

Ogni conflitto ha un costo ambientale inquantificabile, con distruzioni a volte integrali di interi territori, di immense foreste, di specie animali, di paesaggi che a volte cangiano addirittura radicalmente i loro connotati. E si badi bene, se durante un conflitto si vuole minimamente sottolineare questa immane catastrofe, subito si levano voci che “scomunicano” la riflessione perché ci si è permesso di non parlare dei morti e delle distruzioni che l’uomo subisce e determina; ma su questo punto si spera di esserci già chiariti all’inizio del paragrafo.

Ora, nell’ambito bellico occorre fare una duplice distinzione: l’impatto sull’ambiente in tempo di pace per le preventive preparazioni militari e l’impatto sull’ambiente in tempo di guerra (sia a carattere locale che su larga scala). Nel primo caso gli effetti sugli ecosistemi sono più impattanti di quando si pensi perché l’industria bellica si mobilita su un ampio fronte di azione per mettere a “punto” i suoi sistemi, per sviluppare armi sempre più sofisticate ed “intelligenti”, per mettere in azione continue prove pratiche, per produrre armi sempre più devastanti, per impiegare ingenti somme finanziarie “necessarie” alle ulteriori ricerche onde poter verificare gli effetti delle svariate armi offensive. Si ricordano gli esperimenti delle armi nucleari, i laboratori per la produzione di sostanze batteriologiche, gli addestramenti degli eserciti, ecc. La lista non potrebbe terminare mai. Il tutto pagato dall’ambiente con un pesante utilizzo energetico, di materie prime, di territorio e di altri elementi strettamente connessi.

Quando poi si passa alla parte operativa allora tutta la macchina bellica sviluppa sul campo la sua forza distruttrice sia essa grandiosa, come accade nei grandi conflitti, sia meno appariscente per le guerre più localistiche ma sempre fortemente deleteria per l’ambiente. E poi, molte strutture umane comunemente utilizzate in tempo di pace (p.e. dighe, centrali elettriche, pozzi petroliferi, ecc.), diventano bersaglio e potenziali detonatori di una reazione distruttiva a catena. A volte le azioni belliche toccano luoghi della terra che agli occhi dei più paiono del tutto insignificanti come deserti, immensi valloni montani pietrosi, distese di pianura “desolate”, ecc., ma anche lì il danno ambientale è devastante perché in quelle condizioni estreme vive ben organizzata ed adattata tutta una serie di forme viventi, animali e vegetali, che subiscono di conseguenza le azioni rovinose dell’uomo. Non viene risparmiato proprio nulla e, soprattutto quando ci si muove in luoghi dove per esempio sono presenti specie animali sull’orlo dell’estinzione, anche conflitti locali di natura etnica o religiosa possono determinare una vera e propria catastrofe. Si veda per tutti il crollo forse decisivo della popolazione dei gorilla di montagna - già insidiati dall’alterazione dell’habitat e dal bracconaggio - dopo le sanguinose guerre tra i popoli di quei luoghi. E che dire quando vengono impiegate armi biologiche o addirittura nucleari che portano sul campo distruzione ed alterazione per decenni se non per centinaia di anni? (si ricordano per esempio le deflagrazioni atomiche della seconda guerra mondiale sul Giappone o i numerosi test nucleari durante la guerra fredda); oppure le deleterie azioni nella guerra del Vietnam quando furono defogliati con il napalm migliaia di ettari di foreste per “stanare” sotto di esse il nemico. O ancora i devastanti incendi appiccati volontariamente alle grandi distese boschive o come conseguenza di bombardamenti o attentati. E che dire delle milioni di mine anti-uomo sparse nel terreno che oltre a mutilare od uccidere nel tempo un numero incalcolabile di esseri umani causano lo stesso effetto per il restante mondo animale? Gli esempi potrebbero continuare all’infinito, ma l’elencazione, sia pure estremamente allarmante, pare non sortire nessun effetto limitativo sulle coscienze di tutti gli uomini della terra perché rimangono sempre troppo facilmente belligeranti. Occorre però porre in evidenza il un fatto che ad ogni evento di guerra è facile constatare di persona. Provate a notare, anche con estrema attenzione, se tutte le riviste, i quotidiani, i giornalisti inviati sul campo o gli scrittori che successivamente analizzano con sagacia e “intellettualità” le cause di una guerra, spendono mai anche una piccola riflessione su ciò che il mondo naturale sta subendo in quei terribili momenti. Si può ovviamente accettare che al primo posto sia evidenziata la situazione degli eserciti o della popolazione inerme, d’altronde è l’uomo che fa la guerra e ci tiene a parlare di se stesso, è anche giustificabile, ma sull’ambiente nemmeno in seconda e finanche ultima battuta è spesa una singola parola o un solo rigo di un articolo. Sicuramente ci saranno le dovute eccezioni o la faccenda sarà affrontata da ecologi esperti del settore, ma in un quadro generale il silenzio è totale perché, come si diceva in precedenza, l’argomento non è per nulla visto. Quando si parla di distruzione è sempre argomentata da un punto di vista strettamente umano, con i conseguenti svantaggi e nulla più. Anche su un argomento così delicato, atroce, devastante, il pensiero umano si è voluto imbrattare per l’ennesima volta di due macchie di sangue (anche se in fondo è la medesima cosa): il sangue degli uomini e il sangue della natura. Ma nel corso dei secoli i libri di storia parleranno solamente del sangue umano (e probabilmente nemmeno in forma corretta e giusta). Della natura non ci sarà alcuna traccia anche perché sin dall’inizio non erano mai stati solcati i pur minimi elementi dell’argomento. E qui, come abbiamo premesso, non entriamo nel merito sulla diffusa malafede del senso di giustizia e di verità quando scoppia una guerra, locale o globale che sia. 

Valga in tale circostanza l’arguta riflessione fatta da Byron: “Ecco la morale di tutte le storie umane; non è che la stessa prova del passato; prima la Libertà e la Gloria - quando ciò viene a mancare Ricchezza, Vizio, Corruzione - Barbarie infine - e la Storia con tutti i suoi volumi non ha che un’unica pagina”.

Ecco, ora, per concludere un brano tratto da un’opera importante di Kropotkin, “Il mutuo appoggio. Un fattore dell’evoluzione” (da AA. VV. 1994 pag. 27): “Fortunatamente, la competizione non è una regola, né nel mondo animale, né in quello umano.

Fra gli animali, è limitata a periodi eccezionali e la selezione naturale, per attuarsi, trova migliori strategie d’azione.

Le condizioni migliori per l’evoluzione sono create dall’eliminazione della competizione, tramite l’aiuto ed il sostegno reciproci.

Nella grande lotta per la vita - per la maggiore pienezza e la maggiore intensità di vita possibili, con il minore spreco di energia - la selezione naturale cerca costantemente i modi per evitare al massimo la competizione.

Le formiche si organizzano in nidi e in nazioni; producono il proprio cibo, allevano il proprio “bestiame” - ciò evita la competizione e le sue conseguenze dannose.

La selezione naturale premia, fra le formiche, quelle varietà che meglio sanno collaborare.

La maggior parte dei nostri uccelli si sposta lentamente verso sud e ritorna poi in inverno.

Questi uccelli viaggiano in grandi stormi e questo contribuisce ad evitare la competizione.

Molti roditori cadono addormentati nel periodo in cui potrebbe essere necessario competere per la sopravvivenza; mentre altri immagazzinano il cibo per l’inverno e lo fanno riuniti in grandi comunità, per avere la necessaria protezione durante il lavoro.

Le renne, quando nelle zone interne i licheni seccano, migrano verso il mare.

I bufali attraversano un immenso continente per avere cibo a sufficienza. E quando i castori divengono troppo numerosi nello stesso fiume, si dividono in due gruppi e vanno, i più anziani, verso la foce e i più giovani verso la fonte. Questo evita la competizione.

Quando gli animali non possono cadere in letargo, nè migrare, nè immagazzinare, nè crescere essi stessi il proprio cibo, come le formiche, allora fanno come la cincia....: ricorrono a un nuovo cibo! E anche questo evita di competere.

‘Non competere! La competizione è sempre negativa per la specie e ci sono molti modi per evitarla!’, questa è la tendenza indicata dalla natura, non sempre pienamente realizzata, ma comunque sempre presente.

Questo è il messaggio che ci viene dalla foresta, dalla macchia, dal fiume e dall’oceano.

Perciò, unitevi e praticate l’aiuto reciproco! Questo è il modo migliore per dare a tutti e a ciascuno la più grande soddisfazione, la migliore garanzia di esistenza e di progresso, materiale, intellettuale e morale”.


“Le istituzioni di reciproco aiuto hanno qualcosa in più del loro valore funzionale. Sono una misura e un indicatore della salute di ogni società” (C. Ward).

martedì 17 novembre 2020

Il bioregionalismo - Il senso del luogo

 


Wild Nahani



“Quando trovi il tuo posto lì dove sei, la pratica avviene” (Dogen).

La nostra frenesia quotidiana e il nostro stile di vita asettico e materialistico ci porta sempre più ad ignorare la conoscenza del posto in cui viviamo, alienando dalla mente ogni manifestazione naturale e bramando sempre uno status in continuo mutamento ma mai dinamico e creativo. Vivere in armonia con il luogo secondo un’esistenza equilibrata, armonica, profonda. Non è necessario tornare alle “caverne” ma semplicemente ad uno stile di vita consapevole dello spirito del proprio luogo. J. Muir“per vivere la natura selvaggia ed una vera vita” dava molta importanza allo sviluppo del senso del luogo.

La bioregione può essere giustamente definita come la migliore organizzazione naturale nel rapporto tra gli individui che cooperano tra di loro e lo spazio intimamente integrato ed unitario che li circonda. Scrivono Devall & Sessions (1989): “In un’epoca nella quale organismi governativi ed economisti discutono del ‘sistema mondiale dell’economia’ e degli usi militari dello spazio extratmosferico, volgere l’attenzione alle nostre bioregioni è un atto profondamente legato alla tradizione. La bioregione è il luogo migliore in cui cominciare ad acquisire consapevolezza ecologica.

La nozione di bioregione non è affatto nuova. Per Jim Dodge, ..... ‘è stata il princpio culturale che ha animato  al novantanove per cento la storia dell’umanità ed è vecchia almeno quanto la coscienza’.

Un secondo elemento della bioregione è l’autoregolamentazione. Come dice Dodge ‘anarchia non significa essere fuori da ogni controllo, bensì non  essere soggetto al controllo di altri’. Le comunità locali ispirate ad un interesse comune per la bioregione, per la crescita libera delle piante e degli animali del luogo, possono prendere decisioni riguardo ad azioni individuali e collettive nel rispetto dell’integrità dei processi naturali presenti. Aver cura di un luogo significa evitare lo sfruttamento.

‘Un terzo elemento che compone la nozione di bioregione è lo spirito’, spiega Dodge. Non esiste una pratica religiosa unica per questo significato di spirito bioregionale...... basata su intuizioni ecologiche profonde può essere espressa in svariati modi”.

Nel Nord America la visione della bioregione è molto sviluppata tanto che sono nati numerosi movimenti ambientalisti volti all’affermazione del “senso del luogo”. Tra questi merita un particolare cenno la fondazione Planet Drum, fondata nel 1973 da Peter Berg con sede in San Francisco. Pubblica regolarmente un giornale (Raise the Stakes) per la diffusione e l’approfondimento della filosofia bioregionalista. Ecco un breve stralcio (Welcome home!) del documento di apertura del I° Congresso Bioregionale del Nordamerica del 1984 (tratto da AA. VV., 1994): “Sempre crescente consenso sta ricevendo l’idea che, per assicurare la bontà dell’aria, dell’acqua e del cibo che ci permettono di sopravvivere, dobbiamo diventare i custodi del luogo in cui viviamo.

Si comincia ad avvertire quanto impoverisca il non conoscere i propri vicini, né la natura che più ci è prossima. Si scopre che il modo migliore di pensare a se stessi è quello di far attenzione a ciò che ci riguarda, di proteggere e, assieme, recuperare la nostra regione.

Il bioregionalismo riconosce, nutre, sostiene e celebra i legami locali: terra, piante e animali, fonti, fiumi, laghi, acque sotterranee, oceani, aria, famiglia, amici, vicini, comunità, tradizioni native, sistemi indigeni di produzione e commercio.

Il bioregionalismo afferma che è venuto il tempo di conoscere le potenzialità del luogo.

Di prestare piena attenzione alla sua natura ed alla sua storia, e di mettere in comune le aspirazioni per assicurare un futuro sostenibile.

Di sostenerci, cioè, facendo ricorso a fonti rinnovabili di cibo e di energia.....

Il bioregionalismo assicura la soddisfazione dei bisogni primari attraverso le risorse locali.

Locali devono essere l’educazione, la cura della salute ed in genere tutto ciò che può essere materia di autogoverno.

La prospettiva bioregionale ricrea un sentimento di partecipazione all’identità locale, fondata su una rinnovata coscienza critica e sul rispetto per l’integrità delle nostre comunità ecologiche.......

La sicurezza della vita comincia con l’assunzione delle responsabilità a livello locale.... “.

Si affida ora alla penna di Giuseppe Moretti (1991) - profondo conoscitore e sincero cultore del bioregionalismo - il compito di completare e presentare i concetti base di questa visione filosofica della realtà locale. “Oggigiorno sembra che l’uomo moderno abbia riscoperto la natura; il bisogno di contatto con essa è in continuo aumento; i Parchi Nazionali e le aree protette vedono aumentare il numero dei visitatori anno dopo anno.

La gravità dei problemi ambientali ha messo in moto una frenesia a sostegno di una tesi che vorrebbe ognuno di noi amante e rispettoso della natura, in tutti i settori; economico, sociale, ambientale.

Di colpo, attività, prodotti, mansioni sono diventate ecologiche.

Certo, esistono persone sincere ed iniziative lodevoli, ma decisamente chi ha a cuore le sorti dell’ecosistema Terra ha più di una ragione di sconcerto.

La protezione della natura e le pratiche cosiddette ‘ecologiche’ nel nostro sistema economico/sociale sembrano più un eco business che un reale tentativo di porre nella giusta dimensione il rapporto fra l’uomo e l’ambiente in cui vive.

I luminari della cultura tecnologica/industriale sembrano agitarsi a vuoto nelle sabbie mobili delle proprie convinzioni filosofiche; i politici, perennemente prigionieri dell’andamento del “prodotto interno lordo”.

La natura viene convenientemente definita in modo utilitaristico, dando valore e diritto all’esistenza a tutto ciò che è utile per l’uomo; manca completamente l’umiltà che contraddistingue le culture primarie, native, aborigine, per le quali la natura, e tutti gli esseri viventi che dimorano nell’ecosistema, hanno valore in sè.

Certo, non siamo nè Hopi, nè Sioux o Kayapo, nè Dayak.

Quindi, per quanto incoerente questo ravvicinamento alla natura possa sembrare, è saggio non essere negativamente pessimisti, ma piuttosto semplicemente ed umilmente dare il proprio contributo affinché il lavoro da fare trovi il giusto sentiero. Il lavoro da fare è molto più profondo e completo di quanto si possa immaginare. Quanto segue è modestissimo contributo al ri-connettere noi stessi con la NATURA. Alla base di questo concetto dimora la convinzione che non ci può essere reale, effettiva, duratura ri-connessione senza il risveglio del selvatico dentro.

Non si tratta di un lavoro effimero, platonico ma dinamico, che arricchisca l’uomo di una nuova visione di vita.

Non è cosa che si può apprendere leggendo un libro, anche se molto utili e stimolanti sono le esperienze di quanto ne hanno scritto, da David H. Thoreau e John Muir, da Aldo Leopold fino al contemporaneo Gary Snyder.

Il teatro di questa ricerca è il luogo in cui si vive, non importa quanto naturale sia rimasto; avere una situazione Wilderness dietro casa è un privilegio per pochi ormai, il vantaggio di questi non deve scoraggiare, è comprensibile pensare a posti lontani dove i processi della vita si possono capire meglio, come nella Wilderness appunto, ma si può imparare altrettanto nel proprio posto concentrandosi con quanto ci sta attorno; certo, in molti casi è un mondo nascosto dove dell’equilibrio naturale rimangono solo frammenti.

Si tratta di capire noi stessi in relazione alla comunità naturale di cui si è intrinsicamente parte.

Risintonizzarsi con il selvatico dentro non può avvenire separatamente dalla comprensione e dall’apprezzamento dello Spirito del posto, il quale non è niente di fantasioso o misterioso: ‘è nient’altro che il verso del Picchio o del Coyote, o della Ghiandaia o del vento che muove le fronde di un albero o una ghianda che casca sul tetto del garage’, come ha scritto Gary Snyder in Good Wild Sacred.

Non ci si unisce allo spirito del posto standosene davanti alla TV o ad oziare al bar; bisogna vivere il posto e viverci abbastanza a lungo, passare da mero visitatore ad occupante e pertecipante.

Entrando in contatto con il mondo selvatico si impara a guardarsi attorno prestando attenzione alla complessità delle relazioni del paesaggio, dai corsi d’acqua alle piante, dal clima ai venti dominanti, dove il Pendolino ha il suo nido o la Faina la propria tana.

Non è un esercizio meramente scientifico, un elencare quante specie di uccelli sono presenti o quante e quali specie di piante o di fiori, quanto cm. di pioggia cade nel mese di marzo ecc.....

Si tratta di un’attenzione, di un grado di attenzione più profondo, più intimo, in relazione, a volte, a una pianta o ad un animale, ad un fiume o ad una roccia in particolare.

La Terra e le sue creature ci parlano se sappiamo ascoltare.

‘L’ecosistema locale ci parla, se sai ascoltare, ma devi prima imparare ad ascoltare bene in un posto, poi puoi andare in altri posti e la Terra cointinuerà a parlarti; la Terra non ti parlerà mai veramente se non hai imparato ad ascoltare bene in un posto in particolare’ (Gary Snyder, citato in Earth Festival di Dolores LaChapelle).

Questo tipo di relazione conduce ad una identificazione morale basata sull’uso responsabile delle forme di vita necessarie per il nostro sostentamento.

‘Procurandoci il nostro cibo direttamente dalla terra abbiamo in regalo il sapere da dove esso viene, pulendolo e preparandolo sappiamo pure com’è venuto a noi, attraverso il lavoro delle nostre mani e del nostro corpo, sappiamo che cura e rispetto vanno mostrate verso gli animali che ci nutrono.

C’è un piacere speciale nel prendersi questa responsabilità per il nostro sostentamento e accettare il legame di familiarità con gli animali che ci danno la vita’ (Richard Nelson in The Island Within).

Ritrovare la propria identità, il sè profondo, il selvatico dentro pone l’uomo decisamente fuori da considerare la Natura in termini utilitaristici, di fatturato, di capitale. Ciò produce un’ampliamento della propria consapevolezza, cominciando ad imparare direttamente dalla Madre Terra.

A pensare in termini di armonia piuttosto che di prevaricazione, di conservazione piuttosto che di sfruttamento, di stabilità piuttosto che di miope progresso, di diversità piuttosto che di monocultura; comportandoci di conseguenza in relazione al posto in cui si vive, alla propria Bioregione e in relazione alle altre Bioregioni.’In Wilderness is the preservation of the world’ (H. D. Thoreau)”.

Un nitido esempio di perdita totale del senso del luogo, ci viene offerto dal turista, che, frettolosamente e disarmonicamente, si sposta da un luogo all’altro senza percepire veramente “il luogo” e senza viverlo. Immergersi in un ambiente, capirlo, viverlo fino in fondo, apprezzarne il “respiro”, sono tutte sensazioni che solo il tempo, la calma e la riflessione ci offre. I nativi nordamericani rappresentano, al contrario dei turisti, uno dei migliori esempi del bioregionalismo. La perdita del senso del luogo è forse una delle più gravi mancanze dell’uomo contemporaneo. Nessun essere distrugge integralmente e consapevolmente la fonte del proprio nutrimento!

Molto bella la riflessione di Gussow (1971, da Devall & Sessions 1989): “Oggi si fa un gran parlare di salvaguardia dell’ambiente. E’ diventato un dovere, perché è proprio l’ambiente a darci i mezzi di sussitenza. Ma, in quanto uomini, abbiamo bisogno anche di nutrimento spirituale e alcuni luoghi assolvono proprio questa funzione. Sperimentare un incontro diretto e profondo con la natura è l’evento catalizzatore che converte un appezzamento di terreno qualsiasi - un ambiente, se volete - in un luogo. Il luogo è una parte dell’intero sistema ambientale che è stata rivendicata dai sentimenti. Considerata come un semplice sistema di supporto alla vita, come una risorsa a vantaggio dell’uomo, la terra è invece un ambiente, un insieme di luoghi. E’ indicativo il fatto che, ad esempio, non parliamo di un ambiente che abbiamo conosciuto, ma ricordiamo posti e luoghi. Abbiamo nostalgia dei luoghi, li conserviamo nella memoria, e sono ancora i suoni, gli odori e le immagini dei luoghi che ci incalzano e che spesso confrontiamo con il nostro presente”. O quella di Vincent Vycinas (in Devall e Sessions, 1989): “Il significato originario di abitare non è risiedere ma creare e prendersi cura dello spazio in cui qualcosa prende possesso di ciò che gli spetta e si sviluppa. Abitare significa fondamentalmente salvare, nel senso più antico di dare la libertà a qualcosa, di diventare se stessa, di diventare ciò che è essenzialmente (...). Abitare è prestare attenzione alle cose così che se ne rilevi l’essenza (...)”.


“Com’è difficile staccarsi dai luoghi. Per quanta attenzione facciamo, ci trattengono. E lasciamo pezzetti di noi stessi sui paletti delle staccionate, piccoli stracci e brandelli della nostra vita” (Katherine Mansfield).

giovedì 29 ottobre 2020

L’uomo contemporaneo nella società contemporanea

Wild Nahani



Illustrazione di Elzbieta Mielczarek

“Libertà significa essere in grado di controllare tutti gli aspetti relativi alla propria vita-morte..... Libertà significa avere il potere; non il potere di controllare altre persone ma il potere di controllare le circostanze della propria vita” (Kaczynskj, 1997). La borghesia, uscita trionfante dalla rivoluzione del 1789, s’innalzò sulle rovine fumanti del feudalesimo per porre mano alla costruzione di una nuova società. Compito arduo e immane! Ma essa fu all’altezza del compito che la storia umana le assegnava e, appropriatasi delle conquiste scientifiche che spaziavano dal campo della matematica a quelli della fisica, della chimica e della biologia, sembrò dominare gli elementi per piegarli alla propria volontà. Fu una grande rivoluzione che non incise soltanto sulle cose, ma fu anche un sconvolgimento che lacerò e distrusse un tessuto sociale ancor prima che se sorgesse un altro. Tutto fu posto a servizio di inesorabili leggi economiche che ignoravano l’uomo e la sua centralità (rispetto a se stesso, si intende), sì che l’umanesimo apparve come un’era felice non più ripetibile. Questo fu il prezzo che l’uomo sociale dovette pagare allo spietato avanzare della rivoluzione industriale. Poco diversa è la condizione umana nella società odierna. Poco diversa, e non meno travagliata da una dialettica storicistica che ripropone ogni giorno la dissacrazione delle mete appena conseguite. Tuttavia ogni cittadino ha acquisito la consapevolezza del proprio destino, ha analizzato le forze che esercitano spinte contrastanti nel tessuto sociale, ed è divenuto - entro certi limiti - protagonista della storia (almeno nelle forme apparenti). I nuovi mezzi di informazione e di comunicazione riescono ormai a raggiungere finanche la coscienza di un qualsiasi povero ‘Ntoni che, attraverso i multiformi aspetti della vita associata, è in grado di udire la propria voce e le proprie speranze (ma non le proprie certezze). La democrazia apparente, creatura degli “immortali” principi del1789, è penetrata in ogni aspetto formale della società moderna che, tuttavia travagliata da contraddizioni interne e dalle logiche di potere, è alla perenne ricerca di nuovi traguardi e di nuovi perfezionamenti di conquiste. Gli odierni sistemi di produzione, frutto delle nuove tecnologie, hanno legato l’uomo alla falsa necessità di beni inutili e alla catena di montaggio, dalla quale si è generata un’alienazione diversa ma più drammatica di quella delle epoche passate (oggi quasi tutte le attività lavorative “inventate” dagli uomini possono essere assoggettate a vere e proprie “catene di montaggio”). Ma occorre ricordare che gli aspetti traumatici della “civiltà” umana contemporanea colpiscono anche, e direi soprattutto, gli equilibri ecologici della terra ponendo in serio pericolo le prospettive future della biosfera. E’ impossibile sottrarsi all’alienazione della disperazione sociale ed ecologica, perché la coscienza dell’uomo moderno è ormai intrisa di una fede apocalittica: la certezza che non può più sorgere una nuova stagione, in cui l’uomo riconnesso nella natura torni ad essere protagonista di una storia sublime quanto affascinante. 

Capra citando la filosofia di vita buddhista scrive (1997): “A causa dell’ignoranza noi dividiamo il mondo delle percezioni in oggetti separati che consideriamo transitori e continuamente mutevoli. Cercando di rimanere aggrappati alle nostre categorie rigide invece di cogliere la fluidità della vita, siamo destinati a sperimentare una frustrazione dopo l’altra”. 

lunedì 19 ottobre 2020

L'ecofia T di Arne Naess di Mariella Guaracci

 



Mariella Guarraci




L’introduzione da parte del filosofo norvegese Arne Naess dell’espressone “Ecologia profonda” esprime la consapevolezza che la semplice lotta contro l’inquinamento e lo spreco delle risorse sia utile ma limitata, in quanto non affiancata e supportata da una visione d’insieme che concepisce l’Uomo come parte di quel tutto organico che è l’Ambiente. Secondo Naess per superare le crisi ambientali l’Uomo deve riuscire a ritrovare quella sua collocazione nella Natura che il riduzionismo e il meccanicismo gli

hanno fatto perdere e affinché questo possa accadere occorre che “ogni persona adulta si assuma la responsabilità di elaborare la propria risposta ai problemi attuali dell’ambiente secondo una prospettiva globale”. Ogni soggetto è dunque chiamato a prendere coscienza delle idee ecologiche e a sviluppare la propria proposta, la sua personale Ecosofia, ovvero un codice individuale di valori che orienti le proprie scelte:

“una ecosofia non è altro che una visione globale di tipo filosofico che trae ispirazione dalle condizioni di vita nell’ecosfera. Dovrebbe quindi costituire la base filosofica che permette a un individuo di informare la sua azione ai principi dell’Ecologia profonda.”

L’Ecosofia di Arne Naess, da lui definita Ecosofia T, dove T sta per Tvergastein, il rifugio di montagna in Norvegia dove venne elaborata, propone di riorientare la nostra civiltà agendo dall’interno del sistema politico, cogliendo ciò che c’è di positivo e cambiando ciò che non lo è. L’Ecosofia T infatti non si allinea con nessuna ideologia classica e non risparmia critiche alla religione cristiana e all’economia occidentale. L’egualitarismo biosferico affermato dall’Ecosofia T non rappresenta tuttavia una prospettiva estremista: non nega le grandi capacità di homo sapiens ma “propone di usarle per sviluppare un atteggiamento di responsabilità universale che le altre specie non possono né capire né condividere”.

Le regole ecosofiche sono chiare: l’Uomo deve limitare l’uccisione degli altri esseri viventi, non deve infliggere loro inutili sofferenze e non deve usarli mai solo come mezzi. L’Uomo deve coltivare un nuovo concetto olistico dove tutti gli esseri viventi sono considerati parte della Natura, ricordando che:

“prendere le distanze dalla Natura e da ciò che è naturale significa prendere le distanze da ciò che è elemento costitutivo dello stesso Io. In questo modo si demolisce la propria identità, ciò che l’individuale è, e pertanto il senso d’identità e dignità. Alcuni fattori ambientali, per esempio la madre, il padre, la famiglia, i primi amici, hanno un ruolo”.[….]

Così scrive Naess: “se un topo fosse collocato nel vuoto assoluto non sarebbe più un topo. Gli organismi presuppongono un ambiente” centrale nello sviluppo dell’Io, e lo stesso si può dire della casa e dell’ambiente che la circonda. La ricerca ecologica e quella psicologica hanno messo in luce i rapporti che il nostro sé stabilisce, nel corso del suo sviluppo, con un’infinita ricchezza e varietà di fenomeni naturali, soprattutto con la vita organica, ma anche con la natura inorganica. [...] Il bambino cresciuto, il naturalista in senso filosofico, allarga i propri sentimenti positivi a tutta la Natura in base all’intuizione che tutto sia interconnesso.”

Ogni essere vivente ha un valore intrinseco e ha il diritto alla vita, al dispiegamento delle proprie potenzialità, pertanto l’Uomo ha il diritto di realizzarsi, ma nel farlo deve tenere conto delle realizzazioni altrui. Naess chiarifica che: “L’uguaglianza del diritto a realizzare le proprie potenzialità, affermata in via di principio, non è una norma pratica che ci impone una condotta identica nei confronti di tutte le forme di vita. Piuttosto suggerisce, come criterio guida, di limitare l’uccisione di altri esseri, e più in generale di eliminare gli ostacoli alla loro realizzazione.”

Ad esempio Naess respinge l’affermazione: “io ti uccido perché valgo di più” ma non: “io ti uccido perché ho fame”. È come se la seconda affermazione contenesse una implicita richiesta di scusa : “mi dispiace, ma devo ucciderti perché ho fame.” Questo non implica una classificazione dei viventi in base al loro valore ma giustifica in qualche modo il fatto che si agisca in modo differente nei confronti di esseri viventi diversi.

Questo porta anche ad abituarsi a distinguere i meri desideri dai reali bisogni appagando questi ultimi con il minimo impatto sulla Natura.

Uno degli aspetti che possono influire notevolmente sul cambiamento di mentalità promosso dall’Ecologia profonda è rappresentato dalla capacità di identificazione con gli altri esseri viventi. L’identificazione dipende dall’ambiente, dalla cultura e dalle condizioni economiche in cui si vive e si trova alla base della percezione della Natura come unità complessa. La prospettiva ecosofica tende a sviluppare processi identificativi così profondi “che i confini del proprio sé non sono più indicati in modo adeguato dall’io personale o dall’organismo. Allora ci si sente profondamente parte della totalità della Vita. [...] Ciò implica anche una transizione da un atteggiamento del tipo io-lui a uno del tipo io-tu.”

Al contrario l’incapacità di identificarsi conduce all’indifferenza, porta a relegare oggetti o avvenimenti lontani su uno sfondo privo di importanza e di conseguenza a non intervenire fino a quando un problema non ci riguarderà direttamente, forse essere troppo tardi. Scrive Naess: “Più riusciamo a comprendere il legame che ci unisce agli altri esseri, più ci identifichiamo con loro, e più ci muoveremo con attenzione. In questo modo diventeremo anche capaci di godere del benessere degli altri e di soffrire quando una disgrazia li colpisce. Noi cerchiamo il meglio per noi stessi, ma attraverso l’espansione del sé ciò che è meglio per noi è meglio anche per gli altri. La distinzione tra ciò che è nostro e ciò che non lo è sopravvive solo nella grammatica, non nei sentimenti.”

Ancora una volta è chiamata in causa l’Educazione per promuovere l’empatia, l’espansione del proprio sé, la percezione delle interdipendenze su cui si fonda la vita e l’identificazione con la Natura. Questo non implica la rinuncia dell’uomo moderno alla propria eredità culturale ma il recupero e la valorizzazione di quella sua tendenza, o, meglio, di quel suo bisogno definito vita all’aria aperta.

In Norvegia per esprimere questo concetto si usa la parola friluftsliv che indica “una sorta di stato positivo della mente e del corpo a contatto con la Natura che ci avvicina ad alcuni dei molti aspetti dell’identificazione della realizzazione del Sé nella Natura che abbiamo perduto.”

Promuovere la friluftsliv significa incrementare un divertimento sano che ricorda le occupazioni dell’uomo preindustriale e consente di trascorrere più tempo a contatto con la Natura. Grazie a queste attività è possibile promuovere il rispetto per la Natura ed educarsi a combattere gli sprechi, valorizzare le risorse disponibili, riconoscere la bellezza e il valore della diversità, sviluppare il pensiero intuitivo e identificativo, sperimentare le interconnessioni tra e con tutto ciò che ci circonda, criticare gli interventi umani di maggiore impatto ambientale dopo averne personalmente sperimentato l’aggressività nei confronti del paesaggio. Passare più tempo immersi nella Natura consente anche di discernere i bisogni concreti da quelli superflui e di cominciare a considerare la qualità della vita anziché badare esclusivamente alla quantità di ciò che può offrire. Solo vivendo tutto questo concretamente, sulla propria pelle, è possibile sviluppare la propria Ecosofia, interiorizzare i principi dell’Ecologia profonda e modificare il proprio stile di vita, non per seguire l’ennesima proposta new-age ma perché se ne comprende il valore.

Non sarà facile raggiungere tale risultato perché spesso si attende che la situazione raggiunga livelli critici prima di intervenire per un miglioramento. Può essere di grande utilità entrare in contatto con istituzioni politiche ed economiche, ONG, ma soprattutto con insegnanti e specialisti della comunicazione di massa che possano veicolare i nuovi valori ecologici e spingere ogni persona a sostenere uno stile di vita meno miope che favorisca l’intera ecosfera di cui essa stessa è parte.

domenica 27 settembre 2020

Il concetto del consumo

Wild Nahani


Illustrazione di Elzbieta Mielczarek


Nei tempi trascorsi le esigenze umane erano molto limitate ed erano concentrate alla semplice sussistenza. Con il progredire degli anni la società è diventata sempre più sofisticata, contraendo una sorta di febbrile crescita non solo della popolazione ma anche dei consumi e dei beni “necessari” al mutato tenore di vita. Incalzati dalla logica del profitto e dal consumismo sfrenato, ecco che, ciò che una volta era bastevole alla sopravvivenza quotidiana e quindi all’intera esistenza, oggi diviene un nulla perché, al contrario, occorre possedere una quantità enorme di “cose”. Poniamo un semplice esempio. Se una volta su un terreno agricolo una famiglia poteva ricavare il necessario per vivere, oggi su quello stesso terreno non è possibile ricavare nemmeno il denaro per pagarsi l’assicurazione dell’auto. Il punto è: il terreno è diventato improduttivo o sono mutate le richieste di chi lo lavorava?

Se prima bastava dieci, oggi occorre diecimila ed allora non ci sarà terreno che renda. Non è possibile discutere la salvaguardia dell’intero pianeta terra se non riduciamo drasticamente i consumi ed eliminiamo le false necessità che ci siamo create. Ma il sistema è altamente perverso in quanto l’arresto del consumo dei beni, assicurato da una frugale condotta di vita, metterebbe in crisi tutto l’ordine sociale contemporaneo poiché diverrebbe superflua la produzione di enormi quantità di prodotti. Molte categorie di persone si troverebbero disoccupate, gli Stati andrebbero sempre più in affanno, e il crollo, dal punto di vista sociale, sarebbe totale. Quindi, se si risparmia, se si vive secondo dettami di semplicità e di essenzialità, cade il sistema sociale capitalistico; se si spreca, se si richiede sempre più il superfluo (spacciato per necessario), se si usa e getta quanto più possibile, allora la società capitalistica e consumistica andrà apparentemente avanti. Ma la parabola non sarà sempre ascendente perché i limiti del saccheggio alla natura imporranno la fine delle risorse e la fine della stessa vita umana. Allora l’autodistruzione prenderà il sopravvento. Dal 1950 ai nostri giorni la popolazione del mondo ha consumato tanti beni e servizi quanti ne hanno consumati tutte le precedenti generazioni (Nebbia & Gente, in Gamba & Martignitti, 1995). Una famiglia del Sud del mondo spende quasi il 100% del proprio reddito per la sopravvivenza di base, mentre, una analoga famiglia americana, ne spende meno del 10%! Il mondo naturale e il genere umano non hanno avvenire!

Ormai lo sviluppo della specie umana non è più sostenibile per l’ambiente ed occorre dire che il limite consentito è stato da tempo superato. Oggi tutto è mercificato finanche l’acqua (un diritto di tutti, ma sempre più in mano a pochi) e non occorrerà molto tempo che sarà venduta anche “l’aria”! La folle corsa del capitalismo/liberismo/globalizzazione sta infrangendosi contro un muro molto più forte della loro sostanza, un muro che si credeva che non si sarebbe mai incontrato. 


“Il successo, l’assillante corsa al potere e alle prosperità materiali possono essere l’amara ricompensa di una sconfitta, mentre la vita in solitudine e in oscurità può offrire doni preziosi e insospettati” (Meli, 1989).

giovedì 27 agosto 2020

Ecologia della disoccupazione e l’economia in stato stazionario

Wild Nahani

Illustrazione di Elbieta Mielczarek



La nascita dello Stato sociale, tipica costruzione politica del XX° secolo, è collegata a tre eventi: la seconda rivoluzione industriale, la crisi del ‘29 e i cambiamenti sociali conseguenti al secondo conflitto mondiale. Lo Stato lasciatoci in eredità dal XIX° secolo, quello che si suole definire Stato gendarme, trovava la propria motivazione in una società estremamente semplificata nelle sue componenti, mentre la società contemporanea, è invece fortemente articolata, complessa, contraddittoria, in cui le spinte, le sollecitazioni, i conflitti, si incontrano e si scontrano in una incessante dialettica. Una siffatta articolazione, ancor più accentuata dall’eccezionale sviluppo del terziario avanzato, fa emergere problemi ancor più complessi e urgenti.

Di fronte ad una simile mutazione del tessuto sociale, lo Stato moderno è costretto a rivedere le proprie scelte per qualità e ampiezza. A tal proposito occorre ricordare che il New-Deal roosveltiano è la prima rilevante testimonianza di una politica economica che sposta la propria attenzione dalla micro-economia alla macro-economia e, non v’è dubbio che le teorie del Keynes e del suo famoso moltiplicatore furono determinanti per il superamento della recessione del ‘29.

I gravi problemi che affliggono attualmente le economie mondiali (salvo momentanee eccezioni) emergono con particolare evidenza dal progressivo aumento del tasso di disoccupazione della forza lavoro. Non v’è dubbio che il problema si segnala con accentuata urgenza anche perché l’incidenza della componente giovanile assume, al suo interno, significati di particolare valore sociale.

E’ opinione generale che le cause da cui discende la crisi occupazionale siano di tipo strutturale e congiunturale e, tra quelle strutturali, si annovera - in primo luogo - l’effetto derivante dall’avvento della terza rivoluzione industriale che, portando in fabbrica l’automazione e la robottizzazione, elimina una notevole aliquota di mano d’opera. E’ pur vero, d’altra parte, che il terziario, specie quello avanzato, assorbe nuove forze di lavoro ma, com’é noto, il settore abbisogna di personale altamente specializzato, mentre le unità lavorative liberate dall’industria non sempre sono in grado di soddisfare le specifiche richieste del mercato.

Per quanto attiene ai rimedi che da più parti si invocano per portare a soluzione la questione occupazionale è da sottolineare che essi sono spesso contraddittori perché riflettono angolazioni di opposti interessi. Tra le teorie economiche suggerite si citano le seguenti:

a) “legge” di Pigou, detta “legge” del pieno impiego, che - ipotizzando una generalizzata riduzione del salario reale - tende a conseguire la piena occupazione, fermo restando il fondo salari;

b) riduzione dell’orario di lavoro (“lavorare meno, e lavorare tutti”);

c) maggiore mobilità e incentivazione del “part-time”;

d) manovra di Bilancio tendente a ridurre la spesa corrente a beneficio di quella destinata agli investimenti, onde conseguire l’effetto derivante dal moltiplicatore del Keynes.

Quelle di cui si è fatto appena cenno sono le tesi più dibattute ma, è ovvio, che nessuna di esse si pone come variabile indipendente perché qualsiasi intervento di politica economica genera, quasi sempre, reazioni a catena dovute alla interdipendenza dei complessi problemi economici.

Il problema occupazione presenta grandi difficoltà di analisi e di soluzioni e, a giudizio dei più, non potrà essere risolto mediante politiche frammentarie e occasionali, ma necessita invece di interventi che, tramite un’attenta programmazione, ne affrontino globalmente le cause onde rimuovere un quadro economico incerto e carico di gravi tensioni.

Ma l’errore di fondo di tutte le politiche economiche capitalistiche è la pretesa di programmare l’economia sempre in chiave di sviluppo ascendente continuo, con l’illusione che il sistema possa perdurare nel tempo. Occorre invece riferirsi ad una economia in stato stazionario così definita dal Daly (1981 in Gamba & Martignitti, 1995):” ...stock costanti di popolazioni e di manufatti, mantenuti al livello ritenuto sufficiente con tassi di prelievo di materia ed energia a bassa entropia e di rigetto di rifiuti ed emissioni il più possibile bassi”. In sostanza acquisire una visione economica che tenga conto con preminenza delle leggi dell’ecologia e della termodinamica. La produttività deve tendere alla stabilità con un andamento sinusoidale e deve far decrescere la produzione dei beni inutili sino a farli scomparire (occorreranno decenni), in concomitanza ad una rigida riduzione della popolazione mondiale. La mano d’opera che viene a liberarsi, verrà assorbita dai lavori socialmente ed ecologicamente utili. La società del XXI° secolo deve obbligatoriamente contemplare anche questa categoria di lavoratori. Le politiche economiche degli Stati, uniformate e universalizzate, si dovranno dunque assestare su parametri di produttività stazionaria ed essenziale, rinunciando alla logica del profitto, del consumo e dello spreco. Una società essenziale oltre a garantirsi una reale esistenza nel tempo, sarà “ricca” di qualità e di armonia. D’altronde la necessità di una economia ecologica bioregionale (ciò il mutuo rapporto con l’ambiente circostante alla propria comunità) sarà un obbligo delle società del del’’immediato futuro a meno che l’uomo, prigioniero e schiavo della propria opulenza, non voglia precipitare nel baratro che egli stesso si è scavato. Scrive saggiamente A. Solgenitsin “Il progresso non deve essere più considerato la caratteristica auspicabile della società, la perpetuità del progresso è un mito assurdo. Occorre realizzare non una economia di sviluppo continuo, ma una economia di livello costante, stabile. La crescita economica non solo non è necessaria ma è perniciosa”.

Annota Naess (1994): “Recentemente, indipendentemente dal movimento ecologista, gli stessi economisti hanno iniziato a criticare in maniera vigorosa la crescita economica e il modo in cui vengono fissati gli ‘obiettivi nazionali’ come indicatori della crescita del benessere nei paesi industriali. Ma la parola chiave ‘crescita economica’ continua ad avere in politica un’importanza fondamentale, nonostante sia sempre più evidente che influisce in modo negativo sulla qualità della vita delle nazioni industriali ricche. Inoltre mette seriamente in pericolo le possibilità di sopravvivenza per le generazioni future.

Sarebbe in grave errore per il movimento ecologista non utilizzare le critiche mosse dagli stessi economisti alla propaganda per la crescita economica. Ogni giorno, ogni settimana, i giornali e la televisione citano continuamente la crescita economica misurata in termini di PNL (Prodotto Nazionale Lordo) come se fosse un elemento decisivo del successo della politica economica. E’ raro che gli ecologisti mettano in dubbio questo legame.......”.

Tuttavia, per aggiungere una ennesima ma reale nota di pessimismo, occorre ricordare Passmore (1974 in Hargrove, 1990) quando asserisce che ci saranno sempre condizioni economiche che prevarranno sulla preservazione di qualsiasi cosa. La miope visione dell’immediato accompagnerà sempre le scelte dell’uomo contemporaneo!

Ci si preoccupa dell’economia più di qualsiasi altro interesse umano (il Prodotto Nazionale Lordo è considerato l’unico indicatore di sviluppo), e non si pratica una politica ambientale responsabile, capillare, efficace, fondamentalmente bioregionale, ignorando o fingendo di ignorare che senza il mantenimento degli equilibri naturali anche l’economia cessa di esistere per l’irresponsabile prosciugamento della fonte del suo nutrimento. “Solo riducendo al minimo l’impiego di risorse non rinnovabili e utilizzando risorse rinnovabili con lo stesso ritmo con cui possono essere ripristinate, senza provocare danni gravi al ciclo ecologico, è possibile ridurre al minimo il disavanzo tra consumo della società e produzione in natura” (Rifkin, 1982).

Ci è capitato di sfogliare un depliants pubblicitario a tematica economica che rispecchia purtroppo il pensiero della società capitalistica contemporanea e che racchiude in se il germe della distruzione. Ne riportiamo un breve quanto eloquente stralcio.

“Le principali tendenze di sviluppo e i cambiamenti dei prossimi anni provocheranno un aumento e una crescita della domanda in molti settori a livello mondiale:


Trend: Aumento della popolazione mondiale

Effetti: Crescita della domanda dei beni di consumo


Trend: Diffusione della comunicazione e dell’informazione

Effetti: Aumento esponenziale della domanda di tecnologia informatica


Trend: Globalizzazione dei mercati

Effetti: Crescita della domanda dei prodotti di marca


Trend: Progressiva industrializzazione mondiale

Effetti: Crescita della domanda di risorse energetiche


Noi aggiungiamo:Rousseau


Trend: invasione totale del pianeta terra (sia in senso fisico che nel senso degli agenti inquinanti)

Effetti: fine del pianeta Terra!

Forse a quel punto la nostra economia di “sviluppo” non sarà più utile!


Scrive Hosle (1992): “Ma non sappiamo se la ragione farà in tempo a introdursi nel locomotore del treno che sfreccia verso l’abisso e nel quale noi tutti viaggiamo, né se riuscirà a fermarlo in tempo (tanto più che lo spazio di frenatura non è minimo). Ma qual è il locomotore del mondo moderno? E’ certamente l’economia. Il suo principio propulsivo, la sua molla sono però i valori e le categorie, ormai popolarizzati, della filosofia moderna: il mito della fattibilità, l’aspirazione a superare ogni limite quantitativo, la mancanza di scrupoli nei confronti della natura. E quindi una filosofia per la quale la responsabilità non sia un concetto vuoto dovrà cercare in primo luogo di creare valori nuovi e in secondo luogo di trasmetterli alla società e agli esponenti di punta del mondo economico, e dovrà cercarlo di farlo il più rapidamente possibile. Perché il tempo stringe”.

Kirkpatrik Sale, un profondo cultore del bioregionalismo, ci indica bene la via da seguire (in AA. VV., 1994 pagg. 31-32): “L’economia di una bioregione deriva le sue caratteristiche dalle condizioni e dalle leggi della natura.

La nostra ignoranza è certo immensa, ma dopo tanti secoli di vita ‘sul’ suolo, possiamo rifarci a quello che Goldsmith ha definito il complesso delle leggi dell’ecodinamica, distinto dal complesso delle leggi della termodinamica.

La prima di queste leggi è che conservazione/preservazione/mantenimento sono l’obiettivo principe del mondo naturale: da qui la sua intrinseca resistenza a cambiamenti strutturali su larga scala.

La seconda legge dice che, ben lungi dall’essere entropica, la natura è invece intrinsecamente stabile e tende sempre e comunque verso quello stato che l’ecologia definisce climax, ossia un bilanciato, armonico ed integrato stato di maturità che, una volta raggiunto, si mantiene per lunghi periodi.

Per questo motivo un’economia bioregionale cerca di mantenere, piuttosto che sfruttare, il mondo naturale e di adattarsi all’ambiente piuttosto che resistergli.

Tenterà di creare le condizioni climax, in un equilibrio che alcuni economisti definiscono oggi come stato stazionario, invece di una condizione di perpetuo cambiamento e continua ‘crescita’, al servizio del ‘progresso’, divinità illusoria e falsa.

L’economia bioregionalista, in termini pratici, riduce al minimo l’uso delle risorse, enfatizza la conservazione e il riciclaggio, evita l’inquinamento e lo spreco; adatta i suoi sistemi produttivi alle risorse locali, utilizzando ad esempio l’energia del vento, se è possibile, o il legno, dove ciò sia appropriato, o, per quel che riguarda il cibo, si rivolge a ciò che la regione stessa, particolarmente nel suo stato preagricolo, è in grado di produrre. Questo a partire dal più elegante ed elementare fra i principi della natura: quello dell’autosufficienza.

La natura, che non prevede il ‘commercio’, non crea elaborate reti di interdipendenza su scala continentale; perciò la bioregione deve trovare tutte le risorse di cui necessita per energia, cibo, abitazioni, vestiario, utensili, manufatti e via dicendo, entro i propri confini.

Ben lungi da rappresentare un impoverimento, questo significherebbe un guadagno, per la salute economica della bioregione, sotto ogni aspetto.

Sarebbe un’economia più stabile, libera dai cicli di boom e recessione, lontana dall’influenza delle crisi politiche. In essa sarebbe possibile pianificare e redistribuire le risorse, per ottenere lo sviluppo dei settori deficitari, al ritmo più appropriato e nella maniera più ecologica.......

Una delle intuizioni più valide di Schumacher è questa: l’economia di mercato del capitalismo del XX secolo è fondamentalmente sbagliata perché prescinde continuamente dalla natura.

Schumacher avverte anche che ‘è insito nella metodologia della scienza economica ignorare la dipendenza dell’uomo dal mondo naturale. Il mercato però rappresenta solo la superficie della società, ed il suo significato è relativo alla situazione momentanea, per come esiste qui ed ora’.

La sienza economica moderna ‘non studia in profondità le cose, i fatti naturali e sociali che si trovano dietro di esse’.

Ecco perchè, come egli sottolinea, si è persa la distinzione fra beni primari ‘che l’uomo deve conquistare in natura’ e beni secondari, fabbricati dall’uomo stesso; o tra risorse rinnovabili e risorse esauribili.

Inoltre, normalmente, l’economista non considera i costi sociali dello sviluppo competitivo.

Un’economia bioregionale si basa invece proprio su queste distinzioni vitali”.