giovedì 29 luglio 2021

L’estetica ambientale

Wild Nahani

Illustrazione di Elzbieta Mielczarek


NB. Testo tratto dal libo "L'uomo naturale"


“Inquinamento, contaminazione, desolazione, sono parole che non sarebbero mai state create se l’uomo fosse vissuto secondo natura. Uccelli, insetti, orsi muoiono e si disfano in modo pulito e bello. (...) I boschi sono pieni di alberi morti e morenti, eppure la loro bellezza era necessaria per completare la bellezza della vita. (...) Ogni morte è bella!” (J. Muir, John of the Mountains, 1938 - tratto da Devall & Sessions, 1989). Mentre in passato le bellezze naturali erano viste solo come fenomeni estetici privi di contenuto, le concezioni della moderna estetica ambientale, oltre a valutare e riconoscere i vari aspetti della bellezza, premono preminentemente sulla protezione e conservazione della natura (D’Angelo, in Gamba & Martignitti, 1995). Ciò che viene maggiormente sentito è dunque il corretto rapporto tra uomo e ambiente e la vera tutela della natura. Al limite, le bellezze naturali vengono utilizzate per riaffermare argomenti a favore della loro conservazione (D’Angelo, in Gamba & Martignitti, 1995). E anche in questo caso possiamo sviluppare questo concetto sia in chiave egocentrica, cioè bellezze naturali valevoli solo se legate alla percezione sensoriale dell’uomo, e sia in chiave ecocentrica ovvero bellezze naturali dal proprio valore intrinseco. Hargrove (1990) scrive in proposito: “La bellezza è un carattere intrinseco e oggettivo dell’ente naturale (il quale quindi è bello per il solo fatto di esistere), dunque essa è svincolata dalla percezione da parte di un soggetto”.

La natura è considerata, a detta della scienza, come una specie di contenitore nel quale razionalmente è possibile discernere i vari elementi quantificandoli e ordinandoli secondo rigidi principi matematici e mentali (leggasi razionalismo cartesiano). Ne esce fuori una natura parcellizzata, controllata, asettica, dove ogni cosa è come deve essere. “La natura è un perpetuo caleidoscopio di mutamenti fecondi che si rifiuta ad ogni categorizzazione rigida. La mente può cogliere l’essenza di questo movimento, ma mai tutti i suoi dettagli” (Bookchin, 1995). 

Una visione olistica del mondo invece ci fa capire che la natura non è la somma di tutti i singoli elementi che la compongono né la somma delle relazioni tra i membri, ma certamente qualcosa di più. Theodore Roszak dice infatti che occorre essere consapevoli che il tutto è maggiore della somma delle parti. Il mondo naturale, allora, potrà essere visto con altrettanta validità e sicuramente con superiore spirito, anche attraverso le sensazioni, i profumi, le emozioni. Ne consegue che l’estetica ambientale invita ad un comportamento alternativo alla rigidità “professionale” della moderna scienza naturale. Un essere selvaggio conosce molto bene il proprio ambiente e riceve continue emozioni nel rapporto con esso: questa è la conoscenza naturale delle cose. Sviluppare dunque questo aspetto, cioè una conoscenza pratica fatta di esperienze e di sensazioni, è il migliore rapporto che possa istaurarsi per riconnettersi con la natura. Sentire il profumo del sottobosco dopo la pioggia, individuare la pista di un animale, osservare la dinamica dei processi geologici, saper pregustare l’imminenza di un temporale, saper accendere un fuoco con semplici mezzi o sapersela cavare in un ambiente selvaggio: questa è la principale conoscenza della storia naturale. Un lupo vive spontaneamente in unità profonda con il suo ambiente, ne conosce i “segreti”, e da esso percepisce continue sensazioni semplici. Probabilmente saranno diverse dalle nostre, come lo saranno da quelle di un orso o di un’aquila, ma in comune ci sono gli stessi due elementi: la conoscenza diretta e pratica del territorio e le sensazioni (paura, dolore, odore, smarrimento, gioia, ecc.).

La moderna scienza, prodotta dal pensiero umano, ha invece assunto un atteggiamento invadente, dominatore e aggressivo nei confronti della natura, riducendo quest’ultima a puro laboratorio esterno di asservimento e di distruzione (D’Angelo, in Gamba & Martignitti, 1995). Si riafferma il concetto dualistico (uomo, centro del mondo - natura, esterna e subordinata) e si postulano principi e corollari prevaricatori. A tale concezione si contrappone l’esperienza estetica. Scrive D’Angelo (in Gamba & Martignitti, 1995): “Di contro a questi atteggiamenti prevaricatori, l’esperienza estetica della natura offre un modello del rapporto non semplificatore e non invasivo, sia perché ci insegna a tenere conto di tutta la complessità della nostra interazione con l’ambiente, rivalutando la componente sensoriale della nostra esperienza, sia perché l’atteggiamento contemplativo proprio dell’esperienza estetica rappresenta l’antitesi della sottomissione violenta della natura compiuta dalla tecnica”.

Dinanzi all’attuale distruzione e invasione della natura, è impensabile proporre un’etica ambientale ricca di considerazioni utilitaristiche per l’uomo. Occorre invece definire un’etica che lo responsabilizzi e lo conduca verso una visione monistica e globale della vita per consentirgli la riconnessione con l’uno naturale. Per poter riconoscere i limiti e le dimensioni ridotte dell’uomo, essere paritario agli altri elementi del mondo naturale, è però necessario rinegoziare il valore delle cose. Ma, ad essere sinceri, un’etica così incisa di elementi non utilitaristici, troverà non pochi antagonisti nel corso della sua proposizione. Hargrove nella sua opera Fondamenti di etica ambientale (1990) annota: “Passiamo ora al problema finale, cioè all’affermazione che il bello naturale è inferiore al bello artistico, in quanto troppo estraneo per conformarsi ai criteri e ai gusti estetici dell’uomo. Questa posizione è stata sostenuta in ‘La nostra responsabilità per la natura’, dove Passmore afferma che la natura addomesticata è preferibile alla natura selvaggia, alla selvaticità, perché, dal punto di vista dell’uomo, è più gradevole e più intellegibile. L’uomo capisce la natura addomesticata perché ‘ha contribuito a crearla’. Per contro, continua Passmore, ‘l’uomo è in qualche modo alienato dalla natura selvaggia; essa è qualcosa di esterno a lui’.....

Questa concezione della natura ha elementi comuni, ad esempio, con la teoria di Locke della proprietà, per la quale la natura viene valorizzata dal lavoro dell’uomo. La natura così trasformata diventa proprietà, in quanto qualcosa di umano, il lavoro, è entrato a far parte della natura grezza e si è permanentemente unito a essa. Questa concezione della natura come qualcosa di incompleto e pressoché senza valore, che attende che l’uomo vi riversi struttura, ordine e valore, affiora anche negli scritti filosofici di Hegel, quando egli afferma che, poiché la natura non ha volontà propria, l’uomo ha diritto di usare la sua volontà d’impadronirsi di ogni e tutti gli oggetti naturali, facendoli suoi”. Ogni commento a queste disarmoniche argomentazioni sarebbe superfluo. Hargrove infatti nel paragrafo successivo ricorda che: “Dato che i nostri criteri estetici derivano dalla natura, è assurdo affermare che i criteri della natura sono troppo estranei per essere accettabili e intellegibili dall’uomo”. Integra il discorso Leopold (1949-1997): “Il turista a caccia di trofei ‘naturali’ ha delle peculiarità che contribuiscono in modo sottile al suo comportamento. Per soddisfarsi deve possedere, invadere, appropriarsi. Di conseguenza, i luoghi selvaggi che non può vedere personalmente non hanno per lui alcun valore. Da ciò deriva l’opinione comune che una terra inutilizzata non renda alcun servizio alla società. Per chi è privo di immaginazione un vuoto sulla carta geografica è un inutile spreco, per altri è la parte più preziosa”.

E poi ancora Hargrove (1990): “Secondo l’estetica positiva, la natura, nella misura in cui è naturale (cioè, non alterata dall’uomo), è bella e non ha qualità estetiche negative. Tale concezione ha trovato la sua espressione più famosa nella frase, continuamente citata nel diciannovesimo secolo, di John Constable, che affermò, ‘Non ho mai visto una cosa brutta in vita mia’. Secondo tale concezione, chiunque trovi il brutto in natura semplicemente non l’ha saputa percepire in modo giusto, non ha saputo trovare criteri appropriati in base ai quali giudicarla e apprezzarla esteticamente. L’estetica positiva è strettamente associata a un tipo specifico di argomento preservazionista, che sostiene il diritto della natura di esistere. Secondo quest’argomento, che generalmente è espresso in modo affatto inadeguato, tutto ciò che esiste ha diritto d’esistere semplicemente perché esiste…..”.

Scrive infine Franco Zunino (1980): “La natura selvaggia è un bisogno spirituale che ognuno di noi si porta dentro e che va dal semplice amore per il bello al preponderante bisogno di solitudine che sentono alcuni. E’ il senso di fastidio che proviamo in natura di fronte all’opera dell’uomo, anche quando quest’opera è minima o ha fini di conservazione o di studio. La natura selvaggia è acqua libera di scorrere, di erodere, di gonfiarsi e straripare; è la libertà di volare e di correre degli animali; sono gli orizzonti intatti di montagne o di piatte paludi; è l’immensità del cielo su un panorama d’erba; è il silenzio della natura e lo scrosciare d’acque nelle valli montane; l’urlo del temporale nella foresta; il sibilo della bufera e il boato pauroso della valanga; il lento volo dell’aquila che annulla lo spazio tra le montagne; è il gioco delle onde sulle scogliera. La natura selvaggia è girare attorno lo sguardo e non vedere segno d’uomo; è ascoltare e non udire rumori d’uomo”. 

martedì 29 giugno 2021

Lo “sviluppo” tecnologico e scientifico. Un mondo in antitesi alla natura.

 Wild Nahani


Illustrazione di Elzbieta Mielzarek

NB. Testo tratto dal libo "L'uomo naturale"


“Come i venti e i tramonti, la vita selvaggia era considerata sicura finché il cosiddetto progresso non ha cominciato a portarla via. Ora ci troviamo di fronte al problema se un ancora più alto livello di vita valga il suo spaventoso costo in tutto ciò che è naturale, libero e selvaggio” (A. Leopold).

Nell’era dei personal computer, e del tutto elettronico, appare quasi anacronistico scrivere una lettera a mano, o leggere un libro di sera, senza guardare la televisione. La vita tecnologica condiziona ormai il modo di vivere e, quel che più preoccupa, la condizionerà maggiormente nell'avvenire, fino a trasformare l’uomo in una sorta di robot, non più mosso dai sentimenti ma soltanto da impulsi elettrici. Alcuni scienziati e sociologi affermano con convinzione che proprio la tecnologia consentirà di salvare il pianeta terra dall’autodistruzione, giacché l’affinamento della ricerca si tradurrà nella realizzazione di macchine poco inquinanti, di basso consumo e più efficienti. Ora, è inutile sottolineare l’inattendibilità di un’affermazione del genere, poiché se può essere vero che l’avanzare della tecnologia porta al miglioramento della qualità, è pur vero che, sotto la spinta della pressione demografica, è inevitabile che non si tenga conto del grado di pericolosità delle nuove scoperte, non osteggiate dall'autorità politica a causa delle rilevanti implicazioni sociali che il problema comporta. Anche la scoperta dell’energia nucleare sembrava  immune da effetti nocivi, invece poi - come sappiamo - quella innocua scoperta ha partorito la bomba atomica e il disastroso “effetto Chernobyl”. Alla stessa stregua si asseriva che le ricerche genetiche non avrebbero dato luogo a degenerazioni di sorta, poi da quelle sperimentazioni sono nati mostri che gli apprendisti stregoni non sanno esorcizzare. Qualche cosa di simile accadde nel XVIIIº e XIXº secolo, quando dalle ricerche condotte per puro spirito di conoscenza da Lavoisier, Gay Lussac, Boyle, Mariotte e Avogadro, si arrivò man mano alle applicazioni dei nostri giorni, quando l'abnorme crescita dei consumi collettivi, ha prodotto un grado di inquinamento chimico che, in modo diretto, o mediato, rischia di estinguere la vita sul pianeta terra. E. Goldsmith (1997) ci ricorda che “il progresso è antievolutivo e anti-Via che serve a sconvolgere l’ordine cruciale dell’ecosfera e a ridurne la stabilità”, mentre T. Roszak asserisce che “noi non siamo caduti tra le braccia di Gog e Magog: vi siamo progrediti”. J. Dorst (1990) a proposito dello sviluppo della scienza ci ricorda che “Di questa immensa e ingenua fiducia si è crudelmente abusato. La scienza non ha impedito le guerre, le violenze, le ingiustizie: le ha anzi rese più acute. I vantaggi da essa procurati sembrano controbilanciati dagli inconvenienti. Ogni progresso sembra farsi ripagare, talvolta dispendiosamente, con svantaggi ancora maggiori. La fisica delle particelle ci ha istruito sulla struttura della materia: noi ne abbiamo approfittato per creare l’arma nucleare. La chimica ha permesso di sintetizzare sostanze fino ad allora sconosciute e di proteggere le coltivazioni dagli attacchi dei predatori: ma noi abbiamo inquinato le terre, i mari e i fiumi riversando prodotti indistruttibili, generatori di problemi....”. Basta fare un’altra semplice riflessione: la grande foresta nordica, la Taiga, una volta al riparo dell’azione distruttrice dell’uomo grazie al suo isolamento geografico e ai rigori del suo clima, sta incominciando a vedere la caduta massiccia al suolo dei suoi giganti, al pari di quelli dell’Amazzonia, giacché la dilagante tecnologia produce macchine capaci di lavorare in quelle zone, con quel clima. Esordisce Kaczynskj nel suo manifesto (1997): “La rivoluzione industriale e le sue conseguenze sono state un disastro per la razza umana. Esse hanno incrementato a dismisura l’aspettativa della vita di coloro che vivono in paesi ‘sviluppati’ ma hanno destabilizzato la società, reso la vita insignificante, assoggettato gli esseri umani a trattamenti indegni, diffuso sofferenze psicologiche, inflitto danni notevoli al mondo naturale..... “. Scrive Dalla Casa (1996): “Il concetto di progresso è invenzione dell’Occidente per distruggere le altre culture umane e restare l’unica cultura del Pianeta: ha senso solo se si prende a riferimento una particolare scala di valori, che è sempre relativa ed arbitraria.

Il termine ‘sviluppo’ significa in realtà il grado di sopraffazione della nostra specie sulle altre specie e della civiltà industriale sulle altre culture umane”. Incalza Charles Russel (in Devall & Sessions, 1989): “Un pionere è un uomo che giunge in una terra vergine, cattura con le trappole tutte le bestie da pellicccia, uccide tutta la selvaggina, estirpa le radici (...). Un pioniere distrugge le cose e chiama questo civiltà”.

Konrad Lorenz (1984) asseriva che l’evoluzione non è di necessità finalizzata a un concetto di “meglio”, i meccanismi di adattamento non si identificano nelle idealizzazioni dell’uomo. L’attuale spinta evolutiva verso la tecnocrazia è una corsa verso il declino. “La società tecnologica estrania gli uomini non solo dal resto della natura, ma anche da se stessi e dagli altri; genera necessariamente finalità e valori distruttivi capaci spesso di compromettere l’interazione fra collettività salde e vitali e il mondo naturale.

La visione tecnologica del mondo ha come immagine ultima la totale conquista e il dominio della natura e dei processi naturali spontanei - l’immagine di un ‘ambiente totalmente artificiale’ rimodellato in base a norme umane e gestito dall’uomo per l’uomo” (Devall & Sessions, 1989).

E’ bene riflettere su quanto scrive Dalla Casa (1996): ” Il quadro concettuale dominante nella cultura europea fino al Seicento aveva tutte le premesse per iniziare una sistematica distruzione della Natura, ma mancava ancora qualcosa: il potere tecnico.

La spinta decisiva per entrare in possesso di tale potere è venuta dalla diffusione del pensiero di Cartesio, Bacone, Locke ed alcuni altri e dalla sistemazione delle scienze fisiche ad opera di Newton. La causa principale sono state le idee di Cartesio.

Quando le concezioni del pensatore francese, forse anche sull’onda di alcune felici intuizioni matematiche, si sono fatte strada nelle menti dell’Occidente, ecco formarsi il più espansivo e distruttivo modello culturale mai apparso sul Pianeta: la civiltà industriale.

E con essa è scoppiato il dramma ecologico”.

L’aberrante visione antropocentrica di Cartesio prende le mosse dalla sua netta distinzione tra “spirito” e “materia”. Solo l’uomo ha “il possesso” dello spirito, quindi tutto il resto, materia inerte, è a sua completa disposizione, forte anche dell’idea biblica “di separazione fra la nostra specie, protagonista, e il mondo, palcoscenico fatto per noi” (Dalla Casa, 1996). Tutto il mondo naturale vivente o non vivente è una sorta di grande macchina che si muove solamente sotto impulsi meccanici e metodici (gli animali per esempio sono solo degli automi che non provano alcuna sensazione o dolore). Al pensiero di Cartesio si associa quello di Locke, proteso, senza alcun rimorso, alla manipolazione, al controllo ed alla distruzione del mondo naturale. Completa il quadro Bacone che vede nel dominio della natura l’unica vera “missione” dell’uomo. Altri autori di rilievo ebbero invece una visione ben diversa delle cose (p. e. Leibniz), ma le loro filosofie non riuscirono ad imporsi come quella di Cartesio che invece divenne la colonna portante di tutto “lo sviluppo” occidentale (Dalla Casa, 1996). Sulla neutralità della scienza dinanzi alle concezioni metafisiche annota con acutezza Dalla Casa (1996): “La scienza ufficiale ricorre spesso a vere acrobazie intellettuali pur di non uscire dal paradigma cartesiano, che considera ‘ovvio’ ed ‘acquisito’. Così si trova in vie senza uscita, ed a volte è costretta a negare o a non considerare i fatti non inquadrabili in quello schema concettuale, pur di non mettere in discussione le premesse: e allora deve far sparire intere categorie di fenomeni di interferenza mascroscopica, o non-distinguibilità, fra spirito e materia, con la scusa che non sarebbero ‘ripetibili’”.

Scrive ancora Della Casa (1996): “Così l’umanità, la sola ad essere anche spirito, poteva fare ciò che voleva della natura, che sarebbe stata materia: questa idea ha aggravato il preesistente ‘diritto divino’. Con il materialismo, ultimo figlio dell’Occidente, cambia ben poco: materia contro materia, vince il più forte, che a suo piacimento può conservare pezzi di ‘natura originaria’ per allietarsi la vita: questa è l’ecologia di superficie”.

A proposito dell’intervento della tecnologia per il superamento dei problemi ambientali scrivono Devall & Sessions (1989): “Chi pratica la resistenza ecologica non accetta che esistano solo soluzioni puramente tecniche a problemi sociali in modo riduttivo (come l’inquinamento atmosferico). Questi problemi non sono altro che sintomi di questioni più ampie. Le soluzioni tecnocratiche presentano tre grandi pericoli. Il primo sta nel credere che far ricorso all’ideologia dominante e alla tecnologia sia l’unica soluzione accettabile. Il secondo pericolo è l’impressione che si stia facendo qualcosa mentre di fatto il problema reale continua a sussistere: aggiustare alla meglio distoglie dal ‘vero lavoro’. Infine c’è il pericolo di credere che nuovi esperti - come gli ecologi professionisti - possano trovare la soluzione al problema, mentre c’è il rischio che diventino gli addetti alle pubbliche relazioni di imprese ed enti con l’unico obiettivo di ottenere potere e profitto”.

Integra il discorso R. Galli (in Gamba & Martignitti, 1995): “Tra i prodotti dell’intelligenza e dell’attività umana la tecnologia è sicuramente quello che più di ogni altro è considerato responsabile del progressivo deterioramento del rapporto tra uomo e ambiente. All’impiego diffuso e persuasivo della tecnologia si attribuiscono infatti, in primo luogo,  i grandi mutamenti che l’uomo ha prodotto nel mondo naturale; non a caso per indicare il nuovo ambiente che ne è risultato è stato coniato il termine di tecnosfera. La storia della costruzione della tecnosfera si confonde con la storia dello sviluppo tecnologico ed entrambe con quella dell’emergere della questione ambientale......”.

La società contemporanea non è impostata sulla sobrietà e sull’equilibrio stazionario, ma sul consumo e sullo spreco delle risorse, in netta antitesi con la dinamica degli elementi naturali. Anche l’ex presidente degli Stati Uniti d’America (Clinton), simbolo dell’opulenza, dell’occidentalismo e del consumismo (gli americani sono il 5% della popolazione mondiale e consumano come il 35% - Storer et al., 1984), il 27 giugno 1997 in una dichiarazione alle Nazioni Unite ha asserito che la terra è in allarme rosso, sull’orlo di una crisi ambientale irreversibile. Ma poiché le questioni ambientali sono solo “formali” e non sostanziali, da simili discorsi non segue mai nulla di concreto e di esecutivo ma solo promesse di cambiamenti, parametri ipotetici da rispettare e così via (si veda anche la totale apatia e disattenzione verso i vari protocolli volti a ridurre l’impatto inquinante dell’uomo). Nessun intervento radicale e rivoluzionario viene sostenuto anche se siamo in allarme rosso: “l’Occidente è una nave che sta colando a picco, la cui falla è ignorata da tutti. Ma tutti si danno da fare per rendere il viaggio più confortevole” (E. Severino). Gary Snyder (1992) ci ricorda che “Se cercassimo davvero di insegnare loro i valori della civiltà occidentale.....non faremmo che vendere l’ideologia dell’individualismo, dell’unicità umana, della speciale dignità umana, dell’illimitato potenziale dell’Uomo, della gloria che arride al successo...... Dopo il protestantesimo, il capitalismo e la conquista del mondo, tutto sommato è forse questo il punto di arrivo della cultura occidentale”. Doug Peacock (da Snyder, 1992) riassume la cultura occidentale con tre assunti “Introversione ebraica, narcisismo greco, dominio cristiano”. Kaczynskj nel suo manifesto ci ricorda (1997): “Solo con la rivoluzione industriale l’effetto della società umana sulla natura divenne veramente devastante. Per alleviare la pressione sulla natura non è necessario creare un tipo particolare di sistema sociale; occorre solo liberarsi della società industriale. Ma anche quando questo principio fosse accettato esso non risolverebbe tutti i problemi. La società industriale ha recato inoltre un tremendo danno alla natura e passerà molto tempo prima di poterne curare le ferite. Persino le società preindustriali possono arrecare danni significativi alla natura. Nondimeno, liberarsi della società industriale realizzerà un grande progetto. Alleggerirà, nei suoi aspetti più devastanti, la pressione sulla natura così da poter rimarginare le sue ferite. Toglierà alle società organizzate la capacità di aumentare il loro controllo sulla natura (inclusa quella umana). Qualunque tipo di società possa esistere dopo il decesso del sistema industriale è certo che la maggior parte delle persone vivrà vicino alla natura, perché in assenza di tecnologia avanzata non vi è altro modo in cui la gente possa sopravvivere. Per alimentarsi dovranno tornare a essere contadini, pastori, pescatori, cacciatori, ecc. E, in generale, l’autonomia locale dovrà tornare a svolgere un ruolo significativo perché la mancanza di una tecnologia avanzata e di comunicazioni rapide limiteranno la capacità dei governi o delle altre grandi organizzazioni di controllare le comunità locali”.

Anche J. Dorst che è certamente un uomo di scienza e uno strenue difensore della ricerca scientifica sente la necessità di allarmare il mondo, attraverso le sue opere, per il profondo impatto ecologico che l’uomo riversa sull’intero pianeta. Scrive infatti (1990): “La civiltà industriale, spinta fino all’assurdo, sembra così portare in sé i germi della propria distruzione. La sua accelerazione prodigiosa fino al parossismo costituisce un esempio tipico di un fenomeno ben conosciuto dai biologi che studiano l’evoluzione delle stirpi animali. Una caratteristica apparsa con modestia si sviluppa progressivamente favorendo sempre più l’animale; la sua ulteriore esagerazione le fa presto superare i limiti della nocività: essa diventa allora contraria agli interessi stessi della specie, non avendo più alcun valore di adattamento. Molte specie sono sparite, nel corso delle ere geologiche, in seguito allo sviluppo mostruoso di una dello loro caratteristiche. Ciò che è vero per un animale lo è altrettanto per civiltà che hanno creduto per un momento che la loro crescita irragionevole fosse sinonimo di potenza e che sono sparite bruscamente, vittime del loro gigantismo........ Non si pensi dunque con distacco  alle culture che sono crollate con il passare dei secoli: la salute della nostra civiltà, così complessa e per questo stesso motivo così fragile, è una pura apparenza. I sintomi, il cui elenco si allunga continuamente, ce lo ripetono con insistenza”.

E’ fuori dubbio che alcune scoperte della scienza ci hanno portato dei vantaggi e del “benessere”, almeno per lo stile di vita contemporaneo (si pensi al campo medico, farmacologico, meccanico o ingegneristico), nè si può obiettare alcunché alla lunga lista di  “utilità” che, almeno in apparenza, la scienza ci offre (almeno per coloro che ci credono!). Questo però non dà la licenza ad una fede cieca ed acritica nei riguardi della ricerca scientifica e dell’operato degli addetti ai lavori. Non può certamente farsi di tutta un’erba un fascio ma occorre uscire fuori dagli schemi della mente contemporanea che par muoversi solo sotto gli impulsi del razionalismo e del meccanicismo. Scrive Bates (1970): “Mi sembra inutile, arrivati a questo punto, tentare di compilare una lista dei vantaggi specifici venuti alla civiltà da queste applicazioni della scienza, dato che i vantaggi, la “utilità della scienza” sono stati adeguatamente messi in risalto da tutti coloro che si sono presi il compito di “divulgare” la scienza..........

I vantaggi sono reali, ma mi domando se sono così grandi come i nostri divulgatori ci vorrebbero far credere....... L’intero concetto di progresso è qualche cosa che si è insinuato nella nostra mente con l’avvento e lo sviluppo della scienza, cosicché diviene difficile per gli scienziati sfuggire completamente al compito e alla responsabilità di determinarne la direzione e la velocità......

Soprattutto negli ultimi secoli siamo sfuggiti ai meccanismi che mantengono l’equilibrio e i rapporti nella comunità biotica. Siamo andati a briglia sciolta, come un’erbaccia introdotta in un nuovo continente. Abbiamo conservato il tasso di natalità a cui si era adattata la specie nella sua evoluzione attraverso la vita selvaggia del Pleistocene, e contemporaneamente abbiamo alterato radicalmente la natura e l’incidenza dei fattori che provocano la morte. Il risultato è una densità di popolazione che va al di là di ogni ragione, di qualsiasi possibilità di sostentamento, e non si vede ancora la fine”.

Sulla responsabilità morale della scienza moderna Hosle (1992) evidenzia che “Se paragoniamo il sapere biologico del nostro tempo con quello di Aristotele, il progresso è incommensurabile; ma se paragoniamo la sua consapevolezza della necessità dell’integrazione degli esseri viventi nella totalità dell’essere con il rifiuto da parte della moderna scienza della natura di riflettere sulle premesse filosofiche del proprio operato, allora ci assale il dubbio se questa evoluzione possa essere definita sotto tutti i rispetti come progresso; e per concludere, verrebbe voglia di parlare di decadenza se si paragonasse il senso di responsabilità morale proprio della scienza antica con il rifiuto, anzi con l’incapacità dello scienziato moderno di rispondere sul piano morale delle vaste conseguenze del proprio operato......

Son ben lontano da voler idealizzare il passato......; ma l’uomo non aveva il potere che oggi è nelle sue mani. E’ la sproporzione tra potere e saggezza che dà motivo di preoccupazione; e dal punto di vista storico questa sproporzione non può che coincidere con uno sviluppo del potere dell’uomo sulla natura quale soltanto la società industriale può consentire”.

Tornando ancora al manifesto di Kaczynskj (1997): “Immaginiamo un alcolizzato di fronte a una botte di vino. Immaginiamo che egli cominci col dire a sé stesso: ‘Il vino non ti fa danno se usato con moderazione. Perché, dicono, le piccole dosi di vino ti fanno persino bene! Non mi farà alcun male sorseggiarne un po’’. Sappiamo bene come va a finire. Non dimenticare che la razza umana rispetto alla tecnologia è un alcolizzato di fronte a una botte di vino”.

Concludiamo il paragrafo con una profonda riflessione di Fukuoka (2001): “L’uomo si vanta di essere l’unica creatura con la capacità di pensare. Pretende di conoscere se stesso e il mondo naturale, e crede di poter usare la natura a proprio piacimento. E’anche convinto che intelligenza sia sinonimo di forza e che qualsiasi cosa lui desideri sia alla sua portata.

L’umanità, evolvendosi, compiendo progressi nella scienza e ampliando smisuratamente la sua cultura materialistica, si è via via allontanata dalla natura ed è finita per costruirsi una civiltà propria, come un bambino capriccioso che si ribella alla madre. Tuttavia queste frenetiche attività, queste città gigantesche, hanno portato l’uomo verso gioie vuote e disumanizzate, verso la distruzione del proprio ambiente, mediante lo sfruttamento indiscriminato della natura. La dura punizione per esserci allontanati dalla natura e averla depredata delle sue ricchezze, si è manifestata con l’impoverimento delle risorse naturali e alimentari, gettando un’ombra oscura sul futuro del genere umano. Dopo aver aperto gli occhi sulla gravità della situazione, l’uomo ha finalmente cominciato a considerare il da farsi, ma, a meno che non sia disposto a un serio esame di coscienza, non potrà fare a meno di seguitare sulla via della totale rovina.

Estraniatosi dalla natura, l’esistenza umana diventa vana, la sorgente vitale e la crescita spirituale si inaridiscono. L’uomo si ammala e si indebolisce sempre di più a causa della sua strana civiltà che altro non è se non una inutile lotta per un frammento di tempo e di spazio”.

Il concetto che i processi mentali siano superiori nell’ambito umano è un’argomentazione del tutto pretestuosa, spocchiosa e che sa tanto di un ennesimo accentramento antropocentrico. Goldsmith (1997) ci chiarisce bene il concetto: “L’idea che i processi mentali dell’uomo siano categoricamente distinti da quelli di altri animali è un’assunzione gratuita che non si basa su nessuna conoscenza valida di alcun tipo. In particolare, è gratuito sostenere, come fa attualmente la scienza ufficiale, che solo gli esseri umani siano ‘intelligenti’ - tanto più che il termine non è mai stato definito in modo soddisfacente. Dichiaratamente, abbiamo dei test d’intelligenza, ma, come osserva Herrick, ‘non sappiamo esattamente che cosa misurino’. Alcuni autori, tra i quali Ashis Nandy, sostengono che l’intelligenza è poco più che ‘ciò che è misurato dai test d’intelligenza’”.

sabato 29 maggio 2021

La zootecnia/agricoltura e il veganesimo

Wild Nahani


Illustrazione di Elzbieta Mielczarek

NB. Testo tratto dal libo "L'uomo naturale"


La trasformazione di prodotti vegetali in prodotti animali ha un rendimento medio di circa il 10% causando quindi uno spreco energetico del 90%. L’alimentazione vegana, che con la dieta carnea sta in rapporto di 10 : 1, è dunque una pratica che la società moderna deve obbligatoriamente intraprendere. Secondo accurati studi è emerso che circa i quattro quinti della parte coltivata del pianeta è usata per alimentare gli animali e per produrre un chilo di proteine animali occorrono sette chili di quelle vegetali con un dispendio energetico, come abbiamo poc’ànzi visto, del 90%. Inoltre, l’allevamento intensivo del bestiame, determina gravi danni all’ambiente (inquinamento e consumo di enormi quantità di acqua, disboscamento, ecc.), un enorme crudeltà verso gli animali e  profondi squilibri. Se invece si coltivassero le terre solo per l’alimentazione diretta dell’uomo, l’attuale superficie agricola basterebbe a sfamare una popolazione molto più consistente dell’attuale fornendo un nutrimento più rapido ed economico (meno animali, meno degrado, più cibo per gli uomini - Battaglia, in Gamba & Martignitti, 1995).

A rafforzare poi l’idea del veganesimo, non è solo la positiva valenza ecologica che tale pratica possiede, ma anche l’assurda struttura che ha assunto la zootecnia nei Paesi industrializzati. Vitelli ingrassati forzatamente costretti a vivere legati ad una cortissima catena e privati di importanti nutritivi (ferro) per favorire la produzione di un certo tipo di carne; suini tenuti a migliaia in pochi centinaia di metri quadrati soggetti a intensissimo stress; migliaia di polli stipati come sardine in gabbie metalliche; oche alimentate forzatamente per favorire lo sviluppo abnorme del proprio fegato; ecc. In questa situazione allucinante, per far fronte ad un precario stato sanitario che inevitabilmente viene a crearsi e per stimolare la “produttività” degli animali, si impiegano massiccie dosi di sostanze chimiche altamente destabilizzanti (antibiotici, ormoni, additivi, ecc.). Negli ultimi anni, nel colmo del paradosso produttivistico, si è arrivato a somministrare mangimi con proteine animali ai bovini, notoriamente “vegetariani” (con il conseguente fenomeno della BSE)! A monte di tutto giace la logica del profitto e del disprezzo degli altri esseri viventi. La scelta vegana allora, avrà una duplice veste: ecologica ed etica. Ma se la seconda, cioè quella etica, sarà motivo di scelta solo dei più sensibili al drammatico stato del bestiame allevato, la prima, quella ecologica, dovrà essere un’obbligo della società dell’immediato futuro. Ma poiché i governi mondiali cercheranno di allungare i tempi per una tale decisione, starà al singolo cittadino intraprendere una tale scelta, anche graduale, poiché una sensibile riduzione dell’alimentazione carnea darà certamente i suoi effetti positivi sull’ambiente e sulla stessa salute del consumatore. “Anche le moderne industrie zootecniche e ittiche presentano delle gravi pecche. Tutti sono d’accordo nell’affermare che allevando polli, bestiame e pesci il nostro modo di alimentarci migliora, ma nessuno sospetta minimamente che la produzione di carne potrebbe danneggiare la terra e l’allevamento ittico potrebbe inquinare i mari. In termini di produzione e consumo calorico, qualcuno dovrà lavorare il doppio se vuole nutrirsi di uova e latte, piuttosto che di cereali e ortaggi. Se vuole mangiare della carne, dovrà lavorare sette volte di più. A causa della scarsa resa energetica, l’allevamento moderno non può essere considerato ‘produzione’ in senso letterale. Infatti, l’effettivo rendimento energetico si è ridotto a tal punto, e lavoro e fatica umani sono arrivati a un tale livello, che l’uomo sta perfino considerando la possibilità di incrementare l’efficienza della produzione zootecnica mediante l’allevamento di razze geneticamente migliorate” (Fukuoka, 2001).

L’uomo all’origine era carnivoro solo occasionalmente, dando prevalenza ad una alimentazione sostanzialmente frugivora. L’analisi del suo aspetto fisico ne conferma il fatto: dentatura priva dei grossi canini, mancanza di unghie offensive e un lungo intestino. Il carnivoro, di converso, ha un intestino molto corto (per non assorbire le tossine della carne), grossi ed acuminati canini per lacerare la carne ed unghia per ferire. La struttura dell’intestino umano consente, vista la sua lunghezza, l’assorbimento di tutte le sostanze tossiche della carne, e causa, per chi ne fa un uso eccessivo, l’insorgere di numerose malattie degenerative tra cui il cancro.

Non dimentichiamoci poi, solo per fare un breve cenno, alle gravissime manipolazioni genetiche che si vogliono, o meglio già si stanno già attuando, sia sugli animali che sui prodotti agricoli (i cosiddetti OGM, ovvero organismi geneticamente modificati) con la scusa che daranno il cibo per tutti gli esseri umani (si creeranno per esempio animali con crescite ultra-rapide e di dimensioni superiori) e saranno immuni da particolari parassitosi e così via. Questo senza pensare che un’agricoltura geneticamente manipolata porterà incalcolabili effetti devastanti anche sul mondo selvatico con contaminazioni che non si riescono nemmeno ad immaginare. Una semplice recente dato, per citarne solo uno, riferisce che 60 pesci OGM sono sufficienti a far estinguere un branco di 60 mila “normali” (Mochi C., 2001). Non parliamo ovviamente cosa accadrà alle persone che si alimenteranno di questi prodotti (agricoli o di origine animali) e non è una visione pessimista se si afferma che prima o poi tutti si alimenteranno di questi “nuovi” prodotti”. Situazioni similari del passato, anche di altri settori, ci forniscono fin troppe certezze.

Un solo breve passaggio è poi utile riportare per rendersi ancor più conto delle follie che l’uomo moderno ha partorito. Con l’avvento dell’agricoltura chimica che massivamente ha inquinato insieme all’industria il pianeta terra, i prodotti del suolo sono diventati sempre più dei prodotti per così dire simili a sostanze di “sintesi chimica” sempre meno ricchi di elementi nutritivi ed organolettici e sempre più opulenti di veleni e alterazioni profonde. Poi una delle scene “più comiche” viene dall’improvviso risveglio dell’uomo che, un po’ consapevole della via intrapresa, cerca di correggere il tiro per produrre alimenti agricoli cosiddetti “biologici”. Cioè quello che si è fatto per migliaia di anni in agricoltura e poi spazzato via dalla chimica ora si cerca di farlo ritornare sul piatto. Una semplice seduta psicanalitica farebbe dire al medico che il paziente soffre di una vera e propria mancanza di memoria, di una totale dimenticanza dal sano ragionare. Aveva dimenticato ciò che sapeva fare molto bene e che aveva sperimentato per centinaia di generazioni. Poi, ed ecco lo smemoramento, improvvisamente ha preferito praticare la via dell’avvelenamento, in netto contrasto con ciò che di buono poteva offrire la madre terra. Ma la troppa intossicazione forse ha risvegliato un po’ il paziente ed ha ricominciato a riprendere a piccolissimi passi una parte della via maestra anche perché tra l’altro vuole pure disintossicarsi. Fuori della metafora si può dire che il futuro ci darà qualche risposta in tal senso anche se nel concreto le prospettive non sembrano affatto buone.  

“Nella società odierna, l’uomo è avulso dalla natura e la conoscenza umana è arbitraria. Per fare un esempio, supponiamo che uno scienziato voglia comprendere la natura. Potrebbe iniziare con lo studio di una foglia, ma poi le sue ricerche proseguirebbero inevitabilmente nell’analisi delle molecole, degli atomi e delle particelle subatomiche, perdendo di vista la foglia originaria.

Gli studi sulla fissione e sulla fusione nucleari sono oggi il campo di ricerca più dinamico e all’avanguardia e, con lo sviluppo dell’ingegneria genetica, l’uomo ha acquistato la capacità di modificare la vita a proprio piacimento: autonominatosi sostituto di Dio, egli si è impadronito di una sorta di terribile bacchetta magica.

E cosa potrebbe voler sperimentare l’uomo nel campo dell’agricoltura? Probabilmente intende cominciare con la creazione di curiose piante ottenute mediante la ricombinazione genetica interspecifica. Non dovrebbe essere difficile realizzare gigantesche varietà di riso. Gli alberi verranno incrociati con il bambù e le melanzane cresceranno sulle piante dei cetrioli. Sarà persino possibile far maturare i pomodori sugli alberi. Trapiantando poi geni delle piante leguminose nei pomodori o nel riso, gli scienziati produrranno pomodori contenenti rizobio, batterio che fissa l’azoto presente nell’aria. I pomodori e il riso così ottenuti non avranno più bisogno di fertilizzanti azotati: non c’è dubbio che i contadini prenderebbero al volo una simile occasione. L’ingegneria genetica verrà sicuramente applicata anche agli insetti. Se verranno creati ibridi come mosche-api o farfalle-libellule, non saranno più in grado di distinguere gli insetti benefici da quelli nocivi. Proprio come la formica regina non produce altro che formiche operaie, anche l’uomo cercherà di creare qualsiasi insetto o animale possa tornargli utile. Alla fine le cose potrebbero arrivare al punto di creare ibridi di volpi e procioni da mostrare allo zoo e potremmo vedere addirittura umani-vegetali o umani-macchina creati solo per lavorare. Le creature più ridicole, se realizzate in nome del progresso della medicina, diciamo, riceveranno il consenso e il plauso generale…..” (Fukuoka, 2001).

Questi ultimi esempi dimostrano per l’ennesima volta ciò che è l’uomo: un essere semplicemente spregevole (per usare una terminologia ”diplomatica”) che mostra ancora una volta la sua vera immagine senza la maschera della propria falsa moralità ed etica. Ed egli ci apparirà finalmente così com’è: senza volto!

Riportiamo ancora qualche passo molto acuto di Fukuoka (2001) che ci illuminerà ancor meglio sull’agricoltura “scientifica” contemporanea e sul declino dell’uomo per aver intrapreso una via sbagliata. “Spesso parliamo di ‘produrre cibo’, ma i contadini non producono il cibo della vita. Soltanto la natura ha la capacità di creare qualcosa dal nulla e gli agricoltori possono esclusivamente farle da assistenti. L’agricoltura moderna è solo un’industria di trasformazione che impiega energia derivata dal petrolio sotto forma di fertilizzanti, pesticidi e macchinari per fabbricare prodotti alimentari sintetici che non sono altro che imitazioni scadenti del cibo naturale.

L’agricoltore oggi è diventato un mercenario della società industrializzata. Egli cerca, senza successo, di arricchirsi coltivando con l’ausilio di sostanze chimiche, un’impresa che metterebbe a dura prova anche la Dea della Misericordia dalle Mille Mani. L’agricoltura naturale, autentica e originale forma di coltivazione, rappresenta il metodo ‘senza metodo’ della natura, la strada immutabile di Bodidarma. Sebbene possa sembrare fragile e vulnerabile, è in realtà un metodo molto potente perché porta alla vittoria senza aver combattuto; è un metodo buddhista di coltivazione che si rivela molto fruttuoso senza danneggiare il terreno, le piante e gli insetti……… L’obiettivo dell’agricoltura naturale e la non-azione e il ritorno alla natura. E’ un movimento centripeto e convergente. Al contrario, l’agricoltura scientifica si allontana dalla natura seguendo i capricci e i desideri dell’uomo, con un movimento centrifugo e divergente. Dato che questo movimento di espansione verso l’esterno non può essere fermato, l’agricoltura scientifica è condannata all’estinzione…… L’umanità ha abbandonato la natura e solo di recente ha cominciato a rendersi conto, con crescente inquietudine, della sua pietosa condizione di orfana dell’universo. Eppure, anche quando l’uomo si sforza di tornare alla natura, scopre di non sapere più cosa essa sia e che, per di più, egli ha distrutto e perso per sempre la natura cui tenta invano di tornare…….. Per raggiungere un’umanità e una società fondata sulla ‘non-azione’, l’uomo deve rivedere tutto ciò che ha fatto in passato e liberarsi via via di tutti i falsi concetti di cui sono imbevuti lui e la sua società. Questo è il momento della ‘non-azione’. L’agricoltura naturale può essere considerata un settore di questo movimento. La conoscenza e le fatiche umane si espandono diventando inutili e complesse. Dobbiamo arrestare questa espansione, convertire, semplificare e ridurre i nostri sforzi e la nostra conoscenza per mantenerci in armonia con le leggi della natura. L’agricoltura naturale è più di una semplice innovazione nell’ambito delle tecniche agricole; è l’elemento base pratico di un movimento spirituale, di una rivoluzione tesa a cambiare il modo di vivere umano”. A proposito della distruzione e della deleteria contaminazione degli ambienti a causa dell’impiego dei pesticidi vorremmo concludere il paragrafo con le indimenticabili, ammonitrici e realmente tristi parole di Rachel Carson (1963):“C’era una strana quiete. Gli uccelli, ad esempio, dove erano andati ? ... Fu una primavera senza voci. Il mattino che all’alba vibrava del coro di tordi, uccelli gatto, colombi, ghiandaie, scriccioli e di tutta una serie di altre voci, adesso non riecheggiava di alcun suono; sui campi, sui boschi e sulle paludi aleggiava solo il silenzio”.

 

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La FAO dopo una specifica ricerca ha pubblicato uno studio in cui sostiene che se tutti fossero vegani non ci sarebbe più il grave problema della fame nel mondo!!


- E' scientificamente dimostrato che la dieta vegana (vedi capitolo seguente) riduce l'impatto ambientale di oltre il 50%!


- L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha stimato che il superamento dei vegetariani/vegani sugli onnivori avverrà nel 2050 in funzione della massa critica!!


- Si ricorda che nel mondo ci sono oltre 800 milioni di vegetariani/vegani (il 90% concentrati nei paesi orientali, influenzati dalla scelta anche dalle varie religioni che non consentono l'utilizzo di animali per l'alimentazione). Nei paesi occidentali, Italia compresa, il fenomeno è in forte crescita tanto da interessare molti milioni di persone.

giovedì 29 aprile 2021

La fisiocrazia

Wild Nahani


Illustrazione di Elzbieta Mielczarek

NB. Testo tratto dal libo "L'uomo naturale"


“Figlio mio, sappi che nessuno ti aiuterà in questo mondo... Devi correre fino a quella montagna e tornare indietro. Questo ti renderà più forte. Figlio mio, sappi che nessuno ti è amico, nemmeno tua sorella, tuo padre o tua madre. Le tue gambe, le tue mani, il tuo cervello, questi sono i tuoi amici. Devi farcela con loro” (Una vita da Apache di Morris Opler in Mears, 1991).

Per la produzione della “ricchezza” economica nell’ambito umano, l’unico processo ispiratore dovrebbe essere quello naturale. Infatti, rifacendoci ai fisiocrati, ricordiamo che l’agricoltura è l’unica attività economica che fornisce un prodotto netto, in quanto al termine del processo si raccoglie più di quanto si è seminato (Bresso, in Gamba & Martignitti, 1995). I settori “sterili” (industria e terziario) sono invece solo in grado di aumentare il valore della materia prima ma non della sua quantità fisica (Bresso, in Gamba & Martignitti, 1995). Un’economia strutturata razionalmente e che abbia a cuore le sorti del pianeta terra e dell’uomo stesso, non può pertanto prescindere dal modello produttivo della biocenosi. Infatti il prodotto netto pocànzi accennato, non è il risultato di qualcosa di astratto, ma è il frutto del “lavoro” che la fitocenosi svolge grazie alla fotosintesi (Bresso, in Gamba & Martignitti, 1995). L’economia naturale quindi è un sistema a ciclo chiuso che preleva dall’esterno solamente l’energia del sole. In maniera analoga anche l’economia umana deve chiudere i propri cicli (Bresso, in Gamba & Martignitti, 1995). Dal pensiero degli indiani del Nordamerica:“Il cerchio della Vita della Creazione è senza fine. Vediamo le stagioni andare e venire. E la Vita Fluire sempre nella Vita. Il bambino diventa genitore. Il genitore diventa il nostro rispettato avo. La vita è sacra. E’ bello farne parte. Tutte le cose sono un cerchio. Ognuno di noi è responsabile delle sue azioni. Esse vedranno il loro ritorno di energia” (Betty Laverdure, Ojibwa - in AA. VV., 1995). Ma per la riaffermazione di un tale processo è fondamentale rivedere il modello di sviluppo e le esigenze del singolo cittadino. Sin quando la società contemporanea rimarrà ancorata al possesso eccessivo dei beni, al consumismo, allo sfruttamento insensato delle risorse, alla produzione dell’inutile, ecc. non sarà possibile reimpostare un modello produttivo secondo principi naturali e quindi fisiocratici. “Come può essere politico un filo di paglia? E’ una domanda che sembrerà ridicola a un sacco di gente. Uomini, donne, vecchi, milioni di individui avidi o disgustati, eccitati o arrabbiati, ma tutti colpiti e legati al carro della storia, del capitale, delle grandi masse, dell’oppressione...

Borghesi, proletari, maschilisti, femministi, liberisti, socialisti, tutti in lotta per il potere. Il potere di un filo di paglia. no! e chi lo conosce? chi lo vede nemmeno un filo di paglia? Il potere è dei giornali, dei tribunali, dei laboratori scientifici, delle fabbriche, dei palazzi presidenziali e della tecnologia intellettuale, delle piazze.... delle maggioranze! Ma la libertà non abita questi luoghi, cresce e cammina sulle ali delle rondini che godono di volare, nel respiro di un ciuffo d’erba che comunica al mondo la sua pace, la sua trasparente umiltà. La libertà si nasconde dentro le correnti delle leggi di natura...... Ecco perché sono leggi discrete e per sentirle bisogna fare silenzio e mettere l’orecchio vicino, vicino: parlano con un lieve mormorio. Un mormorio che diventa rombo o boato in poche occasioni, ma per un diluvio universale quanti secoli di date di battaglie?

La politica del filo di paglia è fuori della storia, è contro la storia, è prima e dopo la storia. La rivoluzione del filo di paglia è possibile a ciascuno di noi, per scelta.

Per Fukuoka bastano 1000mq a persona per arrivare all’autossufficienza alimentare e se anche si dovessero ritoccare le cifre, il potere di questo pensare e lavorare ‘in piccolo’ sarebbe più forte sia ideologicamente che operativamente di qualsiasi partito od organizzazione eversiva e per di più gestibile solamente ‘dal basso’ senza lauree, né diplomi?

Perciò quella del filo di paglia è una via per abolire il capitalismo e appropriarsi dei mezzi di produzione senza passare per la stanza dei bottoni e in questo è veramente rivoluzionaria” (G. Pucci, in Fukuoka 1980). ”’Lo scopo vero dell’agricoltura’, dice Fukuoka, ‘non è far crescere i raccolti, ma la coltivazione e il perfezionamento degli esseri umani’. E parla dell’agricoltura come di una via: ‘Essere qui, prendendosi cura di un piccolo campo, in pieno possesso della libertà e pienezza di ogni giorno, quotidianamente: questa deve essere stata la via originaria dell’agricoltura’. Un’agricoltura completa nutre l’intera persona, corpo ed anima. Non si vive di solo pane” (W. Berry, in Fukuoka 1980).

“L’esagerazione dei desideri è la causa fondamentale che ha portato il mondo all’attuale situazione.

Presto, invece che piano; più, invece che meno: questo ‘sviluppo’ tutto apparente è legato in modo molto diretto all’incombente collasso della società. In pratica è servito soltanto a separare l’uomo dalla natura. L’umanità deve smettere di lasciasi andare al desiderio di possessi e guadagni materiali e muoversi invece verso una consapevolezza spirituale.

L’agricoltura deve passare dalle grandi attività meccanizzate a piccoli poderi basati soltanto sulla vita stessa. All’esistenza materiale e alla dieta alimentare si dovrebbe dare un posto semplice. Se si fa questo il lavoro diventa piacevole e lo spazio per il respiro spirituale abbondante.

Più il contadino ingrandisce la scala delle sue attività e più il suo corpo e spirito si disperdono e inoltre si allontana da un’esistenza moralmente soddisfacente. Una vita di agricoltura su piccola scala può apparire primitiva, ma vivendola diventa possibile contemplare la Grande Via (la via della luce di coscienza che implica l’attenzione e la cura per le attività ordinarie della vita di ogni giorno). Io credo che se uno entra a fondo nell’ambiente che lo circonda immediatamente e nel piccolo mondo di tutti i giorni in cui vive, il più grandi dei mondi si rivelerà.....

... Coltivare la terra una volta era un lavoro sacro. Quando l’umanità cominciò a decadere da questa condizione ideale, venne fuori la moderna agricoltura commerciale. Quando il contadino cominciò a coltivare i suoi raccolti per far soldi, dimenticò i veri fondamenti dell’agricoltura......

‘Se l’autunno porterà pioggia o vento non posso saperlo, ma so che oggi lavorerò nei campi’. Queste sono le parole di una vecchia canzone di campagna. Esprimono la verità dell’agricoltura come maniera di vivere. Non importa come sarà il raccolto, se ci sarà abbastanza da mangiare o meno, nel semplice fatto di gettare il seme e dedicarsi teneramente alle piante sotto la guida della natura, c’è la gioia” (Fukuoka, 1980).

Scrive Capra (1997): “Uno dei contrasti più evidenti tra economia ed ecologia trae  origine dal fatto che la Natura è ciclica, mentre i nostri sistemi industriali sono lineari. Le nostre imprese prendono le risorse, le trasformano ottenendo prodotti e rifiuti, e vendono i prodotti ai consumatori che, dopo averli consumati, producono altri rifiuti. Per essere sostenibili, gli schemi di produzione e consumo devono essere ciclici, imitando i processi ciclici presenti in natura. Per realizzare tali schemi ciclici dobbiamo riprogettare i nostri commerci e la nostra economia”.

Per concludere con Walt Whitman (da Foglie d’erba): “Ora scorgo il segreto della formazione delle persone migliori. E’ crescere all’aria aperta e mangiare e dormire sulla terra”.

Nei tempi degli OGM (organismi geneticamente modificati) l’attività agricola dell’uomo del terzo millennio appare come uno spaventoso mostro in grado di fagocitare l’intera vita sul pianeta di madre terra. Dire che sarebbe opportuno rifletterci bene e a lungo è praticamente cosa inutile perché nulla fermerà questa ennesima diavoleria di cui l’uomo ne ha firmate sin’ora fin troppe. La storia delle sue continue ed infinite degenerazioni ci sia di monito, ma alla fine ci farà solo osservare, impavidamente, il decorso della fine ultima.

lunedì 29 marzo 2021

L'anacronismo dell'attività venatoria nei tempi contemporanei

Wild Nahani 



NB. Testo tratto dal libo "L'uomo naturale"


“Il maggior atto di coraggio non è uccidere, ma lasciar vivere”


“Ogni uomo dovrebbe nel suo profondo portare al più alto livello il rispetto per ogni forma di vita” (Albert Schweitzer, ma affermato anche da tante altre personalità di spicco e da molte religioni, soprattutto orientali)


La società contemporanea ha raggiunto, nei Paesi cosiddetti sviluppati, un elevato grado di “benessere” grazie anche alla progressiva affermazione del ceto medio. La logica del profitto, forza trainante del sistema, determina una notevole produzione industriale e un conseguente inquinamento ambientale. Il cittadino, asservito alle categorie capitalistiche, attiva il turnover del consumo, alimentando la richiesta di elementi e il suo conseguente utilizzo. Lo scenario naturale, contenitore globale delle attività umane, subisce pesantemente l’aggressione capillare e penetrante del meccanismo. Deforestazione, inquinamento chimico, acustico e nucleare, antropizzazione del territorio, riduzione delle aree selvagge, addomesticamento dei luoghi, sovrappopolazione, non sono che alcuni esempi delle conseguenze di tale sistema vitale.

In uno scenario così drammatico e precario, si innesta l’attività venatoria. Praticata dall’uomo sin dalle epoche preistoriche, quando era raccoglitore/cacciatore, è andata via via perdendo la sua funzione di pratica di sostentamento, grazie anche all’avvento dell’agricoltura e della pastorizia. Allo stato attuale permane in quasi tutti i Paesi con soli intenti ricreativi, di reminiscenza passionale e, occasionalmente, come attività di riequilibrio e di selezione delle popolazioni di animali (per esempio ungulati – anche se il problema cinghiale è stato creato da reintroduzioni selvaggio degli scorsi anni da parte proprio dei cacciatori) disarmonizzate per la mancanza di predatori naturali eliminati o ridotti dall’uomo. Ma poniamoci a questo punto una domanda: è ancora lecito o meglio ha ancora senso praticare l’attività venatoria “sportiva” in un mondo ormai ecologicamente devastato e alterato? Se il concetto di caccia come attività di sostentamento e di equilibrio faunistico può avere un senso, non lo può certamente avere l’attuale realtà venatoria, soprattutto in certi Paesi (come per esempio l’Italia).

Molti cacciatori, giustamente, asseriscono che i danni inferti all’ambiente vengono da altra fonte (industria, agricoltura chimica, antropizzazione, stile di vita, pascolo eccessivo, ecc.), ma dimenticano di dire che quel poco che è stato casualmente risparmiato da quella “fonte” negativa, deve essere ora distrutto o disturbato da loro.

Una cosa è il concetto di caccia, come prelievo alimentare del selvatico praticato da chi ne ha necessità vitali, e una cosa è la caccia nella realtà odierna. Se è lecito il primo concetto non può esserlo il secondo.

Uomini “tecnologici”, che vivono in una società avanzata, all’improvviso imbracciano il fucile e, ricordando i tempi andati, si dichiarano protezionisti e vanno a esercitare il loro divertimento “turistico/sportivo” sparando su tutto ciò che si muove (e non). Un gran numero di “fucilieri”, in territori già di per se distrutti ed alterati (inquinamento, strade montane, disboscamento, cementificazione, antropizzazione, ecc.), anche dalla nostra semplice invadenza, aggrediscono quel poco di selvaggio che è rimasto, arrecando tra l’altro una notevole fonte di disturbo ambientale e verso la fauna. E’ vero che lo stesso vale per le orde dei turisti, degli alpinisti, degli sciatori, dei cementificatori, ecc., ma qui è la caccia ad essere “analizzata”.

Pensate se è giusto che in un’area naturale (p.e. un’area wilderness) fortunatamente salvaguardata dalle ingiurie dell’addomesticamento, della “valorizzazione” turistica o da altro oggetto inquinante, venga praticata l’attività venatoria per uccidere un animale selvatico che ha già i suoi problemi per sopravvivere (restringimento dell’habitat, disturbo, difficoltà ambientali, ecc.). Per non parlare del disturbo causato dal rastrellamento dei cani e dal rumore dei colpi di fucili. Ogni cacciatore vale, come impatto sul territorio, almeno il quadruplo rispetto al normale turista! Non accenniamo poi al “rischio” pubblico delle pallottole vaganti e all’inquinamento da piombo dei pallini. Qui non si vuole porre in risalto gli aspetti morali, pietistici o animalisti, ma solamente un’ennesima soggettività dell’uomo. Non si vuole condannare chi ancora oggi, in qualche parte della terra, caccia o pesca per sopravvivere, ma solamente quella frangia dell’umanità che per diletto e per “passione” va “atavicamente” a caccia. Escludiamo ovviamente, lo ribadiamo, l’esercizio venatorio quanto è svolto per riequilibrare popolazioni di animali fortemente incrementate dalla mancanza di predatori naturali, anche se questa pratica deve essere attuata con molta oculatezza e nelle forme “gravi”. Se poi caccia deve essere, occorre allora rinegoziare le regole di concessione per cercare di codificare un comportamento eticamente compatibile. In primo luogo, un vero cacciatore, deve rinunciare alle comodità tecnologiche moderne (fucili all’infrarosso o con mirino cannocchiale, ricetrasmittenti, ecc.), deve rinunciare a recarsi in montagna utilizzando le strade che lo portano fresco e riposato in alta quota e deve acquisire una profonda cultura ecologica rispettosa preminentemente del valore in sé della natura e dei precetti dell’ecologia profonda. Altro elemento importante deve essere quello che tutto il territorio è chiuso alla caccia e solo in alcune aree è consentita praticarla tra l’altro a rotazione. Il numero dei cacciatori poi, deve essere considerevolmente ristretto in giusto rapporto (alternanza annuale dei permessi) con l’estensione del territorio aperto all’attività venatoria. Le specie cacciabili (per lo meno in certi Paesi, come p.e. in Italia) saranno quindi solamente quelle che possono essere riprodotte in cattività e facilmente reimmettibili (p.e. lepri). Tuttavia, tale pratica (cioè la reimmissione stagionale di fauna) evidenzia il grave squilibrio ambientale di certi territori non più produttrici spontanei di fauna selvatica e quindi soggetti a reintroduzioni venatorie continue e forzate (molte sono infatti le controversie e gli effetti collaterali delle reimmissioni forzate di animali di dubbia provenienza). E’ più che evidente quindi il fallimento di una situazione del genere e conseguentemente di una attività venatoria definibile in termini più appropriati estremamente “artificiale” e senza senso.

Tornando a considerare la pratica venatoria nella realtà, occorre aggiungere che sono fin troppo evidenti le differenze che si rilevano tra i vari Paesi. Se in Scandinavia, per esempio, il cacciatore rispetta in genere le norme cui sottostare, si autoregolamenta e partecipa attivamente alla salvaguardia del territorio (ad eccezione dei Sami, gli allevatori di renne che, malgrado ne abbiano migliaia, quando trovano un lupo, pur se nei loro territori sono scarsi, non si fanno scrupoli a sparagli illegalmente, malgrado lo Stato in caso di perdita di un capo gli da un cospicuo rimborso in tempi brevissimi. Inoltre sia pure in forma notevolmente minore, abbattono illegalmente anche linci ed aquile reali. Purtroppo è questa l'ignobile mentalità degli allevatori/cacciatori!), in altri, di converso, regna il più assoluto vandalismo, la furbizia e l’ignoranza (vedasi, per esempio, il caso di Malta). Vigono ovviamente le dovute e a volte corpose eccezioni. Se i cacciatori, negli anni trascorsi, quando regnava la più totale anarchia venatoria, si fossero preoccupati di tutelare veramente il territorio e si fossero organizzati non solo per sparare liberamente alla fauna selvatica ma soprattutto per impostare una razionale difesa ambientale (cosa che loro dicono di fare), quando negli anni seguenti, l’opinione pubblica, le associazioni ambientaliste e i vari legislatori avrebbero proposto ridimensionamenti della caccia e avrebbero istituito nuove aree protette, i cacciatori, a quel punto, potevano orgogliosamente sbandierare i risultati da loro ottenuti per la salvaguardia ambientale, almeno per quei settori che gli competevano, ed opporsi al ridimensionamento della loro attività. Invece, all’atto della resa dei conti, anche se parziale, si sono trovati con il deserto alle spalle (uccisione dei rapaci, quasi estinzione del lupo e dell’orso, ecc.). Un vero “ambientalista” non lo è solo quando gli viene imposto dalla legge. I cacciatori hanno perso l’occasione propizia.

L’uomo contemporaneo, nella maggior parte delle accezioni, è completamente estraneo alla dialettica della natura. E’ dunque essenziale, a questo punto, considerare che i pochi luoghi naturali rimasti ancora tali, debbano essere totalmente preservati o per lo meno controllati al massimo, dagli “interventi” umani di qualsiasi natura: turismo, ricreazione, sviluppo, caccia, ecc. Non è possibile opporsi a coloro che sono antagonisti dell’attività venatoria affermando, per difendere tale attività, che la distruzione del mondo è per altra causa. Qui si discute della negatività dell’uomo verso la natura in tutte le sue forme e una di queste è la caccia insensata, di disturbo e soprattutto non controllata nella realtà; ma il problema è controverso.

In materia di politica generale, Player, esponente mondiale del movimento wilderness asserisce che nessun tipo di caccia dovrebbe essere permessa nel “cuore” delle Aree Wilderness; per contro, Aldo Leopold, praticamente il fondatore dello stesso movimento, era un cacciatore convinto e “ideò” le Aree Wilderness anche per fini venatori. Occorre tuttavia ricordare che il Leopold si “muoveva” nei primi decenni del secolo scorso negli immensi territori statunitensi, dove ancora esistevano estensioni rilevanti di natura selvaggia e dove l’impatto dell’attività venatoria veniva adeguatamente filtrato dall’ampio “respiro” della natura e dalla bassa densità dei cacciatori stessi. In aggiunta, pur riconoscendo al Leopold tutti i meriti per aver diffuso, tra i primi, una nuova e rivoluzionaria etica ambientale e per aver contribuito alla salvaguardia di molti spazi wilderness, si ricorda che egli aveva, per oltre i due terzi della sua esistenza, una visione della natura fortemente antropocentrica e molto meno “illuminata” visto che considerava necessario “gestire la fauna selvatica” ponendo in prima linea una lotta spietata verso i grandi predatori (p.e. contro il lupo). Non dimentichiamo infine, riferendoci però non solo al Nordamerica, le numerose estinzioni di specie animali dovute al disinvolto uso delle canne tuonanti! Lo stesso Leopold ebbe a dire (1949-1997): “Date un’occhiata, innanzi tutto, a una palude popolata di anatre selvatiche; un cordone di automobili parcheggiate la circonda; appostato in ogni punto delle sue sponde coperte di giunchi si trova un ‘pilastro’ della società, il fucile automatico pronto, il grilletto che solletica un indice pronto a infrangere, se necessario, qualsiasi legge di Stato o di benessere pubblico per uccidere un’anatra. Il fatto che costui sia già supernutrito non placa in alcun modo la sua avidità”. Sicuramente Leopold avversava la caccia “tecnologica” ed era fautore di una attività venatoria “primaria” fatta di difficoltà, di luoghi selvaggi, di ricerca agnostica della preda, di avvicinamenti a piedi, di un solo ”colpo in canna”, di valore “culturale” e profondo della pratica e così via. Ma questi nobili principi sarebbero validi se tutti i cacciatori fossero sullo stesso “elevato” piano culturale ed etico, non certo nella pratica reale della massa; per di più, se anche tutti i cacciatori si comportassero con un fare pacato e primordiale, moltiplicati per il loro elevato numero ogni regola del buon senso verrebbe meno. Infine, ad onor del vero, anche il fucile automatico dovrebbe restare fuori da questa ricerca venatoria perché il cacciatore che vuole rivaleggiare pariteticamente con la preda dovrebbe farlo nel modo più sobrio possibile! Legittimare la pratica venatoria che poi per “democrazia” deve essere accessibile teoricamente a tutti significa che essa non sarà mai in realtà attuata con rispetto, controllo e a basso impatto ambientale. Chi crede nel contrario sa perfettamente di essere in malafede. A proposito di Leopold occorre ricordare che il suo pensiero “costituisce una pietra miliare nello sviluppo della posizione biocentrica” (Devall & Sessions, 1989) e che, come scrisse G. Sessions (in Roshi, 1989), “visse una drammatica conversione dalla mentalità di superficiale ecologia di ‘servizio’ e di gestione di risorse dell’uomo al di sopra della natura all’annunciare che gli esseri umani dovrebbero vedere se stessi realisticamente come ‘semplici membri’ della comunità biotica”. Tornando alla questione venatoria usiamo ancora le parole dello stesso Leopold (1949-1997) sul fare negativo di un certo tipo di caccia, che poi è un fare negativo della maggior parte della realtà venatoria “sportiva” mondiale: “Eccolo seduto in una barca d’acciaio, con le sue anatre da richiamo sintetiche che galleggiano poco più avanti. Grazie al motore non ha dovuto faticare per raggiungere il suo nascondiglio. Al suo fianco ha del combustibile per riscaldarsi in caso di vento forte e parla agli stormi di passaggio con un richiamo industriale dal quale spera che escano suoni attraenti.... Bisogna sparare subito perché la palude pullula di cacciatori (tutti equipaggiati allo stesso modo), che potrebbero farlo per primi. Apre il fuoco da una sessantina di metri, perché il suo schioppo è tarato sull’infinito e la pubblicità dice che le cartucce ‘Super Zeta’ hanno una lunga gittata.... Questo cacciatore sta assorbendo un valore culturale?...... Dal nascondiglio a fianco un altro cacciatore apre il fuoco da sessantacinque metri, nel disperato tentativo di prendere qualcosa.... Dove è finita l’idea della ‘mano leggera’ e la tradizione di sparare una sola cartuccia?..... Io stesso uso arnesi fabbricati industrialmente, tuttavia c’è un punto al di là del quale gli accessori acquistati al negozio distruggono il valore culturale della caccia...... ogni tipo di svago nell’ambiente naturale è essenzialmente primitivo, atavico, e ha valore solo per contrasto; una meccanizzazione eccessiva distrugge i contrasti, trasferendo la fabbrica nei boschi o nelle paludi”.

I buoni e salubri principi culturali della caccia sono ottimi, ma la realtà sarà in effetti corrispondente a quella cultura? Le parole di Leopold confermano questo dubbio, anzi danno la certezza, purtroppo, che la caccia attuale viene praticata solo in forma degenerante, come lo è d’altronde il turismo di massa, l’industralizzazione eccessiva, l’agricoltura chimica, la pesca dissennata e così via. Aldo Leopold forse, fu una bellissima eccezione.

Scrive Dalla Casa (1996): “Nelle civiltà di tipo occidentale esiste il fenomeno ‘uccidere per divertimento’: spesso l’uccisione è addirittura considerata un ‘merito’ da parte del cacciatore. Il fenomeno, gravemente presente, interessa comunque una minoranza, anche se piuttosto invadente; l’unico modo per limitarlo consiste per ora in rigorosi divieti.....

In molte culture animiste la cattura della preda era vista come il dono di un dio, che si può interpretare come ‘il genio della specie’: la cattura era lecita soltanto se era seguita dall’utilizzazione completa di tutte le parti del dono, a scopo prevalentemente alimentare e comunque di sopravvivenza..... L’eventuale uccisione fatta ‘per divertimento’ o ‘senza scopo’ era un’offesa al dio: quindi veniva vissuta come un delitto......

Le culture animiste provocavano ben raramente l’estinzione di specie o la distruzione di ecosistemi: per molti migliaia di anni i nativi d’America sono vissuti in simbiosi con milioni di bisonti e con tutte le altre specie in armonico e dinamico equilibrio; sono bastati due o tre secoli di civiltà europea per distruggere tutto.........

In genere le culture dell’Oriente consideravano gli altri esseri o in un ciclo di morti e rinascite (samsara) o comunque degni della massima benevolenza: tutti i viventi facevano parte di un equilibrio cosmico......

In sostanza, perché finisca veramente il fenomeno ‘caccia’, pur essendo assai utili anche i divieti, è indispensabile una nuova base etica e culturale....”.

Integra il discorso Hargrove (1990): “Molte tribù primitive avevano il costume di chiedere perdono e comprensione agli animali selvatici che uccidevano per cibarsene. Tuttavia questi costumi o tradizioni non sopravvissero nella civiltà occidentale, dove invece si sviluppò la tradizione di uccidere la natura per sport, cioè per il proprio piacere, non per ottenerne cibo. Il cacciatore, secondo questa tradizione, ricava piacere dall’uccisione di animali, senza alcuna sensazione di colpa”. Quanto finora detto vale ovviamente anche per la pesca sportiva (per non parlare di quella industriale che sta devastando i mari , fiumi e laghi). Scrisse con grande perspicacia J. Muir (1995): “.... Pure, gente di aspetto assai rispettabile, gente che pare perfino savia a guardarla, sta ad infilzare pezzi di vermi su pezzi di filo di ferro ricurvi allo scopo di catturare trote. Questa attività chiamano sport. Se i frequentatori di chiese si mettessero a pescare nel fonte battesimale per ammazzare il tempo durante le prediche noiose, il cosiddetto sport avrebbe una ragion d’essere; ma trastullarsi così dentro il tempio di Yosemite! Trovar piacere nell’agonia di creature che lottano per la vita.....”.

Ma non si commetta comunque il grave errore di utilizzare la caccia come specchietto per le allodole. Non si mascheri una presunta protezione di un territorio sbandierando il classico divieto di caccia, per poi progettare interventi cosidetti “ecocompatibili” su quel territorio (turismo di massa, sentieri attrezzati, sentieristica eccessiva e capillare, rifugi, ecc.). Abbiamo espresso parere negativo sull’attività venatoria almeno nei Paese antropizzati e compromessi, ma lo abbiamo fatto al pari delle altre attività negative dell’uomo. Altrimenti, in un territorio selvaggio, paradossalmente (molto paradossalmente), è meglio considerare l’attività venatoria, sia pur fortemente ristretta e indirettamente limitata a pochi, che lasciar lontano i fucili ma snaturare completamente quell’ambiente con altri dubbi interventi. Un gran numero di persone aborrisce la caccia come attività negativa, ma ignora totalmente (o finge di ignorare) il pesante impatto del turismo e delle altre forme che turbano la wilderness di un posto. Abbiamo espresso parere negativo alla caccia perché nella realtà molti praticanti di tale attività non sono degni di essa comportandosi in forma del tutto negativa, ma saremo teoricamente i primi a difenderla se i cacciatori dimostreranno una vera missione nei confronti della wilderness dei luoghi e nei confronti di un’autoregolamentazione degna di tal nome (attività venatoria secondo i precetti di Aldo Leopold che, come abbiamo primo evidenziato, erano impostati su una caccia di tipo “culturale”, controllata, agnostica, atavica). Quest’ultima riflessione è però nel modo più assoluto utopica!!

L’uomo contemporaneo attraverso le sue mille categorie di “necessità” (cacciatori, pescatori, sciatori, escursionisti, alpinisti, boscaioli, pastori, agricoltori, latifondisti, speculatori, ricercatori e “scienziati”, ecc.) accampa continuamente i diritti di poter far qualcosa, ognuno in forma esclusiva. Non è un caso poi che a farne le spese sia sempre l’ambiente. Ormai l’uomo è un elemento estraneo ai fenomeni della natura e per questo limitarlo è quanto mai opportuno e necessario. L’importante è non creare categorie di seria A con tutti i diritti e categorie di serie B senza diritti! 

E’ comunque cosa estremamente difficile riscontrare tra gli “ambientalisti di superficie” e i cacciatori il concetto del valore in sé della natura. In entrambe le categorie vige, quasi sempre, l’egocentrismo o meglio l’antropontrismo e nei cacciatori il miope interesse personalistico.

Scrive Franco Zunino: ".... Chi sente il desiderio di un rapporto diverso con l'ambiente, più legato ad esigenze interiori di beltà e solitudine, di riflessione, di godimento della bellezza, dei momenti del vivere e dell'evolversi della natura, più facilmente capirà l'esigenza di maggior rispetto, capirà che i diritti della natura, devono avere il primo posto e che l'uomo deve visitarla sempre pronto a tirarsi indietro non appena divengono evidenti i segni del mutamento che la sua presenza le arreca, che vanno dalla degradazione ambientale al disturbo della fauna, alla perdita di certi stati di pace e solitudine (che sono un diritto della fauna prima che nostro); pronto pertanto anche a rinunciare alla natura quando ne è il caso.

Invece, la maggioranza di quelli che amano la natura, la fauna, la flora, o ne godono attraverso la ricreazione fisica in essa (naturalisti, alpinisti, escursionisti, cacciatori, ecc.), raramente si pongono problemi di rinuncia ai propri piaceri per rispetto alle sue esigenze......... In realtà ogni categoria di fruitori della natura deve rassegnarsi a porsi dei limiti, perché non esistono fruitori buoni e fruitori dannosi, ed è nella limitazione di tutte le libertà il compromesso giusto che permette di garantire alla natura la possibilità di perpetuarsi nella sua libertà, perché mentre sono adattabili le nostre esigenze, il più delle volte non lo sono quelle della natura.......'c'è bisogno di amore verso la Terra, non verso i piaceri che ne traggono attraverso l'uso'. E' invece, purtroppo, quasi sempre l'inverso per la stragrande maggioranza degli aderenti ai vari gruppi di interesse, dall'ornitologo al cacciatore....".

Un ultima questione occorre evidenziare. I cacciatori accusano coloro che sono contro la loro attività (come profondamente il sottoscritto) affermando che quest’ultimi aborriscono dinanzi alle loro uccisioni e poi ignorano e si nutrono di carne frutto di allevamenti lager e di uno sterminio nei mattatoi (però, ribadiamo, non facciamo l'errore di dimenticarci anche dei pesci). Ciò è vero e lo scrivente sia per motivi ecologici, quanto anche per motivi di assoluto rispetto per ogni forma di vita, di coerenza e di salute è da decenni profondamente VEGANO (alimentarsi di soli vegetali), una pratica che in futuro per contribuire a salvaguardare almeno in parte il pianeta terra sarà quasi un obbligo esserlo tutti.


“Stavamo mangiando su una sporgenza rocciosa, ai cui piedi un torrente turbolento piegava a gomito. Vedemmo quello che pensammo fosse una cerva guadare, immersa fino al torace nell’acqua bianca spuma. Quando si arrampicò sulla sponda dalla nostra parte e scosse la coda ci accorgemmo del nostro errore: era un lupo. Un’altra mezza dozzina, evidentemente piccoli già cresciuti, balzò dal folto dei salici, radunandosi per dare il benvenuto, scodinzolando e litigando giocosamente. Insomma, un vero e proprio mucchio di lupi si agitava e ruzzolava allo scoperto proprio sotto il nostro masso.

A quei tempi non avevamo mai sentito che qualcuno si lasciasse sfuggire l’occasione di uccidere un lupo. In un attimo stavamo scaricando piombo sul branco, con più eccitazione che precisione.......

Raggiungemmo l’animale agonizzante, che era una lupa, in tempo per vedere un feroce fuoco verde spegnersi nei suoi occhi. Mi resi conto allora, e non l’ho mai dimenticato, che c’era qualcosa di nuovo per me in quei occhi, qualcosa che solo lei e la montagna sapevano. A quel tempo era giovane e mi prudeva il dito sul grilletto; pensavo che meno lupi significasse più cervi, e quindi niente lupi equivalesse al paradiso dei cacciatori. Ma quando vidi spegnersi quel fuoco verde, sentii che né la lupa, né la montagna condividevano quel punto di vista......

Forse è proprio questo che significa il detto di Thoreau: ‘La salvezza del mondo si trova nella natura selvaggia’. Forse questo è il significato nascosto nell’ululato del lupo, che le montagne conoscono da molto tempo, ma che gli uomini raramente percepiscono” (A. Leopold, 1949-1997).

“Con tutti gli esseri e con tutte le cose, noi saremo sempre fratelli” (proverbio Sioux).

Lo scrivente avverserà sempre l’attività venatoria, ma anche tutte le attività che non rispettano la wilderness dei luoghi. Ovviamente chi scrive è anche lui “colpevole di errori” e non vuole additare solo agli altri il fare negativo!! Chi scrive non è certo portatore di verità assolute.

Disse il Budda: “La regola fondamentale di ciascun essere senziente è di avere sempre, e poi sempre una profonda COMPASSIONE!!.

E per concludere faccio propria la grande affermazione fatta da Albert Schweitzer circa quello di portare nel più profondo del proprio cuore il “rispetto per ogni forma di vita”, rispetto che fu auspicato non solo dallo Schweitzer, ma anche da molti altri personaggi di rilievo da tutto il mondo e finanche da molte religioni, sopratutto orientali.


Un’integrazione di Guido Dalla Casa (1996)


La caccia

Esaminiamo ora l’atteggiamento dei tre gruppi di culture nei riguardi della caccia:


- Nelle civiltà di tipo occidentale esiste il fenomeno “uccidere per divertimento”: spesso l’uccisione è addirittura considerata un “merito” da parte del cacciatore. Il fenomeno, gravemente presente, interessa comunque una minoranza, anche se piuttosto invadente; l’unico modo per limitarlo consiste per ora in rigorosi divieti. Nell’Occidente c’è chi spende soldi per poter uccidere, il che è addirittura il contrario del “procurarsi il cibo” indispensabile all’idea di caccia in tanti altri modelli.


- In molte culture animiste la cattura della preda era vista come il dono di un dio, che si può interpretare come “il genio della specie”: la cattura era lecita soltanto se era seguita dall’utilizzazione completa di tutte le parti del dono, a scopo prevalentemente alimentare e comunque di sopravvivenza. Spesso l’animale più cacciato era considerato anche un totem, aveva una sua sacralità. L’eventuale uccisione fatta “per divertimento” o “senza scopo” era un’offesa al dio: quindi veniva vissuta come un delitto e poneva il cacciatore nella posizione di chi attende la punizione del dio, che potremmo anche chiamare “conseguenza del complesso di colpa”: di solito poi questa punizione arrivava puntualmente, attraverso le misteriose vie dell’inconscio e gli indissolubili legami fra mente e corpo.

Le culture animiste provocavano ben raramente l’estinzione di specie o la distruzione di ecosistemi: per molte migliaia di anni i nativi d’America sono vissuti in simbiosi con milioni di bisonti e con tutte le altre specie in armonico e dinamico equilibrio; sono bastati due o tre secoli di civiltà europea per distruggere tutto.


- In genere le culture dell’Oriente consideravano gli altri esseri o in un ciclo di morti e rinascite (samsara) o comunque degni della massima benevolenza: tutti i viventi facevano parte di un equilibrio cosmico. Ciò dava luogo a morali del tipo “Non danneggiare alcun essere senziente”. Anche qui l’eventualità di divertirsi ad uccidere era vissuta come un grave delitto.

Nelle concezioni orientali le altre specie viventi sono composte di esseri che vivono in modi diversi la nostra stessa avventura, con pieno diritto a una vita libera e autonoma. Invece, nel nostro mondo, i cosiddetti “movimenti per la vita” ritengono ovvio occuparsi solo della vita umana, senza neanche il bisogno di precisarlo. Dell’equilibrio e dello stato di salute della Vita, cioè del Complesso dei Viventi, non si preoccupano affatto. 

In sostanza, perché finisca veramente il fenomeno “caccia”, pur essendo assai utili anche i divieti, è indispensabile una nuova base etica e culturale.

Occorre comunque fare attenzione ai permessi di “caccia tradizionale” accordati da alcuni governi, e quindi dall’Occidente, alle culture tribali con il pretesto di mantenerle in vita, perché spesso questa caccia si traduce in un massacro con armi da fuoco per vendere pellicce a grosse compagnie commerciali e avere così il denaro per comprarsi il televisore. Gli eschimesi o i siberiani a caccia con l’elicottero non hanno niente di tradizionale: quando imbracciano un fucile sono già l’Occidente. Le civiltà tradizionali non esistono più dal momento in cui arriva un’arma da fuoco e vengono persi i valori della cultura originaria.

L’Occidente è contagioso e seduce facilmente con i suoi nuovi miti. Con questa caccia si ottiene solo un’ulteriore degradazione della Natura ed un massacro “occidentale” anche se compiuto da ex-appartenenti ad altre culture umane.

C’è una grande confusione fra razza e cultura: un eschimese che uccide la foca con un fucile o comunque con lo scopo di vendere la pelle a una compagnia commerciale non è un eschimese, ma è l’Occidente.

La caccia integrata nelle culture animiste è una cosa del tutto diversa dalla caccia commerciale o industriale, anche se effettuata da persone o collettività di etnìe non europee. La sostanza è data dall’intenzione, lo scopo e il modo, non dall’origine etnica del cacciatore.