giovedì 29 aprile 2021

La fisiocrazia

Wild Nahani


Illustrazione di Elzbieta Mielczarek

NB. Testo tratto dal libo "L'uomo naturale"


“Figlio mio, sappi che nessuno ti aiuterà in questo mondo... Devi correre fino a quella montagna e tornare indietro. Questo ti renderà più forte. Figlio mio, sappi che nessuno ti è amico, nemmeno tua sorella, tuo padre o tua madre. Le tue gambe, le tue mani, il tuo cervello, questi sono i tuoi amici. Devi farcela con loro” (Una vita da Apache di Morris Opler in Mears, 1991).

Per la produzione della “ricchezza” economica nell’ambito umano, l’unico processo ispiratore dovrebbe essere quello naturale. Infatti, rifacendoci ai fisiocrati, ricordiamo che l’agricoltura è l’unica attività economica che fornisce un prodotto netto, in quanto al termine del processo si raccoglie più di quanto si è seminato (Bresso, in Gamba & Martignitti, 1995). I settori “sterili” (industria e terziario) sono invece solo in grado di aumentare il valore della materia prima ma non della sua quantità fisica (Bresso, in Gamba & Martignitti, 1995). Un’economia strutturata razionalmente e che abbia a cuore le sorti del pianeta terra e dell’uomo stesso, non può pertanto prescindere dal modello produttivo della biocenosi. Infatti il prodotto netto pocànzi accennato, non è il risultato di qualcosa di astratto, ma è il frutto del “lavoro” che la fitocenosi svolge grazie alla fotosintesi (Bresso, in Gamba & Martignitti, 1995). L’economia naturale quindi è un sistema a ciclo chiuso che preleva dall’esterno solamente l’energia del sole. In maniera analoga anche l’economia umana deve chiudere i propri cicli (Bresso, in Gamba & Martignitti, 1995). Dal pensiero degli indiani del Nordamerica:“Il cerchio della Vita della Creazione è senza fine. Vediamo le stagioni andare e venire. E la Vita Fluire sempre nella Vita. Il bambino diventa genitore. Il genitore diventa il nostro rispettato avo. La vita è sacra. E’ bello farne parte. Tutte le cose sono un cerchio. Ognuno di noi è responsabile delle sue azioni. Esse vedranno il loro ritorno di energia” (Betty Laverdure, Ojibwa - in AA. VV., 1995). Ma per la riaffermazione di un tale processo è fondamentale rivedere il modello di sviluppo e le esigenze del singolo cittadino. Sin quando la società contemporanea rimarrà ancorata al possesso eccessivo dei beni, al consumismo, allo sfruttamento insensato delle risorse, alla produzione dell’inutile, ecc. non sarà possibile reimpostare un modello produttivo secondo principi naturali e quindi fisiocratici. “Come può essere politico un filo di paglia? E’ una domanda che sembrerà ridicola a un sacco di gente. Uomini, donne, vecchi, milioni di individui avidi o disgustati, eccitati o arrabbiati, ma tutti colpiti e legati al carro della storia, del capitale, delle grandi masse, dell’oppressione...

Borghesi, proletari, maschilisti, femministi, liberisti, socialisti, tutti in lotta per il potere. Il potere di un filo di paglia. no! e chi lo conosce? chi lo vede nemmeno un filo di paglia? Il potere è dei giornali, dei tribunali, dei laboratori scientifici, delle fabbriche, dei palazzi presidenziali e della tecnologia intellettuale, delle piazze.... delle maggioranze! Ma la libertà non abita questi luoghi, cresce e cammina sulle ali delle rondini che godono di volare, nel respiro di un ciuffo d’erba che comunica al mondo la sua pace, la sua trasparente umiltà. La libertà si nasconde dentro le correnti delle leggi di natura...... Ecco perché sono leggi discrete e per sentirle bisogna fare silenzio e mettere l’orecchio vicino, vicino: parlano con un lieve mormorio. Un mormorio che diventa rombo o boato in poche occasioni, ma per un diluvio universale quanti secoli di date di battaglie?

La politica del filo di paglia è fuori della storia, è contro la storia, è prima e dopo la storia. La rivoluzione del filo di paglia è possibile a ciascuno di noi, per scelta.

Per Fukuoka bastano 1000mq a persona per arrivare all’autossufficienza alimentare e se anche si dovessero ritoccare le cifre, il potere di questo pensare e lavorare ‘in piccolo’ sarebbe più forte sia ideologicamente che operativamente di qualsiasi partito od organizzazione eversiva e per di più gestibile solamente ‘dal basso’ senza lauree, né diplomi?

Perciò quella del filo di paglia è una via per abolire il capitalismo e appropriarsi dei mezzi di produzione senza passare per la stanza dei bottoni e in questo è veramente rivoluzionaria” (G. Pucci, in Fukuoka 1980). ”’Lo scopo vero dell’agricoltura’, dice Fukuoka, ‘non è far crescere i raccolti, ma la coltivazione e il perfezionamento degli esseri umani’. E parla dell’agricoltura come di una via: ‘Essere qui, prendendosi cura di un piccolo campo, in pieno possesso della libertà e pienezza di ogni giorno, quotidianamente: questa deve essere stata la via originaria dell’agricoltura’. Un’agricoltura completa nutre l’intera persona, corpo ed anima. Non si vive di solo pane” (W. Berry, in Fukuoka 1980).

“L’esagerazione dei desideri è la causa fondamentale che ha portato il mondo all’attuale situazione.

Presto, invece che piano; più, invece che meno: questo ‘sviluppo’ tutto apparente è legato in modo molto diretto all’incombente collasso della società. In pratica è servito soltanto a separare l’uomo dalla natura. L’umanità deve smettere di lasciasi andare al desiderio di possessi e guadagni materiali e muoversi invece verso una consapevolezza spirituale.

L’agricoltura deve passare dalle grandi attività meccanizzate a piccoli poderi basati soltanto sulla vita stessa. All’esistenza materiale e alla dieta alimentare si dovrebbe dare un posto semplice. Se si fa questo il lavoro diventa piacevole e lo spazio per il respiro spirituale abbondante.

Più il contadino ingrandisce la scala delle sue attività e più il suo corpo e spirito si disperdono e inoltre si allontana da un’esistenza moralmente soddisfacente. Una vita di agricoltura su piccola scala può apparire primitiva, ma vivendola diventa possibile contemplare la Grande Via (la via della luce di coscienza che implica l’attenzione e la cura per le attività ordinarie della vita di ogni giorno). Io credo che se uno entra a fondo nell’ambiente che lo circonda immediatamente e nel piccolo mondo di tutti i giorni in cui vive, il più grandi dei mondi si rivelerà.....

... Coltivare la terra una volta era un lavoro sacro. Quando l’umanità cominciò a decadere da questa condizione ideale, venne fuori la moderna agricoltura commerciale. Quando il contadino cominciò a coltivare i suoi raccolti per far soldi, dimenticò i veri fondamenti dell’agricoltura......

‘Se l’autunno porterà pioggia o vento non posso saperlo, ma so che oggi lavorerò nei campi’. Queste sono le parole di una vecchia canzone di campagna. Esprimono la verità dell’agricoltura come maniera di vivere. Non importa come sarà il raccolto, se ci sarà abbastanza da mangiare o meno, nel semplice fatto di gettare il seme e dedicarsi teneramente alle piante sotto la guida della natura, c’è la gioia” (Fukuoka, 1980).

Scrive Capra (1997): “Uno dei contrasti più evidenti tra economia ed ecologia trae  origine dal fatto che la Natura è ciclica, mentre i nostri sistemi industriali sono lineari. Le nostre imprese prendono le risorse, le trasformano ottenendo prodotti e rifiuti, e vendono i prodotti ai consumatori che, dopo averli consumati, producono altri rifiuti. Per essere sostenibili, gli schemi di produzione e consumo devono essere ciclici, imitando i processi ciclici presenti in natura. Per realizzare tali schemi ciclici dobbiamo riprogettare i nostri commerci e la nostra economia”.

Per concludere con Walt Whitman (da Foglie d’erba): “Ora scorgo il segreto della formazione delle persone migliori. E’ crescere all’aria aperta e mangiare e dormire sulla terra”.

Nei tempi degli OGM (organismi geneticamente modificati) l’attività agricola dell’uomo del terzo millennio appare come uno spaventoso mostro in grado di fagocitare l’intera vita sul pianeta di madre terra. Dire che sarebbe opportuno rifletterci bene e a lungo è praticamente cosa inutile perché nulla fermerà questa ennesima diavoleria di cui l’uomo ne ha firmate sin’ora fin troppe. La storia delle sue continue ed infinite degenerazioni ci sia di monito, ma alla fine ci farà solo osservare, impavidamente, il decorso della fine ultima.

lunedì 29 marzo 2021

L'anacronismo dell'attività venatoria nei tempi contemporanei

Wild Nahani 



NB. Testo tratto dal libo "L'uomo naturale"


“Il maggior atto di coraggio non è uccidere, ma lasciar vivere”


“Ogni uomo dovrebbe nel suo profondo portare al più alto livello il rispetto per ogni forma di vita” (Albert Schweitzer, ma affermato anche da tante altre personalità di spicco e da molte religioni, soprattutto orientali)


La società contemporanea ha raggiunto, nei Paesi cosiddetti sviluppati, un elevato grado di “benessere” grazie anche alla progressiva affermazione del ceto medio. La logica del profitto, forza trainante del sistema, determina una notevole produzione industriale e un conseguente inquinamento ambientale. Il cittadino, asservito alle categorie capitalistiche, attiva il turnover del consumo, alimentando la richiesta di elementi e il suo conseguente utilizzo. Lo scenario naturale, contenitore globale delle attività umane, subisce pesantemente l’aggressione capillare e penetrante del meccanismo. Deforestazione, inquinamento chimico, acustico e nucleare, antropizzazione del territorio, riduzione delle aree selvagge, addomesticamento dei luoghi, sovrappopolazione, non sono che alcuni esempi delle conseguenze di tale sistema vitale.

In uno scenario così drammatico e precario, si innesta l’attività venatoria. Praticata dall’uomo sin dalle epoche preistoriche, quando era raccoglitore/cacciatore, è andata via via perdendo la sua funzione di pratica di sostentamento, grazie anche all’avvento dell’agricoltura e della pastorizia. Allo stato attuale permane in quasi tutti i Paesi con soli intenti ricreativi, di reminiscenza passionale e, occasionalmente, come attività di riequilibrio e di selezione delle popolazioni di animali (per esempio ungulati – anche se il problema cinghiale è stato creato da reintroduzioni selvaggio degli scorsi anni da parte proprio dei cacciatori) disarmonizzate per la mancanza di predatori naturali eliminati o ridotti dall’uomo. Ma poniamoci a questo punto una domanda: è ancora lecito o meglio ha ancora senso praticare l’attività venatoria “sportiva” in un mondo ormai ecologicamente devastato e alterato? Se il concetto di caccia come attività di sostentamento e di equilibrio faunistico può avere un senso, non lo può certamente avere l’attuale realtà venatoria, soprattutto in certi Paesi (come per esempio l’Italia).

Molti cacciatori, giustamente, asseriscono che i danni inferti all’ambiente vengono da altra fonte (industria, agricoltura chimica, antropizzazione, stile di vita, pascolo eccessivo, ecc.), ma dimenticano di dire che quel poco che è stato casualmente risparmiato da quella “fonte” negativa, deve essere ora distrutto o disturbato da loro.

Una cosa è il concetto di caccia, come prelievo alimentare del selvatico praticato da chi ne ha necessità vitali, e una cosa è la caccia nella realtà odierna. Se è lecito il primo concetto non può esserlo il secondo.

Uomini “tecnologici”, che vivono in una società avanzata, all’improvviso imbracciano il fucile e, ricordando i tempi andati, si dichiarano protezionisti e vanno a esercitare il loro divertimento “turistico/sportivo” sparando su tutto ciò che si muove (e non). Un gran numero di “fucilieri”, in territori già di per se distrutti ed alterati (inquinamento, strade montane, disboscamento, cementificazione, antropizzazione, ecc.), anche dalla nostra semplice invadenza, aggrediscono quel poco di selvaggio che è rimasto, arrecando tra l’altro una notevole fonte di disturbo ambientale e verso la fauna. E’ vero che lo stesso vale per le orde dei turisti, degli alpinisti, degli sciatori, dei cementificatori, ecc., ma qui è la caccia ad essere “analizzata”.

Pensate se è giusto che in un’area naturale (p.e. un’area wilderness) fortunatamente salvaguardata dalle ingiurie dell’addomesticamento, della “valorizzazione” turistica o da altro oggetto inquinante, venga praticata l’attività venatoria per uccidere un animale selvatico che ha già i suoi problemi per sopravvivere (restringimento dell’habitat, disturbo, difficoltà ambientali, ecc.). Per non parlare del disturbo causato dal rastrellamento dei cani e dal rumore dei colpi di fucili. Ogni cacciatore vale, come impatto sul territorio, almeno il quadruplo rispetto al normale turista! Non accenniamo poi al “rischio” pubblico delle pallottole vaganti e all’inquinamento da piombo dei pallini. Qui non si vuole porre in risalto gli aspetti morali, pietistici o animalisti, ma solamente un’ennesima soggettività dell’uomo. Non si vuole condannare chi ancora oggi, in qualche parte della terra, caccia o pesca per sopravvivere, ma solamente quella frangia dell’umanità che per diletto e per “passione” va “atavicamente” a caccia. Escludiamo ovviamente, lo ribadiamo, l’esercizio venatorio quanto è svolto per riequilibrare popolazioni di animali fortemente incrementate dalla mancanza di predatori naturali, anche se questa pratica deve essere attuata con molta oculatezza e nelle forme “gravi”. Se poi caccia deve essere, occorre allora rinegoziare le regole di concessione per cercare di codificare un comportamento eticamente compatibile. In primo luogo, un vero cacciatore, deve rinunciare alle comodità tecnologiche moderne (fucili all’infrarosso o con mirino cannocchiale, ricetrasmittenti, ecc.), deve rinunciare a recarsi in montagna utilizzando le strade che lo portano fresco e riposato in alta quota e deve acquisire una profonda cultura ecologica rispettosa preminentemente del valore in sé della natura e dei precetti dell’ecologia profonda. Altro elemento importante deve essere quello che tutto il territorio è chiuso alla caccia e solo in alcune aree è consentita praticarla tra l’altro a rotazione. Il numero dei cacciatori poi, deve essere considerevolmente ristretto in giusto rapporto (alternanza annuale dei permessi) con l’estensione del territorio aperto all’attività venatoria. Le specie cacciabili (per lo meno in certi Paesi, come p.e. in Italia) saranno quindi solamente quelle che possono essere riprodotte in cattività e facilmente reimmettibili (p.e. lepri). Tuttavia, tale pratica (cioè la reimmissione stagionale di fauna) evidenzia il grave squilibrio ambientale di certi territori non più produttrici spontanei di fauna selvatica e quindi soggetti a reintroduzioni venatorie continue e forzate (molte sono infatti le controversie e gli effetti collaterali delle reimmissioni forzate di animali di dubbia provenienza). E’ più che evidente quindi il fallimento di una situazione del genere e conseguentemente di una attività venatoria definibile in termini più appropriati estremamente “artificiale” e senza senso.

Tornando a considerare la pratica venatoria nella realtà, occorre aggiungere che sono fin troppo evidenti le differenze che si rilevano tra i vari Paesi. Se in Scandinavia, per esempio, il cacciatore rispetta in genere le norme cui sottostare, si autoregolamenta e partecipa attivamente alla salvaguardia del territorio (ad eccezione dei Sami, gli allevatori di renne che, malgrado ne abbiano migliaia, quando trovano un lupo, pur se nei loro territori sono scarsi, non si fanno scrupoli a sparagli illegalmente, malgrado lo Stato in caso di perdita di un capo gli da un cospicuo rimborso in tempi brevissimi. Inoltre sia pure in forma notevolmente minore, abbattono illegalmente anche linci ed aquile reali. Purtroppo è questa l'ignobile mentalità degli allevatori/cacciatori!), in altri, di converso, regna il più assoluto vandalismo, la furbizia e l’ignoranza (vedasi, per esempio, il caso di Malta). Vigono ovviamente le dovute e a volte corpose eccezioni. Se i cacciatori, negli anni trascorsi, quando regnava la più totale anarchia venatoria, si fossero preoccupati di tutelare veramente il territorio e si fossero organizzati non solo per sparare liberamente alla fauna selvatica ma soprattutto per impostare una razionale difesa ambientale (cosa che loro dicono di fare), quando negli anni seguenti, l’opinione pubblica, le associazioni ambientaliste e i vari legislatori avrebbero proposto ridimensionamenti della caccia e avrebbero istituito nuove aree protette, i cacciatori, a quel punto, potevano orgogliosamente sbandierare i risultati da loro ottenuti per la salvaguardia ambientale, almeno per quei settori che gli competevano, ed opporsi al ridimensionamento della loro attività. Invece, all’atto della resa dei conti, anche se parziale, si sono trovati con il deserto alle spalle (uccisione dei rapaci, quasi estinzione del lupo e dell’orso, ecc.). Un vero “ambientalista” non lo è solo quando gli viene imposto dalla legge. I cacciatori hanno perso l’occasione propizia.

L’uomo contemporaneo, nella maggior parte delle accezioni, è completamente estraneo alla dialettica della natura. E’ dunque essenziale, a questo punto, considerare che i pochi luoghi naturali rimasti ancora tali, debbano essere totalmente preservati o per lo meno controllati al massimo, dagli “interventi” umani di qualsiasi natura: turismo, ricreazione, sviluppo, caccia, ecc. Non è possibile opporsi a coloro che sono antagonisti dell’attività venatoria affermando, per difendere tale attività, che la distruzione del mondo è per altra causa. Qui si discute della negatività dell’uomo verso la natura in tutte le sue forme e una di queste è la caccia insensata, di disturbo e soprattutto non controllata nella realtà; ma il problema è controverso.

In materia di politica generale, Player, esponente mondiale del movimento wilderness asserisce che nessun tipo di caccia dovrebbe essere permessa nel “cuore” delle Aree Wilderness; per contro, Aldo Leopold, praticamente il fondatore dello stesso movimento, era un cacciatore convinto e “ideò” le Aree Wilderness anche per fini venatori. Occorre tuttavia ricordare che il Leopold si “muoveva” nei primi decenni del secolo scorso negli immensi territori statunitensi, dove ancora esistevano estensioni rilevanti di natura selvaggia e dove l’impatto dell’attività venatoria veniva adeguatamente filtrato dall’ampio “respiro” della natura e dalla bassa densità dei cacciatori stessi. In aggiunta, pur riconoscendo al Leopold tutti i meriti per aver diffuso, tra i primi, una nuova e rivoluzionaria etica ambientale e per aver contribuito alla salvaguardia di molti spazi wilderness, si ricorda che egli aveva, per oltre i due terzi della sua esistenza, una visione della natura fortemente antropocentrica e molto meno “illuminata” visto che considerava necessario “gestire la fauna selvatica” ponendo in prima linea una lotta spietata verso i grandi predatori (p.e. contro il lupo). Non dimentichiamo infine, riferendoci però non solo al Nordamerica, le numerose estinzioni di specie animali dovute al disinvolto uso delle canne tuonanti! Lo stesso Leopold ebbe a dire (1949-1997): “Date un’occhiata, innanzi tutto, a una palude popolata di anatre selvatiche; un cordone di automobili parcheggiate la circonda; appostato in ogni punto delle sue sponde coperte di giunchi si trova un ‘pilastro’ della società, il fucile automatico pronto, il grilletto che solletica un indice pronto a infrangere, se necessario, qualsiasi legge di Stato o di benessere pubblico per uccidere un’anatra. Il fatto che costui sia già supernutrito non placa in alcun modo la sua avidità”. Sicuramente Leopold avversava la caccia “tecnologica” ed era fautore di una attività venatoria “primaria” fatta di difficoltà, di luoghi selvaggi, di ricerca agnostica della preda, di avvicinamenti a piedi, di un solo ”colpo in canna”, di valore “culturale” e profondo della pratica e così via. Ma questi nobili principi sarebbero validi se tutti i cacciatori fossero sullo stesso “elevato” piano culturale ed etico, non certo nella pratica reale della massa; per di più, se anche tutti i cacciatori si comportassero con un fare pacato e primordiale, moltiplicati per il loro elevato numero ogni regola del buon senso verrebbe meno. Infine, ad onor del vero, anche il fucile automatico dovrebbe restare fuori da questa ricerca venatoria perché il cacciatore che vuole rivaleggiare pariteticamente con la preda dovrebbe farlo nel modo più sobrio possibile! Legittimare la pratica venatoria che poi per “democrazia” deve essere accessibile teoricamente a tutti significa che essa non sarà mai in realtà attuata con rispetto, controllo e a basso impatto ambientale. Chi crede nel contrario sa perfettamente di essere in malafede. A proposito di Leopold occorre ricordare che il suo pensiero “costituisce una pietra miliare nello sviluppo della posizione biocentrica” (Devall & Sessions, 1989) e che, come scrisse G. Sessions (in Roshi, 1989), “visse una drammatica conversione dalla mentalità di superficiale ecologia di ‘servizio’ e di gestione di risorse dell’uomo al di sopra della natura all’annunciare che gli esseri umani dovrebbero vedere se stessi realisticamente come ‘semplici membri’ della comunità biotica”. Tornando alla questione venatoria usiamo ancora le parole dello stesso Leopold (1949-1997) sul fare negativo di un certo tipo di caccia, che poi è un fare negativo della maggior parte della realtà venatoria “sportiva” mondiale: “Eccolo seduto in una barca d’acciaio, con le sue anatre da richiamo sintetiche che galleggiano poco più avanti. Grazie al motore non ha dovuto faticare per raggiungere il suo nascondiglio. Al suo fianco ha del combustibile per riscaldarsi in caso di vento forte e parla agli stormi di passaggio con un richiamo industriale dal quale spera che escano suoni attraenti.... Bisogna sparare subito perché la palude pullula di cacciatori (tutti equipaggiati allo stesso modo), che potrebbero farlo per primi. Apre il fuoco da una sessantina di metri, perché il suo schioppo è tarato sull’infinito e la pubblicità dice che le cartucce ‘Super Zeta’ hanno una lunga gittata.... Questo cacciatore sta assorbendo un valore culturale?...... Dal nascondiglio a fianco un altro cacciatore apre il fuoco da sessantacinque metri, nel disperato tentativo di prendere qualcosa.... Dove è finita l’idea della ‘mano leggera’ e la tradizione di sparare una sola cartuccia?..... Io stesso uso arnesi fabbricati industrialmente, tuttavia c’è un punto al di là del quale gli accessori acquistati al negozio distruggono il valore culturale della caccia...... ogni tipo di svago nell’ambiente naturale è essenzialmente primitivo, atavico, e ha valore solo per contrasto; una meccanizzazione eccessiva distrugge i contrasti, trasferendo la fabbrica nei boschi o nelle paludi”.

I buoni e salubri principi culturali della caccia sono ottimi, ma la realtà sarà in effetti corrispondente a quella cultura? Le parole di Leopold confermano questo dubbio, anzi danno la certezza, purtroppo, che la caccia attuale viene praticata solo in forma degenerante, come lo è d’altronde il turismo di massa, l’industralizzazione eccessiva, l’agricoltura chimica, la pesca dissennata e così via. Aldo Leopold forse, fu una bellissima eccezione.

Scrive Dalla Casa (1996): “Nelle civiltà di tipo occidentale esiste il fenomeno ‘uccidere per divertimento’: spesso l’uccisione è addirittura considerata un ‘merito’ da parte del cacciatore. Il fenomeno, gravemente presente, interessa comunque una minoranza, anche se piuttosto invadente; l’unico modo per limitarlo consiste per ora in rigorosi divieti.....

In molte culture animiste la cattura della preda era vista come il dono di un dio, che si può interpretare come ‘il genio della specie’: la cattura era lecita soltanto se era seguita dall’utilizzazione completa di tutte le parti del dono, a scopo prevalentemente alimentare e comunque di sopravvivenza..... L’eventuale uccisione fatta ‘per divertimento’ o ‘senza scopo’ era un’offesa al dio: quindi veniva vissuta come un delitto......

Le culture animiste provocavano ben raramente l’estinzione di specie o la distruzione di ecosistemi: per molti migliaia di anni i nativi d’America sono vissuti in simbiosi con milioni di bisonti e con tutte le altre specie in armonico e dinamico equilibrio; sono bastati due o tre secoli di civiltà europea per distruggere tutto.........

In genere le culture dell’Oriente consideravano gli altri esseri o in un ciclo di morti e rinascite (samsara) o comunque degni della massima benevolenza: tutti i viventi facevano parte di un equilibrio cosmico......

In sostanza, perché finisca veramente il fenomeno ‘caccia’, pur essendo assai utili anche i divieti, è indispensabile una nuova base etica e culturale....”.

Integra il discorso Hargrove (1990): “Molte tribù primitive avevano il costume di chiedere perdono e comprensione agli animali selvatici che uccidevano per cibarsene. Tuttavia questi costumi o tradizioni non sopravvissero nella civiltà occidentale, dove invece si sviluppò la tradizione di uccidere la natura per sport, cioè per il proprio piacere, non per ottenerne cibo. Il cacciatore, secondo questa tradizione, ricava piacere dall’uccisione di animali, senza alcuna sensazione di colpa”. Quanto finora detto vale ovviamente anche per la pesca sportiva (per non parlare di quella industriale che sta devastando i mari , fiumi e laghi). Scrisse con grande perspicacia J. Muir (1995): “.... Pure, gente di aspetto assai rispettabile, gente che pare perfino savia a guardarla, sta ad infilzare pezzi di vermi su pezzi di filo di ferro ricurvi allo scopo di catturare trote. Questa attività chiamano sport. Se i frequentatori di chiese si mettessero a pescare nel fonte battesimale per ammazzare il tempo durante le prediche noiose, il cosiddetto sport avrebbe una ragion d’essere; ma trastullarsi così dentro il tempio di Yosemite! Trovar piacere nell’agonia di creature che lottano per la vita.....”.

Ma non si commetta comunque il grave errore di utilizzare la caccia come specchietto per le allodole. Non si mascheri una presunta protezione di un territorio sbandierando il classico divieto di caccia, per poi progettare interventi cosidetti “ecocompatibili” su quel territorio (turismo di massa, sentieri attrezzati, sentieristica eccessiva e capillare, rifugi, ecc.). Abbiamo espresso parere negativo sull’attività venatoria almeno nei Paese antropizzati e compromessi, ma lo abbiamo fatto al pari delle altre attività negative dell’uomo. Altrimenti, in un territorio selvaggio, paradossalmente (molto paradossalmente), è meglio considerare l’attività venatoria, sia pur fortemente ristretta e indirettamente limitata a pochi, che lasciar lontano i fucili ma snaturare completamente quell’ambiente con altri dubbi interventi. Un gran numero di persone aborrisce la caccia come attività negativa, ma ignora totalmente (o finge di ignorare) il pesante impatto del turismo e delle altre forme che turbano la wilderness di un posto. Abbiamo espresso parere negativo alla caccia perché nella realtà molti praticanti di tale attività non sono degni di essa comportandosi in forma del tutto negativa, ma saremo teoricamente i primi a difenderla se i cacciatori dimostreranno una vera missione nei confronti della wilderness dei luoghi e nei confronti di un’autoregolamentazione degna di tal nome (attività venatoria secondo i precetti di Aldo Leopold che, come abbiamo primo evidenziato, erano impostati su una caccia di tipo “culturale”, controllata, agnostica, atavica). Quest’ultima riflessione è però nel modo più assoluto utopica!!

L’uomo contemporaneo attraverso le sue mille categorie di “necessità” (cacciatori, pescatori, sciatori, escursionisti, alpinisti, boscaioli, pastori, agricoltori, latifondisti, speculatori, ricercatori e “scienziati”, ecc.) accampa continuamente i diritti di poter far qualcosa, ognuno in forma esclusiva. Non è un caso poi che a farne le spese sia sempre l’ambiente. Ormai l’uomo è un elemento estraneo ai fenomeni della natura e per questo limitarlo è quanto mai opportuno e necessario. L’importante è non creare categorie di seria A con tutti i diritti e categorie di serie B senza diritti! 

E’ comunque cosa estremamente difficile riscontrare tra gli “ambientalisti di superficie” e i cacciatori il concetto del valore in sé della natura. In entrambe le categorie vige, quasi sempre, l’egocentrismo o meglio l’antropontrismo e nei cacciatori il miope interesse personalistico.

Scrive Franco Zunino: ".... Chi sente il desiderio di un rapporto diverso con l'ambiente, più legato ad esigenze interiori di beltà e solitudine, di riflessione, di godimento della bellezza, dei momenti del vivere e dell'evolversi della natura, più facilmente capirà l'esigenza di maggior rispetto, capirà che i diritti della natura, devono avere il primo posto e che l'uomo deve visitarla sempre pronto a tirarsi indietro non appena divengono evidenti i segni del mutamento che la sua presenza le arreca, che vanno dalla degradazione ambientale al disturbo della fauna, alla perdita di certi stati di pace e solitudine (che sono un diritto della fauna prima che nostro); pronto pertanto anche a rinunciare alla natura quando ne è il caso.

Invece, la maggioranza di quelli che amano la natura, la fauna, la flora, o ne godono attraverso la ricreazione fisica in essa (naturalisti, alpinisti, escursionisti, cacciatori, ecc.), raramente si pongono problemi di rinuncia ai propri piaceri per rispetto alle sue esigenze......... In realtà ogni categoria di fruitori della natura deve rassegnarsi a porsi dei limiti, perché non esistono fruitori buoni e fruitori dannosi, ed è nella limitazione di tutte le libertà il compromesso giusto che permette di garantire alla natura la possibilità di perpetuarsi nella sua libertà, perché mentre sono adattabili le nostre esigenze, il più delle volte non lo sono quelle della natura.......'c'è bisogno di amore verso la Terra, non verso i piaceri che ne traggono attraverso l'uso'. E' invece, purtroppo, quasi sempre l'inverso per la stragrande maggioranza degli aderenti ai vari gruppi di interesse, dall'ornitologo al cacciatore....".

Un ultima questione occorre evidenziare. I cacciatori accusano coloro che sono contro la loro attività (come profondamente il sottoscritto) affermando che quest’ultimi aborriscono dinanzi alle loro uccisioni e poi ignorano e si nutrono di carne frutto di allevamenti lager e di uno sterminio nei mattatoi (però, ribadiamo, non facciamo l'errore di dimenticarci anche dei pesci). Ciò è vero e lo scrivente sia per motivi ecologici, quanto anche per motivi di assoluto rispetto per ogni forma di vita, di coerenza e di salute è da decenni profondamente VEGANO (alimentarsi di soli vegetali), una pratica che in futuro per contribuire a salvaguardare almeno in parte il pianeta terra sarà quasi un obbligo esserlo tutti.


“Stavamo mangiando su una sporgenza rocciosa, ai cui piedi un torrente turbolento piegava a gomito. Vedemmo quello che pensammo fosse una cerva guadare, immersa fino al torace nell’acqua bianca spuma. Quando si arrampicò sulla sponda dalla nostra parte e scosse la coda ci accorgemmo del nostro errore: era un lupo. Un’altra mezza dozzina, evidentemente piccoli già cresciuti, balzò dal folto dei salici, radunandosi per dare il benvenuto, scodinzolando e litigando giocosamente. Insomma, un vero e proprio mucchio di lupi si agitava e ruzzolava allo scoperto proprio sotto il nostro masso.

A quei tempi non avevamo mai sentito che qualcuno si lasciasse sfuggire l’occasione di uccidere un lupo. In un attimo stavamo scaricando piombo sul branco, con più eccitazione che precisione.......

Raggiungemmo l’animale agonizzante, che era una lupa, in tempo per vedere un feroce fuoco verde spegnersi nei suoi occhi. Mi resi conto allora, e non l’ho mai dimenticato, che c’era qualcosa di nuovo per me in quei occhi, qualcosa che solo lei e la montagna sapevano. A quel tempo era giovane e mi prudeva il dito sul grilletto; pensavo che meno lupi significasse più cervi, e quindi niente lupi equivalesse al paradiso dei cacciatori. Ma quando vidi spegnersi quel fuoco verde, sentii che né la lupa, né la montagna condividevano quel punto di vista......

Forse è proprio questo che significa il detto di Thoreau: ‘La salvezza del mondo si trova nella natura selvaggia’. Forse questo è il significato nascosto nell’ululato del lupo, che le montagne conoscono da molto tempo, ma che gli uomini raramente percepiscono” (A. Leopold, 1949-1997).

“Con tutti gli esseri e con tutte le cose, noi saremo sempre fratelli” (proverbio Sioux).

Lo scrivente avverserà sempre l’attività venatoria, ma anche tutte le attività che non rispettano la wilderness dei luoghi. Ovviamente chi scrive è anche lui “colpevole di errori” e non vuole additare solo agli altri il fare negativo!! Chi scrive non è certo portatore di verità assolute.

Disse il Budda: “La regola fondamentale di ciascun essere senziente è di avere sempre, e poi sempre una profonda COMPASSIONE!!.

E per concludere faccio propria la grande affermazione fatta da Albert Schweitzer circa quello di portare nel più profondo del proprio cuore il “rispetto per ogni forma di vita”, rispetto che fu auspicato non solo dallo Schweitzer, ma anche da molti altri personaggi di rilievo da tutto il mondo e finanche da molte religioni, sopratutto orientali.


Un’integrazione di Guido Dalla Casa (1996)


La caccia

Esaminiamo ora l’atteggiamento dei tre gruppi di culture nei riguardi della caccia:


- Nelle civiltà di tipo occidentale esiste il fenomeno “uccidere per divertimento”: spesso l’uccisione è addirittura considerata un “merito” da parte del cacciatore. Il fenomeno, gravemente presente, interessa comunque una minoranza, anche se piuttosto invadente; l’unico modo per limitarlo consiste per ora in rigorosi divieti. Nell’Occidente c’è chi spende soldi per poter uccidere, il che è addirittura il contrario del “procurarsi il cibo” indispensabile all’idea di caccia in tanti altri modelli.


- In molte culture animiste la cattura della preda era vista come il dono di un dio, che si può interpretare come “il genio della specie”: la cattura era lecita soltanto se era seguita dall’utilizzazione completa di tutte le parti del dono, a scopo prevalentemente alimentare e comunque di sopravvivenza. Spesso l’animale più cacciato era considerato anche un totem, aveva una sua sacralità. L’eventuale uccisione fatta “per divertimento” o “senza scopo” era un’offesa al dio: quindi veniva vissuta come un delitto e poneva il cacciatore nella posizione di chi attende la punizione del dio, che potremmo anche chiamare “conseguenza del complesso di colpa”: di solito poi questa punizione arrivava puntualmente, attraverso le misteriose vie dell’inconscio e gli indissolubili legami fra mente e corpo.

Le culture animiste provocavano ben raramente l’estinzione di specie o la distruzione di ecosistemi: per molte migliaia di anni i nativi d’America sono vissuti in simbiosi con milioni di bisonti e con tutte le altre specie in armonico e dinamico equilibrio; sono bastati due o tre secoli di civiltà europea per distruggere tutto.


- In genere le culture dell’Oriente consideravano gli altri esseri o in un ciclo di morti e rinascite (samsara) o comunque degni della massima benevolenza: tutti i viventi facevano parte di un equilibrio cosmico. Ciò dava luogo a morali del tipo “Non danneggiare alcun essere senziente”. Anche qui l’eventualità di divertirsi ad uccidere era vissuta come un grave delitto.

Nelle concezioni orientali le altre specie viventi sono composte di esseri che vivono in modi diversi la nostra stessa avventura, con pieno diritto a una vita libera e autonoma. Invece, nel nostro mondo, i cosiddetti “movimenti per la vita” ritengono ovvio occuparsi solo della vita umana, senza neanche il bisogno di precisarlo. Dell’equilibrio e dello stato di salute della Vita, cioè del Complesso dei Viventi, non si preoccupano affatto. 

In sostanza, perché finisca veramente il fenomeno “caccia”, pur essendo assai utili anche i divieti, è indispensabile una nuova base etica e culturale.

Occorre comunque fare attenzione ai permessi di “caccia tradizionale” accordati da alcuni governi, e quindi dall’Occidente, alle culture tribali con il pretesto di mantenerle in vita, perché spesso questa caccia si traduce in un massacro con armi da fuoco per vendere pellicce a grosse compagnie commerciali e avere così il denaro per comprarsi il televisore. Gli eschimesi o i siberiani a caccia con l’elicottero non hanno niente di tradizionale: quando imbracciano un fucile sono già l’Occidente. Le civiltà tradizionali non esistono più dal momento in cui arriva un’arma da fuoco e vengono persi i valori della cultura originaria.

L’Occidente è contagioso e seduce facilmente con i suoi nuovi miti. Con questa caccia si ottiene solo un’ulteriore degradazione della Natura ed un massacro “occidentale” anche se compiuto da ex-appartenenti ad altre culture umane.

C’è una grande confusione fra razza e cultura: un eschimese che uccide la foca con un fucile o comunque con lo scopo di vendere la pelle a una compagnia commerciale non è un eschimese, ma è l’Occidente.

La caccia integrata nelle culture animiste è una cosa del tutto diversa dalla caccia commerciale o industriale, anche se effettuata da persone o collettività di etnìe non europee. La sostanza è data dall’intenzione, lo scopo e il modo, non dall’origine etnica del cacciatore.

giovedì 25 febbraio 2021

La crudeltà della pesca

Wild Nahani

Illustrazione di Elzbieta Mielczarek

NB. Testo tratto dal libo "L'uomo naturale"


Il rispetto per ogni forma di vita è un atteggiamento spirituale e pratico di grande valenza esistenziale. Molte persone lo fanno, molte religioni orientali ne fanno uno dei loro principi basilari, ma purtroppo questa nobile consapevolezza è avversata dai più. L’essere Vegani (non cibarsi di nessun animale, compreso i loro derivati) è un grande risultato per il proprio essere può conquistare arricchendosi sotto tutti i punti di vista: etici, spirituali, salutistici.

Ma in questa sede non vogliamo parlare sul veganesimo, ma porre la nostra attenzione sulla crudele ed inutile mattanza che si fa dei pesci.

Normalmente si tende quasi sempre a parlare di non mangiare animali terrestri, o, per esempio le battaglie sull’ormai anacronistica e assurda attività della caccia, ci si concentra sempre a questa pratica. Molto raramente si parla di pesci. Anche loro, al pari di tutti gli esseri viventi, vanno rispettati e non mangiati.

Purtroppo, nell’ambito della pesca industriale, siamo di fronte a vere e proprie mattanze, che negli ultimi tempi hanno depauperato i mari, fiumi e laghi per offrire, ad un popolo ingordo di morte, esseri che dovrebbero vivere liberamente nelle acque. Poi, sia pure in forme notevolmente minore, c’è la pesca sportiva o in ogni caso quella praticata con la canna da pesca da molte persone. Molti condannano la caccia, ma si dimenticano spesso di aggiungere a questa condanna anche la pesca. Sembra che i pesci sia animali di serie B (a dimostrazione che l'atteggiamento verso i pesci è molto più superficiale e meno emotivo, rispetto agli altri animali terrestri è provato dal fatto che, mentre per questi ultimi quasi mai vediamo sui media - anzi direi mai - la loro macellazione, ma semplicemente le carni già pronte, per quanto attiene invece ai pesci è facile osservare la loro crudele cattura, il loro squoiamento e finanche in normali trasmissioni televisivi come si fa a pulirli, a sezionarli e così via. Nessuno si fa meraviglia e si irrita. Sembra che si stia operando su qualcosa che non era stato sino a poco prima un essere vivente che viveva libero nella libertà delle acque!! O, in aggiunta, molti dicono "io non mangio carne, ma solo pesce"!!). Ed invece anche loro meritano rispetto e, rinunciare a mangiarli, a noi fa solo bene (spiritualmente e salutisticamente. Non dimentichiamoci, tra l'altro, il grave inquinamento da metalli pesanti delle acque). Che assurdità vedere uomini moderni che per diletto e dicono “per passione” vanno a pesca. Quale inutile strage.

Ovviamente qui non si vuole in alcun modo includere tutti quei popoli nativi sparsi per il mondo che giustamente pescano per sopravvivere, ma solo per quelli che lo fanno per diletto e per sport!! Non serve cibarsi di pesce, essere vegani si vive meglio ed in ogni caso allo stesso modo. In tale maniera ci possiamo opporre anche alla pesca industriale, che, come abbiamo accennato, sta distruggendo le risorse trofiche delle acque, mare in particolare.

Facciamoci un esame di coscienza e, con un atto di grande altruismo e profondità spirituale, rinunciamo a mangiare esseri viventi. Si dirà: anche i vegetali sono esseri viventi. E’ vero, ma questi sono alla base dell’esigenza per sopravvivere. Qui non stiamo parlando di attuare un suicidio di massa, per non “uccidere” qualunque forma di vita, ma semplicemente quello di evitare ciò che è inutile fare.

Quindi il semplice gesto di diventare vegani, ci farà automaticamente rispettare tutte le forme di vita animali presenti sul pianeta terra.

Per concludere, quando siamo antagonisti dei cacciatori (esclusi ovviamente quelli che lo sono per sopravvivere) o dei mattatoi, ricordiamoci anche di includere il mondo dei pesci, sia riferito alla forma di uccisione industriale che a quella sportiva e dei piccoli pescatori.

Ricordatevi: quando parlate di animali e del loro rispetto, pensate anche ai pesci. Loro, metaforicamente, vi ringrazieranno.


Scrisse con grande perspicacia J. Muir (1995): “.... Pure, gente di aspetto assai rispettabile, gente che pare perfino savia a guardarla, sta ad infilzare pezzi di vermi su pezzi di filo di ferro ricurvi allo scopo di catturarep trote. Questa attività chiamano sport. Se i frequentatori di chiese si mettessero a pescare nel fonte battesimale per ammazzare il tempo durante le prediche noiose, il cosiddetto sport avrebbe una ragion d’essere; ma trastullarsi così dentro il tempio di Yosemite! Trovar piacere nell’agonia di creature che lottano per la vita.....”.

Finalmente un po’ di chiarezza e di equilibrio.

venerdì 29 gennaio 2021

La sensibilità femminile e l’ecologia profonda

Wild Nahani

Illustrazione di Elzbieta Mielczarek



NB. Testo tratto dal libro "L'uomo naturale".


“Ogni cosa che dà la vita è femminile. Quando gli uomini cominceranno a capire la segreta armonia dell’universo, di cui le donne sono sempre state a conoscenza, il mondo cambierà in meglio“ (Lorraine Canoe, Mohawk - da AA. VV., 1995). Il lupo selvaggio ricorda alla donna il suo essere selvaggio e se anche le strutture sociali maschiliste le hanno imposto una maschera e un dominio assoluto, la forza dell’istinto selvaggio può tornare alla luce per ridare alla donna la sua vera essenza e per riaffermare la sua profonda visione ecologica ed unitaria della natura. “Non è azzardato affermare che lo scisma primario tra natura e umanità (uno scisma che forse ha avuto origine dalla subordinazione gerarchica della donna da parte dell’uomo) ha ingenerato enormi fratture nella vita quotidiana, oltre che nella nostra sensibilità teoretica” (M. Bookchin in AA.VV., 1987).


La sensibilità femminile è nettamente più incline a percepire quel superamento del dualismo tra mondo umano e mondo naturale e se l’uomo non le avesse imposto la sua arroganza e la sua dominanza, il mutuo rapporto tra l’essere vivente e l’universo non avrebbe subito la scissione che invece ci ha condotto verso il baratro ed ha portato la condizione femminile verso la perdita della propria dignità e del proprio respiro selvaggio. Ma l’ululato del lupo ricorda alla donna il suo essere profondo, scevro, nella sua intimità, dai meschini parametri di dominio che sono invece profondamente radicati nell’essere maschile. La donna, liberata dalle catene che l’hanno avvolta per secoli, può tornare a correre, libera ed unitaria con il mondo selvaggio che le riconosce invece, in uno spirito assoluto, il suo valore e la sua partecipazione al concerto multiforme della natura. Occorre che la sua ribellione prenda il sopravvento affinché annulli in un sol colpo, dalle fondamenta, quella gabbia in cui è stata reclusa alienandola dalla dialettica degli elementi unitari. L’ululato del lupo selvaggio ricorderà alla donna che può farcela, può gettare la maschera imposta, può liberarsi del giogo che la opprime e farle adornare il capo con il senso della profonda verità delle cose. Il lupo selvaggio ricorda alla donna che l’uomo, nella sua infinita tristezza ha incupito la sua stessa esistenza lacerando la sua compagna della vita, rinunciando a vivere in armonia con essa e rinunciando alle gioie del vivere unitario. Da qui ha infierito nella distruzione anche su se stesso, perché distruggendo la donna ha tolto da se quel saggio e profondo senso del selvaggio che lo ha condotto verso la sua misera ed angosciata esistenza. Con il dominio assoluto, l’uomo ha dimenticato e soppresso ciò che la donna aveva da insegnarli: la profonda uguaglianza tra uomini e donne e la profonda uguaglianza ed unità con tutti gli elementi dell’universo. “Rispondi. Alla voce del vento. All’invito della natura. Alle domande del cuore. Rispondi al richiamo” (N. Evans, 1998).

“L’ecofemminismo considera la dominanza patriarcale degli uomini sulle donne come il prototipo di ogni dominazione e di ogni sfruttamento nelle loro varie forme: gerarchie, militaristiche, capitalistiche, industriali. In particolare sottolinea che lo sfruttamento della Natura è andato di pari passo con quello delle donne, che in ogni epoca sono state identificate con essa. Questa antica comunione fra donna e Natura lega la storia della donna a quella dell’ambiente, ed è all’origine di una affinità ovvia tra femminismo ed ecologia. Di conseguenza, l’ecofemminismo considera la conoscenza empirica tipicamente femminile come uno dei principi fondamentaali per una visione ecologica della realtà” (Capra, 1997).

“In effetti, alcune femministe sostengono che l’ecologia profonda sia una formulazione intellettuale delle intuizioni che molte donne hanno da secoli.....

Le femministe ampliano il senso di meraviglia nella nostra vita e l’impegno per un ruolo nella società attivo, nonviolento e creativo, dal momento che ci invitano a curare le nostre relazioni personali e a esaminare più a fondo i modi di pensiero prevalenti che sono la causa dell’egoismo, della competitività, dell’astrazione e del dominio. Il femminismo, inoltre, ha svelato l’esistenza di una ‘voce per la natura’ in quanto tale, piuttosto che esclusivamente per gli esseri umani” (Devall & Sessions, 1989).

Nessun dominio dovrebbe esistere nel rapporto uomo-donna e quindi nel rapporto unitario con la natura, ma poiché un dominio è avvenuto (quello dell’uomo) nel paradosso sarebbe stato meglio che le parti si fossero invertite, che la donna avesse avuto il “sopravvento” poiché ora, anche se un atteggiamento del genere può essere ugualmente messo in discussione, non saremmo però ad una arida spiaggia senz’acqua in cui siamo invece approdati. Il rapporto unitario con la natura e il rapporto di interrelazione tra gli esseri umani sarebbe stato in ogni caso sicuramente migliore e sinceramente profondo!

Diamo spazio a Judith Plant che, nell’affrontare l’intimo rapporto tra ecofemminismo e bioregionalismo, evidenzia bene, tra l’altro, il dominio dell’uomo sulla donna (da AA. VV., 1994 pagg. 48-51): “L’ecologia è lo studio delle interdipendenze e dell’interconnessione di tutti i sistemi viventi.

E’ a partire dall’osservazione delle gravi conseguenze ambientali che ne derivano, che gli ecologisti sono obbligati a porsi in posizione critica rispetto agli attuali comportamenti sociali.

Visto che il mondo naturale è pensato come risorsa, viene sfruttato senza riguardi per il suo ruolo di supporto a tutte le specie viventi.

L’ecologia sociale cerca di opporsi a questo atteggiamento dominante, indicando nell’armonizzazione fra la natura ed i bisogni vitali, cui la società deve far fronte, la via maestra per una società giusta.....

Nella cultura umana, l’idea di gerarchia è stata usata per giustificare la pratica della dominazione sociale; è stata poi proiettata nella natura, portando alla concreta affermazione di un atteggiamento di dominio anche nei suoi confronti.

La consapevolezza che in natura non esistono reali gerarchie, il riconoscersi nel valore della diversità e in una visione non gerarchica delle cose, sono punti strettamente condivisi da ecologisti e femministe.....

Storicamente, non abbiamo mai avuto potere sociale, al di là dei confini domestici, nè ruolo nella vita intellettuale.

Se l’ecologia parla a favore dell’altro, inteso come Terra, il femminismo parla invece dell’altro nella relazione ineguale uomo-donna.

L’ecofemminismo, così, parlando per entrambi gli altri originari, cerca di comprendere le radici comuni ad ambedue i tipi di dominio e sopraffazione e di indicare i modi di resistenza e di cambiamento.

Il compito assuntosi dall’ecofemminismo è quello di sviluppare la capacità di immedesimazione nell’altro, quando ci si trovi a considerare le conseguenze delle proprie azioni, e la consapevolezza di essere ognuno parte dell’altro......

Prima che il mondo venisse meccanizzato e industrializzato, la metafora per spiegare il Sè, la Società ed il Cosmo era l’immagine dell’Organismo.

Questo in ragione del fatto che la maggior parte della gente era quotidianamente in contatto con la terra e viveva un’esistenza basata su di essa.

La terra era vista come una femmina sotto due aspetti: uno passivo, di madre nutrice; l’altro, selvaggio e incontrollabile.

Queste immagini avevano la funzione di archetipi culturali. La terra era viva, sensibile, e perciò era contrario all’etica usarle violenza.....

Nel momento in cui la società iniziò il suo mutamento (...) l’immagine di una terra passiva, gentile, svanì.

La collera, la furia della natura, sempre vista come donna, ne divennero i nuovi tratti-simbolo, da cui la ‘necessità’ del dominio. E grazie alle nuove tecnologie, l’uomo, si pensava, sarebbe stato in grado di sottometterla veramente. (...)

Le battaglie per la vita della natura ... diventano temi femministi, se posti all’interno della prospettiva che abbiamo assunto: partecipando a queste lotte contro coloro che si arrogano il diritto di dominare il mondo naturale, contribuiamo a creare una coscienza della dominazione in atto a tutti i livelli.

Ma l’ecofemminismo crea anche interessi comuni fra donne e uomini.

Noi siamo state, sì, paragonate alla natura, ma anche educate dalla società a pensare in maniera dualistica: così, esattamente come gli uomini, ci sentiamo alienate.

Il sistema sociale non è buono, né per noi né per i maschi.

E’ dunque necessario individuare un campo comune da cui muovere per creare una coscienza critica, che renda possibile influenzare le strutture profonde della relazione società/ambiente. Le forme di resistenza non violenta - come la disobbedienza civile - contro lo scempio ambientale, possono promuovere, sostenere e sviluppare una vita culturale, che esalti le molte diversità presenti in natura e ne tragga le conseguenze sul piano dei rapporti interpersonali.....

La donna e la natura, ma bisognerebbe dire l’umanità e la natura, hanno bisogno di essere viste sotto una nuova luce, in base alla quale sia possibile ricucire i legami smagliati fra gli individui, e fra questi e la Terra... “.


“Siamo pervase dalla nostalgia per l’antica natura selvaggia. Pochi sono gli antidoti autorizzati a questo struggimento. Ci hanno insegnato a vergognarci di un simile desiderio. Ci siamo lasciate crescere i capelli e li abbiamo usati per nascondere i sentimenti. Ma l’ombra della Donna selvaggia ancora si appiatta dietro di noi, nei nostri giorni, nelle nostre notti. Ovunque e sempre, l’ombra che ci trotterella dietro va indubbiamente a quattro zampe.....

La fauna selvaggia e la Donna Selvaggia sono specie a rischio.

Nel tempo, abbiamo visto saccheggiare, respingere, sovraccaricare la natura istintiva della donna. Per lunghi periodi è stata devastata, come la fauna e i territori selvaggi. Per alcune migliaia di anni, e basta guardarsi indietro perché la visione si rappresenti, resta relegata nel più misero territorio della psiche....

Non a caso le antiche lande selvagge del nostro pianeta scompaiono a mano a mano che svanisce la comprensione della nostra intima natura selvaggia.....

Dunque la parola selvaggio qui non è usata nel suo senso moderno peggiorativo, con il significato di incontrollato, ma nel suo senso originale, che significa vivere una vita naturale, in cui la creatura ha la sua integrità innata e sani confini.... “ (Pinkola Estés, 1993).

Occorre ricordare che non a caso in questo libro quando si cita la parola “uomo” ci si riferisce quasi sempre al significato letterale del termine escludendo quindi volutamente la donna. Il mondo umano anche nella terminologia è purtroppo essenzialmente volto al maschile! Facciamo un piccolo esempio al riguardo. Se si scrive un libro sul lupo e si intitola “La lupa” chiunque interpreterebbe l’argomento su una trattazione della vita della femmina del lupo anche se la pubblicazione intenderebbe approfondire la vita della specie nella sua interezza. Questo la dice fin troppo lunga. E’ palesemente evidente che anche nella semplice terminologia il mondo tende “razzisticamente” al maschile. Questa non è una supposizione ma un crudo fatto reale, assolutamente unilaterale, ma assolutamente ingiusto. Eppure la natura ci ha insegnato una ben altra universalità!!

Chi scrive si scusa se nella trattazione non ha ben evidenziato sin dal primo momento questa grave discrepanza.