giovedì 28 aprile 2022

La nascita dell'Ecologia, di Pietro Greco

Nel 1866, Ernst Haeckel dava alle stampe la Generelle Morphologie der Organismen: un libro sulla morfologia generale degli organismi destinato a diventare famoso perché il biologo tedesco usa una nuova parola: oekologie, derivata dal greco οίκος e dal greco lόgος, attribuendole il significato di «scienza dell'insieme dei rapporti degli organismi con il mondo circostante, comprendente in senso lato tutte le condizioni dell'esistenza». Ernst Haeckel creava così un sostantivo e, forse, una scienza: l’ecologia. In greco οίκος vuol dire casa. La nuova parola ha dunque la medesima radice etimologica di economia. Che, in fondo, è la scienza della gestione della casa. Per analogia, l'ecologia può essere definita come la scienza della gestione dell'ambiente, che è la casa di tutti gli organismi viventi. Natura madre o matrigna? Quanto al concetto scientifico, molti sostengono che in realtà l’ecologia non nasce nel XIX secolo con la definizione e il progetto scientifico di Haeckel, ma nasce già nel XVIII secolo, con l'idea cara a Linneo di «economia della natura». La quale, come una madre, gestisce la casa comune assegnando a ogni specie vivente il suo giusto posto, il giusto accesso al cibo, il giusto tasso di crescita demografica. Nel quadro di quell'armonia insieme razionale e provvidenziale con cui la natura, secondo Linneo, crea e governa la rete di interdipendenze tra le sue singole parti. In realtà già Aristotele aveva prestato attenzione all'armonia della natura e, in particolare, all'armonia tra le specie viventi. E, dopo Linneo, molti naturalisti si erano dedicati allo studio delle catene alimentari e del controllo delle popolazioni biologiche. Cosicché le radici culturali della scienza ecologica sono profonde e piuttosto ramificate. Tuttavia è solo nella seconda parte del XIX secolo che l'ecologia può iniziare a essere o, almeno, a proporsi come scienza. Solo dopo, cioè, che la scoperta delle grandi estinzioni di massa ha iniziato a minare alla base l'idea provvidenziale di armonia della natura. E solo dopo che Charles Darwin, con la sua teoria dell’evoluzione biologica per selezione naturale del più adatto esposta nell’Origine delle specie (1858) ha riformulato in termini dinamici e, per certi versi drammatici, l'idea razionale di armonia della natura. Nella teoria darwiniana, infatti, la natura non è sempre una madre. Può essere anche matrigna. In ogni caso la natura non ha alcun fine. La casa comune dei viventi è in costante cambiamento. E i rapporti tra le specie non sono solo di armonica interdipendenza, ma anche di drammatica e spesso tragica competitività. In definitiva, nella teoria darwiniana le specie e l'ambiente coevolvono alla ricerca perenne di un adattamento reciproco che è cieco (non sa dove va) e non è mai concluso. È a questa visione del tutto nuova della natura che Haeckel, pioniere dell'evoluzionismo in Germania, fa riferimento quando nel 1866 pubblica la Generelle Morphologie der Organismen e propone la parola, l’idea e la scienza dell’oekologie. I lavori sul campo dei primi ecologi riguardano il rapporto tra la fisiologia e geografia delle piante. Ma nasce subito un’ecologia teorica che si interroga sui fondamenti di questa disciplina. Partendo dal presupposto che l'ecologia non è una semplice branca della biologia. John S. Burdon Sanderson, nel 1893, sostiene per esempio che l'ecologia costituisce certamente, insieme alla fisiologia e alla morfologia, una delle tre grandi parti in cui si divide la biologia. Ma l’ecologia si distingue dalla fisiologia e dalla morfologia perché rappresenta «la filosofia della natura vivente». Ecologia globale ed ecosistemi Il 12 aprile del 1913, infine, nasce a Londra la prima società di ecologia, la British Ecological Society. Gli studiosi di ecologia iniziano a formare una comunità scientifica che si autoriconosce. Che propone i suoi modelli di interpretazione della natura. Negli anni ’20, per esempio, Alfred Lotka e Vito Volterra propongono i primi modelli matematici per spiegare le relazioni tra prede e predatori in natura. E Vladimir Vernadsky propone il primo modello di ecologia globale: la Terra come casa comune di tutti gli organismi viventi e di tutti i rapporti tra gli organismi viventi. Vernadsky considera la Terra come un solo e inscindibile sistema ecologico. Tuttavia molto utile si rivela il concetto limitato di “ecosistema” che Arthur Tansley introduce, nel 1935, con un articolo sulla rivista Ecology, definendolo come l’insieme degli organismi viventi e delle componenti non biologiche necessarie alla loro sopravvivenza in una certa area. Ora lo studio integrato delle componenti biotiche e delle componenti abiotiche degli ecosistemi, siano essi grandi come la foresta amazzonica o il deserto del Sahara, o piccoli come un laghetto di montagna, è decisivo per comprendere la complessità irriducibile che caratterizza i sistemi ecologici. Tuttavia è la scoperta delle dimensioni globali dell’ecologia che pone questioni fondamentali alla scienza ecologica. Questa scoperta, come abbiamo detto, va riconosciuta a Vladimir Vernadsky e, dunque, risale agli anni ’20 del XX secolo. Tuttavia, come rileva Eugene Odum, è solo intorno agli anni ’60 che diventa un concetto diffuso, anche a livello di grandi masse. La scoperta di massa dell’ecologia e dell’ecologia globale coincide e fortemente dipende dalla constatazione che l’uomo è (anzi, è diventato) un attore ecologico globale. Capace di influenzare non solo singoli ecosistemi, ma l’intera ecosfera. È negli anni ’60, infatti, che i mezzi di comunicazione di massa scoprono i primi problemi ecologici globali. Come, per esempio, l’inquinamento radioattivo generato dagli esperimenti nucleari in atmosfera. O come l’inquinamento chimico, denunciato come problema emergente e globale nel 1963 da Rachel Carson con un fortunato libro, La primavera silenziosa. Ed è, infine, nel 1968 che il biologo Paul Ehrlich pubblica un libro, The Population Bomb, in cui dimostra che, tra i problemi ecologici globali, c’è l’esplosiva capacità riproduttiva conseguita dalla specie umana. Moltiplicandosi con un successo senza precedenti, l’uomo rappresenta una minaccia per gli equilibri ecologici locali e globali. L’impronta umana Negli ultimi anni l’impronta umana sui cambiamenti del clima globale e sull’erosione della biodiversità, un’erosione così rapida da indurre alcuni ecologi a parlare di grande estinzione di massa, è stata riconosciuta non solo in termini scientifici, ma anche in termini politici. Nella Conferenza sull’Ambiente e lo Sviluppo organizzata dalle Nazioni Unite nel 1992 a Rio de Janeiro (UNCED), praticamente tutti gli stati della Terra si sono impegnati solennemente a cercare di ridurre l’influenza umana sulla dinamica del clima e sulla dinamica della biodiversità. Di recente Paul Crutzen, premio Nobel per la Chimica, ha proposto di chiamare antropocene l’attuale fase della storia dell’ecosistema Terra. Molti ecologi convengono, perché riconoscono l’impronta enorme e inedita che una singola specie, Homo sapiens, imprime nei sistemi ecologici locali e globali. Proprio l’emergere dei problemi ecologici globali e della necessità di una politica ecologica globale pone non pochi problemi all’ecologia, alla scienza della gestione dell’ambiente. Il primo e, forse, il più immediato di questi problemi veniva sollevato già nel 1978 da Paul Colinvaux. E consiste nel rischio che l’ecologia si dimentichi, in qualche modo, di essere la scienza della coevoluzione globale del mondo vivente e dell'ambiente che lo ospita e si riduca a scienza dell’inquinamento. Nel 1990 l’inglese elenca ben nove grandi questioni non risolte nell’ambito della scienza ecologica: cosa determina la densità di una popolazione? Come si produce la distribuzione nello spazio delle popolazioni? Qual è la scala giusta, nello spazio e nel tempo, dell’ecologia? Qual è il rapporto tra stabilità e complessità delle comunità ecologiche? Qual è il modello migliore per definire la rete del cibo? Cosa determina l’abbondanza relativa delle specie? Quali sono le relazioni tra il numero, le dimensioni, il range di espansione delle specie? Come definire i cicli biogeochimici? Quali sono i problemi aperti di conservazione? E, ultimo ma non ultimo, la intrinseca e irriducibile complessità delle relazioni tra gli organismi viventi rende l’ecologia una scienza? Tutti questi problemi restano ancora sostanzialmente aperti. Tuttavia ci sono altre questioni teoriche aperte connesse allo studio dell’ecologia globale. Perché questa visione dell’ecologia si fonda su una constatazione inoppugnabile: l'uomo è una specie tra le specie. E tuttavia questa constatazione, inoppugnabile, comporta delle conseguenze. L'uomo e i suoi comportamenti, compresi quelli morali e politici, l’uomo e la sua coscienza ecologica, sono parte dell’ecosistema globale e, quindi, sono oggetto di studio da parte dell’ecologia. Questa conseguenza ne genera, a cascata, molte altre. C’è, per esempio, un’esigenza di specificare meglio cosa intendiamo per specie tra la specie. Perché non c’è dubbio che l’uomo è una specie biologica come infinite altre e, in particolare, una specie predatrice tra tante altre specie predatrici esistenti. Tuttavia ci sono almeno due condizioni a contorno che rendono l'attività predatrice dell'uomo diversa da ogni altra. La prima è che l'innovazione tecnologica fondata sulle conoscenze scientifiche rende particolarmente efficace, come rileva Jean-Paul Deleage, la sua opera di predazione. La seconda è che l'uomo ha coscienza della efficacia enorme e della pericolosità della sua attività predatrice. Sa che ha iniziato a tagliare il ramo su cui è seduto. E che, se il ramo cade, egli stesso si farà male. Poche altre specie, nella storia della vita, hanno avuto un’efficacia enorme nella dinamica ecologica globale. E, in ogni caso, nessun’altra ne ha mai avuto coscienza. La coscienza ecologica Ciò rende l’ecologia una scienza davvero particolare. Molto diversa, per esempio, dall’astronomia: che è una scienza fondata sull’osservazione di una parte dell’universo su cui l’osservatore non ha praticamente influenza. In ecologia, invece, l’osservatore partecipa inevitabilmente all’esperimento che osserva. Anzi, l’uomo mentre osserva la dimensione ecologica del mondo genera una costellazione di feedback molto difficile da dirimere. Tutto ciò pone un grande problema di obiettività. Nessun osservatore può essere obiettivo quando osserva se stesso. Infatti la coscienza della dimensione ecologica del mondo coinvolge l’esistenza stessa dell’uomo. L’organizzazione della sua società. L’ecologia scientifica è la presa di coscienza di questo coinvolgimento. Cosicché l’ecologia scientifica è, inevitabilmente, ecologia politica. E, quindi, economia politica. In definitiva possiamo legittimamente chiederci che razza di scienza sia l’ecologia scienza. Ma, quale che siano le opinioni sul suo statuto epistemologico, abbiamo un bisogno sempre più impellente di conoscere «l'insieme dei rapporti degli organismi con il mondo circostante, comprendente in senso lato tutte le condizioni dell'esistenza». Perché tra quelle condizioni dell’esistenza ci sono anche le condizioni di esistenza della specie umana. Specie biologica con un ruolo sempre più globale. Ma pur sempre specie biologica, per la quale l’ecologia, la «gestione della casa», è un questione di sopravvivenza.

mercoledì 30 marzo 2022

La saggia e necessaria scelta vegana

"Verrà un giorno in cui uccidere un animale sarà considerato un grave delitto come uccidere un uomo" (Leonardo da Vinci).   

1 - Da Wikipedia: 

Il veganesimo è compassione, uguaglianza, giustizia. Il veganesimo è sensibilizzazione ed educazione. Il veganesimo è la pace. Ma soprattutto il veganesimo è l’unico modo per porre fine ad ogni sfruttamento crudele e schiavitù. Il veganesimo è liberazione totale.(cit. Manifesto Vegano) La parola vegan fu coniata nel 1944 da Elsie Shrigley e Donald Watson. Shrigley e Watson che erano vegani o vegetariani puri, erano insoddisfatti dal fatto che molte persone che si definivano vegetariane mangiavano latticini, uova e pesci. Poco dopo, il 1º novembre dello stesso anno, Watson fondò la Vegan Society nel Regno Unito. Dal 1994, il 1 novembre si celebra il World Vegan Day, ovvero la Giornata Mondiale Vegan. Coniarono la nuova denominazione prendendo le prime e ultime lettere del termine inglese vegetarian, con l'indicazione che il veganismo era "l'inizio e la fine del vegetarianismo". La Vegan Society fornisce la seguente definizione di veganesimo: « La parola "veganismo" denota una filosofia e un modo di vita che si propone di escludere - nella misura in cui questo è praticamente possibile - tutte le forme di sfruttamento e di crudeltà verso gli animali perpetrate per produrre cibo, indumenti o per qualsiasi altro scopo; e per estensione, promuove lo sviluppo e l'uso di alternative non-animali, per il bene dell'uomo, degli animali e dell'ambiente. Da un punto di vista dietetico indica la pratica di evitare qualsiasi prodotto derivato, in tutto o in parte, dagli animali ». Le prime notizie del vegetarismo, inteso come tradizione diffusa tra un numero significativamente vasto di persone, si riferiscono all'antica india e alla civiltà della Grecia antica sia nell'Italia del sud che nella stessa Grecia. In entrambi i casi questa pratica era spesso connessa con principi di tipo salutistico e con l'idea di non violenza verso gli animali (chiamata ahisma in India). 

 2 - Nota di Aurora Mirabella.  

Molte persone pensano che il veganesimo sia solo una dieta, non vedendo la filosofia nascosta dietro di esso. Sorprendentemente incontro vegani che vanno a pesca (o peggio ancora a caccia), vegani che mangiano e utilizzano miele, vegani che mangiano uova e prodotti derivati dal latte, vegani che “ogni tanto” mangiano carne e pesce, vegani solo per motivi di salute che si concedono di indugiare su prodotti di originale animale. Tutto questo è molto infelice perché concorre all’etichettatura come vegan di scelte non vegane creando solo confusione e danno al movimento vegan. Prima di tutto se vogliamo davvero dare delle etichette è bene chiarire che scegliere una dieta a base esclusivamente vegetale per motivi di salute (o etici) ma che include latte e uova si chiama vegetarianesimo; ed in secondo luogo mangiare prodotti di origine animale (carne, pesce) anche se “ogni tanto” non è accettabile per un vegetariano, né tanto meno per un vegano. Il veganesimo per definizione porta con sé delle motivazioni profondamente etiche e ha “regole” (lasciatemi passare il termine) chiare e precise. Non esiste una cosa come un vegan la cui scelta è solo ed unicamente una scelta legata ad un regime alimentare, ad una dieta e che mangia o utilizza anche se sporadicamente prodotti di origine animale. Il veganesimo esclude tutte le forme di sfruttamento e crudeltà verso qualsiasi specie che fa parte del regno animale (regno animale che include esseri umani e non umani, quindi animali di terra, aria, acqua, insetti e cosi via). Il veganesimo è contro la schiavitù, è antispecismo, antirazzismo, sessismo, classismo, cosi come contro qualsiasi altra forma di discriminazione. Non è una tendenza, un qualcosa che va di moda: è una cosa seria ed il suo obiettivo principale è quello di porre fine ad ogni sfruttamento animale, ad ogni forma di schiavitù. Si sceglie consapevolmente di lottare per la liberazione animale totale e per tutti i diritti degli animali/uomini/donne senza voce. Un vegan non compra e non usa prodotti che contengono ingredienti di origine animale (né tanto meno prodotti testati sugli animali): può capitare che si acquistino inavvertitamente prodotti contenenti ingredienti di origine animale e/o testati sugli animali; succede per puro caso o per ignoranza, nel senso di ignorare con chiarezza le componenti del prodotto (purtroppo la maggior parte dei prodotti confenzionati hanno etichette ed indicazioni poco chiare per cui capita di incappare in acquisti non vegan). Ma una volta scoperto che quel prodotto non è vegan è bene lasciarlo sullo scaffale! Un vegano non uccide gli insetti: sono animali anche loro. Un vegano non trasforma gli animali domestici in giocattoli per colmare un egoistico senso di solitudine. Un vegano non supporta: la sperimentazione sugli animali, acquari, circhi, zoo, rodei, corse di cavalli, corride, combattimento di cani, galli e altri animali, non sostiene la caccia, pesca, il lavoro minorile, e tutto quello che comporta lo sfruttamento di uomini ed animali e crudeltà inutile . Il fumo non è considerata una pratica vegan friendly perché comporta la sperimentazione sugli animali, lo sfruttamento minorile nelle aziende produttrici di tabacco, il finanziamento di multinazionali dannose per l’ecosistema. Si noti che ricorre spesso l’uso della parola sfruttamento: questo perché alcune persone pensano che va bene mangiare le uova delle galline salvate dagli allevamenti intensi o allevate nel proprio cortile, perché questo non arrecherebbe danno alcuno alla gallina. Non importa se fa male alla gallina o meno, è comunque sfruttamento, significa comunque nutrirsi di un nostro pari per cui è contro il pensiero vegano. Molte persone che hanno scelto di seguire una dieta a base di vegetali per semplici ragioni salutiste e si definiscono vegani, in realtà dovrebbero definirsi come dei vegetariani alimentari. La differenza tra il vegetarianesimo ed il veganesimo è che il primo esclude tutti i prodotti di origine animale dalla dieta e dallo stile di vita eccetto latte e uova ; il veganesimo invece si muove nell’ottica di tutela di tutti gli appartenenti al regno animale, vuole evitare lo sfruttamento e la crudeltà verso un proprio pari. In altre parole una persona che segue una dieta a base vegetale non è necessariamente un vegan. Molte sono le persone che dopo essere state vegetariane per anni decidono di diventare vegan ma lo fanno per lo più spinti da motivazioni etiche e non salutiste. Perché ci sono vegetariani che vanno a pesca, che visitano acquari, zoo, circhi, fanno equitazione, usano prodotti di pelle, seta, lana, pelliccie. Acquistano prodotti testati sugli animali o da multinazionali che sottopongono uomini ed animali a forme di sfruttamento e crudeltà inaudite quindi non sempre seguire una dieta vegetale corrisponde al seguire uno stile di vita vegan friendly. Il termine vegan è stato conianto da Donald Watson nel 1944: “il veganesimo è un modo di vivere che esclude tutte le forme di sfruttamento e crudeltà verso il regno animale e include il rispetto per la vita. Si applica alla vita di tutti i giorni escludendo carne, pesce, uova, miele, latte e derivati e tutti i prodotti che derivano in tutto o in parte dagli animali“. Gli animali non sono di nostra proprietà e non sono nati per essere da noi mangiati, ne tanto meno sono “cose” da indossare. Gli animali non sono nostri e non possiamo arrogarci il diritto di sperimentare su di essi, prodotti di solo nostro uso e consumo, abusarne e farne oggetto di intrattenimento. Si noti che sfruttamento e schiavitù sono cose diverse dalla crudeltà: i primi spesso comportano la crudeltà, ma questa non implica necessariamente lo sfruttamento e la schiavitù. Un esempio: la Natura è crudele, ha delle regole severe, esiste la selezione naturale.Gli allevamenti intensivi sono semplicemente sbagliati, non etici e inaccettabili. I vegani possono evitare ogni tipo di sfruttamento e schiavitù ma non posso evitare ogni forma di crudeltà. Possono ridurre la crudeltà evitando ad esempio di assumere farmaci testati sugli animali, evitare di calpestare gli insetti quando camminano (ovviamente se si schiaccia inavvertitamente un insetto perché non visto questa si chiama Natura che come abbiamo detto prima è spesso crudele). Danneggiare o uccidere qualcuno per legittima difesa è accettabile per un vegano, anche se si dovrebbe cercare una soluzione che non arrechi danno al prossimo. Non esistono vegani perfetti: i vegani sono persone che vogliono porre fine allo sfruttamento inutile e crudele degli animali/uomini, che provoca sofferenza e dolore ad esseri viventi innocenti, che rovina il pianeta ed il futuro delle prossime generazioni. Contrariamente alla credenza popolare i vegani non si considerano migliori degli altri, anzi se chiedete in giro ai vegani loro si definiscono al pari del più piccolo degli insetti, in virtù del fatto che non esiste specismo. Essere vegani è alla portata di tutti, chi pensa sia impossibile/difficile parla cosi perché non ha ancora provato ad esserlo. Forse in un primo momento appare difficile, fino a che non si tocca con mano la facilità con cui si contribuisce a contrastare pratiche crudeli inutili. Tutti i vegani rinunciano a prodotti che già in partenza sanno essere totalmente inutili: non hanno bisogno di mangiare/indossare prodotti di origine animale, di usare prodotti di cosmesi (o per la pulizia) di origine animale o testati su animali, di sostenere spettacoli crudeli come circo o dressage per intrattenersi, non hanno bisogno di sfruttare o di abusare degli altri esseri viventi sul pianeta terra per poter vivere felici. Queste poche righe vogliono solo essere un chiarimento (non una presa di posizione o giudizio) perché penso che ultimamente si è abusato del termine vegan nelle sue accezzioni più incomplete creando solo confusione e danni al movimento vegan. Il veganesimo è compassione, uguaglianza, giustizia. Il veganesimo è sensibilizzazione ed educazione. Il veganesimo è la pace. Ma soprattutto il veganesimo è l’unico modo per porre fine ad ogni sfruttamento crudele e schiavitù. Il veganesimo è liberazione totale. 

 GO VEGAN!

venerdì 25 febbraio 2022

L'inquinamento della biosfera


Wild Nahani

L'Inquinamento della biosfera



Da migliaia di anni, e in particolare dalla rivoluzione industriale, la specie umana altera più di ogni altra gli equilibri naturali, causando una rilevante riduzione della biodiversità e un peggioramento delle condizioni ambientali.

 La riduzione della biodiversità

Si definisce biodiversità il numero totale delle diverse specie (e quindi il totale dei patrimoni genetici) presenti in un ambiente, della cui integrità è indice diretto.

Si stima che sulla Terra esistano da 5 a 30 milioni di specie vegetali e animali differenti, di cui ne sono state descritte solo 1,4 milioni. Le foreste pluviali, benché degradate dalle attività umane mantengono uno dei valori più alti di biodiversità (con più del 50% della biodiversità globale); al contrario, per esempio, un campo coltivato con una sola varietà di cereali ha una biodiversità molto bassa.

La diminuzione della biodiversità è provocata dall'estinzione delle specie dovuta sia a cause naturali (come le grandi estinzioni del passato, probabilmente per competizione e selezione naturale), sia, soprattutto nel '900, all'azione dell'uomo: molte specie sono scomparse in seguito alla caccia indiscriminata e più recentemente a causa di alterazioni dell'ambiente naturale e degli inquinamenti.

 Il peggioramento delle condizioni ambientali

L'alterazione dell'ambiente da parte dell'uomo porta spesso alla distruzione di molti habitat naturali a causa sia delle diverse forme di inquinamento, sia di altri tipi di perturbazioni, quali la deforestazione e il pascolo eccessivo, che contribuiscono alla desertificazione, la compromissione dell'assetto idrogeologico del territorio, l'espansione degli insediamenti urbani, industriali e agricoli.

Si definisce inquinamento il complesso delle alterazioni arrecate all'ambiente (atmosfera, acque e suolo) da agenti che ne modificano le caratteristiche chimiche, fisiche o biologiche, in genere in senso sfavorevole alla vita. Benché possano verificarsi fenomeni di inquinamento dovuto a cause naturali (per esempio, l'immissione di gas e ceneri di origine vulcanica), il termine si riferisce oggi soprattutto alle alterazioni dannose provocate dall'azione dell'uomo, la specie che più di ogni altra è in grado di modificare l'ambiente.

Le sostanze inquinanti sono nocive all'ambiente sia per la loro intrinseca tossicità, sia perché immesse in dosi eccedenti la naturale capacità di autodepurazione degli ecosistemi.

Le sostanze inquinanti sono residui o sottoprodotti dell'attività industriale (produzione di energia o beni di consumo) e agricola (uso di fertilizzanti e pesticidi, deiezioni di animali) e rifiuti biologici civili.

Le cause dell'inquinamento sono da collegare a vari fattori in relazione tra loro, tra cui la crescita demografica, la progressiva concentrazione urbana e il conseguente aumento dei bisogni e quindi della produzione dei beni di consumo. Gli effetti dell'inquinamento continuo e incontrollato interessano il ritmo di crescita e lo stato di salute delle specie viventi e interferiscono con le catene alimentari; questi effetti, sommandosi alle alterazioni degli habitat, minano l'integrità della biosfera a diversi livelli: atmosfera, acqua e suolo.


  • Nel suo ciclo idrologico l'acqua è colpita da diverse forme di inquinamento, alcune dovute all'immissione diretta di sostanze contaminanti, altre all'ingresso indiretto nei corpi idrici di inquinanti provenienti dall'atmosfera (piogge acide) e dal suolo.

    Le acque naturali possiedono un potere autodepurante che si manifesta nella capacità di decomporre biologicamente (biodegradare) le sostanze organiche di provenienza animale e vegetale e alcune sintetiche, oltre ai sali inorganici del fosforo e dell'azoto e a vari composti inorganici. Questa capacità è dovuta all'azione di microrganismi presenti nelle acque, che sono in grado di ossidare questi materiali, detti biodegradabili, demolendoli in molecole semplici che entrano nei cicli naturali biogeochimici.

    I processi di autodepurazione avvengono in presenza di ossigeno, il cui consumo è gradualmente compensato dall'assorbimento di nuovo ossigeno dall'atmosfera. Se la richiesta di ossigeno di un corpo idrico è eccessiva, e quindi supera la capacità di riossigenazione, subentrano fenomeni putrefattivi (dovuti a microrganismi anaerobi) nel corso dei quali vengono liberate sostanze tossiche (solfuro di idrogeno H2S; fosfina PH3; metano CH4); come conseguenza, si ha una degradazione dell'ecosistema acquatico.

    I principali inquinanti delle acque derivano da scarichi urbani, industriali e agricoli.

    L'eutrofizzazione è dovuta all'eccessivo apporto in un corpo idrico di sostanze nutritive (sali di azoto e di fosforo contenuti in fertilizzanti e detersivi), che provocano un'enorme proliferazione della vegetazione sommersa. La successiva decomposizione di questa vegetazione determina un impoverimento dell'ossigeno disciolto nelle acque del fondo e la conseguente morte di organismi e lo sviluppo di gas tossici.

    In particolari condizioni stagionali le acque di fondo prive di ossigeno possono mescolarsi a quelle più superficiali, facendo abbassare il contenuto di ossigeno, tanto da non essere più compatibile con la vita e provocare imponenti morie di pesci.

    Il petrolio è l'inquinante marino più diffuso a causa della pratica delle petroliere di scaricare in mare le acque di lavaggio delle cisterne, degli incidenti non rari che coinvolgono petroliere e dell'estrazione di petrolio dalle piattaforme marine.

    Le acque possono essere inquinate anche dal calore, principalmente a causa del crescente impiego di acqua nei processi di raffreddamento delle industrie e soprattutto delle centrali termoelettriche e nucleari; l'acqua di raffreddamento, riscaldatasi, viene alla fine immessa in corsi d'acqua o bacini lacustri. L'aumento della temperatura dell'acqua ha come primo effetto la diminuzione della solubilità dell'ossigeno; inoltre accelera i processi di sviluppo delle forme di vita acquatica accentuando i processi di eutrofizzazione. Gli effetti più gravi sono dovuti agli improvvisi abbassamenti di temperatura che provocano, negli animali ormai adattati a un ambiente più caldo, i cosiddetti "stress freddi", che possono anche essere letali.

     L'inquinamento del suolo

    Le cause di inquinamento del suolo sono in parte le stesse che interessano l'aria e le acque; in parte sono legate allo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (RSU) e di fanghi provenienti dagli impianti di depurazione delle acque luride delle città e delle lavorazioni industriali.

    Gli effetti più gravi sono l'accumulo delle sostanze inquinanti nelle catene alimentari (in particolare di antiparassitari e sostanze tossiche contenute nei fertilizzanti, quali arsenico, cadmio, piombo); la perdita di fertilità del suolo, la predisposizione all'erosione.

  • mercoledì 29 dicembre 2021

    NAHANI - Lo spirito libero e selvaggio

     



    La storia di Nahani, la lupa, e della sua amicizia con Gregory Tah-Kloma, narrata nel libro "All'ombra dell'arcobaleno" di Robert Franklin Leslie, è una leggenda che trae origine dalla cultura dei nativi americani Chimmesyan. Questa storia parla di un legame profondo e inusuale tra un uomo e un lupo, in un contesto di natura selvaggia e tradizioni ancestrali. 

    "All'ombra dell'arcobaleno" racconta di un giovane indiano, Gregory Tah-Kloma, che, pur avendo una laurea in mineralogia, sente il richiamo della saggezza antica della sua gente e della natura selvaggia. Egli si imbatte in Nahani, una lupa bianca, regina di un branco, in un ambiente ostile e affascinante, tra boschi e ghiacciai. La loro amicizia si sviluppa in un'odissea che mette a dura prova la resistenza fisica e psicologica di Gregory, spingendolo a vivere secondo i ritmi della natura e a confrontarsi con le leggi della vita selvaggia. 

    La leggenda del Ponte dell'Arcobaleno, che dà il titolo al libro, è una credenza degli indiani d'America che parla di un luogo di passaggio per gli animali che muoiono, dove si ricongiungono ai loro cari e ritrovano la pace. Questa leggenda è spesso associata alla perdita degli animali domestici e offre conforto a chi soffre per la loro scomparsa, ricordando che l'amore e il legame con loro non svaniscono con la morte. 

    In sintesi, la storia di Nahani e Gregory è una narrazione intensa e suggestiva che esplora il rapporto tra uomo e natura, l'amicizia profonda che può nascere tra specie diverse, e la saggezza ancestrale dei nativi americani, il tutto sullo sfondo di una leggenda che parla di speranza e di eterno ricongiungimento. 

    lunedì 29 novembre 2021

    Il contratto sociale

    Wild Nahani

    Illustrazione di Elzbieta Mielczarek

    NB. Testo tratto dal libo "L'uomo naturale"


    “In questo mondo, il migliore dei mondi possibili, ogni evento è 

    interconnesso” (Candide, Voltaire).”L’uomo ha perduto la capacità di prevedere e di prevenire. Andrà a finire che distruggerà la terra” (Albert Schweitzer, in Rachel Carson, 1963, una precorritrice delle problematiche attinenti alle distruzioni ambientali).

    Se, come dice l’Hegel, la creazione dello stato è l’ingresso di Dio nel mondo, è pur vera l’affermazione dell’Hobbes che individua la matrice statale nel reciproco timore che spinge gli uomini ad associarsi, inducendoli a rinunciare al diritto naturale. Rousseau osserva: “Il primo che avendo cintato un terreno pensò di dire “questo è mio” e trovò delle persone abbastanza stupide per credervi, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, guerre, assassinii, quante miserie e errori avrebbe risparmiato al genere umano chi, strappando i pioli e colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: “Guardatevi dal credere a questo impostore! Se dimenticate che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno siete perduti!”...........Dal momento in cui un uomo ebbe bisogno dell’aiuto di un altro, dal momento in cui si accorse che era utile ad uno solo aver provviste per due, l’uguaglianza disparve, si introdusse la proprietà, il lavoro divenne necessario, le vaste foreste si cambiarono in ridenti campagne che gli uomini dovettero bagnare con il loro sudore e nelle quali si videro presto germogliare e crescere, insieme alle messi, la schiavitù e la miseria..........Da libero e indipendente che era prima ecco l’uomo, a causa di una moltitudine di nuovi bisogni, asservito, per così dire, ai suoi simili, di cui in un certo senso diventa schiavo anche quando sembra diventarne il padrone. Se è ricco ha bisogno dei loro servizi, se è povero ha bisogno del loro aiuto, e la mediocrità non lo mette affatto in condizione di poter fare a meno di loro........”. Siamo dunque innanzi ad un contratto sociale che non discende da valori assoluti ma che ha invece la propria fonte nel reciproco timore e nell’istinto di “conservazione”. Questi scopi, è vero, appaiono conseguiti, almeno nella loro essenza, nell’aggregazione statuale, ma non possiamo esimerci dal ricordare le lacerazioni che nel corso della storia sono avvenute all’interno stesso degli stati, tra le quali vogliamo emblematicamente ricordare la lotta tra Cesare e Pompeo, o quella tra Ottaviano e Antonio. Ma il fallimento più clamoroso della costituzione dello stato è rappresentato dalla sua incapacità di trasferire i propri principi etici ai rapporti con gli altri stati. E’ con orrore che lo studioso deve soffermarsi a considerare quanto è avvenuto nel corso della storia, contrassegnata com’è dalla violenza, dalle guerre, dai massacri, dalle sopraffazioni, sì che essa appare scritta col sangue, perché troppe Arbie si sono tinte di rosso. Quale ottimismo può germogliare innanzi a simili orrori? E’, in essenza, il trasferimento dello “homo hominis lupus” dell’Hobbes, dall’ambito dei rapporti individuali a quello dei rapporti tra gli stati che si affrontano in conflitti immani (come quello che Benedetto XV° definì “l’inutile strage”, o come l’altro conflitto mondiale, a noi ancora vicino, ma non abbastanza ammonitore. Vedasi poi le tante guerre sparse per il mondo). Com’è possibile accettare il pensiero del Locke e del suo “homo homini deus”?. Sovviene a questo punto l’ironia del Voltaire che nel Candide tratteggia dal par suo il naufragio dell’ottimismo leibniziano innanzi alla dura realtà del mondo.

    Il pessimismo non deve tuttavia identificarsi con la filosofia della disperazione, ma deve anzi impegnarci a ricercare nuovi modi di vivere, una nuova “Weltanschaung”. Ma in realtà non si può lottare contro la gente di oggi. Le lacerazioni dell’uomo sull’uomo hanno compreso anche il rapporto uomo-natura, e il pessimismo prende inevitabilmente il sopravvento. “La società e le leggi…. Posero nuovi ostacoli al debole e dettero nuove energie al ricco, distrussero definitivamente la libertà naturale, fissarono per sempre la legge della proprietà e dell’ineguaglianza… e, per il profitto di qualche ambizioso, assoggettarono il genere umano al lavoro, alla servitù e alla miseria” (J.J. Rousseau).

    La lotta di classe, la sopraffazione dell’uomo sull’uomo, sviluppa la sopraffazione dell’uomo sull’ambiente. Concepire il valore in sé della natura, in una visione non utilitaristica, otterrebbe una riconnessione con la natura e, conseguentemente, la nascita di una società egalitaria e “umana”: “..la maggior parte dei nostri problemi ecologici ha le sue radici in problemi sociali e che l’attuale disarmonia tra umanità e natura può essere ricondotta essenzialmente ai conflitti sociali. Non credo che si possa giungere ad un equilibrio tra umanità e natura se non si trova un nuovo equilibrio - basato sulla libertà dal dominio e dalla gerarchia - in seno alla società” (Bookchin, 1989). Incalza Hosle (1992): “... lo Stato di diritto sociale e democratico dev’essere al contempo uno Stato ecologico. Con ciò intendo dire che uno dei più importanti compiti dello Stato deve consistere nel conservare i fondamenti naturali della vita......”.

    Ma purtroppo, le classi egemoni “orientano” integralmente il pensiero delle masse, con i mezzi più subdoli e penetranti. L’ideologia della cieca logica del profitto è la caratteristica mentale dei nostri tempi, ormai saldamente radicata in ampi strati dell’opinione pubblica e del tessuto sociale. Questo rende ancor più difficile la proposta e la successiva affermazione di una nuova quanto antica ideologia estremamente pratica basata, come detto, sulla riconnessione dell’uomo con l’uomo e dell’uomo con la natura, intima unione ed un tempo vera essenza della vita. Un totalizzante contrasto viene dalle forze scatenanti e prevaricatrici del capitalismo e quindi dell’occidentalismo, tutte proiettate verso l’illimitato accumulo del denaro e del potere decisionale. A proposito del capitalismo scrive Bookchin (1989): “Una cosa comunque deve essere ben chiara: è un sistema che deve espandersi continuamente fino a distruggere tutti i vincoli tra società e natura, come dimostrano i buchi nello strato di ozono e l’aumento dell’effetto serra. E’ letteralmente il cancro della vita sociale”.

    Un’ideologia del valore intrinseco delle cose deve dunque confrontarsi, in una lotta impari, con il valore utilitaristico del pensiero corrente occidentale, valore sorretto dalle forti spinte economiche. Tra l’altro occorre ricordare che il contratto sociale fortemente articolato ha progressivamente ridotto la “vera” libertà individuale. Kaczynskj (1997) ci ricorda che “Libertà significa essere in grado di controllare (sia come individuo che come membro di un piccolo gruppo) tutti gli aspetti relativi alla propria vita-morte; cibo, vestiti, riparo e difesa contro qualsiasi pericolo ci possa essere nel proprio circondario. Libertà significa avere il potere; non il potere di controllare altre persone ma il potere di controllare le circostanze della propria vita. Nessuno è libero se qualcun altro (specialmente una grossa organizzazione) lo ha in suo potere, non importa con quanta benevolenza, tolleranza e permissivismo questo potere sia esercitato... “.

    In questa immane dialettica, lo sviluppo economico-sociale, dapprima limitato, necessario e controllato, assume poco alla volta un carattere invadente e prevaricatore. Le necessità economiche delle classi lavoratrici, ormai inserite in un tessuto sociale degenerante, spingono gli Stati e ancor più gli imprenditori privati (in società o in proprio), ad “investire” i capitali nella produzione di beni, spesso inutili, con la sola logica del profitto. La società allora affonda progressivamente in una illusione “produttivistica” con l’intento di avere e di accumulare sempre di più. Le classi borghesi si assicurano l’”avere”, mentre quelle imprenditoriali l’accumulo. La logica è quella del profitto, come sappiamo, ed allora i parametri del buon senso e della mediazione perdono ogni significato. La società consumistica, con l’ideologia delle false necessità, spinge il singolo a chiedere le cose, che il sistema partorisce a ritmo incalzante (il concetto di sviluppo è una definizione che viene ripetuta incessantemente come un disco incantato). Ma la parabola dapprima illusoriamente ascendente piega la sua curva, perché la logica perversa del capitalismo pone le sue fondamenta nel saccheggio dell’ambiente, sia nel senso dei prelevamenti (energia, materie prime, ecc.) che in quello dei rilasci (inquinamento dei rifiuti). Il cerchio si chiude ed il sistema umano affonda nella palude e purtroppo con esso anche gli elementi della natura. Marx asseriva che lo sfruttamento della natura è una delle contraddizioni del capitalismo; più in generale direi che la distruzione della natura è il risultato della società umana “civilizzata”! L’uomo è capace di rovinare tutto ciò che tocca perché in fondo la “civiltà” ha in sé il germe della propria distruzione e della distruzione del mondo.

    Scrive ancora Murray Bookchin (1995): “La ‘civiltà’ come noi la conosciamo oggi è più muta di quella natura per la quale pretende di parlare e più cieca di quelle forze elementari che pretende di controllare. In realtà, questa ‘civiltà’ vive nell’odio per il mondo che la circonda e nell’odio per se stessa. Le sue città sventrate, le terre rovinate, l’acqua e l’aria avvelenate, la sua meschina ingordigia sono un’accusa quotidiana alla suo odiosa immoralità. Un mondo così ridotto è forse irrecuperabile, per lo meno nel quadro delle sue attuali strutture istituzionali ed etiche......... Questo pianeta si merita un destino migliore di quello che sembra attenderlo nel futuro, se non altro perché la storia, compresa la storia umana, è stata così ricca di promesse, di speranze, di creatività”.

    Paradossalmente si potrebbe considerare che anche le opere dell’uomo (città, macchine, tecnologia, ecc.) siano in una qualche misura cose “naturali”, frutto dell’ingegno e dell’evoluzione di un essere senziente. Ciò potrebbe anche essere vero, ma questa “natura umana” è in netto contrasto con tutte le “cose naturali” non umane. Il mondo antropico non solo si oppone e si scinde da quello della natura, ma determina la totale distruzione e prevaricazione di quest’ultimo. In sintesi nessun accordo armonico è possibile stabilire tra le parti perché la scissione determina sempre contrasto e antitesi. Scrisse J. Muir (1995) “Chiamo Carlo e per tornare a casa, ripercorro il disagevole tratto di Indian Canon, lieto di essere dove sono e compatendo in cuor mio il povero professore e il generale, vincolati da orologi, calendari, ordini, doveri e quanti altri legami e sempre  costretti a vivere gli affanni della vita di pianura, la polvere e il rumore, mentre il povero, insignificante vagabondo gode la libertà e la grandiosità della divina natura selvaggia”.

    Il concetto di globalizzazione, oggi tanto diffuso e popolare, è un concetto che rende le società umane sempre più dipendenti le une dalle altre, causando un indebolimento dello spirito di “sopravvivenza” tanto che ognuno di noi è sempre più schiavo dei meccanismi infernali della vita quotidiana. Se un tempo, per esempio, un piccolo borgo di montagna rimaneva isolato per mesi durante il lungo inverno, la popolazione era perfettamente in grado di sopravvivere grazie ad una buona dose di autarchia che regnava sia nello spirito che nella pratica quotidiana. Oggi, un borgo, se perde per qualche giorno la strada di accesso, entra in una profonda crisi sia materiale che spirituale. Ecco il risultato delle catene sociali che stiamo amplificando sempre più. Una dipendenza ormai irrinunciabile. Il contratto sociale dovrebbe stipularsi tra piccoli gruppi autonomi senza creare immani strutture sociali fortemente dipendenti le une dalle altre, non libertarie e sempre più ingovernabili. Ovviamente non ci riferiamo alle dipendenze ecologiche proprie degli ecosistemi, ma a quelle catene non cicliche ed inutili che permeano sempre più i rapporti sociali. Lo sviluppo enorme del terziario e dell’industria ha contribuito definitivamente all’asservimento e alla vulnerabilità delle masse.

    Scrive Bookchin (1989): “Affinché la tendenza venga invertita, il capitalismo deve essere sostituito da una società ecologica fondata su relazioni non gerarchiche, su comunità decentrate, su ecotecnologie come l’energia solare, sull’agricoltura organica e su industrie a misura umana, insomma forme di insediamento veramente democratiche, economicamente e strutturalmente coerenti con l’ecosistema in cui si trovano collocate”. Ma una società ecologica non può nascere all’interno del sistema attuale, ma solo da un atto “rivoluzionario”, radicale e totalizzante. Afferma infatti Bookchin (1989): “.... Esso è fondato sull’opinione decisamente errata che la nuova società debba nascere nel seno stesso della vecchia, crescendovi e sviluppandosi come un figlio vigoroso capace di imporsi ai suoi genitori o distruggerli”.

    Il contratto sociale sebbene abbia una genesi di positività si è trasformato in una multiforme varietà dove giganteggiano esclusivamente il potere quanto più illimitato possibile, la sopraffazione, le disparità sociali, le menzogne, le mere illusioni, le distruzioni, le discriminazioni, le guerre e chi più ne ha ne metta. Non sembra affatto un buon “contratto”. Riflettiamoci un po’! Concludiamo con una massima di E. B. White, citata dalla Carson nell’epigrafe del suo capolavoro Primavera silenziosa (1963): “Sono pessimista sulla sorte della razza umana perché essa ha troppo più ingegno di quanto ne occorra al suo benessere. Noi ci accostiamo alla natura solo per sottometterla. Se ci adattassimo a questo pianeta e lo apprezzassimo, invece di considerarlo in modo scettico e dittatoriale, avremmo migliori probabilità di sopravvivere”.

    venerdì 29 ottobre 2021

    La religiore

    Wild Nahani


    Illustrazione di Elzbieta Mielczaek



    “L’uomo ha sempre saputo; ha sempre saputo che la vita è fondamentalmente buona, che l’universo, le stelle nel cielo, gli animali, le piante, i minerali, gli elementi della terra non sono malevoli, ma cosmicamente impregnati del proposito ordinatore.

    Il proposito è la sacralità inerente, l’ordine dell’universo in se stesso. Finché l’uomo ha rispettato questa sacralità, finché ne ha ordito il modello nel suo cuore attraverso l’umiltà e l’interiore sintonia spirituale, il modello della società umana ha anch’esso riflesso la sacralità e l’ordine di cui tutte le cose sono dotate” (J. Arguelles , in J. Levey, 1988).


    A questo punto occorre occuparsi, sia pure con un rapido “excursus”, dell’influenza esercitata dal pensiero religioso nei confronti del rapporto che, nel corso dei millenni, l’uomo ha intrattenuto con l’ambiente, osservando preliminarmente che, ove si escluda il Taoismo e il Buddismo (almeno in parte), e non considerando la filosofia di vita di buona parte degli indiani d’America e di pochi altri popoli “nativi”, carattere comune a quasi tutte le religioni è l’antropocentrismo nel quale l'uomo è il "signore del creato".

    Tutto è a disposizione del genere umano e nulla ha valore al di fuori della cerchia antropica. La diffusione delle religioni antropocentriche ha avuto un effetto devastante sulla natura tanto che quest'ultima, soggiogata e asservita alle cieche necessità umane, è stata sempre considerata una fonte inesauribile da dove attingere a piene mani senza limiti e senza rispetto. All'apice dell'uomo sta un "essere superiore" (leggasi Dio) che si preoccupa solamente di lui, lo illumina, lo guida, lo protegge e lo esalta nella vita eterna. Dinanzi ad uno scenario così accentrato quale spazio e significato potrà avere il verde di una foresta, lo sguardo di un lupo, il volo di una uccello o la corsa di un ghepardo? Nessuno, sono solo esseri di contorno che l'uomo religioso vede intorno a lui, ma che considera solo alla stregua dei suoi bisogni e della sue necessità. Questo modo di pensare e di agire, unitamente ad altri fattori storico/filosofici, ha determinato il distruttivo dualismo tra l'uomo da una parte e la natura dall'altra, esterna ed indipendente creata esclusivamente per il "signore del creato". La nascita di questo dualismo è all'origine di tutte le concezioni "violente" dell'uomo verso la natura, distaccato da una realtà che all’inizio lo vedeva integrato. Murray Bookchin scrive (AA.VV., 1987): “Per superare il problema del conflitto tra necessità e libertà, fondamentalmente, tra la natura e la società, dobbiamo fare di più che costruire semplicemente ponti tra l’una e l’altra, come avviene nei sistemi di valori fondati su atteggiamenti puramente utilitaristici nei confronti del mondo naturale. La denuncia dell’abuso che l’uomo fa della natura, compromettendo le condizioni materiali della sua stessa sopravvivenza, è indubbiamente fondata, ma del tutto strumentale. Essa presuppone infatti che il nostro interesse per la natura si basi sull’interesse personale, piuttosto che su una sensibilità verso la comunità vivente di cui siamo parte, seppure in modo assolutamente unico e peculiare. Da tale punto di vista, il nostro rapporto con la natura si riduce alla possibilità di saccheggiare il mondo naturale senza arrecare danno a noi stessi, purché riusciamo a trovare sostituti fattibili o adeguati (per quanto sintetici, semplici o meccanici che siano) delle forme di vita esistenti e dei rapporti ecologici. Il tempo ha dimostrato che proprio questa concezione ha giocato un ruolo preminente nell’attuale crisi ecologica, una crisi che non è soltanto la conseguenza di una distruzione fisica, ma anche di un serio sconvolgimento delle nostre sensibilità etiche e biotiche”. L'uomo, nella maggior parte dei credi religiosi, non si è più curato dell'unità della propria vita con quella dell’”esterno da sé" e, conseguenza della radicale scissione, si è sentito al centro del motore dell'universo e conseguentemente ha governato da despota un potere mai dato ma rubato o meglio inventato. Purtroppo i contenuti spirituali della maggior parte delle religioni non hanno proiettato l'uomo in una dimensione universale della vita, ma lo hanno condotto verso una cieca visione egoistica ed accentratrice. E' questo il "peccato mortale" di molte “fedi”, che, scevre da quella visione unitaria e globale, hanno "imposto" all'uomo il senso del dualismo creando un dissidio inconscio verso ciò che è esterno da lui. 

    “Il pensiero occidentale è dominato per secoli dalla filosofia aristotelica, ma a partire dal sedicesimo secolo si assiste a un mutamento radicale che segna il passaggio dall’antica concezione di un universo organico e vivente a quella di un mondo-macchina. Questa rivoluzione avviene in seguito alle scoperte di Cartesio, Galileo e Newton in campo matematico, fisico e astronomico. Cartesio separa la res extensa dalla res cogitans cioè lo spirito dalla materia. L’Uomo è l’unico essere dotato di entrambe: ha un corpo il cui funzionamento è descrivibile in termini meccanici ma possiede anche una mente ragionevole, sede del pensiero. Questo lo rende diverso e superiore a tutto il resto della Natura la quale è costituita esclusivamente da elementi materiali, è una grande macchina governata da precise leggi matematiche che l’Uomo può conoscere e dominare.” (Guarraci, 2004). 

    Ma elementi destabilizzanti che rendono l’uomo ostile a se stesso e alla natura tutta si rilevano fortemente nella concezione biblica/cristiana del mondo. In quest’ultima, citando Kaiser (1992) ricordiamo che “si crea un abisso tra il mondo, fonte di pericoli e minacce, e i credenti, e si predica ostilità nei confronti della terra....Nella Genesi dell’Antico Testamento l’uomo, considerato soprattutto sotto un profilo spirituale in quanto simile a Dio, viene chiamato di conseguenza a dominare sul resto della natura.......Così il racconto della Creazione non solo ha gettato le basi del dualismo tra Dio e il mondo, ma anche di quello tra l’uomo e il resto del creato, la natura: vale a dire tra l’uomo e il suo mondo. “ Forse”, come scrive Frank Water, “proprio in questa concezione dualistica, che divide l’uomo dalla natura, sta la radice della tragedia umana dell’Occidente””. Scrisse B. Russel (1959): “La religione si basa, ritengo, prima di tutto e soprattutto sulla paura. E’ in parte il terrore dell’ignoto, e in parte il desiderio di sapere che abbiamo una specie di fratello maggiore accanto a noi in tutti i guai e le dispute. La paura è il fondamento di tutto: paura del misterioso, paura della sconfitta, paura della morte”.

    Quanto sarebbe più nobile vivere una spiritualità universale, non disgiunta, nella quale l'uomo, elemento di un’ampio infinito sistema, svolga la propria parte al pari di una pietra, di un fiore, di una montagna o di un lupo. Ciò non esclude nessun pensiero che consideri importante l'uomo per l'uomo senza però giungere a sentire l'universo come elemento di appendice alla sua vita. Se l'uomo occidentale è riuscito a sviluppare una si' ampia e distorta spiritualità ha perso la grande opportunità di elevarsi al di sopra della mediocrità antropocentrica dove l'uomo e soltanto l'uomo inteso sia come specie che come singolo individuo, ha valore. Ma è bene ricordarsi che nella convivenza sociale una spiritualità così accentratrice non potrà che portare a continue scissioni, dissidi, intolleranze e incomprensioni. 

    Prendiamo a paragone di esempio il Cristianesimo. Esso, pur esprimendo alle sue origini il culto della mitezza e della non violenza, non ha saputo coerentemente trasferire quei principi al rapporto che l’uomo ha con la natura, in quanto rimase condizionato, come abbiamo visto, dalla radice storico-teologica espressa dal Vecchio Testamento. Si legge infatti nella Bibbia (Genesi 1,26): “Facciamo l’uomo che sia la nostra immagine, conforme la nostra somiglianza, ed abbia dominio sui pesci del mare, sui volatili del cielo, sul bestiame e su tutte le fiere della terra, e anche su tutti i rettili che strisciano sulla terra” e poi fatto l’uomo Dio disse (Genesi 1, 28): “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela e abbiate dominio sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sul bestiame, e su tutte le fiere che strisciano sulla terra”. 

    Parole che pesano come macigni, parole che portano al trionfo dell’antropocentrismo. “...Dio, conferendo una legittimazione divina alle mire di dominio cosmico dell’uomo, gli comanda di sottomettere a sé la terra” (Kaiser, 1992) . Solo il Buddismo, tra le più grandi concezioni religiose, ha saputo cogliere, almeno in buona parte, come abbiamo prima sottolineato, il carattere unitario uomo-natura anche se ovviamente è sempre l'uomo che recita la parte principale; tra i fondamentali principi del Buddismo ve n’è uno che recita: ”ogni uomo è portato a tenere un costante amore verso un suo fratello e verso gli animali”, oppure un altro: "......Poiché colui che si rende conto appieno dell'intima unione tra la sua vita ed ogni altra forma di vita, troverà che la sua coscienza si espande, e via via che comprende, ama: fino a che il palpito del suo cuore, s'identifica col palpito dell'universo e la sua coscienza coincide con tutto quanto ha vita. L'amore, naturalmente, ha altrettante forme quanti sono gli esseri che lo racchiudono, tuttavia, in definitiva, ciò che è meramente personale deve cedere il passo all'impersonale, ciò che è egoistico deve recedere dinanzi a quanto è altruistico........".

    Quando, muovendo da sì sconsolate meditazioni, si ripercorre secolo dopo secolo la vicenda umana, fino ad arrivare, tra scenari di genocidi e di immani rovine, alla storia del XIIº secolo, ci si trova all’improvviso al cospetto della figura di Francesco di Assisi; quale indescrivibile illuminazione, quale vivido raggio di luce va a posarsi allora sulla storia della Chiesa cattolica! Quale vero e proprio atto rivoluzionario è il “Cantico delle Creature”! E quel Canto appare ancora più sublime se al ripetitivo “sii lodato mio Signore” non si fa seguire il “propter” latino che può tradursi “a causa di”, ma si fa invece seguire il “par” francese, che suona “da parte di”, sicché è un coro di mille e mille voci quello che si innalza dalle creature in lode del Signore. “Già nel tredicesimo secolo San Francesco d’Assisi cercò di distogliere il cristianesimo dalla tesi antropocentrista prevalente in favore di una posizione biocentrica più animista e più antica ‘proponendo una democrazia di tutte le creature di Dio’” (Devall & Sessions, 1989).

    Scrive C. G. Jung “Nulla riusciva a convincermi che il ‘fatto a immagine di Dio’ dovesse riferirsi solo all’uomo. In realtà credevo che gli alti monti, i fiumi, i laghi, gli alberi, i fiori e gli animali manifestassero l’essenza di Dio assai meglio degli uomini, con i loro ridicoli vestiti, le loro meschinità, la vanità, la menzogna, l’odioso egotismo...”.

    Gli indiani Nordamericani, salvo eccezioni, sono il più vivido esempio di una visione unitaria della vita e della pratica spirituale. Vi è un abisso tra il loro modo di pensare e di agire e il nostro in quanto “....il pensiero fondamentalmente globale, olistico degli indiani americani e di altri popoli nativi, si contrappone al pensiero dualistico occidentale” (Kaiser, 1992). Un artista pueblo disse “Solo dopo essermi liberata dal cristianesimo riacquistai la sensazione di essere integra, di aver raggiunto il mio equilibrio, di essere indiana” (Kaiser, 1992). Scrive ancora Kaiser (1992): “Tutti gli sforzi per vincere la crisi attuale della nostra concezione del mondo sono tesi ogni volta a superare il dualismo di impronta occidentale e a ritrovare la strada che porta al mondo globale, perduta più di duemila anni fa.

    Un aspetto centrale di questo dramma concettuale è rappresentato dalla questione della sacralità o meno del mondo. Prima che il mondo unitario e globale fosse scisso in due sfere dell’essere, esso era inteso come spirituale e materiale allo stesso tempo, divino e terreno, trascendente ed immanente....... Questo mondo tutto ripieno di spirito divino era considerato intero e quindi sacro. Solo dopo la differenziazione tra sacro e non sacro, e dopo lo scioglimento dello stretto intreccio tra divino e mondano si arrivò gradualmente a concentrare tutta la sacralità nel Dio trascendente e, di conseguenza, alla dedivinizzazione o sconsacrazione del mondo della materia.....

    A tutto ciò si contrappone la visione globale del mondo degli abitanti dell’America prima dell’arrivo degli europei: praticamente tutte le popolazioni native americane condividevano la concezione mitica di un mondo in cui le sfere dello spirito e della materia, del sacro e del profano non erano rigorosamente distinte, ma formavano un’unica globalità....”.

    Integra il discorso Dalla Casa (1996): “Nelle concezioni orientali le altre specie viventi sono composte di esseri che vivono in modi diversi la nostra stessa avventura, con pieno diritto ad una vita libera ed autonoma. Invece, nel nostro mondo, i cosiddetti ‘movimenti per la vita’ ritengono ovvio occuparsi solo della vita umana, senza neanche il bisogno di precisarlo. Dell’equilibrio e dello stato di salute della Vita, cioè del Complesso dei Viventi, non si preoccupano affatto”. Un classico atteggiamento del genere è evidenziato chiaramente da molti credenti che si preoccupano esclusivamente ed egoisticamente della vita umana! Hosle (1992) annota saggiamente che: “Le Chiese dovranno modificare radicalmente la loro maniera di predicare: al giorno di oggi colui che opera in modo ecologicamente consapevole può affermare di seguire lo spirito dell’etica cristiana con maggior diritto di chi tramanda credenze che possono anche essere degne di rispetto per la loro vetustà, ma che danno uno scarso contributo alla soluzione dei problemi riguardanti l’esistenza del genere umano. E’ palese che in questo contesto andrebbe rivista anche la formazione dei teologi: mi sembra che per un maestro di morale (perché anche questo dovrebbe essere il sacerdote) alcune nozioni fondamentali in materia di ecologia siano più importanti di uno studio dettagliato della scienza liturgica”.

    A proposito di tutte le speculazioni umane sul significato e sugli scopi della nostra vita, speculazioni che hanno coinvolto una fila interminabile di filosofi, teologi e quanti altri, Watts (1978) ci ricorda magistralmente: “Forse cominciamo a comprendere perché quasi tutti gli uomini hanno la tendenza a cercare conforto tra gli alberi e le piante, i monti e le acque.......forse la ragione di questo amore per la natura non umana è che la comunione con il mondo naturale ci riporta a un livello della natura umana nel quale siamo ancora sani, liberi dalle sciocchezze e dalle ansiose domande sul significato e lo scopo della nostra vita. Infatti quella che chiamiamo ‘natura’, è un mondo libero da un certo tipo di presunzione e di scaltrezza. Gli uccelli e le bestie si impegnano a cercare il cibo e a generare con la massima devozione, ma non cercano giustificazioni, non pretendono che le loro azioni siano al servizio di fini superiori o che contribuiscano in modo rilevante al progresso del mondo”.

    John Muir con la sua infinita acutezza di pensiero scrisse (in Devall e Sessions 1989): “Supponete che un cacciatore cristiano vada dal Signore dei boschi e uccida le sue bestie migliori o gli indiani selvaggi e non ci sarà niente da ridire. Ma immaginate che una di queste vittime predestinate, un po’ più intraprendente delle altre, vada nelle case e nei campi e uccida il più insignificante appartenente a questi assassini su due zampe fatti a immagine di Dio e questo sarà assolutamente poco ortodosso e, se l’assassino è un indiano, un atroce delitto. Beh, provo scarsissima simpatia per l’egoistica proprietà dell’uomo civilizzato, e se scoppiasse una guerra fra gli animali selvaggi e il Signore Uomo, sarei tentato di simpatizzare per gli orsi...

    Ci è stato detto che il mondo è stato creato per l’uomo. E’ una supposizione completamente smentita dai fatti. Sono in molti a stupirsi quando nell’universo di Dio trovano qualcosa, vivo o morto, che non è commestibile o non è, come si dice, utile per l’uomo. Non contenti di prendere tutto dalla natura, pretendono anche lo spazio divino come fossero le uniche creature per le quali è stato progettato questo insondabile impero...

    E’ molto più probabile che la natura abbia creato gli animali e le piante per la loro stessa felicità piuttosto che per la felicità di uno solo dei suoi elementi. Perché l’uomo dovrebbe reputarsi più importante di una entità infinitamente piccola che compone la grande unità della creazione?.....”.

    Per completare la breve dissertazione non vi è passo più appropriato di quello di Gregory Bateson (1976): “Se mettete Dio all’esterno e lo ponete di fronte alla sua creazione, e avete l’idea di essere stati creati a sua immagine, voi vi vedrete logicamente e naturalmente come fuori e contro le cose che vi circondano. E nel momento in cui vi arrogherete tutta la mente, tutto il mondo circostante vi apparirà senza mente e quindi senza diritto a considerazione morale o etica. L’ambiente vi sembrerà da sfruttare a vostro vantaggio. La vostra unità di sopravvivenza sarete voi e la vostra gente o gli individui della vostra specie in antitesi con l’ambiente formato da altre unità sociali, da altre razze, dagli altri animali e dalle piante.

    Se questa è l’opinione che avete del vostro rapporto con la natura e ‘se possedete una tecnica progredita’, la probabilità che avete di sopravvivere sarà quella di una palla di neve all’inferno. Voi morrete a causa dei sottoprodotti tossici del vostro stesso odio o, semplicemente, per il sovrappopolamento e l’esagerato sfruttamento delle risorse”. 


    “Non credete a ciò che avete udito; non credete alle tradizioni solo perché sono state tramandate per generazioni; non credete in qualcosa perché ne è corsa voce o molti ne hanno parlato; non credete semplicemente perché vi viene citata un’affermazione scritta di un qualche antico saggio; non credete nelle congetture; non credete in ciò che considerate vero perchè vi ci siete attaccati per abitudine. Non credete semplicemente all’autorità dei vostri maestri e degli anziani.

    Dopo osservazioni e analisi, quando la verità che avete trovato da voi stessi si accorda con la ragione e contribuisce al bene e al miglioramento di ognuno, allora accettatela, praticatela e vivete secondo essa” (Il Buddha - in J. Levey, 1988).

    “Credo nel Dio di Spinoza, che si manifesta nell’armonia di tutte le cose, non in un Dio che si interessa del destino e delle azioni degli uomini” (A. Einstein).

    “Nel mondo indiano non esiste la concezione secondo cui l’essere sarebbe distribuito lungo una scala verticale, con la terra e gli alberi collocati sui gradini più bassi, gli animali un po’ più in alto e l’uomo, soprattutto quello civilizzato, in cima. Tutte le cose sono considerate piuttosto come sorelle o parenti; tutte sono figlie del Grande Mistero e della Madre Terra, e membri necessari di una globalità ordinata, equilibrata e vitale” (Paula Gunn Allen, in Kaiser, 1992).