lunedì 30 ottobre 2023

Per una reale conservazione dell’Orso bruno

Wild Nahani


Per una reale conservazione dell’Orso bruno





Introduzione


Al di là del suo grande rilievo naturalistico l’Orso bruno è universalmente considerato un simbolo di forza e di dominio, tanto che molti Paesi si sono appropriati della sua immagine per rappresentarla sulle bandiere o sugli stemmi. Ma, né la connaturata fierezza del plantigrado, né l’alone di leggenda che lo circonda, hanno potuto preservarlo da una secolare, sistematica persecuzione che è stata sul punto di minacciarne l’esistenza stessa. Se si pensa che l’Orso (come molti altri predatori) era in tempi non troppo lontani ancora iscritto tra le specie “nocive” da distruggere con ogni mezzo (trappole, fucilate, bocconi avvelenati, ecc.), ci si rende conto del grande rischio di estinzione che la specie ha corso. Fortunatamente negli ultimi decenni, grazie alle pressioni esercitate dal mondo scientifico e dalle associazioni protezionistiche, molti Paesi hanno adottato provvedimenti per la sua salvaguardia. Permangono tuttavia gravi pericoli per la sopravvivenza dell’Orso bruno (vedasi Appennino centrale e il distretto alpino), derivanti non solo dalle uccisioni di frodo, ma anche dalla manomissione del territorio montano reso sempre più accessibile (leggasi turismo); in tal modo larghe parti del territorio hanno definitivamente perso la tranquillità e la pace, requisiti essenziali per la vita del plantigrado; una realtà del genere non farà altro che insidiare gravemente la libera esistenza dell’Orso bruno e porrà a repentaglio le ultime vestigia del suo habitat. 

E' dunque essenziale per la tutela di specie animali o vegetali, e nel nostro caso dell’Orso bruno, proteggere attivamente gli ambienti nel loro insieme. Ma il mondo naturale potrà avere un avvenire? La risposta parrebbe essere negativa, perché l’uomo è ormai prigioniero di un modello di sviluppo che comporta irreparabili squilibri ambientali ed è, per di più, protagonista di una paurosa esplosione demografica che gli ha fatto superare ormai da tempo il limite massimo del rapporto numero individui-carico ambientale. A ciò si aggiunge che una gran parte della popolazione del pianeta conduce un tenore di vita che comporta l’uso di una quantità enorme di energia nonché il consumo di preziosi metalli che si avviano ad un progressivo impoverimento.
Il degrado ambientale è arrivato a sì alto livello ed i problemi sono a tal punto complessi che, ipotizzare una loro soluzione all’interno di un solo Paese significa consumarsi in uno sforzo velleitario, giacché il degrado è, per così dire, ecumenico e non s’arresta davvero innanzi alle barriere doganali. Infatti è necessario osservare che il degrado non è uniformemente distribuito sul pianeta, in quanto esso presenta una distribuzione che potremmo definire a “macchia di leopardo”; sarebbe comunque una fallace speranza quella che intendesse ricostituire l’equilibrio ecologico generale mediante provvedimenti che curino le “macchie” caso per caso, poiché occorre al contrario che l’influenza negativa esercitata dalle attività umane sull’equilibrio ambientale venga drasticamente ridotta dappertutto.
Occorre poi sgombrare il campo degli studi naturalistici da una pregiudiziale che è di un tale rilievo da assumere il valore di una contraddizione in termini, poiché tale è appunto la pretesa di chi si ostina a considerare il problema ambientale esclusivamente in funzione dell’uomo. L’uomo è una parte, un tassello dell’ecosistema, non è l’ombelico della natura, perciò cade in un grave errore chi subordina la salvaguardia dell’ambiente al primato dell’uomo. Cade in grave errore chi dice, ad esempio, “ se continua la distruzione delle foreste il danno si ripercuoterà sull’uomo”...” se si continua ad avvelenare i campi anche l’uomo ne resterà avvelenato”. C’è insomma il rischio che nei nostri discorsi si ripresenti ognora il nostro inveterato antropocentrismo, tutto e sempre per l’uomo. Occorre ribaltare una siffatta concezione per porre al centro di tutto gli interessi globali della vita sulla Terra (visione olistica). La regola deve tendere a salvare un bosco secolare non per l’uomo, ma per il bosco stesso; alla fine anche l’uomo se ne avvantaggerà, ma sarà un riflesso, non lo scopo di quel salvataggio. La wilderness deve essere preservata per il suo valore in sé! Scrive a tal proposito Franco Zunino: ".....L'uomo deve rispettare la natura per il suo valore in sè, e deve sapersi tirare indietro non appena la sua presenza vi incide negativamente, non trovare cavilli e rimedi provvisori per giustificare la necessità o, peggio, il 'diritto' della sua presenza".
Le nostre azioni distruttive sono molteplici e quasi mai si comprendono appieno le implicazioni connesse agli interventi che turbano l’equilibrio naturale: se ad esempio l’uccisione di un’Aquila reale da parte di un bracconiere costituisce una drammatica ferita all’ambiente, una turbativa ancora maggiore è insita in quegli atti che, nel modificare l’ambiente in sé stesso, determina, col tempo, la scomparsa di tutte le Aquile nel territorio esaminato. Queste considerazioni sull’Aquila reale ci portano a riflettere ancora sull’interconnessione dei problemi ambientali. In natura non esistono fenomeni vitali che esauriscono in sé stessi la ragione di essere; tutti i fenomeni sono concatenati tra loro, un po’ come accade per le singole scansioni musicali di una sinfonia. Tenuto fermo tale principio, è del tutto intuitivo che in un siffatto concerto naturale l’assetto territoriale eserciti un’incidenza che sovrasta gli altri fattori, a simiglianza di quanto accade col “leit-motiv” di un testo musicale. 
In natura ogni specie svolge la propria parte all’interno di un processo dialettico che tende al conseguimento di uno stato di equilibrio; questo non è ovviamente perenne, ed ha in sé stesso la capacità di assestarsi sui parametri che via via si andranno definendo. E' da notare che ogni singola specificità biologica, allorché entra nel processo evolutivo che determinerà il punto di equilibrio dell’ecosistema, assume un suo ruolo ben definito. In teoria anche l’uomo dovrebbe partecipare al processo evolutivo a parità di diritto con le altre specie, sia animali che vegetali, ma ciò in realtà non accade perché l’uomo, a causa del suo sviluppo intellettivo è, tra l’altro, in grado di modificare e stravolgere l’assetto del territorio mediante opere gigantesche, come - ad esempio - le dighe che sbarrano i fiumi, le autostrade lunghe migliaia di chilometri, il prosciugamento dei laghi, la costruzione di città; a ciò si aggiunga che, forte della sua sofisticata tecnologia, l’uomo ha la possibilità di sterminare, nel volgere di un breve arco di tempo, qualsiasi altra forma vivente. L'uomo è dunque uscito dall'armonico rapporto con le risorse naturali e, autonomamente, ha accresciuto la propria popolazione e le proprie necessià a totale scapito della natura.
Da queste considerazioni appare chiaro che, attesa la estrema gravità del degrado ambientale, occorre intervenire radicalmente, senza compromessi, ponendo la salvaguardia dell’ambiente in posizione preminente rispetto a qualsiasi altro interesse; ciò può essere conseguito solo attivando una diversa corrente di pensiero che ha alla base una volontà opposta a quella attuale: quella di conservare. Ma solo se si acquisisce nella coscienza questa nuova forma mentis, si potrà veramente proteggere la natura e quindi in fondo anche noi stessi, altrimenti nessuna legge o coercizione impositiva potrà garantire una vera e reale salvaguardia dell'ambiente. Fin quando non considereremo per esempio un bosco o qualsiasi altra risorsa naturale come qualcosa di "unito" a noi e al tutto, nessun risultato o protezione di un territorio avrà valore e sopratutto concretezza.
E' triste doverlo ammettere, ma l'impatto che l'uomo esercita sul territorio è in drammatica contrapposizione con le esigenze dell'economia naturale (che domina è sempre l’economia umana). Sarebbe auspicabile pervenire ad una sostanziale riduzione della pressione demografica, ma un tale auspicio si colora purtroppo di folle utopia. Ridurre drasticamente la pressione demografica: un grande atto di altruismo verso la natura (ma anche verso noi stessi), è questo il precetto che ognuno di noi dovrebbe imparare a memoria, ma sappiamo bene che l'invocazione ha poche possibilità di essere ascoltata. E' inutile discutere sulla riduzione dei consumi, sull'inversione delle tendenze o sul controllo dell'inquinamento: sono solo parole che vanno via con il vento. La realtà è un crudo “aut-aut”, o si ridimensiona l'uomo o la natura. E' l'uomo che deve addattarsi alle esigenze della natura e non viceversa. La natura deve essere salvata e rispettata per il suo valore in sé, non per un nostro interesse, materiale, spirituale o etico che sia.
Fin quando l'umanità persevererà nell'attuale modello di sviluppo, gli animali selvatici vedranno ridurre il proprio spazio vitale giorno dopo giorno per fare posto al "signore uomo" re del creato. “Come i venti e i tramonti, la vita selvaggia era considerata sicura finché il cosiddetto progresso non ha cominciato a portarla via. Ora ci troviamo di fronte al problema se un ancora più alto livello di vita valga il suo spaventoso costo in tutto ciò che è naturale, libero e selvaggio” (A. Leopold).
Solo la totale scomparsa dell'antropocentrismo salverà la vita sul pianeta terra! Ogni altro compromesso sarà destinato a fallire. E ancora “C’è solo una speranza di respingere la tirannica ambizione della civiltà di conquistare ogni luogo della terra. Questa speranza è l’organizzazione delle genti più sensibili ai valori dello spirito, affinché combattano per la libera continuità della natura selvaggia” (Robert Marshall).
All’uomo risale dunque la responsabilità di provvedere alla protezione della natura (perché è l'uomo che la distrugge e quindi è lui che deve conservarla), a meno che non si voglia considerare l'uomo alla stregua di una semplice componente del materialismo dialettico, a cui sarebbe stato affidato il compito di sovvertire l'ambiente naturale tramandatoci dalla biblica "creazione": solo questo potrebbe essere in chiave ironica l'essenza della filosofia antropocentrica. John Muir giustamente asseriva che la “civiltà” non può prescindere dalla wilderness, la natura selvaggia ed incorrotta.
A commento di queste osservazioni vorremmo porre in rilievo, concludendo con l’Orso bruno, che dietro la superba fierezza e l’ammirata energia del plantigrado si cela in realtà una natura di insospettata fragilità, fragilità che d’altronde si ritrova nell’intero ecosistema, tutto incentrato su un equilibrio casuale estremamente sensibile a tutto ciò che turba “l’amor che move il sole e l’altre stelle”.

La conservazione dell’Orso bruno

Vorremmo che tutti voi sentiste la tristezza che muove oggi questi animali, la perdita dell’antica fierezza, il cercarsi e contarsi affannoso tra i boschi per poter appagare i bisogni essenziali, i motivi stessi dell’esistenza, una ricerca disperata, infruttuosa, tra individui di una specie che va scomparendo, preludio ad una malinconica ed eterna solitudine.
Ascoltate questo richiamo e seguite le sorti di questo animale, la cui sopravvivenza è radice di una Natura selvaggia ma anche dignitosa e giusta; una Natura in cui l’uomo può ancora gustare i frutti del conoscere non programmato, dell’avventura, nella dolcezza dell’equilibrio biologico, bisogni antichi ma mai spenti in noi. Al di là della giustezza delle nostre riflessioni, dell’impostazione che ad esse abbiamo dato, oggi quel che desideriamo è che ognuno di noi riservi dentro di se un piccolo posto per l’Orso bruno” 
(La Pietra, 1985).

E’ stato necessario aprire questo paragrafo con parole soffuse di melanconico pessimismo, per evidenziare il grave stato in cui versa la specie in molti paesi in cui è ancora presente (NB. Facciamo presente che in questo documento, anche se faremo qualche cenno sulla situazione dell'orso in trentino, ci occuperemo quasi esclusivamente dell'Orso bruno marsicano). In Europa, nell’era preistorica, fatte le dovute eccezioni, l’area occidentale era praticamente occupata per intero dall’orso bruno, mentre attualmente la sua presenza è concentrata soprattutto nella parte orientale del continente. In quella occidentale, infatti, oggi sopravvive con relitte popolazioni isolate ed a bassa densità (Osti, 1994). Anche nel resto del mondo la popolazione è in generale contrazione tanto che la specie si è estinta in molti distretti di presenza (p.e. negli Stati Uniti, escludendo lo stato dell’Alaska, sopravvivono forse meno di un migliaio di individui). 
Per quanto attiene alla popolazione italiana la situazione è non molto buona. In Italia infatti l’orso bruno sopravvive con due popolazioni nettamente isolate: una vive in Trentino Alto Adige (orso bruno delle Alpi) e un’altra, in grave pericolo, in Abruzzo e località limitrofe (orso bruno marsicano) (Osti, 1994 - Zunino, 1976,1981,1983,1984, 1984a - Boscagli, 1988). Negli ultimi decenni la specie è sporadicamente segnalata anche nelle Alpi orientali, con particolare riferimento al Tarvisiano (zone di confine con l’Austria) e al Carso triestino, con una apparente lenta ricolonizzazione di esemplari provenienti dalla Slovenia, rioccupando così aree già storicamente abitate dall’orso bruno (Zunino, comunicazione personale - Boscagli, 1988 - Osti, 1994). Sembra comunque prematuro parlare di popolamenti stabili (Boscagli, 1988) anche se negli ultimi anni il fenomeno pare mantenersi costante e forse in crescita (ricolonizzazione della Carinzia e di parte della Stiria con una popolazione già in grado di riprodursi - WWF, 1997). La popolazione trentina, localizzata nella parte occidentale della regione in corrispondenza del gruppo montuoso del Brenta (territorio del Parco Naturale Adamello-Brenta), ammontava sul finire degli anni '90 del secolo scorso a 4-6 individui (Osti, 1994 - Forse anche meno, Groff, 1997 comunicazione personale) (sul finire degli anni ottanta erano stimati 13-15 esemplari), quindi nettamente al di sotto del potenziale minimo di ripresa della popolazione e in netto regresso. Questo nucleo, ultimo superstite della nutrita popolazione che un tempo abitava l’intero arco alpino, poteva considerarsi quasi estinto. Tuttavia dal 1999 al 2002, nella zona trentina si è provveduto ad una operazione di reintroduzione, e secondo le più recenti stime oggi la popolazione ammonta all'incirca intorno a un centinaio di individui. Fondamentale per garantire una ulteriore ripresa è quella di provvedere ad un’assoluta tutela degli habitat in cui la specie rivive tutt'ora (quest’ultimo punto è però dubbio! Sappiamo, parlando in generale, la "protezione spettacolo" dei vari territori). Comunque la situazione trentina, anche se con le operazioni di reintroduzione, ha raggiunto un buon numero, è necessario operare attivamente per il raggiungimento di una popolazione "ottimale" che possa garantirsi la sopravvivenza futura e lo sviluppo. Tuttavia, in Trentino, spesso non corre buon sangue, per un certo numero della popolazione umana e da parte degli organi governativi, di competenza. Vi è stato un attacco mortale, ma era una madre che ha voluto difendere i suoi cuccioli. Non ha avuto nessuna colpa. Ma le autorità, l’anno successivamente abbattuta (orsi considerati problematici). Ci sono stati altri avvicinamenti/contatti tra orso e persone, ma nulla più. Ma la gente, non vuole essere soggetta a questi eventi, ed egoisticamente, con una buon dose di ignoranza e di superbia, pretendono che i boschi e le montagne, siano tutte per loro. Insomma, una conferma della centralità dell’uomo (egocentrismo), sul pianeta TERRA, mentre se si avesse una giusta visione, il tutto dovrebbe essere non la centralità dell’uomo, ma dovrebbe regnare, un assoluto egocentrismo, dove l’uomo non è al centro, ma un elemento dell’ampio respiro di tutto il mondo naturale!! Il saggio pensiero di Mauro Corona. Infatti per lui l'uomo, non l'orso, è spesso l'intruso in montagna e che è necessario un cambio di mentalità per convivere pacificamente con la fauna selvatica. Egli sostiene che l'uomo, come detto, è "l'intruso" in montagna, debba imparare a convivere con gli orsi e che l'abbattimento di questi animali sia una soluzione spesso evitabile. In particolare, Corona ha criticato l'abbattimento dell'orsa KJ1, sottolineando che le femmine difendono i loro cuccioli e che bisognerebbe educare le persone a frequentare i boschi con maggiore consapevolezza.

La popolazione abruzzese (Appennino centrale, includendo oltre all’Abruzzo anche le regioni limitrofe di Lazio e Molise), considerata dagli studiosi una particolare sottospecie dell’Ursus arctos (il fatto sembra praticamente certo) conta ancora una quarantina/sessantina di individui, un numero troppo esiguo per sperare in un futuro positivo per la specie (omettiamo le stime nebulose e prive di realtà che circolano in giro!! Tuttavia alcuni studi affermano che la popolazione dell’ Orso marsicano, si aggiri intorno ad un centinaio di individui). Localizzati prevalentemente nell’area del Parco Nazionale d’Abruzzo/Lazio e Molise e in zone limitrofe (salvo pochi esemplari individuati anche a notevole distanza) la popolazione è comunque, come detto, in forte rischio. Dal 1970 agli anni novanta sono stati rinvenuti morti, per varie cause, forse un centinaio di orsi (Zunino, 1997 comunicazione personale - bracconaggio, incidenti di varia natura come gli investimenti, occasionale avvelenamento con bocconi, ecc.). Tutto ciò unitamente ad una dispersione della popolazione per le carenze alimentari e, negli ultimi anni, per il gravissimo disturbo ambientale causato dal turismo di massa che affligge anche i recessi più reconditi abitati dal plantigrado (escursionismo, sci di fondo, gitanti in genere, ecc.) (osservazioni personali - Zunino, 1984a-1995b; comunicazioni varie personali).
In effetti l’eccessiva presenza turistica, non solo altera integralmente i cicli vitali della specie, ma favorisce una costante dispersione degli individui che, unitamente ad altri fattori negativi, vagano nella disperata ricerca di luoghi tranquilli e remoti. Questo determina o favorisce tutta una serie di gravissime situazioni (dispendio energetico, dispersione della popolazione, maggiore probabilità di mortalità per causa umana, frazionamento ed isolamento, fino al raggiungimento del collasso dei contingenti con conseguente agonia e scomparsa della specie). Occorre evidenziare che la ricolonizzazione di aree nuove o già storicamente abitate dalla specie è un evento positivo quando il fenomeno è il risultato dell’espansione di una popolazione in forte crescita ed in ottimo status ecologico, non lo è quando è quasi sempre il frutto di un “fuga” da una località all’altra in cerca di tranquillità e di alimento. Proprio questa è la situazione che sembra registrarsi nell’Appennino centrale (osservazione personale - Zunino 1981, 1984a, 1995b). Quanto detto non esclude ovviamente che qualche orso si sposti o si sia spostato in nuove località per altre cause o per altre necessità, né che località limitrofe all’areale principale siano da tempo colonizzate da qualche orso. Tuttavia, per motivi di chiarezza, occorre ricordare che alcuni Autori smentiscono questa ipotesi di “fughe” ed asseriscono invece che l’orso ha sempre abitato le località limitrofe all’areale principale, che sono state meglio individuate grazie ad una più approfondita conoscenza del territorio (p.e. Boscagli, 1988 - Boscagli et al., 1995 - Pellegrini, 1992). Anche l’eccessiva presenza del cinghiale nell’areale dell’orso a causa della forte concorrenza alimentare sembra determinare un impatto deleterio sulla popolazione locale del plantigrado (Zunino, 1984a - Fabbri et al., 1983). Zunino (1984a) considera evento negativo per l’orso anche l’abbondanza/scarsezza della pastorizia.
Occorre ricordare che nell’area del Parco d’Abruzzo unitamente alla fascia di protezione esterna la popolazione, nei giorni attuali, si sarebbe ridotta di oltre il 50% dalla stima di almeno 70/100 orsi fatta nei primi anni settanta (Zunino & Herrero, 1972 - Zunino, 1976,1984, 1984a, comunicazioni personali). E’ bene comunque evidenziare l’importanza fondamentale che ha avuto ed ha il Parco Nazionale d’Abruzzo per la salvaguardia dell’orso marsicano; senza la nascita di questa area protetta e senza la legge nazionale del ‘39 che proibiva la caccia al plantigrado, oggi questa specie probabilmente non sarebbe più presente sull’Appennino.

Interrompiamo momentaneamente la dissertazione per lasciare ampio spazio alle argute constatazioni di Franco Zunino, un profondo conoscitore della vita dell’orso bruno che, con lungimiranza, sin dagli anni settanta evidenziò le problematiche conservazionistiche inerenti al plantigrado (tratto da: "I giorni dell’Orso bruno", 1992). “Quando abbassai lo sguardo scrutando l’ampia radura che si apriva sotto di me, infuocata dal dardeggiare del sole di un pomeriggio di luglio, solo la macchia scura di un essere vivo movimentava la scena: un cavallo, pensai, un cavallo al pascolo. Portai il binocolo agli occhi e rimasi esterrefatto; stavo osservando un enorme Orso bruno, il primo in libertà della mia vita!
Fu come se un fantasma si fosse materializzato innanzi ai miei occhi; erano mesi che lo cercavo quel fantasma, che ne seguivo le tracce, che trovavo i segni del suo passare, del suo rovistare tra i sassi, che annusavo l’odore muschiato delle sue fatte, che esploravo le sue tane e i suoi giacigli, che annotavo ogni cosa della sua vita, sulla carte e nella mia mente, ma lui, l’Orso bruno, era sempre sfuggito alle mie osservazioni.
Quel giorno di luglio, era un martedì, il 19, un’orsa con due cuccioli, due mucchietti di pelo scuro grandi poco più di un gatto, stavano davanti a me; e lì stettero per oltre due ore, mentre io li osservavo, li studiavo e, soprattutto, godevo della loro vista in quel panorama grandioso che loro rendevano ancora antico e selvaggio, immutato da generazioni. Li avvicinai, e loro seppero così della mia presenza e mi osservarono, così curiosi come io osservavo loro, ma non fuggirono la mia figura estranea di uomo; ci capimmo e rispettammo, come se le nostre vite fossero state sintonizzate su una stessa onda. Stavo con loro come l’uomo stava ai primordi dell’umanità, essere selvaggi, tutti, di uno stesso mondo selvaggio. Stavo nella loro identica dimensione e nel loro primitivo rapporto con l’ambiente.
Questo avvenne tra le montagne dell’Ortella e dello Schienacavallo, nel cuore del Parco Nazionale d’Abruzzo, nell’ormai lontano 1970. Io stavo svolgendo una ricerca sulla biologia di quest’animale per conto del World Wildlife Fund (Fondo Mondiale per la Natura) e dell’Ente Autonomo del Parco Nazionale d’Abruzzo.
Da allora non smisi più di occuparmi dell’Orso bruno e dei problemi relativi alla sua protezione. Gli incontri con lui sono poi continuati quell’anno e negli anni che seguirono, mentre esploravo e visitavo in lungo e in largo le montagne di calcare e le foreste di faggi del Parco Nazionale, caratterizzate dalla presenza ovunque, di rupi e sassi bianchi. E mi colpirono, quelle pietre e quelle rocce biancastre, tutte uguali, nelle foreste e fin sulle cime più alte; mi affascinarono, perché erano tanto diverse da quelle scure e multiformi delle Alpi da cui venivo. Era l’Appennino, questo. Un altro mondo.
Ero stato per la prima volta nel Parco Nazionale nel maggio dell’anno prima, e ricordo che già allora fui rapito dalla bellezza dei luoghi; dalle immense foreste di faggio tinte di verde pallido per le nuove foglie, in contrasto con le creste dei monti ancora bianche di neve; dalle ampie ondulate radure carsiche colorate dalle sterminate fioriture di viole gialle e azzurre.
Un mondo fantastico, di fiaba. Un Abruzzo antico e pastorale che da allora cominciai a visitare in tutte le stagioni, e in solitudine; in una continua meditazione, più poeta che scienziato. Un mondo vario e selvaggio al quale sono ormai indissolubilmente legato perché trattiene una parte di me; un mondo che ancora oggi riesco pienamente a comprendere ed apprezzare nei suoi reali valori soltanto nella solitudine. E lì viveva l’Orso bruno, sopravvissuto ad altre epoche; lì, unico luogo italiano veramente suo.
L’Orso bruno in Italia è presente in Abruzzo ed in Trentino. Ma mentre in Trentino può considerarsi sull’orlo dell’estinzione, con una popolazione formata da poco più di una decina di individui relegati alle montagne del Brenta e dell’Adamello, in Abruzzo la situazione è decisamente migliore, anche se si è estremamente deteriorata negli ultimi anni.
All’epoca dei miei studi, in Abruzzo era stimata una popolazione formata da oltre un centinaio di individui, distribuiti su un territorio relativamente modesto (circa 1500 kmq) comprendente il Parco Nazionale (istituito nel 1923 a specifica protezione dell’Orso marsicano e dell’altrettanto raro Camoscio d’Abruzzo) e i suoi circondari. Oggi però, quale conseguenza di una discussa ma reale dispersione della popolazione, verificatasi a partire dalla metà degli anni ‘Settanta e a causa della conseguente facilitata uccisione (o morte per incidenti di varia natura ma tutti riconducibili alla responsabilità dell’uomo) di diecine e diecine di individui avvenuta in questi anni ‘Ottanta, anche l’Orso abruzzese è in serio pericolo di estinzione: ne restano infatti forse solo più una cinquantina di individui, che costituiscono la metà del contingente stimato vent’anni or sono.
Io fui il primo in Abruzzo a studiare sul campo le abitudini e l’ecologia dell’Orso bruno, sostenuto più dall’amore per le cose della natura che non da reali cognizioni scientifiche. Ho comunque aperto una strada ad altri; buttato le basi per gli studi che sono seguiti e che sicuramente seguiranno. Questo è ritenuto giusto da molti, un passo avanti verso la conoscenza sempre più approfondita di questa specie. Io però spesso mi chiedo se questo affannoso esplorare e scoprire, questa sete di conoscenze, non finisca per essere l’inizio dell’apocalisse dell’animo umano. Che sarà di noi quando non vi saranno più misteri e cose sconosciute a farci sognare? E il mondo della natura è quello che più ci ha permesso e ci permette di sognare, immaginare! E mi chiedo anche quali reali funzioni abbiano le conoscenze che si acquisiscono, e che io ho acquisito sull’ Orso bruno, ai fini della sua protezione, se da quando io ho iniziato ad interessarmene (e sono passati quasi vent’anni!), nessuno, né tecnico né politico, ha ritenuto opportuno utilizzare queste conoscenze per meglio garantire il futuro a questo animale. Anzi, proprio perché queste conoscenze portano a conclusioni contrarie ai desideri di chi avrebbe il dovere ed ha il potere di prendere gli opportuni provvedimenti in difesa dell’Orso, esse non piacciono, perché evidenziano la necessità di dover prendere decisioni che si ritengono scomode ed inopportune. Significano decisioni impopolari ed antieconomiche, specie a breve termine, che vanno contro gli interessi materiali immediati delle attuali generazioni. Così esse non vengono mai prese e si continuano a rimandare con la scusa della necessità di ulteriori studi e di ancora maggiori conoscenze: l’importante è procrastinare le decisioni impopolari, delegarle ad altre generazioni. Di questo passo, però, stiamo correndo il rischio di ottenere certamente il primo risultato - maggiori conoscenze e conseguentemente l’impoverimento spirituale dell’uomo - senza mai raggiungere il secondo, benché primario - garantire un futuro all’Orso bruno attraverso la sua difesa e la difesa del suo mondo selvaggio dall’invadenza dell’uomo.
Sta di fatto, che nella sua apparente libera esistenza, l’Orso d’Abruzzo in realtà non ha più scampo: potrebbe essere solo una questione di tempo, come l’avvenuta estinzione di tante specie ci ha insegnato. Le pressioni economiche che spingono ad un sempre continuo, e a volte nuovo, sfruttamento ed utilizzo del suo ambiente, sono infinite; strade, tagli boschivi, costruzioni, campi da sci, linee elettriche, rifugi, ecc. ecc. sono tutte opere che di anno in anno restringono e degradano, sia pure di poco, i luoghi in cui vive l’Orso. Lo sviluppo avanza continuamente, a volte in modo lento e quasi impercettibile, quantificabile solo attraverso l’analisi di anni o valutazioni statistiche, ma avanza. E il boom del turismo in natura ha inferto l’ultimo colpo, influendo anche sulla situazione psichica dell’Orso bruno, con disturbi eccessivi dovuti alla presenza di troppi visitatori nel Parco Nazionale: amando la natura essi la stanno “usando” fino a soffocarla, incentivando così un uso ancora una volta sbagliato di questa regione, e ancora una volta a danno dell’Orso bruno, il quale, se veniva indirettamente danneggiato dalla sconfitta speculazione edilizia, neppure sopporta la presenza del turismo escursionistico.
Il turista, l’escursionista, che sia naturalista o semplice ricreazionista, quest’uomo moderno ed invadente, inventato o quasi dalla società d’oggi, quest’uomo che tutto esplora, tutto curiosa, tutto visita, costringendo l’Orso ad abbandonare i primitivi suoi luoghi per spostarsi in altre zone che se pure meno disturbate sono anche meno protette, ha forse fatto più danno a questo fantastico animale nel volgere di un ventennio che non lo sviluppo vero e proprio del territorio nei precedenti cinquant’anni. L’antico equilibrio tra l’Orso e l’uomo pastore e agricoltore che durava da millenni è stato alterato e irreversibilmente sconvolto dal fenomeno turismo. Oggi l’Orso è costretto a cercarsi un nuovo equilibrio, ma è una gara tra la sopravvivenza della specie e l’estinzione. Solo il futuro ci dirà quale dei due fenomeni sarà stato raggiunto per primo. L’augurio è che l’Orso ritrovi un equilibrio in cui vivere, anche se la società d’oggi non lo sta certamente aiutando nella sua corsa verso questo traguardo.
L’area del Parco Nazionale d’Abruzzo è, in Italia, certamente quella più completa, biologicamente parlando, e più vicina allo stato originario. A ciò, che è un valore biogenetico e culturale unico anche a livello europeo (la popolazione dell’Orso d’Abruzzo resta comunque la più consistente e fertile dell’Europa occidentale), si aggiunge la estrema bellezza scenica di queste montagne di calcare. Due aspetti che, per dovere verso i posteri, il popolo italiano, e soprattutto quello abruzzese che ne ha la diretta disponibilità, dovrebbe garantire attraverso una loro duratura conservazione.
Eppure, nonostante questi aspetti siano largamente conosciuti, e riconosciuti come tali per i loro valori, si parla più spesso e più seriamente del Parco Nazionale d’Abruzzo per la sua potenzialità ricreativa ed economica che non come area di ambiente critico per l’orso, per il lupo e per il camoscio o come bellezza naturale d’insieme. Si puntualizza sempre più la sua utilità sociale in senso meramente commerciale (che è in fondo banale ed identica alle prerogative di uso di centinaia e centinaia di altre aree italiane) dimenticando i suoi valori più veri, o sminuendoli, e comunque additandoli quali soggetti di attrazione turistica e quindi solo e sempre per la loro potenziale resa economica. E si prendono provvedimenti e si stanziano fondi solo per incentivare questa capacità produttiva, con l’alibi di devolverli alla tutela ambientale e alla difesa dell’Orso bruno: ma poi di essi ben poche briciole finiscono per venire spese a suo reale favore.
I danni che questa politica ha arrecato e sta arrecando alla natura del Parco Nazionale d’Abruzzo sono spesso indiretti, nascosti, e presi singolarmente, minimi o con effetti a lunga scadenza; ciò purtroppo facilita il suo demagogico perdurare a danno dell’ambiente e a danno dell’Orso bruno. Ancora una volta saranno i posteri a dover emettere l’ardua sentenza contro imputati che non potranno mai essere puniti se non dal giudizio della storia”.


A conclusione di questa lunga dissertazione di Franco Zunino, occorre rimarcare con particolare enfasi, il gravissimo danno che l'escursionismo genera sulla vita dell'orso e, conseguentemente, sulla diminuzione degli esemplari. L'escursionismo di massa che si pratica sempre più ardentemente, possiamo definirlo quindi come una "CAUSA GRAVE" del deleterio declino di questa specie. 

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Si reputa ora opportuno elencare, sia pur schematicamente e per le direttrici principali, tutta una serie di interventi che dovrebbero attuarsi per la reale salvaguardia del plantigrado (parzialmente tratto con modifiche ed integrazioni da: Zunino, 1976, 1981, 1984a, 1985 - salvo diversa indicazione).

A) TUTELA E MIGLIORAMENTO DEI LUOGHI DI PRESENZA DELLA SPECIE

- Protezione integrale delle zone di particolare importanza per l’orso (tagli boschivi, apertura di strade, urbanizzazione, centrali eoliche e fotovoltaiche, ecc.). E’ fondamentale, per la tranquillità del territorio, chiudere tutte le strade sterrate montane che interessano l’areale dell’orso e ancora meglio prevedere il loro totale smantellamento (soprattutto se interessano zone di svernamento). 
- Creazione di vere e proprie “Isole di Silenzio” per l’orso, dove venga tassativamente proibita qualsiasi attività turistica, con inclusione dell’escursionismo.
- Ampliamento delle aree protette o istituzione di nuove per includere tutte le aree primarie e secondarie abitate dall’orso.
- Vincolo paesistico a tutta la regione abitata dall’orso.
- Tutela e monitoraggio dei corridoi faunistici utilizzati dal plantigrado.
- Blocco o forte riduzione dello sfruttamento boschivo e del pascolo, almeno nelle regioni primarie abitate dall’orso o in ogni caso delicate per la presenza della specie. Dove è “necessario” gestire il bosco applicare una selvicoltura naturalistica.
- Miglioramento dell’habitat ai fini alimentari ed attrattivi (messa a dimora di piante da frutto selvatiche, reinserimento degli alveari selvatici, ridiffusione di specie erbacee spontanee, potatura e rivitalizzazione di alberi da frutta, creazione di piccoli invasi artificiali, ecc.).
- Limitazione e forte riduzione dei sentieri che percorrono le località primarie dell’orso bruno. Per i sentieri autorizzati deve vigere l’obbligo di non abbandonarli. Eventuale limitazione numerica di accesso per quei sentieri che pur se lasciati in essere sono percorsi da un numero eccessivo di persone durante la stagione estiva.
- Chiusura dei rifugi presenti nei luoghi abitati dall’orso in quanto essi sono una forte attrattiva per i turisti escursionisti. Evitare di costruirne dei nuovi e di ristrutturare quelli fatiscenti.
- Chiusura o spostamento dei campeggi localizzati nei territori di una certa valenza ambientale. Attivarli solo in prossimità dei centri abitati o di luoghi del tutto insignificanti per la fauna selvatica.
- Non attivazione di nuovi sentieri che transitano in località interessate alla presenza dell’orso bruno, anche se in forma marginale ed ipotetica (prevenzione per gli anni futuri).
- Forte limitazione dello sci di fondo/escursionistico/alpinistico. Autorizzare solo località ininfluenti per il plantigrado, mentre proibirlo esplicitamente per i luoghi delicati per la specie, soprattutto per le aree di svernamento.
- Controllo e disciplina della caccia fotografica, spesso causa di grave disturbo per la specie.
- Divieto assoluto di abbattere alberi o cespugli da frutto domestici e selvatici. Evitare la raccolta di frutti spontanei (fragole, lamponi, ecc.), almeno nei territori di primaria importanza per l’alimentazione dell’orso.
- Controllo della presenza di greggi e in ogni caso eliminazione del pascolo nelle zone alte (intervento utile anche per la salvaguardia del camoscio). Una tale pratica previene l’impoverimento dei pascoli e riduce la presenza di uomini e cani durante la stagione estiva. Se una certa presenza di ovini può essere utile all’orso per una sua potenziale azione predatoria, non lo è dal punto di vista ecologico perché rappresenta una dipendenza fortemente legata alle attività antropiche, in questo caso pastorali. Il territorio deve fornire solo prede selvatiche utilizzabili dall’orso. L’allevamento zootecnico in forma brada può essere quindi concepito solo in forma del tutto marginale (si ricordi il forte degrado del suolo determinato dalle presenze degli ovini, bovini, equini, ecc. Giustamente J. Muir definiva i greggi di pecore “lanose locuste”). Tuttavia, come suggerisce Zunino, sarebbe auspicabile che le autorità competenti, acquistino un certo numero di greggi a "perdere", ciò mantenute, nei luoghi idonei, ad esclusivo (o almeno principale) utilizzo dell'orso (in questo caso ovviamente, ne potrà "approfittare" anche il lupo).
- Favorire l’attività agricola tradizionale nei luoghi abitati dall’orso bruno (semina di granoturco, carote, grano, ecc.) tramite contributi a fondo perduto agli agricoltori. Eventuale gestione diretta di campetti a perdere nei terreni demaniali o presi in affitto a privati (utilizzando i recinti "Finamore", sperimentati da "Lillino Finamore"e ben descritti da Zunino). Ovviamente sarebbe meglio mantenere i territori selvatici ricchi spontaneamente di alimenti per l’orso, ma in loro assenza o scarsità è bene procedere con quanto detto.
- Istituire saltuariamente punti di alimentazione artificiale con frutta/ortaggi/miele/carne, ecc. per ridurre gli spostamenti degli orsi e per mantenerli all’interno di aree protette più efficacemente controllate. In ogni caso questo tipo di intervento deve essere nel modo più assoluto del tutto episodico, dilatato nel tempo e distribuito occasionalmente nello spazio (accertarsi sempre di utilizzare carne di sicura provenienza in quanto potrebbe diffondersi la brucellosi che per l’orso rappresenterebbe un colpo di grazia in quanto causa sterilità nei maschi e aborti prematuri nelle femmine). 
- Controllare l’eccessiva presenza del cinghiale nell’areale dell’orso perché la forte competizione alimentare dell’ungulato sembrerebbe sfavorire il plantigrado (Fabbri et al., 1983 - Zunino, 1984).
- Attivare un sistema di concertazione per un efficace accordo operativo tra le gestioni delle aree protette interessate alla presenza dell’orso. Infatti nessuna delle “grandi o piccole aree protette dell’Appennino, e dell’Abruzzo in particolare, è in grado di garantire nei tempi lunghi il mantenimento di popolamenti vitali di orso” (Boscagli, 1997).
- Evitare l’antropomorfizazione dell’orso (Boscagli, 1997).

B) INTERVENTI FINALIZZATI A RIDURRE AL MINIMO LE UCCISIONI DIRETTE DI ESEMPLARI D’ORSO BRUNO

- Forte controllo e ove possibile totale abolizione dell’attività venatoria nelle località al di fuori di aree protette se tali aree sono stabilmente abitate dal plantigrado (è in ogni caso utile istituire riserve di caccia gestite dai cacciatori locali di concerto con le autorità competenti). Questo risulta utile non solo per l’orso bruno ma anche per il resto della fauna selvatica più rara (p.e. lupo e lince). Si ricorda infatti che l’estinzione in certi areali di moltissime specie animali, tra cui lo stesso orso, è stata spesso causata dalle armi da fuoco (caccia autorizzata o pratica illecita). Il bracconaggio alle specie rare (orso, lupo, lince, bisonte, rinoceronte, ecc.) è una delle forme più distruttive per la sopravvivenza futura degli animali. Tra l’altro l’attività venatoria (quella lecita ovviamente), "potrebbe" esercitare un qualche disturbo per la vita del plantigrado, soprattutto durante il preinvernamento.
- Indennizzare prontamente (entro max. 30 giorni) ed integralmente gli allevatori che subiscono danni al proprio bestiame dagli attacchi dell’orso (indennizzo diretto in denaro o meglio in natura tramite la restituzione di un capo di bestiame corrispondente a quello predato). In tale maniera si eviterà la rivalità che si innesca tra i pastori e l’orso (ovviamente questo vale anche per i danni subiti dal lupo e, per quanto attiene ai campi coltivati, dal cinghiale e dagli altri ungulati).
- Attuare tutti i mezzi possibili per prevenire gli incidenti ferroviari che comportano quasi sempre la morte dell’orso investito (notevole illuminazione frontale dei treni, costruzione di barriere invalicabili nei luoghi più delicati, ecc.).
- Prevenzione degli incidenti stradali tramite la limitazione, durante le ore notturne, della velocità dei velicoli che transitano lungo le strade interessate alla presenza della specie (max. 60 km.h). Apposizione di evidenti cartelli di pericolo per presenza di fauna selvatica.
- Potenziare al massimo e rendere particolarmente efficiente il servizio di sorveglianza degli organi preposti a farlo (guardiaparco, agenti del Corpo Forestale dello Stato, guardie provinciali) per contrastare principalmente gli atti di bracconaggio che sono una delle principali cause a livello mondiale del decremento della specie. 
- Controllo radicale del territorio abitato dall’orso per prevenire l’illegale utilizzo di bocconi avvelenati che spesso causano la morte di esemplari d’orso oltre che di altre specie.
- Monitoraggio costante dei luoghi di presenza e di spostamento del plantigrado.
- Individuare un chiaro ed elevatissimo “valore venale” dell’orso come deterrente per le attività di bracconaggio (Boscagli, 1997). 

C) CAMPAGNE DI CONTROLLO, DI DIVULGAZIONE O DI RISERBO PER LA CONSERVAZIONE REALE DELL’ORSO BRUNO E DELLA NATURA IN GENERALE/VARIE

- Riserbo assoluto sull’ubicazione delle località frequentate dall’orso.
- Divulgare il “reale” status dell’orso bruno in Italia e rendere manifeste le cause primarie del depauperimento della specie.
- Svolgere campagne di informazione sull’importanza di mantenere gli equilibri biologici nella loro propria interezza.
- Evitare nel modo più assoluto l’organizzazione di censimenti della specie mediante il rastrellamento in simultanea del territorio di presenza con decine e decine di persone (a volte anche oltre il centinaio) per contare gli esemplari grazie alle orme e piste lasciate sulla neve (metodica spesso attuata durante le nevicate precoci autunnali). Se tale pratica dal punto di vista formale è indubbiamente positiva (registrando accuratamente i singoli percorsi degli animali si evita o si riduce il rischio di contare più volte lo stesso esemplare e si può quindi risalire con una certa precisione, per quanto possibile, al numero globale), non lo è certo da quello protezionistico in quanto l’intervento determina un serissimo disturbo al plantigrado nella delicatissima fase del preinvernamento. Le eventuali ricerche sulla presenza dell’orso in un territorio devono essere svolte solo da personale esperto e fatte in ogni caso in forma discreta e graduale.
- Ridurre al minimo la pratica della telemetria divenuta una forma “maniacale” e “persecutoria” della ricerca naturalistica contemporanea. Si ricorda che la conservazione dell’orso non si rafforza con “sempre più studi”, ma con la volontà di intervenire ed operare “realmente”.
- Diffondere veri concetti di conservazione della natura basati soprattutto sulla revisione del modello di vita e sul radicale mutamento del pensiero comune. Acquisire una mentalità che vede nella wilderness del mondo naturale la migliore garanzia per la qualità dell’ambiente. Affermare il principio che i reati ambientali sono danni perpetrati non solamente allo specifico luogo dove accadono, ma soprattutto all’intero patrimonio della Terra.
- Organizzare mostre itineranti, dibattiti radio/televisivi, campagne di “immagine”, attuare contatti con il mondo scolastico a tutti i livelli ed infine pubblicare studi “realistici” sulle problematiche conservazionistiche dell’orso bruno.
- Porre sotto l’egida di un organismo internazionale le garanzie della tutela dell’orso bruno e di tutte le altre specie viventi a rischio di estinzione. In altri termini sarebbe auspicabile che la comunità scientifica internazionale acquisisca il potere istituzionale di “obbligare” le nazioni interessate alla presenza di specie a rischio affinché operino con concrete politiche di conservazione (prevedere, come a volte già accade, anche eventuali finanziamenti internazionali per le nazioni più povere).
- Gli studi scientifici sull’orso bruno o su altri argomenti del genere se soggetti ad autorizzazione perché svolti all’interno di territori protetti (nullaosta per l’inizio degli studi e nullaosta per la diffusione dei risultati ottenuti), tale autorizzazione/controllo deve essere assicurata non solo dall’organo che gestisce l’area, ma anche da un “garante” esterno che protegga il ricercatore dalle “censure” cui potrebbero essere sottoposti i risultati di tali indagini. Questo per la tutela democratica del ricercatore e soprattutto per un indubbio vantaggio dell’orso bruno (o di altre specie), perché proprio dalla dialettica delle posizioni acquisite si giunge alla giusta soluzione dei problemi. Ovviamente se vi è la volontà di risolverli! 

A proposito delle aree protette

Se, come abbiamo appena visto, l'elencazione dei fattori negativi per l’Orso bruno appare fortemente articolata, univoca potrebbe invece essere la risposta: occorre istituire grandi aree protette, quali, sole ed efficaci garanzie di sopravvivenza del rapace a condizione che si faccia vera protezione della natura (ovviamente in certi casi occorre proteggere anche piccole realtà locali). L’istituzione di aree protette non da ovviamente licenza all’assalto irrazionale dei territori liberi. Una nazione civile dovrebbe proteggere con cura tutto il territorio variando solo i livelli di protezione.
L’istituzione di un’area protetta non sarebbe tuttavia sufficiente per sé stessa a conseguire lo scopo, se le consuete norme che ne regolano la gestione non venissero integrate da una più rigida normativa, ma soprattutto da politiche gestionali volte esclusivamente agli interessi della natura (si prenda ad esempio, l'ottimo sistema "democratico" ed efficiente della protezione delle aree wilderness, come ben esposto dall'Associazione Italiana Wilderness). I principi basilari potrebbero essere (esposizione solo indicativa):

1. La Riserva/Parco deve svilupparsi su una superficie "accettabile", nel senso che la sua ampiezza deve armonizzarsi all'ambiente esterno antropizzato.
2. La Riserva/Parco deve rimanere circoscritta in una fascia di protezione esterna che funga da ammortizzatore tra le attività umane degradanti esterne e il territorio vitale dell'area protetta. Detta fascia deve coprire una superficie che sia un terzo maggiore dell'area protetta, meglio ancora se la fascia esterna copre un'estensione che supera di almeno due terzi quella della Riserva/Parco.
3. L'accesso del pubblico, almeno per le aree più delicate, deve essere condizionato a specifica autorizzazione e limitato a pochi sentieri.
4. Non appena si è proceduto all'istituzione di una Riserva/Parco occorre vietare le attività inquinanti preesistenti, e chiudere le strade che si sviluppano al suo interno fatta eccezione per quelle di interesse pubblico di collegamento; il numero dei sentieri escursionistici deve essere ridotto all'essenziale.
5. Per i primi cinque-dieci anni dalla sua istituzione la Riserva/Parco dovrebbe costituire oggetto di studi ecologici approfonditi, al fine di formulare un giudizio sulla situazione esistente (status del territorio e status biologico) e sul grado di ripresa possibile. In questa prima fase si dovrebbero evitare interventi di particolare rilievo (reintroduzioni di specie animali o vegetali, valorizzazioni turistiche, ecc.). Questo periodo potrebbe essere definito "fase di riposo".
6. Il vero intento che si pone all'origine della protezione dell'area oggetto della Riserva/Parco, deve essere la salvaguardia integrale della natura, lasciando da parte qualsiasi interesse umano.
7. La Riserva/Parco deve essere suddivisa in territori (zonazione), con vari gradi di protezione. La ripartizione delle zone dovrebbero articolarsi così (formulazione solo indicativa soggetta ad assestamenti in relazione della tipologia del territorio esaminato): 
- Zona di protezione integrale (inibizione di qualsiasi intervento umano, ivi compreso il semplice accesso o interventi gestionali): 20% dell'area complessiva.
- Zona di riserva integrale generale (soltanto interventi umani che abbiano fini protezionistici, fermo restando il divieto di accesso): 10% dell'area complessiva.
- Zona di riserva generale (accesso umano solo dietro autorizzazione, per fini educativi e altre attività controllate): 30% dell'area complessiva.
- Zona di Riserva generale circoscritta alle zone più esterne o in ogni caso meno delicate (libero accesso, attività ricettiva controllata, ed altro): 40% dell'area complessiva.

A questa zonazione si aggiunge, come già puntualizzato nel punto n°2, un'ampia fascia di protezione esterna; tale fascia deve essere tutelata in particolar modo mediante severe norme di salvaguardia ambientale, sia per quanto concerne le attività lavorative umane, sia per quanto riguarda l'uso delle risorse naturali (boschi, acqua, ecc.). L'attività venatoria, può essere consentita, ma svolta nel modo più discreto possibile, legando, tra l'altro, il cacciatore al territorio.
8. All'interno delle varie fasce della Riserva/Parco vanno individuate, se necessario, aree di particolare interesse, meritevoli di tutela, come, ad esempio, zone delicate di nidificazione, siti con presenza di relitti vegetali rari, ghiaioni. Dette aree devono essere tassativamente precluse alla presenza umana.
9. Il regolamento, correttamente adeguato alla peculiarità del territorio protetto, dovrà essere rigorosamente attuato e rispettato.
10. L’istituzione di un’area protetta non sarebbe per sé stessa sufficiente a conseguire l'effettiva tutela del territorio, o quella di particolari specie animali, se i consueti regolamenti non venissero integrati da normative adeguate ai vari casi come si è visto in precedenza per la tutela dell’Orso bruno.
11. La ricerca scientifica esterna dovrà essere sottoposta alle norme dettate per ogni altro tipo di intervento umano.
12. In generale gli interventi gestionali nella Riserva/Parco devono essere molto contenuti. Essi, quando necessari, devono mirare esclusivamente a ripristinare le condizioni naturali compromesse dall’attività antropica; tale obiettivo si consegue a volte mediante la reintroduzione di specie faunistiche e vegetali presenti in epoche anteriori e distrutte dall’uomo, altre volte attraverso l’eliminazione di opere umane come strade, dighe, costruzioni di altri manufatti, ecc. Ovviamente questo tipo di intervento potrà essere attuato solamente in quelle aree che presentino condizioni abbastanza integre, che abbiano un minimo di capacità di ripresa e conservino la potenzialità necessaria ad accogliere le precedenti forme di vita. Spesso, la "non gestione" di un Area protetta, è la migliore forma di garanzia per il futuro.
13. Se la gestione reputasse utile procedere alla reintroduzione di particolari specie animali o vegetali all'interno dell'area protetta, come visto nel punto 12, dovrebbe far precedere gli eventuali interventi da lunghi e meticolosi studi, come ad esempio: raccolta delle testimonianze storiche sulla passata presenza della specie, individuazione delle cause che hanno determinato la scomparsa della specie, rilievi sulle esistenti condizioni ecologiche della Riserva/Parco al fine di appurarne la compatibilità con le specie da reintrodurre. Gli interventi ritenuti scientificamente attuabili dovranno ridurre al minimo le manomissioni del territorio (se per esempio sarà necessario costruire recinti di acclimatazione, occorre ubicarli in luoghi a basso impatto ambientale, preoccupandosi altresì di costruirli con strutture poco appariscenti). Evitare assolutamente di reintrodurre animali estinti nella zona da molti secoli soprattutto se non sussistono più le condizioni trofico/ambientali di un tale ritorno.
14. Il personale preposto alla sorveglianza dell'area protetta deve operare attivamente e concretamente per assicurare un attento ed efficace controllo del territorio (si ricorda che in alcuni paesi del nord europa, come la Scandinavia, il senso civico e mentalmete radicato del rispetto delle regole, fa si che spesso nelle aree protette la soveglianza è minimale o addirittura asente in quanto l’autodisciplina è così elevata da non rendere necessario specifici ed analitici controlli. Valgono ovviamente le dovute eccezioni per casi particolari, come il "dubbio" comportamento dei Sami, anche se tendono a "rivolgersi" più al lupo).

______________


Ironicamente può dirsi che la fine dell’orso bruno fu iniziata dai cacciatori e dai bracconieri, continuata dall’antropizzazione del territorio (sottrazione di habitat) ed è stata “conclusa” dai “protezionisti” e da molti gestori dei territori protetti con la loro politica della redditività dei parchi e con lo sviluppo del turismo nelle aree dell’orso (“la protezione spettacolo”). Una storia davvero triste! 

L’orso è anche avventura, favola, leggenda, continuazione di una vita antichissima, scomparsa la quale ci sentiremmo tutti un poco più poveri e più tristi” (Dino Buzzati).

In conclusione occorre ribadire che lo status dell’orso bruno a livello mondiale è purtroppo in calo e addirittura in certi distretti la popolazione è sull’orlo dell’estinzione (appunto come l'Orso marsicano che stiamo analizzando). La scomparsa del plantigrado nelle epoche passate, in molte nazioni, ci sia da monito. Sta nella sensibilità di ognuno di noi capire che per una reale conservazione dell’orso bruno è necessario che l’uomo si faccia da parte, altrimenti l’orso sarà una delle tante specie che hanno popolato il pianeta Terra e che l’uomo ha voluto eliminare.
Si continua a disquisire sulle tecniche di censimento, sulla fisiologia della specie, sulle ricerche radiotelemetriche e genetiche, sugli aspetti bio-etologici, si inalberano simposi e convegni, si enumerano articoli e pubblicazioni, si finanziano ingenti somme (finora "milioni" di euro!), ma intanto l’orso bruno diminuisce, perché, semplicemente, le “vere” e sostanziali iniziative a favore del plantigrado sarebbero sicuramente impopolari e antieconomiche per l’uomo. Diranno che occorre fare “questo e quello”, diranno che coloro che si oppongono alla superficiale politica conservazionistica sono dei “paranoici” o dei pseudofilosofi da tavolino, accuseranno di falsità coloro che mettono in dubbio le affermazioni del “potere ecologico”, e intanto la natura e l’orso scompaiono. Scrisse il prof. Aurelio Peccei a proposito del lupo: “Non abbiamo bisogno di più conoscenze, di più tecnologie, di più strumenti per impedire che le spiagge siano sporche, che l’ultimo Lupo d’Abruzzo non muoia. Occorre, però la volontà di risolvere questi problemi”.

***


E' l'uomo che deve adattarsi alle esigenze della natura e non viceversa. Se è possibile, facciamo in modo che gli animali selvaggi vivano nella loro libertà e nella loro fierezza, quella libertà e quella fierezza che l'uomo, prigioniero e schiavo delle proprie convenzioni, forse incosciamente invidia”.

Ai posteri l'ardua sentenza!


 

sabato 30 settembre 2023

Visione Olistica del Mondo

                                   Guido Dalla Casa

 

Visione Olistica del Mondo









Quando si parla di ecologia e protezione della Natura, occuparsi di “visioni del mondo” sembra una cosa più astratta, o meno pratica, rispetto a dare consigli sullo smaltimento dei rifiuti o la conservazione delle foreste, ma è soltanto perché parlare di “visioni del mondo” ha effetti a scadenza molto più lunga. Sono però aspetti che toccano molto più in profondità il comportamento e gli atteggiamenti, rispetto ai più immediati consigli pratici di ecologia spicciola.

Premesse
Riassumiamo qualche fondamento delle conoscenze attuali incompatibile con il sottofondo culturale ebraico-cristiano e con il dualismo di Cartesio:

- Né la Terra, né il Sole, né niente altro sono al centro di qualcosa: gli astri sono tutti ugualmente granelli nel mare dell’Infinito. Non c’è nessun centro di alcun tipo.

- L’umanità è una specie animale comparsa su uno dei tanti pianeti solo tre milioni di anni fa, contro i tre o quattro miliardi di anni di esistenza della Vita sulla Terra e i quindici o venti miliardi trascorsi dalla presunta nascita dell’Universo, ammesso che il Tutto non sia qualcosa di pulsante ciclicamente da sempre. Quindi il presunto “re del Creato” sarebbe arrivato un po’ tardino, mentre il suo cosiddetto “regno” lo stava aspettando con scarsa impazienza.
Inoltre, ci vuole una bella presunzione a pensare di “migliorare” ciò che ha impiegato quattro miliardi di anni per divenire ciò che è. L’umanità fa parte in tutto per tutto della Natura. I fenomeni vitali sono uguali in tutte le specie.

- La cultura occidentale ha solo due o tremila anni, la civiltà industriale ha duecento anni: si tratta di tempi del tutto insignificanti. Anche il concetto di progresso ha una vita brevissima, non più di due o tre secoli; evidentemente si può vivere anche senza questa idea fissa.
La divisione fra preistoria e storia è solo uno schema mentale della nostra cultura, che serve ad alimentare una certa visione del mondo. Non c’è alcun motivo, né alcuna scala di valori privilegiata, per considerare una cultura migliore o peggiore di un’altra. Si noti poi che si usa chiamare “storia” ciò che è accaduto negli ultimi cinquemila anni alla civiltà occidentale e viene liquidata con l’unica etichetta di “preistoria” tutta la Vita della Terra, cioè quattro miliardi di anni e cinquemila culture umane.

- Il funzionamento mentale essenziale, il comportamento, sono in sostanza simili in tutte le specie animali vicine a noi. In gran parte si tratta di fenomeni non-coscienti.

- La fisica quantistica ha dimostrato l’impossibilità intrinseca di descrivere fenomeni materiali o energetici senza considerare l’osservazione; ciò significa che, senza la mente, la materia-energia è priva di significato, non è in alcun modo descrivibile, è “priva di realtà”, è solo una specie di onda di probabilità. Della fisica meccanicista di Newton resta solo la funzione pratica, anche se nelle nostre scuole di base non c’è traccia del profondo cambiamento avvenuto.

Da questo quadro rinasce una concezione antichissima e assai diffusa: l’animismo. Una forma di “mente” deve essere ovunque, è insita nell’universale, se vogliamo evitare il paradosso dell’”osservatore” che determina la cosiddetta realtà. La distinzione fra spirito e materia cade completamente. Tornano alla memoria il Grande Spirito e lo spirito dell’albero, della Terra, del fiume, del bisonte.
C’è un’altra leggenda da sfatare, quella della cosiddetta neutralità della scienza, o indipendenza della scienza dalle concezioni metafisiche. La scienza ufficiale ricorre spesso a vere acrobazie intellettuali pur di non uscire dal paradigma cartesiano, che considera “ovvio” ed “acquisito”. Così si trova in vie senza uscita, ed a volte è costretta a negare o a non considerare i fatti non inquadrabili in quello schema concettuale, pur di non mettere in discussione le premesse: e allora deve far sparire intere categorie di fenomeni di interferenza macroscopica, o non-distinguibilità, fra spirito e materia, con la scusa che non sarebbero “ripetibili”.
Le gravi difficoltà della fisica provengono dalla disperata insistenza nel volere inquadrare le conoscenze moderne nel paradigma cartesiano.
Eppure ancora oggi, per apparire “moderne”, tante persone amano definirsi “cartesiane” o “razionali”, non sapendo di difendere invece il pensiero dell’Ottocento. Le idee del filosofo francese sono accettate dalla grande maggioranza delle persone semplicemente perché ciò che respiriamo fin dalla nascita ci appare ovvio, il che significa che non ci appare affatto. Ma il primato del razionale sull’emotivo e sull’intuitivo è solo un pregiudizio della cultura occidentale odierna.

Gli opposti
La cultura occidentale vede tutto spaccato in due: questo è già motivo di ansietà; non solo, ma considera “opposte” le due parti e le vive in modo schizofrenico, non le considera due poli indivisibili, due facce della stessa medaglia, due aspetti della stessa cosa.
Pensa che un “polo” sia migliore e pretende di far sparire l’altro polo.
Alcuni scienziati stanno perfino cercando disperatamente il “monopòlo” magnetico, cioè vogliono “scoprire” un polo nord senza il polo sud, cosa risultata finora impossibile. Ma forse anche il monopòlo sarà una creazione della mente. Perfino nel magnetismo sembra che qualcuno consideri il polo nord “un po’ più bello” del polo sud.
Se vogliamo usare la terminologia del Taoismo, l’Occidente vuole un Universo solo Yang: lo Yin deve essere abolito; come se questo avesse senso. Comunque, in tal modo si causa solo angoscia. L’Occidente vuole il sereno senza la pioggia, il tempo unidirezionale e non quello ciclico, vuole la competizione, la supremazia, l’affermazione dell’ego, il progresso verso il futuro come una semiretta. Vuole la vita senza la morte, l’Essere senza il Nulla, l’attività senza la passività, il fare senza il meditare, la crescita senza la diminuzione.
I giornalisti del mondo economico arrivano a non nominare neppure la diminuzione, vogliono esorcizzarla chiamandola “flessione”, che invece è un’altra cosa. Come se fosse possibile avere le montagne senza le valli.
Questo vedere il mondo come complementarietà di Yin e Yang e non come inseguimento di un polo solo è in fondo la filosofia per la quale era ben difficile che in Cina potessero nascere il progresso tecnologico e la civiltà industriale mille anni prima che in Occidente.

Per quanto riguarda la morte, vediamo come è venuta.
Due o tre miliardi di anni orsono, la Terra era popolata di microorganismi che si riproducevano dividendosi in due: quindi non morivano.
C’era a disposizione un patrimonio genetico che poteva rinnovarsi solo con molta lentezza attraverso qualche mutazione. Era assai difficile creare organismi nuovi.
Per consentire il sorgere di varietà, bellezza e spiritualità nella vita bisognava avere tante forme e organismi nuovi: quindi mescolare il tutto in modo molto più rapido e creativo.
Perciò la Natura - che potete chiamare anche Dio - inventò il sesso e la morte.
Ecco perché, da allora, si è resa utile e necessaria la morte per consentire la Vita. La morte è solo l’altra faccia della vita.

Oggi imperano le immagini nate dal computer, che alcuni salutano come non-meccaniche, come olistiche. Ma anche se introducono le idee non-meccaniche di informazione e di relazione, si basano – a livello elementare – su una logica binaria, ancora su un dualismo SI-NO o pieno-vuoto, quindi su una contrapposizione. Inoltre perpetuano la divisione cartesiana, ribattezzata hardware e software.
Ben difficilmente una visione di questo tipo può essere un punto di partenza per fondere o integrare le cosiddette due culture, o un approccio per integrare gli opposti.
La fisica quantistica invece ammette una logica “SI e contemporaneamente NO”, “vuoto e contemporaneamente pieno”, e può accettare posizioni non-quantitative e non-meccaniche. Con l’indeterminazione universale si possono integrare gli opposti vedendoli come complementari e compresenti. Non si tratta di una logica trinaria SI-NO-NON SO ma di una possibilità multipla indeterminata. Anche distinzioni come reale-immaginario, scoperta-invenzione, e così via, perdono significato. Con il nuovo approccio si potrebbe uscire dall’intrico delle innumerevoli particelle che vengono via via “scoperte”: altrimenti si finirà con trovare tutto quello che si cerca, pur di cercarlo in un certo modo, cioè si potranno inventare-scoprire chissà quante altre “particelle” in una sequenza senza fine. Ormai tutte queste “entità” hanno un contenuto mentale a malapena celato dal linguaggio matematico.
Con una eventuale rifondazione concettuale non-cartesiana, non si avrebbe più soltanto una “fisica” nel senso materialistico o prequantistico, ma qualcosa di più, rendendosi sempre più evanescente anche la distinzione fra fisica e metafisica, fra conoscenze “materiali” e “spirituali”. Soprattutto, in questo senso, la nuova fisica può essere il ponte per collegare le cosiddette “due culture” e portare a una progressiva scomparsa della loro distinzione.

Visioni del mondo
Fra le tantissime “visioni del mondo” presenti nell’umanità è assurdo che esista quella “vera” o “giusta” perché questo costituirebbe una inspiegabile asimmetria.
Pertanto l’idea della “verità” è una caratteristica che discende dalla visione cartesiana del mondo “oggettivo” o “reale” che “è” in un certo modo.
Le visioni del mondo sono tutte equivalenti e reali in quanto tali e in quanto manifestatesi in qualche sistema di pensiero. Non può esserci quella più “vera” o più “giusta” delle altre. Altrimenti, come potevano manifestarsi tante visioni diverse e inoltre variabili continuamente nel tempo?
Anche le religioni (componenti essenziali della visione del mondo) sono tutte ugualmente vere o non-vere. Costituiscono il nostro rapporto con l’Invisibile.
Abbiamo già accennato al concetto di verità. Le domande sono assai stimolanti, le cosiddette risposte “definitive” portano solo guai. Non si tratta di chiedersi “Non avrà ragione l’altro?” perché questo presuppone che esista una “ragione”. Non si tratta neppure di “essere sempre in dubbio” perché ciò presuppone qualcosa di sicuro e reale su cui dubitare, significa che si è in dubbio su qualche “verità”.
Il concetto di dubbio presuppone quello di verità. Diverso è abolire l’antitesi vero-falso, considerando i due termini come complementari e compresenti. Così la distinzione fra “i fatti” e “le opinioni” è illusoria, perché quelli che vengono chiamati “fatti oggettivi” sono soltanto le opinioni di un modello culturale umano: nel nostro mondo vengono chiamati fatti reali le opinioni della cultura occidentale. In ogni cultura si forma una verità, che però vale quanto qualsiasi altra.
Comunque il concetto di “verità assoluta” e la conseguente necessità di “scoprirla” possono essere assimilati a una gabbia, a un’oppressione.
L’universale appare come spirito o come materia, a seconda di cosa si cerca. Come il fisico trova particelle o onde a seconda di cosa cerca, così le culture materialiste trovano materia, le culture animiste trovano spiriti.
Ogni disputa su quale sia l’interpretazione “giusta” è priva di significato: è questo dualismo, creato da noi, che fa nascere il problema, altrimenti inesistente.
Solo in assenza del concetto di verità si può vedere qualcosa di assoluto, o non-differenziato. La verità è mutevole e sfuggente, mentre la variabilità è universale e incessante.

Cartesio ci ha condannato alla verità, ma già quattro secoli orsono Montaigne aveva scritto: Il concetto di certezza è la più solenne scemenza inventata dall’essere umano.
Del resto queste non sono neppure novità, se si pensa ad antiche affermazioni, quali ad esempio:

- “Il Tao che può essere spiegato non è il vero Tao” (Lao-Tse);

- “Quello che ho da insegnare non può essere insegnato” (Buddha);

- Infine, alla domanda di Pilato: “Cosa è la verità?”, Cristo rispose con il silenzio.

Per quanto riguarda l’integrazione di opposti del tipo “colui che agisce” e “la materia su cui si agisce”, si noti che le stesse lingue europee ci impediscono di pensare a un processo che avvenga spontaneamente, che abbia in sé la sua ragione d’essere.
Pensiamo sempre a “qualcuno” che agisce, a qualcosa di “esterno” che causa gli eventi. Non siamo psichicamente attrezzati per concepire l’immanenza; così pure traduciamo a volte come non-azione il termine taoista wu-wei, che significa “azione spontanea secondo la natura delle cose”.
Ogni verbo deve avere un pronome per soggetto, un agente: così siamo abituati a pensare che una cosa non sia al proprio posto se non c’è qualcuno o qualcosa che le assegna quel posto, se non c’è un responsabile. L’idea di un processo che avviene totalmente da solo quasi ci spaventa: ci sembra che manchi l’autorità. L’idea del Dio dell’Antico Testamento e il dualismo cartesiano ricompaiono ovunque.

Stabilità e movimento
L’antica divergenza metafisica fra Eraclito e Parmenide, cioè il contrasto fra il divenire e l’essere, è anch’essa una questione di visioni complementari. Apparentemente, con il fluire perenne e imprevedibile, con il divenire e le leggi del caos, la disputa sembra “risolta” a favore di Eraclito, dopo 2500 anni. L’universo appare un fluire incessante se teniamo il tempo come una variabile autonoma.
Adottando un approccio quadridimensionale, cioè comprendendo il tempo come variabile intercollegata a quelle spaziali, ci troviamo in un quadro diverso, che appare “immobile”. In un universo di Minkowsky – direbbero i matematici – il mondo sembra parmenideo, “immutabile”.
Ma non si tratta di visione giusta o sbagliata.
Il dilemma è insolubile, in quanto intrinsecamente inesistente. Si tratta di modalità complementari che si attirano a vicenda, non di posizioni contrarie.
In uno dei frammenti dello stesso Eraclito, si trova scritto che il mutamento incessante presuppone uno sfondo immobile senza il quale non si potrebbe apprezzare il movimento.

Conclusioni
Proviamo ad abbozzare qualche conclusione.
Esiste un approccio di tipo riduzionista mirante allo studio delle cause elementari prime di un fenomeno, che suppone sempre scomponibile in parti più semplici, e c’è un approccio di tipo olistico, che parte dalle proprietà globali di un sistema, non riducibile all’insieme dei suoi elementi.
Il fisico fa riferimento continuo alle particelle elementari, il biologo al DNA, il sociologo all’individuo, sperando di ridurre il complesso al semplice, e così viene fatto per gli ecosistemi.
Ma la recente nozione di complessità è diversa. Il tutto vale di più della somma delle parti, perché ci sono le mutue correlazioni. Non solo, anche il modo di scegliere i componenti (che singolarmente non hanno alcuna realtà autonoma) è arbitrario, perché presuppone una cornice concettuale preconcetta, un pregiudizio.
Il riduzionismo nasce dal paradigma dominante dell’Occidente, cioè dall’idea che sia possibile scomporre qualsiasi cosa, o evento, in parti separate.
L’approccio riduzionista è stato quello seguito soprattutto negli ultimi secoli e che ha portato alla visione del mondo e al modo di vivere attuali delle genti di cultura occidentale, o che hanno assorbito i valori di tale cultura. L’approccio olistico riesce difficile a chi è nato con i fondamenti del primo e sta appena cominciando a manifestarsi oggi in forma individuale o poco più.
Quindi per ora possiamo anche ritenerci liberi di immaginare, o di sperare. Il passaggio necessario per attuare e rendere abituale un nuovo modo di pensare è difficilissimo, anche per chi ne fosse convinto intellettualmente. Ciascuno può immaginare a suo modo le conseguenze che potranno derivare da un’eventuale affermazione su scala generale dell’approccio olistico.

Come esercizio, proviamo ad immaginare un mondo in cui:

- gli opposti sono soltanto aspetti complementari della stessa cosa;

- la morte è semplicemente l’altra faccia della vita: la Natura è fatta di entrambe come aspetti inscindibili dello stesso fenomeno;

- non c’è niente da combattere, niente da dimostrare, nessuna gara da vincere o perdere, non c’è alcun bisogno di graduatorie né di primati. I concetti stessi di vittoria, sconfitta e sfida sono inutili;

- non c’è nulla da conquistare, manipolare, alterare;

- i concetti di ragione e torto, merito e colpa, sono soltanto pericolose sovrastrutture della mente, che eccitano la violenza e spengono il sorriso;

- non c’è alcuna distinzione fra spirito e materia, fra umanità e natura, fra Dio e il mondo. La mente è diffusa, universale, indivisibile. Non siamo alcunchè di particolare, né di centrale.

Poiché è sparita l’idea di “realtà oggettiva”, i concetti di verità e di certezza diventano inutili: con tutto in continuo dinamismo, il concetto di verità tende a coincidere con quello di Natura e quindi, in una visione panteista, con l’idea della divinità.
E’ bene chiarire che non si tratta di una visione statica, di un mondo in cui l’assenza del concetto di “progresso” comporti un modo di vivere immutabile, sempre uguale a sé stesso, oppure “di attesa”. In un certo senso, si può paragonare ad un fiume: sembra simile a sé stesso, ma invece scorre, magari anche velocemente.
Nel torrente non ci sono mai due istanti in cui passa la stessa acqua, che è continuamente in movimento. I sassi sono là in mezzo: non vengono aggrediti o spaccati, ma lasciati dove sono. L’acqua li aggira, passa ugualmente e scende verso il piano e il mare.
Non si tratta di “non fare”, ma di agire seguendo il corso naturale delle cose, secondo la Natura. Così si può continuare a fare oscillare un pendolo colpendolo ritmicamente, purchè i colpi siano sincroni con la sua frequenza.
Inoltre, oggi nel nostro mondo c’è un’ossessiva invasione di termini come lotta, battaglia, supremazia, competizione, gara, sfida, vittoria, sconfitta e simili: basta leggere un giornale per rendersi conto di quanti fatti vengano interpretati con questo schema.
Nella nuova visione, proviamo invece a privilegiare l’aspetto cooperativo e universalizzante nei confronti di quello competitivo e autoassertivo oggi esaltato in modo abnorme dalla cultura occidentale; con altro linguaggio, si tratta di recuperare l’aspetto “femminile” del mondo…...
Non c’è alcun bisogno di “battaglie”, ma c’è bisogno soprattutto di comprendere, accettare e sorridere. La “lotta per la pace” è un’espressione ambigua, perché la pace è una condizione di non-lotta: è un atteggiamento. Si tratta di renderlo universale. Ripeto, questo non significa “far niente” o “lasciar fare”: l’azione più utile è forse quella della diffusione di idee, cioè quella di opporsi a idee correnti preconcette, magari col sorriso. Contribuire attivamente a rendere universale l’idea di non-lotta è comunque un’azione.

Il mondo non è una cosa da conquistare, ma è l’Insieme di cui facciamo parte. Se poi dobbiamo proprio cercare di “far crescere” qualcosa, vediamo di migliorare le nostre qualità percettive per raggiungere una migliore sintonia con il ritmo vitale del Cosmo. Non è che in un mondo del genere ci sia “niente da fare” o “niente a cui pensare”: si possono ammirare i fiori e gli alberi, guardare la luna e le stelle, osservare il volo degli uccelli e sentirsi in sintonia con essi, e soprattutto pensare, partecipare della simbiosi universale.
Se abbandoniamo la manìa del successo e assaporiamo il piacere della non-competizione faremo rinascere il gusto di vivere.
Nella concezione che vede mente e materia come unica espressione indivisibile della Natura, siamo certamente abbastanza lontani dall’idea della “materia bruta” mossa da qualcosa di “esterno”, dall’idea di un mondo fatto per noi e manipolabile a nostro vantaggio (!) e piacimento. La realtà di oggi, dovuta all’affermarsi di un particolare modo di pensare in una cultura umana, quella occidentale, dimostra che i disastri arrecati dalla nostra specie all’Equilibrio Globale sono di gravità infinitamente maggiore di quelli eventualmente provocati dagli altri esseri viventi, ma non si tratta solo di considerazioni etiche, perché, se non cambieranno le premesse culturali, i disastri – già enormi – diventeranno irreversibili. Anche se la Natura riuscirà su tempi lunghi a riportare un equilibrio (come fa con le altre specie, ma su scala ben più piccola), ne risulterà una situazione molto più “povera” di Vita e mente.
Il fatto di non considerarci “esseri speciali” o “in posizione centrale” non deve affatto indurre al pessimismo; anzi, è motivo di lieta serenità.
Invece del Dio-Persona distinto dal mondo e giudice delle azioni umane, troviamo il Dio-Natura immanente in tutte le cose, e quindi anche in noi stessi, che ne siamo partecipi. La Divinità osserva sé stessa anche attraverso gli occhi di una marmotta, o di una formica, o l’affascinante e misteriosa sensibilità di un albero.


mercoledì 30 agosto 2023

Holistic Vision of the World

                                           Guido Dalla Casa


Holistic Vision of the World


 


 





When it comes to ecology and nature protection, take care of   " Visions of the world"   it seems like something more abstract, or less practical, than giving advice on waste disposal or forest conservation, but it's only because talking about "worldviews" has effects that last much longer. However, these are aspects that touch behavior and attitudes much more in depth, compared to the most immediate practical suggestions of petty ecology.


Premises
Let us summarize some foundation of current knowledge incompatible with the Jewish-Christian cultural background and with the dualism of Descartes: - Neither the Earth, nor the Sun, nor anything else are at the center of something: the stars are all equally grains in the sea of Infinity. There is no center of any kind. - Humanity is an animal species appearing on one of the many planets only three million years ago, against the three or four billion years of life on Earth and the fifteen or twenty billion years since the presumed birth of the Universe, assuming that the Everything is not something that has always been cyclically pulsed. So the alleged "King of Creation" would arrive a little late, while his so-called "kingdom" was waiting for him with little impatience. Moreover, it takes a good presumption to think of "improving" what took four billion years to become what it is. Humanity is part of everything in all of Nature. The vital phenomena are the same in all species. - Western culture is only two or three thousand years old, industrial civilization is two hundred years old: these are completely insignificant times. Even the concept of progress has a very short life, no more than two or three centuries; obviously we can live even without this fixed idea. The division between prehistory and history is only a mental scheme of our culture, which serves to nurture a certain vision of the world. There is no reason, nor any scale of privileged values, to consider a culture better or worse than another. Note then that it is used to call "history" what has happened in the last five thousand years to Western civilization and the entire life of the Earth, ie four billion years and five thousand human cultures, is liquidated with the only "prehistory" label. - Essential mental functioning, behavior, are essentially similar in all animal species close to us. Most of these are non-conscious phenomena. - Quantum physics has demonstrated the intrinsic impossibility of describing material or energetic phenomena without considering observation; this means that, without the mind, matter-energy is meaningless, it is in no way describable, it is "devoid of reality", it is only a kind of wave of probability. Newton's mechanistic physics remains only the practical function, even if in our basic schools there is no trace of the profound change that has taken place. From this picture a very ancient and widespread conception is born: animism. A form of "mind" must be everywhere, it is inherent in the universal, if we want to avoid the paradox of the "observer" that determines the so-called reality. The distinction between spirit and matter falls completely. The Great Spirit and the spirit of the tree, of the Earth, of the river, of the bison return to the memory. There is another legend to be debunked, that of the so-called neutrality of science, or the independence of science from metaphysical conceptions. The official science often resorts to real intellectual acrobatics while not leaving the Cartesian paradigm, which it considers "obvious" and "acquired". Thus it finds itself in way without exit, and sometimes it is forced to deny or not to consider the facts not framed in that conceptual scheme, in order not to question the premises: and then it must make whole categories of phenomena of macroscopic interference disappear, or non-distinction, between spirit and matter, with the excuse that they would not be "repeatable". The serious difficulties of physics come from the desperate insistence in wanting to frame modern knowledge in the Cartesian paradigm. Yet even today, to appear "modern", many people love to call themselves "Cartesian" or "rational", not knowing how to defend the thought of the nineteenth century. The ideas of the French philosopher are accepted by the great majority of people simply because what we breathe from birth appears obvious to us, which means that it does not appear to us at all. But the primacy of the rational on the emotional and on the intuitive is only a prejudice of today's western culture. Opposites Western culture sees everything split in two: this is already a source of anxiety; not only, but he considers the two parts "opposite" and he lives them in a schizophrenic way, he does not consider them two indivisible poles, two sides of the same coin, two aspects of the same thing. He thinks that a "pole" is better and he wants to make the other pole disappear. Some scientists are even desperately searching for the magnetic "monopole", that is, they want to "discover" a north pole without the south pole, which has been impossible until now. But perhaps even the monopoly will be a creation of the mind. Even in magnetism it seems that someone considers the north pole "a little more beautiful" than the south pole. If we want to use the terminology of Taoism, the West wants a Yang-only universe: the Yin must be abolished; as if this made sense. However, in this way only anguish is caused. The West wants the serene without the rain, the one-way time and not the cyclic one, it wants the competition, the supremacy, the affirmation of the ego, the progress towards the future like a semirect. He wants life without death, Being without the Nothing, activity without passivity, doing without meditating, growth without diminishing. Journalists of the economic world do not even mention the decrease, they want to exorcise it by calling it "bending", which is another thing. As if it were possible to have the mountains without the valleys. This view of the world as a complementarity of Yin and Yang and not as a pursuit of a single pole is basically the philosophy for which it was very difficult for technological progress and industrial civilization to be born a thousand years before in the West. As for death, let's see how it came. Two or three billion years ago, the Earth was populated with microorganisms that reproduced dividing into two: so they did not die. There was a genetic heritage available that could be renewed only very slowly through some mutation. It was very difficult to create new organisms. To allow the emergence of variety, beauty and spirituality in life you had to have many new forms and organisms: then mix everything in a much quicker and more creative way. So Nature - which you can also call God - invented sex and death. That is why, since then, death has become useful and necessary to allow Life. Death is just the other side of life. Today the images born of the computer prevail, which some greet as non-mechanical, as holistic. But even if they introduce non-mechanical ideas of information and relationship, they are based - on an elementary level - on a binary logic, still on a SI-NO or full-empty dualism, then on a contrast. They also perpetuate the Cartesian division, renamed hardware and software. A vision of this kind can hardly be a starting point for merging or integrating the so-called two cultures, or an approach to integrate opposites. Quantum physics, on the other hand, admits a logic "YES and at the same time NO", "empty and at the same time full", and can accept non-quantitative and non-mechanical positions. With the universal indeterminacy one can integrate opposites by seeing them as complementary and co-present. This is not a trinary logic YES-NO-I DO NOT but of an indeterminate multiple possibility. Even distinctions as real-imaginary, discovery-invention, and so on, lose meaning. With the new approach we could emerge from the tangle of innumerable particles that are gradually "discovered": otherwise we will end up finding everything we are looking for, in order to find it in a certain way, that is, we can invent-discover who knows how many others " particles "in an endless sequence. By now all these "entities" have a mental content barely concealed by mathematical language. With a possible non-Cartesian conceptual refoundation, there would no longer be just a "physics" in the materialistic or prequantistic sense, but something more, making the distinction between physics and metaphysics, between "material" and "spiritual" knowledge even more evanescent. . Above all, in this sense, the new physics can be the bridge to connect the so-called "two cultures" and lead to a progressive disappearance of their distinction. Visions of the world Among the many "visions of the world" present in humanity is absurd that there exists the "true" or "just" because this would be an inexplicable asymmetry. Therefore the idea of "truth" is a characteristic that derives from the Cartesian view of the "objective" or "real" world that "is" in a certain way. The visions of the world are all equivalent and real as such and as manifested in some system of thought. There can not be the "true" or "right" one of the others. Otherwise, how could so many different visions occur and also continuously vary in time? Even religions (essential components of the world view) are all equally true or untrue. They constitute our relationship with the Invisible. We have already mentioned the concept of truth. The questions are very stimulating, so-called "definitive" answers only bring trouble. It is not a matter of asking oneself "Will not the other be right?" Because this presupposes that there is a "reason". Nor is it a matter of "always being in doubt" because this presupposes something certain and real on which to doubt, it means that one is in doubt about some "truth". The concept of doubt presupposes that of truth. It is different to abolish the true-false antithesis, considering the two terms as complementary and co-present. Thus the distinction between "the facts" and "the opinions" is illusory, because what are called "objective facts" are only the opinions of a human cultural model: in our world the opinions of Western culture are called real facts. In every culture a truth is formed, which however is as valid as any other. However, the concept of "absolute truth" and the consequent need to "discover it" can be assimilated to a cage, to an oppression. The universal appears as a spirit or a subject, depending on what is sought. As the physicist finds particles or waves depending on what he is looking for, so materialist cultures find matter, animist cultures find spirits. Any dispute over what is "right" interpretation is meaningless: it is this dualism, created by us, which gives rise to the problem, otherwise non-existent. Only in the absence of the concept of truth can one see something absolute, or non-differentiated. Truth is changeable and elusive, while variability is universal and incessant. Descartes condemned us to the truth, but already four centuries ago Montaigne had written: The concept of certainty is the most solemn stupidity invented by the human being. Moreover, these are not even novelties, if we think of ancient statements, such as: - "The Tao that can be explained is not the real Tao" (Lao-Tse); - "What I have to teach can not be taught" (Buddha); - Finally, to Pilate's question: "What is the truth?", Christ answered with silence. With regard to the integration of opposites such as "one who acts" and "the matter on which one acts", note that the same European languages prevent us from thinking of a process that occurs spontaneously, that has in itself its reason d'etre. We always think of "someone" acting, something "external" that causes events. We are not psychically equipped to conceive immanence; likewise we translate the term Taoist wu-wei, which means "spontaneous action according to the nature of things", as non-action. Every verb must have a pronoun by subject, an agent: so we are used to thinking that something is not in its place if there is not someone or something that assigns it to that place, if there is not a manager. The idea of a process that happens totally by itself almost frightens us: it seems to us that there is no authority. The idea of the God of the Old Testament and Cartesian dualism reappear everywhere. Stability and movement The ancient metaphysical divergence between Heraclitus and Parmenides, ie the contrast between becoming and being, is also a matter of complementary visions. Apparently, with the perennial and unpredictable flow, with the becoming and the laws of chaos, the dispute seems "resolved" in favor of Heraclitus, after 2500 years. The universe appears an incessant flow if we keep time as an autonomous variable. By adopting a four-dimensional approach, that is, by understanding time as a variable interconnected with spatial ones, we find ourselves in a different framework, which appears "immobile". In a Minkowsky universe - the mathematicians would say - the world seems parmenide, "immutable". But this is not about right or wrong vision. The dilemma is insoluble because it is inherently non-existent. These are complementary modalities that attract each other, not opposing positions. In one of the fragments of the same Heraclitus, it is written that the incessant change presupposes a motionless background without which movement could not be appreciated. Conclusions Let's try to sketch some conclusions. There is a reductionist approach aimed at studying the primary elementary causes of a phenomenon, which always assumes decomposable into simpler parts, and there is a holistic approach, which starts from the global properties of a system, which can not be reduced to the whole of its elements. The physicist constantly refers to the elementary particles, the DNA biologist, the sociologist to the individual, hoping to reduce the complex to the simple, and this is done for ecosystems. But the recent notion of complexity is different. Everything is worth more than the sum of the parts, because there are mutual correlations. Not only that, the way of choosing the components (which individually have no autonomous reality) is arbitrary, because it presupposes a preconceived conceptual framework, a prejudice. Reductionism arises from the dominant paradigm of the West, that is, from the idea that it is possible to break down anything, or event, into separate parts. The reductionist approach has been that followed above all in the last centuries and that has brought to the vision of the world and to the current way of life of the people of Western culture, or that have absorbed the values of this culture. The holistic approach is difficult for those born with the fundamentals of the first and is just beginning to manifest itself today in individual form or little more. So for now we can also consider ourselves free to imagine, or to hope. The passage necessary to implement and make habitual a new way of thinking is very difficult, even for those who were intellectually convinced. Each one can imagine in his own way the consequences that may derive from a possible statement on a general scale of the holistic approach. As an exercise, let us try to imagine a world in which: - opposites are only complementary aspects of the same thing; - death is simply the other side of life: Nature is made of both as inseparable aspects of the same phenomenon; - there is nothing to fight, nothing to prove, no competition to win or lose, there is no need for rankings or records. The very concepts of victory, defeat and challenge are useless; - there is nothing to conquer, manipulate, alter; - the concepts of reason and wrong, merit and guilt, are only dangerous superstructures of the mind, which excite violence and extinguish the smile; - there is no distinction between spirit and matter, between humanity and nature, between God and the world. The mind is widespread, universal, indivisible. We are not anything special or central. Since the idea of "objective reality" has disappeared, the concepts of truth and certainty become useless: with everything in continuous dynamism, the concept of truth tends to coincide with that of Nature and therefore, in a pantheistic vision, with the idea of divinity. It is good to clarify that this is not a static vision, a world in which the absence of the concept of "progress" involves an unchanging way of life, always equal to itself, or "waiting". In a sense, it can be compared to a river: it seems similar to itself, but instead flows, maybe even quickly. In the torrent there are never two moments in which the same water passes, which is continuously moving. The stones are there in the middle: they are not attacked or split, but left where they are. The water bypasses them, passes equally and descends towards the plain and the sea. It is not a matter of "not doing", but of acting according to the natural course of things, according to Nature. Thus one can continue to swing a pendulum by hitting it rhythmically, as long as the blows are synchronous with its frequency. Moreover, today in our world there is an obsessive invasion of terms such as struggle, battle, supremacy, competition, race, challenge, victory, defeat and the like: just read a newspaper to realize how many facts are interpreted with this scheme. In the new vision, we try instead to favor the cooperative and universalizing aspect towards the competitive and self-assertive one, today exalted in an abnormal way by Western culture; with another language, it is about recovering the "feminine" aspect of the world ... ... There is no need for "battles", but above all we need to understand, accept and smile. The "struggle for peace" is an ambiguous expression, because peace is a condition of non-struggle: it is an attitude. It is about making it universal. I repeat, this does not mean "doing nothing" or "letting go": the most useful action is perhaps that of spreading ideas, that is to oppose preconceived current ideas, perhaps with a smile. To actively contribute to making the idea of non-struggle universal is in any case an action. The world is not something to be conquered, but it is the whole of which we are a part. If we then have to try to "grow" something, let's try to improve our perceptual qualities to achieve a better harmony with the vital rhythm of the Cosmos. It is not that in a world of this kind there is "nothing to do" or "nothing to think about": you can admire the flowers and the trees, watch the moon and the stars, watch the birds fly and feel in tune with them , and above all to think, to participate in the universal symbiosis. If we abandon the mania of success and enjoy the pleasure of non-competition we will reborn the taste for life. In the conception that sees mind and matter as the only indivisible expression of Nature, we are certainly quite far from the idea of "brute matter" moved by something "external", from the idea of a world made for us and manipulated to our advantage (! ) and liking. The reality of today, due to the affirmation of a particular way of thinking in a human culture, the Western one, shows that the disasters caused by our species to the Global Equilibrium are of infinitely greater severity than those eventually caused by other living beings, but it is not just ethical considerations, because if the cultural premises do not change, the already enormous disasters will become irreversible. Even if Nature manages to restore a balance (as it does with other species, but on a much smaller scale), it will result in a much "poorer" situation of Life and Mind. The fact of not considering ourselves "special beings" or "in a central position" should not induce pessimism; on the contrary, it is a reason for happy serenity. Instead of the God-Person distinct from the world and judge of human actions, we find the immanent God-Nature in all things, and therefore also in ourselves, that we participate in it. Divinity observes itself even through the eyes of a marmot, or an ant, or the fascinating and mysterious sensitivity of a tree.