lunedì 28 luglio 2025

ECOLOGIA PROFONDA (1996)

Guido Dalla Casa


ECOLOGIA PROFONDA


PANGEA Edizioni – Via Drovetti 37 – 10138 TORINO

   

ISBN 88-86964-08-0

(pubblicato nel 1996)









1 – INTRODUZIONE


   Dedica mezz’ora al giorno a pensare al contrario di come stanno pensando i tuoi colleghi.

Albert Einstein


   Come i venti e i tramonti, la vita selvaggia era considerata sicura finchè il cosiddetto progresso non ha cominciato a portarla via. Ora ci troviamo di fronte al problema se un ancora più alto “ livello di vita” valga il suo spaventoso costo in tutto ciò che è naturale, libero e selvaggio.

Aldo Leopold  


   Sai che gli alberi parlano? Si, parlano l’uno con l’altro e parlano a te, se li stai ad ascoltare. Ma gli uomini bianchi non ascoltano. Non hanno mai pensato che valga la pena di ascoltare noi indiani, e temo che non ascolteranno nemmeno le altre voci della Natura. Io stesso ho imparato molto dagli alberi: talvolta qualcosa sul tempo, talvolta qualcosa sugli animali, talvolta qualcosa sul Grande Spirito.

Tatanga Mani


    Una persona non dovrebbe mai camminare con tanto impeto da lasciare tracce così profonde che il vento non le possa cancellare.

(da un insegnamento degli indiani Piedineri)




L’idea più corrente che viene evocata nell’opinione pubblica quando si parla di azione “ecologista” o “verde”, è che questa consista essenzialmente nel vigilare affinché il “naturale progresso dell’umanità” avvenga senza inquinamenti e senza modificare troppo l’ambiente, che è considerato bello e quindi “da salvare”. In sostanza, quella che viene chiamata azione ecologista è la “protezione dell’ambiente”: non inquinare, mantenere pulito il paesaggio, installare filtri e depuratori e conservare qua e là alcune isole di natura dove recarsi a scopo ricreativo, i “Parchi”.

La componente di pensiero sopra accennata è oggi abbastanza presente nell’opinione pubblica e la sua massima diffusione è certamente utile.

Tutto questo non è sufficiente, perché il problema ecologico nasce dall’atteggiamento della cultura dominante, dal pensiero di fondo della civiltà industriale, dal suo inconscio collettivo. E’ un problema filosofico, molto più che un problema pratico o tecnico. Se non si modifica profondamente la visione del mondo, si ottengono solo risultati transitori, effetti di spostamento nel tempo, pur utilissimi, di problemi insolubili.

Perché si cambi una visione del mondo, cioè una cultura, si richiedono di solito tempi dell’ordine di un paio di secoli. Ma non si salverà la Madre Terra senza un tale capovolgimento, cioè senza la fine della civiltà industriale, che è l’espressione attuale della cultura occidentale e l’applicazione pratica del materialismo. Invece, una volta scomparsa o modificata profondamente la visione del mondo dell’Occidente, il problema ecologico non esisterà più.

Le culture umane con una visione del mondo che comporta un modo di vivere ecologico non sanno cosa sia l’ecologia, e questo conferma che ciò che respiriamo fin dalla nascita ci appare ovvio, il che significa che non ci appare affatto.

   La civiltà industriale è di per sé una cultura non-ecologica; inoltre:

- si considera una meta agognata da tutte le civiltà tradizionali, vede i propri pregiudizi come frutto della natura umana e la propria scala di valori come un punto d’arrivo per tutta l’umanità;

- distrugge le altre culture fagocitandole e imponendo le proprie concezioni di fondo, cioè assimilando a sé ogni varietà culturale;

- è in sostanza il processo che sta divorando la Terra: solo la sua fine può risolvere il dramma ecologico.

      Anche se le schematizzazioni sono sempre riduttive, al solo scopo di intendersi più facilmente, adotterò la distinzione del filosofo norvegese Arne Naess, dividendo il pensiero ecologista in due categorie:


- l’ecologia di superficie, che ha per scopo la diminuzione degli inquinamenti e la salvezza degli ambienti naturali senza intaccare la visione del mondo della cultura occidentale;


- l’ecologia profonda, in cui vengono modificate radicalmente le concezioni filosofiche dominanti dell’Occidente: in questa forma di pensiero si dà un’importanza metafisica alla Natura, superando il concetto restrittivo e fuorviante di “ambiente dell’uomo”. In un certo senso non c’è più bisogno del concetto di ecologia, come avviene nelle civiltà tradizionali.


     Una delle obiezioni che viene mossa all’ecologia profonda è che non comporterebbe azioni concrete: è bene evidenziare ancora che le svolte culturali non sembrano concrete solo perché si svolgono su tempi lunghi. Sono però molto più profonde e radicali.

Probabilmente la rivoluzione copernicana e la concezione evoluzionista sembravano assai poco “concrete” agli effetti della vita pratica. Eppure hanno causato modifiche di atteggiamento che si risentono per secoli e da cui derivano intere serie di scoperte-invenzioni fin troppo “concrete”. Cartesio non poteva certamente immaginare quali conseguenze pratiche avrebbe avuto il diffondersi del suo pensiero dopo qualche secolo.

Si parla sempre dei vari tipi di “crisi” in cui si dibatte il mondo attuale, ma ben raramente si evidenzia che si tratta di un’unica crisi globale e culturale: è la nostra civiltà che rivela il suo fallimento.

Non è possibile pensare di salvare il mondo dalla catastrofe ecologica senza analizzare il concetto di sviluppo e senza ricordare che questo concetto è il prodotto di una sola cultura umana in un determinato momento della sua storia: la Natura viene distrutta dal “démone del fare” che divora l’Occidente e dalla sua smania di “modificare il mondo”.

L’Occidente, preda dei démoni dell’avere e del fare, ha dimenticato il vivere, il conoscere e l’essere.

Bisogna avere il coraggio di dimenticare “il progresso” e di mettere in pensione la crescita economica, confortàti dal fatto che questa crescita porta con sé chiari segni di profondo disagio sociale e psicologico: l’avanzamento degli indici economici comporta la diminuzione degli indici “vitali” (varietà di specie ed ecosistemi) e della serenità mentale (droghe, suicidi, delinquenza), anche se tali fatti non vengono di solito evidenziati.

    Per tutti questi motivi, pur considerando pienamente valide le azioni proposte in pratica dall’ecologia di superficie, nei capitoli che seguono proporrò alcune domande:

- Perché il dramma ecologico è nato proprio nella cultura occidentale?

- Perché consideriamo la civiltà occidentale ed i suoi miti come quelli “veri”?

- Che cosa sono lo sviluppo e il benessere?

- Il concetto di progresso è universale ed evidente?

- Che posizione ha la nostra specie nell’Universo?

- Cosa ne pensano le altre culture umane?

     Comunque cercherò di evidenziare i guai dell’Occidente solo perché è la cultura dominante e per mettere in luce molte idee di cui non si parla solo perché sono considerate ovvie. Ma non intendo dimostrare che l’Occidente è una cultura “peggiore” delle altre: è una cultura come le tante altre apparse sulla Terra.

Come segno di speranza, passerò poi a un rapido esame di alcune tendenze di pensiero nate nel ventesimo secolo, che assomigliano a molte idee di fondo di altre culture.

Se un nuovo paradigma (1) divenisse il sottofondo del pensiero corrente, si avrebbe la fine del materialismo e quindi di questa civiltà. Inoltre manteniamo viva la speranza che si salvi la diversità culturale.

In definitiva, poiché la distruzione degli equilibri naturali è opera della civiltà industriale e della sua tumultuosa espansione, per ottenere qualche miglioramento globale e permanente in questo campo è necessario:

- intaccare le concezioni che l’hanno fatta nascere;

- porre in discussione la sua visione del mondo.






Note al capitolo 1

(1) Il termine “paradigma” è stato introdotto in questo senso dal filosofo contemporaneo Thomas Kuhn e significa più o meno “quadro di pensiero in cui vengono inseriti fatti e teorie”, oppure “insieme di regole o modi con cui vediamo il mondo”. Il paradigma è lo schema mentale attraverso il quale vengono visti ed interpretati tutti gli eventi.



2 – L’ECOLOGIA DI SUPERFICIE


  L’Occidente è una nave cha sta colando a picco, la cui falla è ignorata da tutti. Ma tutti si danno molto da fare per rendere il viaggio più confortevole.

Emanuele Severino


  La crescita perpetua è il credo della cellula cancerosa.

Edward Abbey


  L’ideologia industriale è alle corde. Il tragico ecologico l’ha sconfitta.

Guido Ceronetti


  Condensiamo la storia della Terra di quattro miliardi di anni in sei giorni.

Il nostro pianeta è nato lunedì alle ore zero.

La vita comincia a mezzanotte di mercoledì e si evolve in tutta la sua bellezza nei tre giorni seguenti.

Sabato alle ore 16 compaiono i grandi rettili che si estinguono cinque ore più tardi, alle nove della sera.

L’uomo appare soltanto sabato sera a mezzanotte meno tre minuti.

La nascita di Cristo avviene un quarto di secondo prima di mezzanotte.

Manca un quarantesimo di secondo quando inizia la rivoluzione industriale.

Ora è sabato sera, mezzanotte, e siamo circondati da persone convinte che ciò che fanno da un quarantesimo di secondo possa durare per sempre.

(libera traduzione da David Brower, Le Nouvel Observateur)


  Il periodo di rapida crescita della popolazione e dell’industria prevalso negli ultimi secoli, invece di venir considerato come condizione naturale e capace di durare indefinitamente, apparirà come una delle fasi più anormali nella storia dell’umanità.

Adriano Buzzati Traverso



Premesse

      In questo capitolo descriverò brevemente quel tipo di “ecologia” cui ci si riferisce di solito e che viene accettata da un numero ancora esiguo ma rapidamente crescente di persone. Userò a questo scopo il linguaggio che più frequentemente viene utilizzato dai mezzi di comunicazione, quando si occupano del problema ecologico.

Secondo questa ecologia, in cui si mantiene la distinzione fra “l’uomo” e “l’ambiente”, la Terra va tenuta pulita e piacevole perché è “l’unica che abbiamo”, è “la nostra casa”, è un Pianeta fatto per noi. E’ necessario “difendere l’ambiente” perché l’umanità possa viverci meglio: le modifiche devono essere fatte “a misura d’uomo”.

In sostanza non si intaccano mai le concezioni globali dell’Occidente, il paradigma dominante resta lo stesso. Sia l’ecologia nata dalla problematica dei “limiti dello sviluppo”. Sia quella che cerca di tenere “bello” l’ambiente e abitabile la Terra lo fanno soprattutto per il benessere dell’uomo, la cui posizione centrale e particolare non viene minimamente scossa.

Anche l’idea di conservare la Terra in buono stato per le generazioni future attribuisce valore alla Natura soltanto in funzione della nostra specie: l’antropocentrismo non viene messo in discussione.


I limiti dello sviluppo

Il tipo di pensiero ecologista cui accennerò ora è nato all’inizio degli anni Settanta con la pubblicazione del famoso rapporto del Club di Roma “I limiti dello sviluppo”, titolo in cui è già evidente l’impostazione dello studio: lo sviluppo va arrestato lentamente, perché ha dei limiti fisici, oggettivi. Quindi non possiamo fare a meno di fermarlo: occorre frenare per l’uomo, anche se con grande dispiacere.

Non si intacca alcun principio dell’Occidente, anzi il mondo è considerato un sistema meccanico straordinariamente complesso: la concezione meccanicista non è minimamente messa in dubbio. La spinta all’equilibrio globale è una necessità fisica, la Terra deve essere rispettata perché diversamente non consentirà la vita dell’uomo.

Il rapporto era stato impostato semplificando il sistema mondiale con cinque grandezze: le risorse naturali, la popolazione umana, gli alimenti, l’inquinamento e la produzione industriale. Erano poi stati schematizzati i tipi di interazione fra queste grandezze su scala mondiale e si erano studiate le tendenze future estrapolando gli andamenti verificatisi dall’inizio dell’éra industriale.

Come noto, il risultato dello studio fu che il sistema sarebbe collassato attorno agli anni 2020-2030, naturalmente se non si fossero modificati gli andamenti e le interazioni, cioè il modo di vivere. Attorno al 2030, quando i cinque diagrammi dello studio “impazziscono”, la Terra avrà livelli di degradazione intollerabili: però questo fatto non era preso in considerazione come disastro “in sé”. 

A coloro che non si preoccupano più di quel rapporto perché finora non è successo niente pur essendo continuato l’andamento precedente delle grandezze in esame, è opportuno ricordare che mancano ancora trenta o quaranta anni prima che si debba notare qualcosa di macroscopico. Anzi, gli indici presi in esame stanno procedendo secondo le curve uscite allora dall’elaboratore.

Lo scienziato Paul Ehrlich ha proposto a tale riguardo una parabola che mi sembra molto istruttiva. Supponiamo, scrive Ehrlich, di trovarci a salire su un aereo e di vedere che c’è una persona che sta tranquillamente schiodando i rivetti, che sono un tipo speciale di chiodi che tengono insieme le lamiere dell’ala. Naturalmente allarmatissimi ci mettiamo a gridare all’uomo di smetterla: ma lui ci risponde di stare tranquilli perché non è la prima volta che lo fa (li rivende ad una ditta) e non è mai successo niente; anzi lui stesso sta per partire col medesimo volo, non c’è nulla di cui preoccuparsi. Ovviamente l’uomo non si rende conto che a furia di schiodare arriverà a togliere quel bullone che segna la soglia massima di resistenza dell’ala privata dei bulloni medesimi, e a quel punto succederà la catastrofe. La stessa cosa accade per il nostro pianeta: continuiamo con la più grande incoscienza ad eliminare una specie dopo l’altra, ed apparentemente non succede nulla nell’ecosistema globale. Ma ad un certo punto salterà tutto.

Ricordiamo anche il paragone di Bateson con la rana messa a bollire in una pentola con acqua fredda: se si aumenta lentamente la temperatura dell’acqua, la povera rana non riuscirà ad accorgersi quando è arrivato per lei il momento di saltar fuori e finirà lessata.

Il rapporto del Club di Roma ebbe sostanzialmente tre grossi pregi:

- di introdurre il problema con un linguaggio scientifico-matematico, che viene di solito abbastanza accettato dagli ambienti ufficiali, anche se soltanto come metodo;

-  di evidenziare l’idea di crescita esponenziale, cioè invitare alla meditazione su cosa significano i fenomeni che hanno un simile andamento nel tempo;

- di richiamare l’attenzione sulla gravità del problema demografico: se non si arresta l’attuale esplosione della popolazione mondiale, ogni altro provvedimento diventa inutile; oggi l’umanità aumenta di un milione di individui ogni quattro giorni. 

A questo proposito à bene ricordare che l’area del mondo più sovrappopolata -anche se non cresce quasi più - è l’Europa, con alte densità e con impatto altissimo, dato l’insostenibile livello di consumo pro-capite dei suoi abitanti.


La crescita esponenziale

Ritengo utile richiamare con un paio di esempi cosa significa l’andamento esponenziale, che è il modo di procedere della civiltà industriale.

Il primo esempio è un aneddoto:


Un Maragià indiano, per saldare un debito di riconoscenza verso un suo saggio suddito, gli promise di soddisfare un suo desiderio.

Il saggio chiese un certo quantitativo di grano: quello che si ottiene mettendo un chicco sulla prima casella della scacchiera, due chicchi sulla seconda, poi quattro, otto, sedici, e così via raddoppiando. Il maragià restò stupito dalla modestia di quella richiesta e ordinò che venisse portata una scacchiera ed un sacco di grano. L’incaricato a deporre i chicchi si accorse ben presto, già nella seconda fila di caselle, che si preparavano guai e che il sacco non sarebbe bastato, anche se la prima fila era andata via con quantità di grano molto modeste.

Per avere il totale dei chicchi, basta moltiplicare due per sé stesso sessantaquattro volte; provate e vi divertirete: con i calcolatorini in commercio farete prestissimo, ma il numero uscirà presto dal visualizzatore delle cifre. Il numero risultante sull’ultima casella della scacchiera ha una ventina di zeri e corrisponde al raccolto mondiale di grano per duemila anni! Secondo l’aneddoto, il maragià si trovò nell’alternativa di non mantenere la parola data o far tagliare la testa al vecchio saggio. (2) 


Un altro esempio classico può illustrare ancora meglio il tipo di rapidità nel tempo dei fenomeni che avanzano con l’andamento “del raddoppio”, che equivale ad aumentare di una percentuale annua costante il valore già raggiunto.

Supponiamo che un microorganismo in crescita esponenziale con raddoppio giornaliero “uccida” la superficie di un lago e ci metta sessanta giorni a farla fuori tutta. Se un gruppo di esperti, notando la moltiplicazione del microorganismo, si recasse a visitare il lago al 56° giorno, cioè a quattro giorni dalla morte totale, vedrebbe soltanto un sedicesimo del lago già “morto” e tutto il resto bel tranquillo: probabilmente se ne andrebbe proponendo solo qualche blando correttivo e scagliandosi contro gli “allarmisti” che ritenevano urgente un rimedio.

    E’ forse istruttivo seguire l’andamento di tale fenomeno (i valori sono arrotondati):

Se il microorganismo ha la superficie di un micron (3) quadrato e la superficie totale del lago è di un Km quadrato, si ha:

- inizialmente l’area ricoperta dal microorganismo è di un micron quadrato;

- dopo 20 giorni il microbo ha infettato un millimetro quadrato di superficie, cioè dopo un terzo del tempo totale il fenomeno non è ancora percepibile; 

- dopo 40 giorni, cioè due terzi del tempo totale, la superficie ricoperta è un metro quadrato, cioè il fenomeno è rilevabile solo con grande difficoltà; comunque nessuno darebbe importanza alla cosa;

- dopo 56 giorni, come si è detto, è ricoperto un sedicesimo del totale, cioè il fenomeno è visibile ma per molti “non ancora preoccupante”.

Dopo altri quattro giorni è tutto finito.

Alla luce di tale andamento esponenziale del fenomeno “civiltà industriale”, appare perfettamente logico che per un paio di secoli non si sia notata la vera natura distruttrice di tale civiltà. Infatti i suoi effetti reali sulla Vita non possono evidenziarsi se non pochissimo tempo prima della sua fine: ritornando all’esempio del microorganismo nel lago, chi potrebbe effettivamente accorgersi di un metro quadrato inquinato se è sparso su una superficie di un Km quadrato, cioè un milione di volte più grande? Eppure in quel momento il fenomeno ha già “lavorato” per due terzi del tempo totale a sua disposizione.

Quindi la persistenza del modello attuale per due secoli, fatto su cui poggia l’idea di continuazione della civiltà industriale sempre-crescente, costituisce invece un’ulteriore prova della sua fine imminente: come si è visto, il modello può esistere senza manifestare la sua vera natura per un tempo quasi uguale a quello della sua esistenza complessiva.

E’ utile comunque ricordare che l’impostazione al problema ecologico data dai “limiti dello sviluppo” non è stata sostanzialmente contestata sul piano scientifico, è stata soltanto ignorata dal mondo ufficiale, impossibilitato ad arrestare una spinta che persiste da due o tre secoli, proprio perché non si può cambiare il modo di vivere senza modificare il pensiero filosofico.

A questo punto viene da chiedersi che senso ha un modello culturale che non può durare per un tempo indefinito, cioè che ha in sé la certezza della propria fine.

Secondo i sacerdoti della crescita, succederà “qualcosa” che consentirà di crescere sempre. A parte che non si capisce cosa possa essere, viene da chiedersi perché questi economisti non portino subito in Banca mille lire e le lascino su un conto al sette per cento annuo di interesse, visto che - per il fenomeno esponenziale sopra accennato - dopo circa cinque secoli la somma depositata sarà diventata un milione di miliardi di lire che faranno felice qualche diretto discendente, neanche troppo lontano. Il bello è che - secondo gli stessi sacerdoti, che adorano la crescita come una divinità - se centomila persone fanno la stessa operazione, tutti si ritrovano il loro milione di miliardi dopo cinque secoli. Ancora soltanto qualche secolo in più, e la quantità di denaro di quei “conti in Banca” supera il volume di una sfera che comprende tutto il sistema solare.

Non possono accorgersi di questa assurdità proprio perché la crescita viene considerata intoccabile, cioè una divinità. 

E’ istruttivo riportare la conclusione dell’aggiornamento del famoso rapporto del Club di Roma eseguito venti anni dopo:


    Abbiamo ripetuto più volte che il mondo non si trova di fronte un futuro preordinato, ma una scelta. L’alternativa è tra modelli. Uno afferma che questo mondo finito non ha, a tutti i fini pratici, alcun limite. Scegliere questo modello ci porterà ancora più avanti oltre i limiti e, noi crediamo, al collasso.

    Un altro modello afferma che i limiti sono reali e vicini, che non vi è abbastanza tempo, e che gli esseri umani non possono essere moderati, né responsabili, né solidali. Questo modello è tale da autoconfermarsi: se il mondo sceglie di credervi, farà in modo che esso si riveli giusto, e ancora il risultato sarà il collasso.

    Un terzo modello afferma che i limiti sono reali e vicini, che c’è esattamente il tempo che occorre ma non c’è tempo da perdere. Ci sono esattamente l’energia, i materiali, il denaro, l’elasticità ambientale e la virtù umana bastanti per portare a termine la rivoluzione verso un mondo migliore.

   Quest’ultimo modello potrebbe essere sbagliato. Ma tutte le testimonianze che abbiamo potuto considerare, dai dati mondiali ai modelli globali per calcolatore, indicano che esso potrebbe essere corretto. Non vi è modo per assicurarsene, se non mettendolo alla prova. (4)


E’ comunque evidente che il terzo modello comporta una modifica profonda e radicale dei valori attuali della cultura occidentale, cioè un sistema di vita ben diverso.


I Parchi naturali

     Una delle politiche dell’ecologia di superficie è quella di tenere isolate alcune aree naturali del Pianeta salvandole dall’invadenza del cosiddetto progresso. Tale pratica, pur non intaccando i fondamenti che causano il dramma ecologico e lasciando a volte il sospetto che fuori da queste aree sia consentito ogni sfruttamento, è comunque da sostenere in ogni modo. Infatti è uno dei modi concreti in tempi brevi per salvare specie ed ecosistemi altrimenti destinati all’estinzione: essi potranno riprendersi nelle aree adatte del Pianeta quando saranno cambiati i paradigmi dominanti.

     Spesso la finalità pubblicizzata per i Parchi è piuttosto antropocentrica, cioè essi verrebbero creati per il “godimento dell’uomo”, ma questo è l’unico modo - date le premesse della cultura dominante -  perché tali Parchi possano essere accettati. 

Facciamo alcuni esempi:

Una palude va salvata perché fa da polmone nelle piene, perché è ricca di vita e quindi ci fornisce un buon sostentamento (prelevando quel tanto che non intacca l’equilibrio dell’ecosistema), perché ci possiamo ricreare andandola a vedere, e così via.

La foresta va salvata perché ci dà l’ossigeno, perché abbiamo ancora tante cose da imparare su di essa, perché molte specie potranno un giorno darci nuove colture agricole, per i nuovi medicinali e per scopi ricreativi e di conoscenza.

Già i motivi per salvare ampi spazi di deserto appaiono meno evidenti. Tuttavia alcuni deserti ci vogliono, per studiare le specie che vi si sono adattate e perché questo ambiente possa servire da palestra per il nostro ardimento, visto come un notevole valore “sportivo”.

In definitiva la posizione centrale e del tutto particolare dell’”uomo” non viene messa in discussione.


La questione etica e il problema dei “diritti”

Se portiamo il problema in termini giuridici, nell’ecologia di superficie la natura va protetta perché è “res communitatis” e non è “res nullius”. Resta comunque sempre “res”, si tratta di proprietà, di patrimonio comune, qualcosa da salvaguardare, ma che si può e si deve utilizzare o godere da parte di qualcuno o di tutti. L’uomo è sempre al centro, è il riferimento di tutto, vivente o non vivente.

Gli ecosistemi, gli animali, le piante non sono soggetti morali né di diritto, ma hanno valore solo in funzione umana (proprietari, gruppi, collettività, ecc.): l’animale o l’ecosistema sono evidentemente considerati “non coscienti” o “non senzienti”. Non si capisce proprio come venga stabilito il confine, o quale sia la caratteristica che fa attribuire la qualifica di “soggetto morale” o “soggetto di diritto”. Se fosse qualunque forma di “intelletto” o di facoltà intelligente - a parte la solita difficoltà di stabilire la “quantità di soglia” - non si capirebbe proprio come vengano assegnati diritti ben precisi (come soggetti) a un pugno di cellule o ai menomati o cerebrolesi gravi, o a persone in coma, purchè si tratti esclusivamente di umani.

E’ evidente la derivazione biblica e cartesiana di questi atteggiamenti: la distinzione nasce da un pregiudizio metafisico, di cui si parlerà in seguito.

L’etica religiosa dell’Occidente ha riservato scarsa attenzione ai non umani, escludendoli da ogni considerazione morale, o semplicemente umanitaria e relegandoli, in quanto privi di anima, nella sfera dei mezzi al servizio dell’uomo. L’ascesa della filosofia dello scientismo tecnologico, che degrada tutto a oggetto, ha ulteriormente peggiorato l’atteggiamento collettivo.

Invece non c’è nulla che impedisca di essere soggetto morale e dotato di diritti non solo a un animale, ma anche a un fiume, a una montagna, a una palude.

Oggi comunque sappiamo dall’etologia - ma anche dal senso comune - che almeno gli animali provano piacere e dolore e hanno interessi preferenziali: insomma non esistono differenze rilevanti fra umani e altri animali. Anche gli studi di neurobiologia non rivelano differenze qualitative fra le strutture umane e quelle di altri animali. Quindi non ci sono ragioni plausibili per escluderli da considerazioni etiche.

Poiché inoltre non è possibile stabilire confini fra animali e vegetali, né fra individui e “ambiente circostante” e comunque con la visione olistica e sistemica che vedremo, non c’è motivo per escludere qualunque entità naturale dall’essere soggetto etico e giuridico.

Anche per l’ecologia di superficie, cominciamo allora a vedere che cosa significa “etica ambientale”. Essa è stata definita come l’insieme dei princìpi che regolano il rapporto tra l’uomo e l’ambiente: princìpi che determinano specifici doveri a carico dell’uomo. Per mondo naturale si intende “l’intero complesso degli ecosistemi naturali del nostro pianeta, assieme a tutte le popolazioni animali e vegetali che compongono le comunità biotiche dei singoli ecosistemi”. E’ chiaro dunque che parlando di tutela delle specie in via di estinzione si parla necessariamente anche della conservazione dell’ambiente in generale; anche perché purtroppo le specie minacciate non sono poche, non si limitano a qualche uccello esotico, qualche grosso carnivoro o ad animali dalla pelliccia particolarmente pregiata o ad altri casi sporadici del genere. Si parla ormai di migliaia di specie animali e vegetali scomparse nel corso degli ultimi anni, e di decine di migliaia in immediato pericolo di estinzione. Si arriva ad ipotizzare la loro scomparsa nell’immediato futuro al ritmo di una all’ora. E’ difficile quantificare in maniera precisa, ma è evidente che ci troviamo di fronte ad un fenomeno di dimensioni tali da coincidere, in definitiva, con la sparizione stessa del mondo naturale.


L’illusione dei due sistemi

Il nostro mondo occidentale è quasi sempre spaccato in due in tutti i campi, date le sue premesse. Facciamo qualche esempio accennando alla sostanziale uguaglianza di atteggiamento verso la Natura di alcune correnti di pensiero che si credono “opposte”, ma nascondono in realtà le stesse concezioni di fondo.

Sia il dualismo metafisico credente-ateo sia quello economico capitalismo-collettivismo non sono rilevanti agli effetti del problema ecologico. Tutte le parti dicono di “difendere la natura” e accusano il polo “opposto” di essere la causa del male. Fino a qualche anno fa una fetta dell’Occidente ha sbandierato l’illusione che il dramma ecologico fosse dovuto al profitto, pur avendo il materialismo e il progresso addirittura come valori assoluti e metafisici. 

Per portare un esempio pratico, è nota la disastrosa situazione ambientale degli ex-Paesi socialisti: il prosciugamento del lago d’Aral e le sue drammatiche conseguenze, l’inquinamento del lago Bajkal, i folli piani di alterazione planetaria programmati per i fiumi siberiani.

I detentori della cultura occidentale a Ovest hanno sterminato gli amerindiani, a Est hanno distrutto tutte le culture asiatiche e artiche. L’Occidente ha mostrato lo stesso volto a Est e a Ovest, verso la Natura come verso le altre culture umane.

Non si capisce che differenza comporti - anche sul piano teorico - il fatto di perseguire “lo sviluppo” per ottenere il profitto o per avere i risultati previsti nel piano quinquennale.

L’obiettivo primario è in entrambi i casi l’espansione economica, che porta inevitabilmente con sé la distruzione della Natura. Il problema nasce dai fondamenti della civiltà industriale e non dai dettagli del sistema economico.

Ad esempio, è assai riduttivo pensare che la distruzione della foresta amazzonica o della taiga siberiana sia dovuta “alle multinazionali” o ai governi brasiliano o russo. La realtà dei fenomeni è che si tratta della continuazione di quel processo con il quale l’Occidente divora la Terra e distrugge le civiltà tradizionali già da alcuni secoli.

Non possiamo cavarcela dando “la colpa” a qualcuno.

La causa è il concetto stesso di espansione economica, pilastro su cui poggia la nostra civiltà attuale.

Anche l’opposizione credente-ateo non ha differenze sostanziali, come vedremo più diffusamente nei capitoli successivi.

Ogni movimento ecologista che derivi da concezioni marxiste, cattoliche o protestanti rientra nella categoria dell’ecologia di superficie. Tali posizioni sono figlie dell’Occidente, danno grande valore all’uomo e alla “storia” e hanno come mito il “progresso”.

Come sottofondo metafisico, queste concezioni ritengono che l’universale (cioè la “materia” o il “mondo fisico”) sia una specie di orologio che l’uomo, unico essere diverso, può e deve modificare a suo vantaggio.

Il fatto di ritenere che esista un Orologiaio (il Dio dell’Antico Testamento) oppure che non esista (materialismo) provoca differenze ben poco rilevanti. Con entrambe le posizioni ci si comporta nei confronti della Natura pressochè allo stesso modo. Da una parte si ritiene che il diritto-dovere di modificare il mondo provenga da Dio, dall’altra da una specie di “merito selettivo” che ci ha resi, in sostanza, gli unici detentori di “spirito”; ma gli effetti sono praticamente gli stessi. 

Entrambe le posizioni si ispirano alle concezioni filosofiche del pensatore francese del Seicento René Descartes, comunemente noto con il nome di Cartesio, oltre che all’idea esasperata di dominio dell’uomo sulla Natura, propria del filosofo inglese Bacone, tanto per fare solo qualche esempio.

Nell’immaginario dell’Occidente, l’Universo è un’enorme, complicatissima Macchina smontabile, con l’optional del Grande Ingegnere.

Quasi tutti i movimenti ecologisti oggi esistenti, essendo figli della cultura occidentale e della sua concezione del mondo, si ispirano ai princìpi qui accennati: del resto, se così non fosse, probabilmente avrebbero un sèguito numerico minore.

Questa posizione assomiglia abbastanza all’idea di un organismo visto come “ambiente” delle cellule nervose o di qualsiasi organo considerato come centrale (l’uomo): questo organo, o gruppo di cellule, avrebbe il diritto di modificare il corpo, tenendolo vivo, per trarne vantaggio, cioè per ottenere la sua espansione equilibrata e il suo sviluppo.

Poiché l’ecologia di superficie si inquadra nel pensiero generale dell’Occidente, non viene messa in dubbio l’idea che l’aspirazione logica di ogni individuo e di ogni collettività sia “l’affermazione” o “il successo”. In sostanza, tutto può continuare come prima, installando filtri e depuratori e salvando qualche isola di Natura in giro per il mondo.

Dall’ecologia di superficie viene anche l’illusione dello “sviluppo sostenibile”, locuzione che suona come “salita in discesa” o “pioggia asciutta”, avendo in sé una contraddizione di termini.

L’unica conclusione evidente ma che non viene detta perché è intollerabile alla civiltà occidentale (non volendo modificarne le premesse) è che lo sviluppo non è sostenibile, è un fenomeno impossibile sulla Terra, è incompatibile con il sistema biologico globale.

Cullarsi nell’illusione che stiamo per scoprire la via dello sviluppo sostenibile può essere pericoloso. E’ invece perfettamente lecito parlare di “società sostenibile”, intendendosi come tale un sistema in equilibrio dinamico, cioè senza alcuna crescita materiale permanente. 

Infine, anche questo pensiero, di provenienza amerindiana, fa parte dell’ecologia di superficie:


Quando l’ultimo albero sarà stato abbattuto, l’ultimo fiume avvelenato e l’ultimo pesce pescato, vi accorgerete che non si può mangiare il denaro depositato nelle vostre Banche. (5)


Qualche nota dall’immaginario

Se leggiamo qualche anticipazione romanzesca o cinematografica, notiamo un grado di angoscia maggiore nei racconti ambientati in un mondo immaginato come estrapolazione degli andamenti attuali rispetto a quelli in cui il mondo ha subìto un collasso che ha arrestato i fenomeni di oggi, e quindi si trova nel “giorno dopo” di un evento traumatico.

Nei primi si trovano distese di deserti al posto di foreste, il caldo è soffocante, l’acqua è rara e accaparrata dai ricchi, le specie sono poche, c’è rassegnazione e c’è il consumo “obbligatorio”.

Nei secondi si può contare sulla rinascita di un mondo cambiato, c’è almeno la speranza. La vita può riprendersi, anche se ha bisogno di tempi lunghi.

Anche nell’immaginario gli ottimisti sono coloro che prevedono la fine della civiltà industriale, o un cambiamento radicale dei paradigmi di pensiero e quindi dei modi di vivere.

Infine, una nota dall’antropologo:


Forse bisogna cercare nella natura, attorno a noi, la spiegazione del destino dell’Occidente e anche i presagi per il nostro avvenire.

I lemmings sono piccoli roditori del Nord-Europa e dell’Asia simili ai nostri topi campagnoli. In determinati periodi essi abbandonano le Alpi della Scandinavia in gruppi numerosi, come guidati da un misterioso suonatore di flauto, e si dirigono verso il mare del Nord o il Golfo di Botnia. Lungo questo tragitto, che è il loro senso della storia, essi subiscono gli attacchi dei carnivori o degli uccelli predatori che li distruggono a migliaia. Malgrado tutto, essi proseguono la loro strada e, raggiunta la meta, si gettano nel mare e vi annegano.

Le cavallette hanno anch’esse un simile senso della storia. Molte specie, tra cui la Locusta migratoria, vivono nella natura senza commettere danni: gli individui sono solitari e sparsi. A un determinato momento, per una ragione ancora sconosciuta, queste specie pullulano; le giovani cavallette che nascono e crescono in popolazioni fitte hanno colore e forma diversi: sono più grandi e di colore più chiaro, spesso di un bel verde.

I naturalisti ne hanno fatto una specie diversa: la Locusta gregaria. Esse si riuniscono in gruppi numerosi e, quando sono adulte, se ne volano tutte assieme, costituendo quelle nuvole di cavallette che i contadini del Mediterraneo temono moltissimo; esse avanzano a balzi enormi, nella stessa direzione inesorabile per molti giorni. Possono devastare ogni vegetazione in poche ore, o abbattersi su una steppa per marcirvi in mucchi al sole oppure precipitarsi a nugoli nel mare.

Che cosa potrebbero dire i lemmings se potessero scrivere la storia di una delle loro migrazioni? “Siamo in marcia verso un felice domani, la nostra nazione fortemente strutturata cresce di ora in ora, e nonostante vari attacchi, progrediamo nella stessa direzione, conservando la nostra organizzazione che, sola, permette all’individuo di marciare verso quel progresso che intravediamo già, tutto azzurro, ai piedi delle montagne”.

Le cavallette intonerebbero un canto di trionfo: “Noi procediamo in avanti. L’universo potrà nutrirci per un secolo, poiché siamo in via verso la “planetizzazione” della nostra specie”.

La storia ha un senso per le cavallette, per i lemmings e per la civiltà occidentale: essa sfocia in un suicidio collettivo, prima della “planetizzazione” di una specie. Ogni individuo vede però in questo slancio ultimo una marcia verso una situazione migliore. Più i lemmings si allontanano dal punto di partenza, dicono i naturalisti, più sono eccitati; nulla li può fermare; davanti a un ostacolo sibilano e digrignano i denti per la collera.

Anche noi, ben lontani ormai dalle nostre origini, sentiamo profondamente che nulla deve intralciare la nostra marcia verso ciò che chiamiamo il Progresso.

Noi infatti, uomini dell’Occidente, non facciamo altro che correre verso il mare, verso la morte, in file serrate. A ogni guerra, il vortice in cui siamo afferrati si inabissa sempre più, aumentando il nostro progresso materiale, sminuendo i nostri ultimi valori spirituali, annientando l’umanità fin nel cuore dell’uomo.

L’orgoglio ci fa vedere in questa caduta il desiderato compimento della nostra esistenza terrena. Come il Principe di questo Mondo, l’Occidente attira a sé l’umanità intera, promettendo i beni materiali e la conoscenza delle tecniche ma incatenandola per sempre, sostituendo ogni pensiero con l’eterno desiderio, per meglio trascinarla con sé.

La scena della tentazione si rinnova ogni volta che l’Occidente incontra una civiltà tradizionale. Ogni volta degli uomini prendono coscienza della propria nudità, del proprio sottosviluppo materiale. Con i fianchi cinti di cotonina, devono lavorare fino al limite delle loro forze e, quando il sudore della fronte non basta più, devono dare l’equilibrio della propria anima e tutta l’armonia del mondo. Allora l’Occidente trascina nella propria caduta un nuovo dannato, mentre si chiudono le porte di un paradiso, perduto una volta di più.

Se la civiltà occidentale scomparisse, l’umanità non ne sarebbe colpita, poiché già da molto tempo non è più solidale con essa: un impero avrà finito di esistere, aggiungendo ad altre rovine quelle del proprio orgoglio. I nostri monumenti saranno altrettanti enigmi per gli archeologi del futuro, perché sembrerà strano che degli uomini abbiano fatto costruzioni con il solo scopo di ammassare vertiginosamente dei materiali, senza cercare di rinchiudervi, con la chiave del loro pensiero, i numeri dell’universo. 

I popoli che ci rimpiazzeranno parleranno forse di castigo divino, senza immaginare che siamo stati noi i giudici e i carnefici di noi stessi, scrivendo ognuna delle lettere della nostra condanna con le conseguenze di ciascuno dei nostri atti. (6)


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Note al capitolo 2

(2)-L’aneddoto riportato si trova, con qualche variante di dettaglio, in molti testi di matematica e di dinamica della popolazione (cfr. quelli di P. e A. Ehrlich) come esempio divulgativo di andamento esponenziale.


(3) millesimo di millimetro


(4) D. e D. Meadows – Oltre i limiti dello sviluppo – Ed. Il Saggiatore, 1993.


(5) Questa espressione di un nativo amerindiano è stata pubblicata sulla rivista “Il Panda” del W.W.F. italiano ed è riportata anche in un numero del periodico “Notizie Verdi”.


(6) Jean Servier - L’uomo e l’Invisibile – Ed. Rusconi, 1973





3 – L’ECOLOGIA  PROFONDA


   La presunta mancanza di diritti negli animali, l’illusione che le nostre azioni verso di loro siano senza importanza morale o non esistano doveri verso gli animali, è una rivoltante grossolanità e barbarie dell’Occidente.

Arthur Schopenhauer


   Se non si è capaci nemmeno di entrare in contatto con il proprio spirito, come si può sperare di entrare in contatto con lo spirito di un albero?

Rarihokwats


   In contrasto con la concezione meccanicistica cartesiana del mondo, la visione del mondo che emerge dalla fisica moderna può essere caratterizzata con parole come organica, olistica ed ecologica. Essa potrebbe essere designata anche come una visione sistemica, nel senso della teoria generale dei sistemi. L’universo non è visto più come una macchina composta da una moltitudine di oggetti, ma deve essere raffigurato come un tutto indivisibile, dinamico, le cui parti sono essenzialmente interconnesse e possono essere intese solo come strutture di un processo cosmico.

Fritjof Capra


   Riferire tutti i giudizi di valore all’umanità è una forma di antropocentrismo filosoficamente indifendibile.

Arne Naess


   Questo mondo è davvero un essere vivente fornito di anima e di intelligenza…un unico vivente visibile, contenente tutti gli altri viventi, tutti quanti per natura gli sono congeneri...

Platone


Dio dorme nella pietra,

sogna nel fiore,

si desta nell’animale,

sa di essere desto nell’uomo.

(proverbio asiatico)



Premesse

In questo capitolo cercherò, per quanto possibile, di uscire dalle concezioni generali della nostra cultura: userò dunque espressioni verbali un po’ diverse da quelle correnti. Non bisogna sottovalutare il sottile potere della parola nel trasmettere e perpetuare i concetti. (7)

Questo capitolo è comunque un’estensione del precedente, con il quale non è in antitesi, perché le motivazioni ivi accennate restano valide. Se ne aggiungeranno altre, che si inquadrano in una diversa visione del mondo, nella quale gli atteggiamenti ecologisti assumono una connotazione metafisica, che va ben oltre a semplici considerazioni di utilità, opportunità ed estetica.


Fondamenti dell’ecologia profonda

Nell’impostazione di pensiero dell’ecologia profonda, la nostra specie non è particolarmente privilegiata. Gli esseri viventi e gli ecosistemi, come tutti gli elementi del Cosmo, hanno un valore in sé. Tutta la Natura ha un valore intrinseco e unitario, così come ha un valore in sé ogni sua componente, formatasi in un processo di miliardi di anni. La specie umana è una di queste componenti, uno dei rami dell’albero della Vita.

Quindi, anziché parlare di “ambiente” come se la Natura fosse un palcoscenico delle azioni umane, si useranno espressioni come “il Complesso dei Viventi”:

- “impatto ambientale” diventerà “alterazione apportata al Complesso dei Viventi”;

- i “difensori dell’ambiente” diventeranno “persone preoccupate della salute, dell’armonia e dell’equilibrio psicofisico del Complesso dei Viventi”.

Il mondo naturale non è “patrimonio di tutti”, ma è ben di più: è di miliardi di anni anteriore alla nostra specie. Se proprio si vuol parlare di appartenenza, è l’umanità che appartiene alla Natura e non viceversa.

Invece di ambizione, successo, affermazione personale (o di gruppo, o di specie), saranno considerati valori la conoscenza, la serenità mentale, l’attenuazione dell’ego e la percezione: in definitiva una sorta di identificazione con la Mente Universale, di sintonia con il ritmo vitale cosmico.

In questo quadro l’idea occidentale-biblica sulla posizione umana appare più o meno come un curioso delirio di grandezza.

Mentre nell’ecologia di superficie la Terra va rispettata perché è di tutte le generazioni presenti e future, nell’ecologia profonda la specie umana non è depositaria né proprietaria di alcunchè. Questa idea ricorda la risposta di Nuvola Rossa agli invasori europei che volevano comprare la parte migliore del territorio Lakota e Oglala: “La terra è del Grande Spirito; non si può vendere né comprare”. E’ un peccato non conoscere le lingue amerindiane, perché probabilmente il significato reale era “la terra è il Grande Spirito”. Naturalmente i bianchi occuparono quelle terre con la violenza.

Anche l’idea di “progresso” sottintende una determinata concezione culturale ed una certa visione della storia che non sono condivise da tutta l’umanità. Gran parte delle culture umane sono vissute nella Natura senza preoccuparsi del progresso e della storia. Anche se niente è statico, tutto è dinamico e fluttuante, questo non significa che siano necessari i concetti di progresso e regresso: il miglioramento o il peggioramento si riferiscono solo a parametri e valori propri di un particolare modello e non hanno alcun significato universale.

Il concetto di progresso è un’invenzione dell’Occidente per distruggere le altre culture umane e restare l’unica cultura del Pianeta: ha senso soltanto se si prende a riferimento una particolare scala di valori, che è sempre relativa ed arbitraria.

Il termine “sviluppo” significa in realtà il grado di sopraffazione della nostra specie sulle altre specie e della civiltà industriale sulle altre culture umane.

Invece nell’ecologia profonda non esiste alcun modello privilegiato. Sono valori “in sé” l’equilibrio globale e la varietà e complessità delle specie viventi, degli ecosistemi e delle culture. I termini “crescita” e “diminuzione” sono complementari, in equilibrio dinamico, senza connotazioni positive o negative.

Di conseguenza i concetti di risorse e rifiuti non sono necessari: essi presuppongono infatti l’idea che si eseguano processi o modifiche tali da prelevare qualcosa di fisso - le risorse - e scaricare qualcos’altro - i rifiuti, il che significa un funzionamento non-ciclico, incompatibile con la condizione di equilibrio.

Con queste premesse la cosiddetta “produzione” è - in ultima analisi - una produzione di rifiuti. Lo stesso termine “civiltà” è inutile e pericoloso, perché sottintende un giudizio di merito basato su una scala di valori particolare, considerata ovvia. 

“Civile” significa oggi infatti “conforme ai princìpi dell’Occidente” e niente di più. Non c’è nessun motivo per considerare la civiltà occidentale migliore della civiltà degli Yanomami, dei Papua, degli Eschimesi, dei Dogon, o delle mille altre culture comparse sulla Terra. Allo stesso modo nell’ecologia profonda non ha alcun senso parlare di specie “utili”, “nocive” o “innocue”, in quanto qualunque cosa si trovi in Natura ha la sua giustificazione in sé stessa e nel Complesso cui appartiene. Non deve servire a qualcuno o a qualcosa.

In sostanza nell’ecologia profonda il concetto di “ambiente” viene superato per lasciare posto alla percezione di far parte di una Entità psicofisica molto più vasta, cioè della Natura, che si manifesta nella massima varietà ed armonia, nel più grande equilibrio dinamico delle specie; è un sistema autocorrettivo dotato di Mente.

Per usare le parole di Fritjof Capra:


La nuova visione della realtà è una visione ecologica in un senso che va molto oltre le preoccupazioni immediate della protezione dell’ambiente. Per sottolineare questo significato più profondo dell’ecologia, filosofi e scienziati hanno cominciato a fare una distinzione fra “ecologia profonda” e “ambientalismo superficiale”. Mentre l’ambientalismo superficiale è interessato ad un controllo e ad una gestione più efficienti dell’ambiente naturale a beneficio dell’”uomo”, il movimento dell’ecologia profonda riconosce che l’equilibrio ecologico esige mutamenti profondi nella nostra percezione del ruolo degli esseri umani nell’ecosistema planetario. In breve, esso richiederà una nuova base filosofica e religiosa. (8)


Alcuni aspetti della crisi attuale

Nell’ecologia profonda non si tratta di “coniugare sviluppo e ambiente” ma di rendersi conto che il dramma ecologico è nato nella civiltà industriale e ha invaso il mondo al seguito della tumultuosa espansione di questo modello. Il mito dell’industrializzazione è sorto nella cultura occidentale solo due o tre secoli orsono.

Il problema non è soltanto pratico, ma soprattutto filosofico. Infatti, solo come esempio, le scoperte pratiche fondamentali per “far partire” la tecnologia erano già note nella cultura cinese da diversi secoli. Ma in Cina non hanno fatto nascere il processo di industrializzazione, che vi è stato importato solo in tempi molto recenti, di ritorno dall’Occidente. Evidentemente il sottofondo del pensiero cinese - ispirato in gran parte alle filosofie del Tao e del Buddhismo – non poteva indirizzare quelle conoscenze sulla via poi seguita in Europa: le motivazioni sono state quindi essenzialmente culturali. La spiegazione ufficiale che gli Europei erano “più avanti” è solo un giro di parole. Anche la cultura indiana tremila anni orsono aveva concetti probabilmente più raffinati di quella europea del millecinquecento: nell’India di allora non mancava certamente la capacità di fare certe scoperte, c’era però la precisa percezione che era impossibile e inopportuno seguire una certa via.

Infatti con la concezione di un mondo fatto di polarità complementari ed equivalenti (Taoismo) o di un mondo privo di qualunque “ego” individuale o collettivo (Buddhismo) non avrebbe avuto alcun senso l’idea di “dominio” su qualcosa, come si vedrà nel Capitolo 6.

Invece il fondamento ispiratore della cultura occidentale, o ebraico-cristiana, è l’Antico Testamento, e qui va ricercata una delle cause del nostro atteggiamento verso la Natura. Ne parleremo nel prossimo capitolo.

Ma ci sono state altre evoluzioni successive, soprattutto l’estendersi nel pensiero generale della filosofia di Cartesio e della fisica di Newton, proprio nei secoli che hanno immediatamente preceduto la nascita della civiltà industriale.

Nel quinto capitolo si farà qualche cenno all’influenza di queste idee che, innestate sulle concezioni dell’Antico Testamento, hanno provocato l’attuale massiccia aggressione alla Natura, ma si tratta di idee consolidate e concretizzate nell’Ottocento e non propriamente moderne: c’è sempre una notevole inerzia fra il pensiero nascente e le concezioni di massa, quelle che determinano l’orientamento e l’azione collettivi.

Tutta la nostra cultura “ottocentesca” di oggi è permeata dall’antitesi, dalla contrapposizione con la natura: la vita è vista come “lotta contro le forze della natura”. In altre filosofie questo significherebbe “lotta contro l’Organismo al quale apparteniamo”, il che è privo di senso e causa di nevrosi e conflitti. Non per niente dove è più degradato l’ambiente c’è anche più crisi umana, con alti tassi di criminalità, psicopatie, suicidi. La divisione fra “l’uomo” e “l’ambiente” è artificiosa e fittizia.

Se le cellule del cancro potessero esprimersi, probabilmente avrebbero un’idea dello “sviluppo” assai simile a quella della civiltà industriale, che invade, rendendole uniformi, le altre specie e le altre culture umane, con andamento analogo a quello dei tumori che avanzano a spese delle altre cellule dell’Organismo, il cui comportamento si basa invece non sulla crescita permanente, ma sull’equilibrio dinamico.

Ci sono molti esempi di vita spicciola che evidenziano l’inconscio collettivo dell’attuale civiltà industriale.

Moltissime persone, se si allontanano dalle città, si preoccupano soprattutto di cose come le vipere e le frane, ma si mettono tranquillamente in autostrada. Non occorrono troppe statistiche per rendersi conto che l’automobile è migliaia di volte più pericolosa di qualunque evento naturale: non sono sufficienti sessantamila morti all’anno e un milione di feriti in incidenti stradali, solo in Europa, per percepire questo fatto.

Quanti entrerebbero nella foresta amazzonica? Eppure è evidente che è molto più pericoloso attraversare di notte qualche quartiere di New York o di San Paolo. Le nostre concezioni inconsce, cioè culturali, spingono a temere gli eventi naturali molto più di quelli dovuti alle macchine o ai nostri simili, contro ogni evidenza numerica.

Questa è una civiltà tecnologica, non scientifica: non prevale il desiderio di conoscere, ma quello di manipolare.

Inoltre, tutto ciò che tocca i fondamenti della nostra cultura non si può neanche studiare: viene semplicemente negato o accantonato e lasciato senza indagine di sorta. Ad esempio, qualunque studio su possibilità di “reincarnazione” o “rinascita”, o comunque sui fenomeni psichici in vicinanza della morte, o su interferenze o identità spirito-materia è di fatto respinto a priori dal mondo ufficiale.

I cosiddetti “movimenti per la vita” ritengono ovvio occuparsi solo della vita umana, ma non si preoccupano affatto delle torture inflitte a tante forme di vita e dello stato di salute del Complesso dei Viventi.

Nella nostra cultura avvengono le più allucinanti manipolazioni genetiche su tutte le specie viventi, con creazione di ibridi e di esseri strani: ben pochi se ne preoccupano. Invece, al solo lontano accenno di far nascere uno scimpanzè-uomo (a parte la sua impossibilità), c’è stata la sdegnata rivolta degli scienziati ufficiali. Ogni manipolazione di quel tipo è un’assurdità. Ma almeno lo scimpanzè-uomo, se lasciato libero in qualche superstite foresta o savana di questo povero Pianeta, ci avrebbe ricordato che siamo della stessa, identica natura degli altri esseri viventi.

Le basi della cultura occidentale su questo argomento sono estremamente fragili. Esseri come gli Australopiteci o l’Homo erectus si sono estinti da poche centinaia di migliaia di anni, tempo insignificante nella scala complessiva della Vita. Il fatto che questi ominidi siano estinti è del tutto contingente. Se fossero viventi, la nostra cultura, a seconda del parere di qualche istituzione, prenderebbe uno dei seguenti atteggiamenti:

- considerare la caccia a questi esseri come uno sport;

- chiudere gli ominidi nelle gabbie degli zoo;

- ripristinare la schiavitù;

- considerare l’uccisione di un ominide come omicidio volontario punibile con l’ergastolo.

E’ forse per questo che c’è sempre una sottile “paura” di trovare vivo qualche Yeti sulle pendici dell’Himalaya. Tutto per continuare a contrapporre “uomo” ad “animale”: così perdiamo di vista la spiritualità della Vita.

Ma anche se ci limitiamo alle specie ora viventi, si può notare che: più aumentano le nostre conoscenze sul comportamento dei Primati, più diminuiscono le differenze fra primati umani e non umani. Ad esempio, la differenza di informazione genetica fra la nostra specie e lo scimpanzè è dell’ordine dell’uno o due per cento.

Dall’articolo di un esperto:


I nostri parenti più stretti sono gli scimpanzè. La differenza genetica è soltanto circa dell’uno per cento. Noi siamo più strettamente simili agli scimpanzè di quanto probabilmente siano simili fra loro due rane qualsiasi che vi càpiti di incontrare.  (9) 


In altri termini, la cultura giudaico-cristiana non è riuscita ancora a concepire un’etica della vita e resta ancorata a una morale che si interessa esclusivamente della specie umana.

L’idea di uomo, nel pensiero dell’Occidente, è costruita in contrapposizione all’idea di animale: umanità e animalità vi appaiono come termini antitetici, sia nella concezione biblica che nell’idea scientifica di derivazione baconiana. Ma si tratta di una contrapposizione largamente mitica e scientificamente insostenibile.


Etica e diritto nell’ecologia profonda 

Gli studi di un’etica non limitata soltanto alla nostra specie e di una giurisprudenza che non veda gli umani come unici soggetti di diritto sono appena nascenti in questi ultimi anni, a parte isolate eccezioni di precursori.

Fra questi possiamo certamente ricordare Aldo Leopold che, nel suo A Sand County Almanac affermava che “una cosa è giusta quando tende a preservare l’integrità e la bellezza della comunità biotica nel suo complesso (per comunità biotica si intende il complesso di tutti gli esseri viventi e del loro habitat). Una cosa è sbagliata quando manifesta la tendenza contraria”. La concezione di Leopold è olistica, in quanto la Natura è intesa come un tutto, avente vita e valore propri.

Se sentiamo usare per elementi della Natura termini come anima, dignità, diritti, ambito morale, non dobbiamo pensare che si stia parlando in senso analogico o poetico, o che si tratti di accostamenti arditi. Oltre che più rispetto, potremmo avere nella Natura un arricchimento spirituale più completo.

“Lo spirito dell’albero, della montagna, del fiume” non sono analogie azzardate, ma rispecchiano l’anima del mondo, che era ben riconosciuta da quelle culture umane che dedicavano gran parte del tempo al magico e al sacro.

Inoltre, per confronto con le concezioni dell’ecologia di superficie, ricordiamo che rispettare il naturale non-umano solo nella misura in cui è simile a noi è una concezione ben misera del rispetto, che dovrebbe invece fondarsi su una filosofia che riconosca i diritti dei non-umani in quanto entità che ne sono degne.

Anche rispettare la foresta amazzonica perché “appartiene agli indios” è già una concezione da ecologia di superficie ed è assai riduttivo, perché ribadisce che - per l’Occidente - la Natura vale qualcosa in quanto appartiene a qualcuno. Probabilmente l’affermazione stupirebbe alquanto le culture originarie locali, per le quali risulta invece evidente il fatto che sono loro ad “appartenere” alla foresta, come totalità più grande. La foresta deve esistere integra perché ne ha il diritto etico, in quanto ha un valore in sé.


La famosa risposta del capo indiano Seattle al Presidente degli Stati Uniti (1854)

Come potete comperare o vendere il cielo,

il calore della terra?

L’idea per noi è strana.

Se non possediamo la freschezza dell’aria,

lo scintillio dell’acqua, 

come possiamo comperarli?

Ogni parte di questa terra è sacra per il mio popolo.

Ogni ago di pino che brilla, ogni spiaggia sabbiosa,

ogni vapore nelle scure foreste,

ogni radura e ronzio d’insetto

è sacro nella memoria e nell’esperienza del mio popolo.

La linfa che scorre attraverso gli alberi

porta i ricordi degli uomini…

Noi siamo parte della terra ed essa è parte di noi.

I fiori profumati sono le nostre sorelle;

il cervo, il cavallo, la grande aquila,

questi sono i nostri fratelli.

Le cime rocciose, la linfa dei prati,

il corpo caldo del cavallo, e l’uomo:

tutto appartiene alla stessa famiglia…

I fiumi sono i nostri fratelli, e ci dissetano.

I fiumi portano le nostre canoe e nutrono i nostri bambini.

Se noi vi vendessimo la nostra terra,

voi dovreste ricordare ed insegnare ai vostri figli

che i fiumi sono nostri fratelli, e vostri;

e voi dovreste d’ora in poi dare ai fiumi la gentilezza

che dovreste dare ad ogni fratello…

non c’è nessun posto tranquillo nelle città dell’uomo bianco.

Non c’è nessun posto

per udire il dispiegarsi delle foglie in primavera,

o il frusciare delle ali di un insetto.

Ma forse c’è, perché io sono un selvaggio e non capisco.

Solo il fracasso sembra un insulto all’udito.

E che cosa è vivere

se un uomo non può udire il lamento di un caprimulgo

o le conversazioni delle rane intorno ad uno stagno di notte?

Io sono un pellerossa e non capisco.

L’indiano preferisce il soffice suono del vento

che vibra sulla superficie dello stagno, 

e l’odore del vento, pulito da una pioggia del mezzogiorno,

o profumato dall’odore del pino.

L’aria è preziosa per il pellerossa,

poiché tutte le cose hanno lo stesso respiro;

l’animale, l’albero, l’uomo,

condividono insieme lo stesso respiro.

L’uomo bianco non sembra accorgersi dell’aria che respira.

Come un uomo morente,

per molti giorni, è insensibile al fetore.

Ma se noi vi vendessimo la nostra terra,

vi dovreste ricordare che l’aria è preziosa per noi,

che l’aria condivide il suo spirito con ogni vita che sostiene.

Il vento che fu dato a nostro nonno al suo primo respiro

ha anche accolto il suo ultimo respiro.

E se noi vendessimo la nostra terra,

dovreste tenerlo a parte in un posto sacro,

come un luogo dove anche l’uomo bianco può andare

per sentire il vento addolcito dai fiori del prato.

A queste condizioni noi considereremo la vostra offerta

di comperare la nostra terra.

Se noi decidessimo di accettare, io porrei una condizione:

che l’uomo bianco deve trattare gli animali di questa terra

come suoi fratelli…

Cosa è l’uomo senza gli animali?

Se tutti gli animali se ne andassero,

l’uomo morirebbe per la grande solitudine dello spirito.

Poiché qualsiasi cosa accada agli animali,

presto accade all’uomo.

Tutte le cose sono collegate.

Potreste insegnare ai vostri bambini

Che la terra sotto i loro piedi è la cenere dei nostri nonni.

Affinchè loro rispettino la terra,

dite ai vostri bambini

che la terra è ricca delle vite dei nostri amici.

Insegnate ai vostri bambini

quello che noi abbiamo insegnato ai nostri,

che la terra è nostra madre.

Qualsiasi cosa accade alla terra, accade ai figli della terra.

Se gli uomini sputano sulla terra, sputano su sè stessi.

Questo noi lo sappiamo: la terra non appartiene all’uomo;

l’uomo appartiene alla terra.

Questo noi sappiamo.

Tutte le cose sono collegate

come il sangue che unisce una famiglia.

Tutte le cose sono collegate.

Qualsiasi cosa accada alla terra, accade ai figli della terra.

L’uomo non ha intrecciato il tessuto della vita:

egli è semplicemente un filo di essa.

Qualsiasi cosa faccia al tessuto, la fa a sè stesso…

Possiamo essere fratelli, dopo tutto. Vedremo.

C’è una cosa che noi sappiamo,

e che l’uomo bianco un giorno scoprirà:

il nostro Dio è lo stesso.

Potete pensare ora che il vostro “Lui” come voi

desideri possedere la nostra terra; ma non è possibile.

Egli è il Dio dell’uomo e la Sua compassione è uguale

sia per il pellerossa che per l’uomo bianco.

Questa terra per lui è preziosa,

e danneggiare la terra è disprezzare il suo Creatore.

Anche l’uomo bianco passerà.

Ma nella vostra discesa brillerete luminosamente,

infuocati dalla forza di Dio che vi ha portati in questa terra

e per qualche scopo speciale

vi ha dato dominio su questa terra e sopra l’uomo rosso.

Questo destino è un mistero per noi,

poiché non capiamo quando i bufali

vengono completamente massacrati,

i cavalli selvaggi sono addomesticati,

gli angoli segreti della foresta sono appesantiti

con l’odore di molti uomini

e la vista delle colline in fiore

rovinata dai fili del telegrafo.

Dov’è il boschetto? E’ andato.

Dov’è l’aquila? E’ andata.

La fine della vita è l’inizio della sopravvivenza.   (10)


Qualche esempio

Per richiamare la differenza fra ecologia di superficie ed ecologia profonda riprendiamo, per esempio, il problema delle foreste:

- l’ecologia di superficie vuole salvare le foreste perché senza di esse l’umanità non può vivere e l’atmosfera terrestre ne resta alterata;

- l’ecologia profonda vuole salvare le foreste, oltre che per la ragione precedente, perché sono sacre, sono una mente: la foresta è soprattutto un’entità spirituale.

Alcune culture amazzoniche avevano l’albero cosmico, attorno al quale si organizzava l’universo, fisico e metafisico.

  Oggi l’umanità occidentalizzata è sempre più chiusa in sé stessa: l’antropocentrismo non riesce più a vedere, al di fuori dell’uomo, altro che oggetti. Un tempo, la natura aveva un significato che ognuno percepiva nel suo intimo, nel suo inconscio. Persa questa percezione, l’uomo distrugge la natura e con ciò si condanna.

Naturalmente pensieri di ecologia profonda sono prodotti anche nella nostra cultura, come quelli scritti dalla ineguagliabile penna di Ceronetti:


Ci sono degli eroi, gli eroi continueranno ad esserci sempre, qualcuno che va a coprirsi di piaghe per versare sabbia sul reattore di Cernobil, o gli impressionanti pompieri del Golfo che in un anno sono riusciti a spegnere i pozzi gettati da Saddam all’attacco della biosfera, o i Chico Mendès uccisi dai rami di foreste condannate che si convertono in pistole assassine, o quelli di Greenpeace che sfidano radiazioni, odii e botte per documentare i crimini ambientali dei governi: ma tutti questi eroi sono figli dei disastri, il loro numero aumenterà soltanto in proporzione ai disastri, una vocazione eroica non chiama che dal dolore e dal fuoco…

Gli altri sono autori o complici dei disastri, siamo qualche miliardo su questo piatto della bilancia, e tutti abbiamo lasciato fare, anzi siamo tuttora in qualche modo tutti sterminatori attivi di terra-madre, deicidi di Cibele, pur d’ingozzarci di consumi che sono chiodi piantati nella carne della vita… E basta accennare a ridurli perché si sfreni il panico: Borse con l’infarto, folle imbestialite, il muraglione vacuo delle proteste cieche.

…Le devastazioni etiche e mentali prodotte da dollari-macchine-medicina nell’oscura substantia umana, sono molto più da considerare di qualsiasi ristagno di un’economia che porta in sé, nella sua fatale idolatria della percentuale e dell’espansione, il genio intero, vergine, della distruzione.  (11)


Ricordiamo comunque che l’ecologia profonda - come filosofia di vita – non è nata negli anni Settanta dalle idee di Arne Naess o da qualche movimento di minoranza di oggi: da tremila anni in India, e da tempi ancora più lunghi in tante culture animiste, idee ben diverse da quelle che hanno poi foggiato la civiltà occidentale avevano avuto modo di diffondersi nella mente collettiva, come dimostrano questi pensieri, tratti da antichi testi indiani: “Ogni anima va rispettata e per anima si intende ogni ordine, ogni vitalità che la sostanza possa assumere: il vento è un’anima che si imprime nell’aria, il fiume un’anima che prende l’acqua, la fiaccola un’anima nel fuoco, tutto questo non si deve turbare”. In uno dei sutra si loda chi non reca male al vento perché mostra di conoscere il dolore delle cose viventi e si aggiunge che far danno alla terra è come colpire e mutilare un vivente.

Anche nel nostro mondo classico ci sono state voci in tal senso, come Pitagora, ma la corrente principale dell’Occidente ha condotto all’attuale mentalità antropocentrica e materialista, ha portato l’odierna civiltà industriale, e con essa l’inquinamento, la deforestazione, l’esplosione demografica, la denutrizione, la tossicodipendenza e la criminalità.

     La nostra società è incapace, per numerose ragioni, di risolvere questi problemi.

La prima ragione dipende dal nostro sapere frammentato in discipline e compartimenti stagni e dalla metodologia riduzionistica della scienza ufficiale, entrambi fattori che concorrono a farci vedere i nostri problemi isolati l’uno dall’altro.

Un’altra ragione è quella di considerare i problemi alla luce della brevissima esperienza della nostra civiltà industriale, una frazione minima dell’esperienza umana complessiva sul nostro pianeta.

Ma forse la ragione principale è che dovremmo affrontare la conclusione inaccettabile che i nostri problemi sono inevitabili fattori concomitanti di quello che siamo abituati a chiamare “progresso”, e che quindi possono essere risolti soltanto invertendo questo tipo di sviluppo: “ponendo il progresso all’opposizione”.

Deve perciò essere trasformato il nostro sistema politico-economico e, per applicare soluzioni reali, è necessario allora individuare quali siano state le caratteristiche principali delle società tradizionali del passato che si dimostrarono capaci, per migliaia di anni, di evitare di creare i terribili problemi che ora ci troviamo di fronte.

Postulare una società ideale per la quale non ci siano precedenti nell’esperienza umana, come hanno fatto molti dei nostri teorici della politica, è molto simile a postulare una biologia alternativa senza riferimento alle strutture biologiche del tipo di quelle che finora si sono dimostrate vitali. 

Non si vuole sterilmente cercare di riproporre il passato, ma per individuare le caratteristiche indispensabili di società stabili e capaci di risolvere i problemi attuali dobbiamo trarre ispirazione dalle società tradizionali del passato.


Da un essere vivente lontano da noi

Quando un’ape trova una fonte di nettare, ritorna all’alveare e comunica alle altre api la sua scoperta spiegando dove si trova la fonte di cibo, attraverso la cosiddetta “danza”, cioè formando in volo una figura composta da una circonferenza e da un suo diametro. In questa danza: 

- l’angolo formato dal diametro percorso con la direzione del sole è funzione della direzione dei fiori;

- il valore del raggio della circonferenza è proporzionale alla distanza dei fiori.

In altre parole, l’ape fornisce alle sue compagne la posizione dei fiori in coordinate polari. Dopo questa comunicazione, le altre api sono in grado, da sole, di trovare facilmente i fiori e quindi il nettare.

Resta aperta ogni considerazione sul significato di questo fatto: se cioè le api siano in grado di “misurare” le distanze e gli angoli, anche in rapporto al nostro concetto di misura. Probabilmente questa constatazione, dati anche i suoi aspetti geometrici, avrebbe fatto felice Pitagora.

     Ma forse potremmo capire qualcosa di più se avessimo un concetto sistemico della mente, come accenneremo nel capitolo 7 riportando qualche pensiero di Bateson.


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Note al Capitolo 3


(7) Si eviterà l’espressione “l’uomo” per indicare in generale la specie umana, in quanto la stessa parola è usata anche per indicare il maschio. Infiniti sono i modi con i quali si insinua inconsciamente la volontà di escludere la donna da quella parità totale di partecipazione e di attività che dovrebbe risultare ovvia a qualunque essere pensante.


(8) Fritjof Capra – Il punto di svolta – Ed. Feltrinelli, 1984.


(9) Da una risposta del Dr. Milford Wolpoff riportata nell’articolo The Search for Modern Humans  di J. Putman- National Geographic, ottobre 1988.


(10) Questo è il discorso pronunciato dal Capo indiano Seath, meglio conosciuto come Capo Seattle, durante l’assemblea tribale del 1854, in preparazione dei trattati fra il governo federale e le tribù indiane dell’Oregon e dello stato di Washington, in cui le autorità federali promettevano una riserva, rendite e servizi in cambio di cessioni di terra. Capo Seattle parlò sempre nella sua lingua nativa Duvamish e il Dott. Smith, che prese nota del suo discorso, insistè molto nel dire che il suo inglese era inadeguato per rendere nella traduzione la bellezza del pensiero e dell’immaginazione di Seattle. Infatti ogni lingua riesce ad esprimere appieno solo la visione del mondo della cultura che l’ha prodotta.

Il discorso di Seattle è riportato in molte pubblicazioni riguardanti l’ecologia o le popolazioni native. Questa traduzione è stata pubblicata sul periodico Paramita n. 42, aprile-giugno 1992, con il titolo Questa terra è sacra.


(11) Guido Ceronetti – Clinton, così non salverai la Terra Madre, pubblicato sul Corriere della Sera del 23 novembre 1992.




4 – IL MITO DELLE ORIGINI


   Quando noi indiani uccidiamo, la carne la mangiamo tutta. Quando estraiamo le radici facciamo piccoli fori: quando costruiamo case facciamo piccoli buchi nel terreno. Non abbattiamo gli alberi: usiamo solo legno già morto. Ma quest’altra razza di uomo ara il terreno, abbatte gli alberi, uccide tutti gli animali. L’albero dice: “Non farlo. Mi fai male. Non ferirmi”. Ma l’uomo bianco lo abbatte e lo taglia in pezzi. Come può lo Spirito della Terra amare quest’uomo? Dovunque egli ha toccato, la Terra ne è rimasta ferita.

Una pellerossa Wintu


Grande Mistero,

la Tua Voce odo nei venti. Il Tuo Respiro è vita in tutte le cose. Ascoltami! Io sono una creatura minuscola e debole. Ho bisogno della Tua Forza e della Tua Saggezza. Lasciami camminare nella bellezza. Consentimi di osservare, fino in fondo, il rosso porpora del tramonto.

Rendimi saggio, così che io possa capire fino in fondo gli insegnamenti che hai lasciato al mio popolo.

Dammi l’umiltà necessaria per imparare i messaggi che hai affidato ai venti, alle foglie, alle rocce.

Fa che io sia sempre pronto, in qualsiasi momento, a raggiungerTi con mani pulite e occhi che non guardano in basso.

Quando la mia vita, come la luce del tramonto, svanirà, fa che il mio spirito possa volare verso di Te senza ombre né vergogna.

(Preghiera dei Lakota)


   L’uomo bianco pensa che gli alberi, il fiume, gli animali siano tutte “cose” senz’anima, di cui può disporre. Noi indiani invece pensiamo che abbiano un’anima, una vita spirituale propria densa di significato. Questa è la differenza.

Un vecchio Lakota



Premesse

Sulla Terra sono esistite circa cinquemila culture diverse: una di queste è l’Occidente, cioè la nostra.

Quasi tutte le culture hanno un racconto mitico delle proprie origini, che di solito ne influenza profondamente il comportamento: ogni cultura mantiene vivo il proprio mito e lo “mette continuamente in pratica”.

Alcune culture umane sono etnocentriche, cioè considerano come “popolo degli uomini” solo coloro che vivono secondo il proprio schema. L’Occidente è una di queste ed ha inoltre la pretesa di essere universale.

Parlerò di “culture” e di “visioni del mondo”, non di religioni, cercando di evitare pareri sulla dimensione religiosa, anche se la cultura e la religione sono campi non separabili.

Il mito delle origini serve spesso a dare “realtà” alle azioni quotidiane e ai riti di una cultura. Per una concezione che si ritrova spesso nelle civiltà tradizionali un atto diventa reale solo nella misura in cui imita o ripete un archetipo, cioè la realtà si acquista in virtù di ripetizione e partecipazione. Nella misura in cui un atto acquista realtà con la ripetizione di gesti simbolici, vi è l’abolizione di quella che noi chiamiamo “storia”; chi riproduce il gesto esemplare viene trasportato nell’epoca mitica della rivelazione: qui la persona è veramente sé stessa, nel momento dei rituali, nell’”essere”. Il resto della vita scorre nel tempo profano, nel “divenire”.

Comunque l’atteggiamento delle varie culture nei confronti del resto della Natura, cioè delle altre specie e degli ecosistemi, dipende in gran parte dalla loro visione del mondo, ovvero dalle loro concezioni metafisiche, spesso ispirate al mito delle origini.

Ma vediamo qualche esempio, tratto qua e là da continenti diversi.


I Dogon (Africa)

I Dogon sono una popolazione vissuta con una cultura propria fino a pochi decenni orsono, nell’Africa occidentale a sud del Sahara (attuale Mali), attorno alle rupi di Bandiagara.

Si rifugiarono qualche secolo fa su quell’altopiano roccioso compreso nell’arco del Niger per salvare la loro cultura dall’invadenza islamica.

Ciò che conosciamo della complessa cosmogonia dei Dogon ci perviene soprattutto dai vent’anni di studi sul posto dell’antropologo francese Marcel Griaule che descrisse nel suo libro Dio d’Acqua tutti i segreti del pensiero di quel popolo, spiegati dal cacciatore cieco Ogotemmeli durante trentatre giorni di incontri quotidiani. Il racconto di Ogotemmeli riempie un libro di centinaia di pagine: non si capisce in che cosa sia inferiore a qualsiasi testo “fondamentale” della nostra cultura.

E’ interessante notare come dal racconto cosmogonico, complesso e pieno di dettagli, consegue tutta la vita dei villaggi Dogon, anche se il popolo non conosce i segreti e la complicata rete di simbolismi di Ogotemmeli.

La pianta del villaggio e perfino i disegni delle coperte trovano la loro ragione d’essere nel mito originario del popolo, conosciuto dagli iniziati. L’orientamento delle case e gli spazi comuni non sono mai disposti a caso; anche i granai riproducono minuziosamente il sistema del mondo.

Nella vita Dogon tutto ha riferimento a quel racconto mitico di creazione-manifestazione del dio Amma, all’origine del sistema: la vita sociale, il valore numerico delle dita, ogni condizione umana e naturale nel più piccolo dettaglio rispecchiano il racconto mitico. I tamburi, i telai, le attrezzature, il vasellame dei Dogon hanno significato in quanto tutte le forme riproducono l’archetipo, sono collegate al mito fondamentale.


Gli Asmat (Nuova Guinea)

Gli Asmat vivono nell’odierno Irian Occidentale, o Nuova Guinea Indonesiana, nelle paludi presso la costa del Mare degli Arafura.

Sono i “cacciatori di teste” di ottocentesca memoria, descritti come truci e selvaggi: in realtà la “caccia alle teste” costituisce un rituale che viene compiuto in determinate stagioni e circostanze.

Il significato di questi riti è il sottofondo culturale degli Asmat, senza il quale la società tende a disgregarsi e gli individui che la costituiscono perdono ogni ragione di mantenersi in vita.

Ma vediamo il mito delle origini degli Asmat:


Il primo cacciatore di teste fu un antenato divino, così come la prima vittima. Essi furono anche i primi uomini a popolare la terra, ed erano fratelli.

Dei due fratelli divini l’uno è ferito, debole ed è il più anziano. L’altro è un giovane e valente cacciatore. (…)

Il fratello minore ha cacciato un maiale selvatico e ne prepara la testa per il rito di iniziazione. Ma il più anziano lo ferma: come può un giovane ricevere la forza che lo renderà uomo dalla testa di un maiale selvatico? L’alternativa è tremenda ma è l’anziano a proporla offrendo spontaneamente la propria testa affinchè il rito possa adempiersi. Il fratello minore non vorrebbe a nessun costo accettare la proposta, ma la fermezza del maggiore lo accompagna a vincere l’istintiva repulsione: il sacrificio è necessario.

Tale necessità è un mistero. Risale alle tradizioni arcaiche del popolo Asmat; per innumerevoli generazioni ha costituito il nerbo vitale del suo temperamento, della sua educazione, del suo inconfondibile stile di esistenza, della sua “arte” esuberante e originalissima, il nucleo ispiratore dell’intera vita sociale. E’ questo un fatto che non si può negare, né ammorbidire con attenuanti di nessun genere e tantomeno “spiegare”.  (12)


Per questo mito gli Asmat hanno bisogno periodicamente di scontri fra i gruppi che cessano solo dopo avere ottenuto “la testa”, che diviene oggetto di venerazione e di riti particolari e che ridà vigore alle tribù sia del tagliatore sia del morto (In realtà ci sono spesso più “tagliatori” e più morti).

L’uccisore viene poi adottato dalla famiglia dell’ucciso, come una necessità del mondo: questo dimostra che si tratta di una guerra rituale, di un modo di essere, anche se a noi può sembrare assurdo.

Oggi la caccia alle teste è stata vietata dalle autorità governative che, come tali, sono di derivazione occidentale.

Gli Asmat si stanno estinguendo non trovando più alcun significato nella vita.


I Bororo (America del Sud)

Di questo popolo riporto la descrizione di Levy-Strauss.


Sono nel mezzo di una radura, limitata da una parte dal fiume e da tutte le altre da lembi di foresta che nascondono i giardini, e lasciano scorgere fra gli alberi uno sfondo di colline dai fianchi scoscesi di rossa arenaria.  Tutto intorno sono disposte le capanne - 26 esattamente – simili alla mia e disposte in cerchio, su una sola fila. Al centro, una capanna lunga circa venti metri e larga otto, quindi molto più grande delle altre: è il baitemmannageo, casa degli uomini, dove dormono i celibi e dove la popolazione maschile passa la giornata quando non è occupata alla pesca o alla caccia, o in qualche pubblica cerimonia sul terreno di danza, spazio ovale delimitato da pioli, sul fianco ovest della casa degli uomini. L’accesso di quest’ultima è rigorosamente vietato alle donne; queste occupano le case più periferiche e i loro mariti fanno più volte al giorno la spola fra il loro club e il domicilio coniugale, lungo il sentiero che li collega l’uno all’altro attraverso la sterpaglia della radura. Visto dall’alto di un albero o di un tetto, il villaggio bororo è simile a una ruota di carro di cui le case familiari disegnano il cerchio, i sentieri i raggi; e al centro del quale la casa degli uomini costituisce il mozzo.

        La disposizione circolare delle capanne attorno alla casa degli uomini è di una tale importanza per quanto concerne la vita sociale e la pratica del culto, che i missionari salesiani della regione del Rio das Garcas, hanno capito subito che il mezzo più sicuro per convertire i Bororo, consisteva nel far loro abbandonare il villaggio per un altro in cui le case fossero disposte in ranghi paralleli.

Disorientati in rapporto ai punti cardinali, privati del piano sul quale si basavano le loro nozioni, gli indigeni perdono rapidamente il senso delle tradizioni, come se i loro sistemi sociali e religiosi fossero troppo complicati per poter fare a meno dello schema reso evidente dalla pianta del villaggio, la cui fisionomia è perpetuamente vivificata dalle loro azioni quotidiane.

………………………..

Il villaggio circolare di Kejara è tangente alla riva sinistra del Rio Vermelho. Questo scorre approssimativamente in direzione est-ovest. Un diametro del villaggio, teoricamente parallelo al fiume, divide la popolazione in due gruppi: al nord i Cera, al sud i Tugarè. Sembra che il primo termine significhi “debole” e il secondo “forte”. Comunque sia, la divisione è essenziale per due ragioni: in primo luogo un individuo appartiene sempre alla stessa metà di sua madre; in secondo luogo, egli non può sposare che un membro dell’altra metà. Se mia madre è Cera, lo sono anch’io e mia moglie sarà Tugarè.

Le donne abitano ed ereditano la casa dove sono nate. Al momento del suo matrimonio un indigeno maschio attraversa dunque la radura, supera il diametro ideale che separa le due metà, e va a stabilirsi dall’altra parte. La casa degli uomini tempera questo distacco perché la sua posizione si estende sul territorio delle due metà. Ma le regole di residenza spiegano che la porta che dà in territorio tugarè si chiama porta Cera. In effetti il loro uso è riservato agli uomini e tutti coloro che risiedono in un settore sono originari dell’altro e inversamente.

…………………………

Il principio delle metà non regola soltanto il matrimonio, ma anche altri aspetti della vita sociale. Ogni volta che un membro di una metà si trova ad esercitare o a compiere un dovere, ciò avviene a profitto o con l’aiuto dell’altra metà. Così, i funerali di un Cera sono a carico dei Tugarè e reciprocamente. Le due metà del villaggio sono dunque compagne nella stessa partita, e tutti gli atti sociali e religiosi implicano l’assistenza dell’altra parte la quale svolge il ruolo complementare a quello da esso sostenuto. Questa collaborazione non esclude la rivalità: c’è un orgoglio della metà alla quale si appartiene e ci sono gelosie reciproche.

Immaginiamo dunque una vita sociale sull’esempio di due squadre di football che, invece di cercare di contrastare le loro rispettive strategie, si applicassero a servirsi l’una con l’altra e misurassero il vantaggio dal grado di perfezione e di generosità che ciascuna di esse riuscisse a raggiungere.

Passiamo ora a un nuovo aspetto: un secondo diametro, perpendicolare al precedente, taglia ancora la metà secondo un asse nord-sud. Tutta la popolazione nata a est di questo asse è detta “a monte”, e quella nata a ovest è detta “a valle”. Invece di due metà abbiamo dunque quattro sezioni, i Cera, i Tugarè appartenendo allo stesso titolo metà ad una parte e metà all’altra.

Inoltre la popolazione è raggruppata in clan. Sono gruppi di famiglie che si considerano parenti per via femminile, partendo da un comune antenato di natura mitologica.

Come se le cose non fossero abbastanza complicate, ogni clan comprende dei sottogruppi ereditari, sempre in linea femminile. Così ci sono in ogni clan delle famiglie “rosse” ed altre “nere”. Oltre a ciò, sembra che un tempo ogni clan fosse diviso in tre gradi: superiore, medio e inferiore.

……………………………

Pochi popoli sono tanto profondamente religiosi quanto i Bororo, e pochi hanno un sistema metafisico così elaborato. 

Ma le loro credenze spirituali e le abitudini di tutti i giorni si mescolano intimamente, e non sembra che gli indigeni si rendano conto del passaggio da un sistema all’altro.

……………………………

Per i Bororo un uomo non è un individuo, ma una persona.

Egli fa parte di un universo sociologico: il villaggio, il quale esiste dall’eternità, a fianco dell’universo fisico, esso stesso composto di altri sistemi animati come i corpi celesti o i fenomeni meteorologici. Tutto ciò, a dispetto del carattere temporaneo dei villaggi concreti, i quali (in conseguenza dell’esaurimento dei terreni coltivabili) raramente resistono nello stesso luogo per più di trenta anni. Quello che costituisce il villaggio non è dunque né il suo terreno né le sue capanne; bensì una determinata struttura che ho già descritto e che tutto il villaggio riproduce, Si capisce dunque, perché, alterando la disposizione tradizionale dei villaggi, i missionari distruggono tutto.

………………………………

La società Bororo dà una lezione al moralista; ascolti gli informatori indigeni: gli descriveranno quel balletto in cui le due metà del villaggio si insegnano a vivere e respirare l’una per l’altra, l’una a mezzo dell’altra; scambiandosi le donne, i beni e i servizi in fervido impegno di reciprocità; sposando i loro figli fra loro; seppellendo mutualmente i loro morti; assicurandosi l’un l’altro che la vita è eterna, il mondo soccorrevole e la società giusta. Per testimoniare queste verità e sostenere queste convinzioni, i loro saggi hanno elaborato una cosmologia grandiosa e l’hanno espressa nel piano dei loro villaggi e nelle distribuzioni delle abitazioni.  (13)


I Lakota (America del Nord)

E’ in gran parte il popolo che gli Europei hanno chiamato indiani Sioux e che viveva nell’area delle grandi praterie degli attuali Stati Uniti.

Ecco il mito delle origini dei Lakota:


Ci fu, c’è e ci sarà sempre Wakan Tanka, il Grande Mistero.

Egli è uno solo, e tuttavia è molti, Egli è il Dio Capo, il Grande Spirito, il Creatore e l’Esecutore. Egli è gli dèi buoni e gli dèi cattivi, è il visibile e l’invisibile, il fisico e l’immateriale, perché è tutto quanto in uno solo.

Immediatamente al di sotto di Wakan Tanka c’è il gruppo degli Dèi Superiori: la Roccia, la Terra, il Cielo, il Sole, ai quali corrispondono i quattro colori fondamentali: giallo, verde, blu, rosso.

Ognuno di essi aveva una responsabilità rispetto all’universo. La Roccia era l’antenato di tutte le cose e il patrono delle arti. La Terra era la madre di tutti i viventi. Il Cielo, fonte di tutto il potere, era il giudice supremo. Il Sole era il Grande Dio con tutti i poteri, patrono delle quattro virtù: coraggio, forza d’animo, generosità, fedeltà.

Ad essi erano associati gli Dèi aggiunti: l’Alato, la Bella, il Vento, la Luna.

Ad essi imparentati e loro figli erano gli Dèi subordinati: il Bisonte, l’Orso, i Quattro Venti, il Turbine.

E da ultimi nella scala gerarchica gli Dèi Inferiori: lo Spirito, l’Anima, il Simile-a-Spirito, la Potenza.

Tutti questi dèi erano benigni.

Gli dèi maligni erano molti ed erano figli degli dèi benigni, ma avendo disobbedito all’ordine dell’universo erano stati puniti e declassati. Essi non erano perciò uniti in una gerarchia, ma ciascuno era indipendente dall’altro.

       Un tempo gli uomini vivevano sottoterra, mentre i soli esseri che vivevano sulla superficie della terra erano alcune divinità: il Briccone, il Vecchio, Sua moglie, la Strega, e la loro figlia, la Donna Bifronte, la quale aveva un duplice aspetto: una metà era bellissima e l’altra metà era orripilante.

Queste divinità, poiché si erano ribellate, furono confinate per punizione sulla terra, dove vagavano sole.

Ma la Donna Bifronte desiderava riunirsi alla gente che viveva sottoterra. Allora, con l’aiuto di un lupo, fecero avere un pacco di doni a Tokahe (“il Primo”), un giovane forte e coraggioso che viveva con la moglie e il resto del popolo nel sottosuolo.

L’involto conteneva carne gustosa e bellissimi vestiti.

Si decise allora che Tokahe insieme ad altri tre giovani valorosi andassero a scoprire da dove provenissero quelle buone cose.

I quattro uomini guidati dal lupo giunsero sulla terra fino al luogo in cui viveva nella sua tenda la Donna Bifronte. Tutto intorno era bello e rigoglioso, e pieno di selvaggina. Ella mostrò loro il suo aspetto migliore e apparve come una bellissima donna. Mentre il Briccone si mostrò come un giovane affabile e simpatico. La donna diede ai giovani carne saporita e donò cibo e vestiti per il loro popolo. Inoltre gli dèi dissero che essi in realtà erano molto vecchi ma che nutrendosi con il cibo della terra rimanevano giovani ed attraenti.

I quattro giovani, tornati sottoterra, descrissero quello che avevano visto. Nel popolo si accese una discussione. Alcuni volevano salire sulla terra, altri invece, i più saggi, li misero in guardia. Il capo li avvertì che chi fosse salito non sarebbe mai più potuto ritornare.

Ciò nonostante Tokahe insieme ad altri sei uomini con mogli e figli abbandonarono il mondo sotterraneo e salirono sulla terra. La terra però era mutata, sembrava strana. Faceva molto freddo. Si smarrirono, patirono fame e freddo e caddero nella disperazione. La Donna Bifronte corse in loro aiuto, ma si dimenticò di coprirsi con il mantello e così essi videro il suo volto terribile e corsero via terrorizzati. Anche il Briccone apparve come realmente era e rise delle loro disgrazie. Tokahe provò una grande vergogna.

Ma ecco che presi da misericordia e tenerezza apparvero il Vecchio e la Strega portando cibo e acqua a quegli uomini disperati. Guidarono il piccolo gruppo alla terra dei pini, mostrarono loro come si caccia, come si fanno i vestiti e le tende, e a vivere come adesso fanno gli uomini. Così Tokahe e i suoi seguaci furono i primi abitanti della terra. I progenitori dei Lakota. (14)


Nelle tende e negli alloggi in terra dei Lakota viene segnato ancora oggi un buco (il sipapu) a ricordo del passaggio dal mondo sotterraneo al mondo esterno.


Tahiti (Polinesia) e Australia

Ecco in breve il mito delle origini tahitiano:


Apparve – Taaroa era il suo nome.

Intorno a lui era vuoto:

In nessun luogo terra, in nessun luogo cielo,

in nessun luogo mare, in nessun luogo uomini.

Chiama Taaroa senza eco –

Allora nella sua solitudine trasformò sé nel mondo.

Queste radici – queste sono Taaroa.

Le rocce – sono Lui.

Taaroa: la sabbia del mare!

Taaroa: la chiarezza.

Taaroa: il germe.

Taaroa: il sottosuolo.

Taaroa: l’imperituro.

Taaroa: il potente.

Il grande e sacro Universo,

il guscio di Taaroa.  (15)


Un accenno merita anche il pensiero degli Aborigeni dell’Australia, che vedono il mondo intessuto da una rete di “vie fatte di canti” che lo rendono vitale. Cantando in determinati modi si portano alla realtà le vie corrispondenti che si collegano in una trama universale.

Forse è opportuno ricordare che vi è stato un periodo, alla fine dell’Ottocento, in cui non solo l’uccisione degli Aborigeni da parte degli invasori europei era perfettamente legale, ma l’eliminazione fisica dei nativi veniva addirittura incoraggiata dalle autorità ufficiali.

Ricordo inoltre che sono esistite almeno cento culture umane che non hanno mai fatto guerre e che non erano neppure in grado di concepire una guerra.


L’Occidente

E’ la nostra cultura, che in questo periodo sta imponendosi a tutto il mondo con violenza materiale e psicologica, perché ha ottenuto - a causa dei suoi presupposti di pensiero - una potenza materiale mai raggiunta da altri e perché ha fra i suoi fondamenti l’idea dell’espansione.

E’ nata dalle antiche culture greca, romana ed ebraica e si è poi stabilita per secoli nelle terre europee e circostanti. E’ chiamata anche cultura ebraico-cristiana.

Il suo mito delle origini è la Genesi dell’Antico Testamento, che così inizia:


In principio Dio creò il cielo e la terra. Ma la terra era disadorna e deserta, c’erano tenebre sulla superficie dell’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulla superficie delle acque. Dio disse: “Vi sia luce!” e vi fu luce. E Dio vide che la luce era buona. E Dio separò la luce dalle tenebre. E Dio chiamò giorno la luce e chiamò notte le tenebre. E fu sera, e fu mattina: il primo giorno.

Dio disse: “Vi sia un firmamento in mezzo alle acque e separi le acque dalle acque”. E così avvenne: Dio fece il firmamento e separò le acque che sono sotto il firmamento dalle acque che sono sopra il firmamento. Dio chiamò cielo il firmamento. Dio vide che ciò era buono. E fu sera, e fu mattina: il secondo giorno.

Dio disse: “Le acque, che sono sotto il cielo, si ammassino in una sola massa e appaia l’asciutto”. E così avvenne: le acque, che sono sotto il cielo, si ammassarono nelle loro masse e apparve l’asciutto. E Dio chiamò terra l’asciutto e chiamò mare la massa delle acque. E Dio vide che ciò era buono.

Dio disse: “La terra verdeggi di verzura, di graminacee che producano semente e di alberi da frutto, che facciano sulla terra, ciascuno secondo la sua specie, un frutto contenente il seme”. E così avvenne: la terra fece spuntare verzura, graminacee che producono semente, ciascuna secondo la propria specie, e alberi che fanno ciascuno un frutto contenente il seme secondo la propria specie. E Dio vide che ciò era buono. E fu sera, e fu mattina: il terzo giorno.

Dio disse: “Vi siano luminari nel firmamento del cielo per separare il giorno dalla notte e divengano segni per le feste, per i giorni e per gli anni e divengano luminari nel firmamento del cielo per fare luce sulla terra”. E così avvenne: Dio fece i due luminari maggiori, il luminare grande per il governo del giorno e il luminare piccolo per il governo della notte e le stelle. E Dio li pose nel firmamento del cielo per fare luce sulla terra e per governare il giorno e la notte e per separare la luce dalle tenebre. E Dio vide che ciò era buono. E fu sera, e fu mattina: il quarto giorno.

Dio disse: “Le acque brulichino di esseri vivi e volatili volino sopra la terra, sullo sfondo del firmamento del cielo”. E così avvenne: Dio creò i grandi cetacei e tutti gli esseri vivi guizzanti di cui brulicarono le acque, secondo la loro specie, e tutti i volatili alati secondo la loro specie. E Dio vide che ciò era buono. E Dio li benedisse dicendo: “Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite le acque dei mari; i volatili poi si moltiplichino sulla terra”.

E fu sera, e fu mattina: il quinto giorno.

Dio disse: “La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: bestiame e rettili e fiere della terra secondo la loro specie”. E così avvenne: Dio fece le fiere della terra secondo la loro specie e il bestiame secondo la sua specie e tutti i rettili del suolo secondo la loro specie. E Dio vide che ciò era buono.

Dio disse: “Facciamo l’uomo a nostra immagine, secondo la nostra somiglianza, e abbia dominio sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sul bestiame, su tutte le fiere della terra e su tutti i rettili che strisciano sulla terra”.

Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò.

Dio li benedisse e Dio disse loro: “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela e abbiate dominio sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sul bestiame e su tutte le fiere che strisciano sulla terra”.

Poi Dio disse: “Ecco, io vi do ogni sorta di graminacee produttrici di semente, che sono sulla superficie di tutta la terra, e anche ogni sorta di alberi in cui vi sono frutti portatori di seme: costituiranno il vostro nutrimento. Ma a tutte le fiere della terra, a tutti i volatili del cielo e a tutti gli esseri che strisciano sulla terra e nei quali è l’alito di vita, io do come nutrimento le erbe verdi”. E così avvenne. E Dio vide tutto ciò che aveva fatto ed, ecco, era molto buono. E fu sera, e fu mattina: il sesto giorno.

Così furono terminati il cielo e la terra e tutto il loro esercito. 

Allora Dio nel settimo giorno volle concluso il lavoro che aveva fatto e cessò da ogni lavoro.

Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò.  (16) 


Questo racconto delle origini fa da sottofondo anche alla cultura del mondo mussulmano, soprattutto quello di più antica islamizzazione.

L’Occidente, come gli altri modelli culturali, ha impostato la vita sul proprio mito delle origini.

         Infatti derivano da quel racconto le seguenti caratteristiche del mondo moderno:

- il rapporto di sopraffazione verso tutti gli altri esseri viventi e verso la Natura in generale, vista esclusivamente in funzione umana, quindi al nostro servizio (antropocentrismo);

- il rapporto di sopraffazione nei riguardi delle altre culture umane, che vengono fagocitate e distrutte: questo deriva dalla presenza nel racconto di un “popolo eletto”, privilegiato rispetto a tutti gli altri;

- la divisione netta fra dovere-lavoro e tempo libero-divertimento, che non si ritrova quasi mai nelle altre culture umane, dove ogni atto ha un significato sacro in sé stesso, senza bisogno di separazioni;

- la presenza universale del ciclo settimanale che scandisce ormai ogni attività: lavoro, week-end, traffico stradale, ecc.;

- l’esaltazione permanente della crescita, dello sviluppo, dell’espansione, da cui discende anche la pretesa dell’Occidente di essere universale, facendo sparire le altre culture perché “sbagliate, arretrate, primitive”: secondo l’Occidente occorre aiutarle a conoscere “la verità” e a vivere meglio.

A proposito dell’andamento settimanale di tutta la vita sociale organizzata, è interessante riportare una pagina stampata, probabilmente come pubblicità a pagamento, sul quotidiano La Notte del 20 novembre 1990.


SIG. CAPO DEL GOVERNO!

PER DECONGESTIONARE IL TRAFFICO VIABILISTICO

ED ELIMINARE INFLAZIONE, DROGA, DISAGI, MALATTIE, STRESS, DISOCCUPAZIONE, INQUINAMENTI, SPERPERI ENERGETICI, DELINQUENZA, IMBECILLITA’ ED INCIDENTI STRADALI, C’E’ UN SOLO MODO:

DOBBIAMO SMETTERE

SIA DI FARE CHE DI NON FARE LE MEDESIME COSE TUTTI INSIEME, OSSIA DI LAVORARE E DI NON LAVORARE TUTTI NEGLI STESSI ORARI E NEI MEDESIMI GIORNI; QUINDI

DOBBIAMO ABOLIRE

FERIE ESTIVE, FESTE E SETTIMANE ED ORGANIZZARE IL NOSTRO LAVORO A TURNI OD A ROTAZIONI FISIOLOGICHE MENSILI (P.ES. 20 GIORNI + 10) E GIORNALIERE (P. ES. 6 ORE + 18): LA LUNA RUOTA IN CONTINUAZIONE, OVVERO CAMBIA OGNI MESE ED OGNI GIORNO E NON OGNI SETTE GIORNI! – LE ROTAZIONI E LE ALTERNANZE INTELLIGENTI SONO MECCANISMI ASSOLUTAMENTE FISIOLOGICI, SIA COSMICI, CHE SOCIALI, CHE INDIVIDUALI. – ABOLIRE LE DOMENICHE NON SIGNIFICA ELIMINARE LE PARTITE DI CALCIO! – PERTANTO

DOBBIAMO IMPARARE

AD UTILIZZARE POCHE MACCHINE ED IMPIANTI, POCHI LOCALI E SERVIZI ININTERROTTAMENTE ANZICHE’ UTILIZZARNE E SFRUTTARNE PARECCHI MA A PERIODI ALTERNATI O DISCONTINUI, ANTIECONOMICI, STRESSANTI E PORTATORI DI CAOS. -  SIG. CAPO DEL GOVERNO FAVORISCA PROVVEDERE!


L’ESSERE UMANO CON IL SUO PIANETA NON E’ IL CENTRO DELL’UNIVERSO, MA UNA SFERA PIU’ FREDDA DI EX ENERGIA SOLARE CHE RUOTA ATTORNO AL SOLE E DESTINATA A RIUNIRSI ED A RIFONDERSI CON ESSO A PATTO CHE NOI UMANITA’ NON LA DEVASTEREMO, DERUBEREMO E SQUILIBREREMO CON CRIMINALE FOLLIA; NEL QUAL CASO (PER ALTERAZIONE DELLA MASSA DEL GLOBO) FINIREMO RIPUGNATI DAL SOLE STESSO ED ESPULSI DALLA SUA ORBITA IRRIMEDIABILMENTE DANNATI PER L’ETERNITA’ A RUOTARE LENTISSIMAMENTE E SBILANCIATI NEGLI SPAZI SIDERALI OD INTERGALATTICI, OPPURE ESPLOSI E POI INGOIATI DA UN BUCO NERO.


I.I.D.F.

(organo scientifico per la lotta civile alla imbecillità dottrinale ed istituzionalizzata)


- MORIRE NEL SOLE MA E’ PROPRIO MORIRE?


Questa pagina è imbevuta di fede positivista e razionalista ed ha un tono profetico e metafisico, oltre alla pretesa di distribuire “certezze”. L’illusione di eliminare droga e delinquenza solo con un provvedimento del genere si commenta da sola. Richiama alla mente la convinzione ottocentesca che i furti e la criminalità sarebbero scomparsi con l’avvento dell’illuminazione pubblica.

Comunque, se l’Occidente fosse razionale come pretende di essere e non ispirato a un mito come le altre culture umane, si avrebbe davvero un andamento a turni delle attività umane, anziché l’attuale ciclo settimanale: è infatti evidente che con i turni si utilizzerebbe meglio qualunque struttura.

E’ appena il caso di ricordare che l’Occidente compie ogni tanto dei discutibili “riti” con conseguenti sacrifici: uno molto grosso - verso la metà del ventesimo secolo - ha avuto come risultato oltre cinquanta milioni di morti.



Riassunto e conclusioni

Se ci limitiamo alle culture più recenti e che si sono maggiormente diffuse, notiamo che le più gravi distruzioni e degradazioni di ecosistemi provengono da modelli che fanno capo ai filoni ebraico-cristiano e mussulmano, cioè a quelle culture che si ispirano, in modo più o meno evidente, all’Antico Testamento.

Sarà bene chiarire subito che con l’espressione “cultura ebraico-cristiana” si intende indicare la tradizione quale si è sviluppata negli ultimi quindici secoli dando luogo alla civiltà occidentale, senza assolutamente convalidare l’idea che questa cultura si sia ispirata all’insegnamento di Cristo. Al contrario, l’insegnamento di Cristo ha contestato profondamente e radicalmente le concezioni del Vecchio Testamento: la prova più evidente è che Egli fu condannato a morte proprio per questo. L’aver fatto apparire le parole di Gesù come una specie di continuazione della tradizione precedente di quelle terre medio-orientali è stata una interpretazione particolare dei secoli successivi.

L’insegnamento di Cristo assomiglia molto alle filosofie di derivazione orientale, con le quali ha in comune idee fondamentali, come l’accettazione, il distacco dalle cose del mondo, l’amore universale, l’inutilità delle istituzioni, l’estinzione del desiderio, e così via. (17)   Perfino il Suo aspetto esteriore, pervenutoci dalla tradizione, ricorda molto quello di un indiano. In particolare la parità fra le persone (abolizione delle caste e inutilità di ogni gerarchia), come pure l’abolizione dei sacrifici, ricordano il Buddhismo. Inoltre - come sopra detto - l’Antico Testamento è il mito di una etnìa particolare (il “popolo eletto”), mentre l’insegnamento di Cristo è a-etnico e universale, come quello del Buddha.

Qualcosa traspare ancora della Sua filosofia naturale, come ad esempio nell’espressione: Guardate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Tuttavia vi dico che neppure Salomone, in tutto il suo splendore, fu mai vestito come uno di loro. (18) Questa è una serena accettazione della Natura e una constatazione dell’assurdità di voler “modificare” il mondo. C’è un contrasto evidente fra la ricerca della serenità interiore predicata da Cristo e dal Buddha e il substrato biblico-ebraico su cui si è poi fondata la cultura occidentale.

In una visione buddhista, Cristo sarebbe considerato un bodhisattva, cioè un Buddha che, pur avendo raggiunto la condizione nirvanica, sceglie di restare nel mondo per amore di tutti gli esseri senzienti, che non sono solo gli umani e gli altri animali, ma anche gli alberi, l’erba e la terra stessa.

La locuzione “Figlio di Dio” è probabilmente la traduzione in una lingua semitica del termine sanscrito “Buddha” (Illuminato).

Anche l’espressione “gli ultimi saranno i primi” non significa che gli ultimi in questa vita saranno i primi in quell’altra, ma più semplicemente che i concetti di “primo” e di “ultimo” sono privi di significato. Oppure, se più vi piace, potete rileggere l’immagine dei lemmings riportata nel secondo capitolo, dato che sono gli ultimi animaletti di quella migrazione folle che si salvano accorgendosi in tempo di dove vanno a finire “i primi”. Quelli che tornano vivi a monte del fiordo sono gli ultimi della corsa, o quelli che restano al margine della migrazione suicida.

E’ chiaro che tutto questo mette in crisi alcuni concetti entrati nella formazione occidentale, come quelli di:

- un Dio personale che governa il mondo;

- un’anima unita al corpo alla nascita o al concepimento;

- un unico Salvatore, incarnatosi in un solo punto dello spazio e in un solo momento del tempo.

         Un’altra interpretazione particolare è la distinzione fra le religioni “monoteiste”, che sarebbero le tre del filone medio-orientale, e le altre definite “politeiste”. A quanto risulta, non esiste alcun pensiero veramente “politeista”, anche se per i filoni non-biblici sarebbe meglio parlare di “monismo” anziché di monoteismo. Anzi, di norma le culture che si ispirano a queste metafisiche conoscono benissimo l’Unità del Tutto e l’impossibilità di separare i fenomeni spezzettando l’Universale. Piuttosto, anche agli effetti delle conseguenze pratiche o di atteggiamento, si potrà fare una distinzione fra le tradizioni che diffondono l’idea di una Divinità esterna che agisce sul mondo (creando un dualismo) e quelle che considerano il Divino immanente alla Natura, o comunque superano ogni distinzione fra immanenza e trascendenza.

Per quanto riguarda le molte divinità dei cosiddetti politeisti, esse sono semplicemente le forze psichiche inconsce, archetipiche, o come si vogliano chiamare.

Riportando Bateson:


Se mettete Dio all’esterno e lo ponete di fronte alla sua creazione, e avete l’idea di essere stati creati a sua immagine, voi vi vedrete logicamente e naturalmente come fuori e contro le cose che vi circondano. E nel momento in cui vi arrogherete tutta la mente, tutto il mondo circostante vi apparirà senza mente e quindi senza diritto a considerazione morale o etica. L’ambiente vi sembrerà da sfruttare a vostro vantaggio. La vostra unità di sopravvivenza sarete voi e la vostra gente o gli individui della vostra specie in antitesi con l’ambiente formato da altre unità sociali, da altre razze, dagli altri animali e dalle piante.

Se questa è l’opinione che avete sul vostro rapporto con la natura e se possedete una tecnica progredita, la probabilità che avete di sopravvivere sarà quella di una palla di neve all’inferno. Voi morrete a causa dei sottoprodotti tossici del vostro stesso odio o, semplicemente, per il sovrappopolamento e l’esagerato sfruttamento delle risorse. (19)


Per oltre mille anni si è consolidata la concezione della Genesi, che vuole la nostra specie “signora e padrona del Creato”, che risulterebbe addirittura “fatto per noi”! Dal “Crescete e moltiplicatevi” è poi nata l’odierna manìa ossessiva dell’espansione, che in una cultura con altri fondamenti apparirebbe come una crescita patologica in un Organismo.

Così, dall’idea biblica sempre ripetuta di “popolo eletto”, da quel racconto che manifestamente privilegia un gruppo etnico, si è sviluppato il concetto occidentale di “essere la civiltà”, di possedere la “verità” e il “benessere” e di imporli a tutti gli altri, è nata insomma l’immensa superbia dell’Occidente, che si manifesta in modi del tutto simili nelle due parti, cosiddette “credente” e “atea”, in cui si è oggi apparentemente diviso.

Si è atteso soltanto di “possedere un potere tecnico” per dare il via alla distruzione dell’equilibrio naturale.

Può essere utile notare che le concezioni nate dalla Genesi si sono poi sviluppate soprattutto in aree geografiche dove erano scarsissime o assenti le altre specie di scimmie, quindi mancava la constatazione più immediata dell’esistenza di esseri a noi molto simili. In particolare erano assenti gli altri grandi Primati, come gorilla, oranghi e scimpanzè, che avrebbero reso evidente la mancanza di discontinuità fra noi e tutte le altre specie.

Così pure, ad esempio, il motivo più semplice per un’alimentazione in gran parte vegetariana dovrebbe essere il confronto con la dieta degli altri Mammiferi Primati, cioè delle altre scimmie, il cui fisico è assai simile al nostro.


Ritorniamo all’andamento nel tempo delle nostre attività.

Tutta la Vita è scandita dagli eterni cicli della Natura. La nostra cultura se ne è distaccata e segue periodi suoi propri, come il ritmo settimanale di lavoro e tempo libero, che proviene dal racconto della Genesi. Invece di operare secondo questo ritmo artificiale e festeggiare battaglie, repubbliche e santi, potremmo seguire le fasi lunari, fare festa all’inizio o alla fine delle stagioni, seguire il Sole, la Luna e le stelle.

Ci sarebbe più serenità. E sarebbero feste che uniscono l’umanità, mentre quelle attuali la dividono: nelle battaglie c’è chi vince e c’è chi perde. Invece il Sole è allo Zenit dell’Equatore per tutti.

Ma anche nella nostra cultura, fanaticamente legata alla “storia”, ci sono ancora tracce di Natura, tanto è vero che la maggiore festività ha dovuto essere fissata il 25 dicembre, perché nelle profondità dell’inconscio c’è ancora il ricordo lontano di quando, alle nostre latitudini, si faceva gran festa accorgendosi che la notte aveva smesso di avanzare sul giorno e la luce aveva iniziato la sua risalita. Ci volevano appunto tre o quattro giorni dopo il solstizio d’inverno per esserne certi.

Anche la notte di Capodanno non ha alcun riferimento cosmico, ma deriva da un calendario del tutto convenzionale, che ha lo stesso valore di qualunque altro si volesse inventare.








Note al Capitolo 4

(12) P. Grossi – Asmat. Uccidere per essere – Ed. Pesce d’Oro, 1987.

(13) Claude Levy-Strauss – Tristi Tropici – Ed. Il Saggiatore, 1994.

(14) Riassunto da: Royal B. Hassrick – I Sioux – Ed. Mursia, 1987.

(15) E. von Sydow – Poesia dei popoli primitivi – Ed. Guanda, 1951.

(16) Genesi, 1-31. La Sacra Bibbia, Ed. Marietti, 1970.

(17) Così si esprime Schroedinger: “La scintilla dell’antichissima sapienza indiana che il meraviglioso rabbi del Giordano aveva riacceso a nuovo ardore, e che era giunta fino a noi attraverso la notte fonda del Medioevo, lenta e inosservata si spense: impallidì così anche il raggio del rinato sole dei Greci, al quale i frutti che noi oggi godiamo erano maturati” (il corsivo è aggiunto). (Erwin Schroedinger - La mia visione del mondo - Ed. Garzanti, 1987).

(18) Vangelo secondo Matteo, Cap. VI – 28-29.

(19) Gregory Bateson - Verso un’ecologia della mente – Ed. Adelphi, 1976.




5 – IL MATERIALISMO E LO SVILUPPO


La mentalità cinese antica contempla l’Universo in maniera paragonabile a quella del fisico moderno, il quale non può negare che il suo modello dell’Universo è una struttura decisamente psicofisica.

Carl Gustav Jung


Questa volontà di acquisire beni materiali fa comparire in Occidente uno strano ideale sociale, sconosciuto nel resto dell’umanità: l’uomo competitivo, aggressivo, “duro negli affari”, cioè senza scrupoli né compassione, l’unico capace di “riuscire” in una civiltà da preda.

L’Occidente, responsabile di questo ideale sociale, si considera isolato, il termine ultimo in tutti i campi. Per l’occidentale l’umanità non è che un’accozzaglia di “popoli sottosviluppati” oppure “in via di sviluppo”, che hanno cioè la lontana speranza di uguagliare un giorno il prestigioso uomo bianco.

Jean Servier


Quando il grande Tao si perde, allora spuntano benevolenza e rettitudine.

Quando appaiono saggezza e sagacia, allora c’è grande ipocrisia.

Quando i rapporti familiari non sono più armoniosi, allora abbiamo figli pietosi e genitori devoti.

Quando una nazione è in preda al disordine, allora si riconoscono i patrioti.

Dove c’è il Tao, c’è equilibrio. Quando si perde il Tao, allora nascono tutte le differenze.

Lao Tze



Premesse

Non credo che l’attuale modo di vivere dei popoli di cultura occidentale sia nato soprattutto da decisioni “pratiche”: è stato piuttosto l’affermarsi di un modo di pensare che ha causato il sorgere di un modo di vivere.


Cartesio – Bacone – Locke

Il quadro concettuale dominante nella cultura europea fino al Seicento aveva tutte le premesse per iniziare una sistematica distruzione della Natura, ma mancava ancora qualcosa: il potere tecnico.

         La spinta decisiva per entrare in possesso di tale potere è venuta dalla diffusione del pensiero di Cartesio, Bacone, Locke ed alcuni altri e dalla sistemazione delle scienze fisiche ad opera di Newton. La causa principale sono state le idee di Cartesio.

Quando le concezioni del pensatore francese, forse anche sull’onda di alcune felici intuizioni matematiche, si sono fatte strada nelle menti dell’Occidente, ecco formarsi il più espansivo e distruttivo modello culturale mai apparso sul Pianeta: la civiltà industriale. E con essa è scoppiato il dramma ecologico.

Come noto, nel pensiero cartesiano vi è una netta distinzione fra lo “spirito” e la “materia”: l’uomo è l’unico essere dotato di spirito. Tutto il resto, vivente o non vivente, è solo materia bruta, quindi manipolabile senza conseguenze e senza problemi morali. Così la fisica di Newton poteva rivolgersi a sistemare il mondo della materia che diveniva una specie di gigantesca Macchina, retta da rigide leggi meccaniche.

Il meccanicismo, nato in tal modo, ha guidato la scienza ufficiale fino al ventesimo secolo ed è la base dell’attuale pensiero corrente delle genti di cultura occidentale: da questo sottofondo è sorta la civiltà industriale.

Si noti che nella più famosa relazione matematica di Newton, cioè la formulazione del secondo principio della dinamica (F=m.a) viene cartesianamente affermato che la massa (materia) è inerte e che la forza che la fa muovere proviene dall’esterno, causando implicitamente la fine di ogni immanenza.

Tra i numerosi motivi di adesione alla teoria cartesiana, la considerazione dei vantaggi che ne sarebbero derivati alla fede e alla teologia non fu certamente irrilevante. La filosofia di Cartesio, con la sua radicale separazione di spirito e materia, di anima e corpo, relegava i “bruti” nel regno della materia estesa, priva di “anima”, di coscienza e di sensibilità, geometricamente quantificabile e spiegabile, in ogni sua manifestazione, con l’esclusivo ricorso a leggi meccaniche.  (20)

        Per quanto riguarda poi il pensiero di Locke, è sufficiente riportare questo brano:


A ciò si aggiunga che chi si appropria col suo lavoro della terra non assottiglia ma accresce le provvigioni comuni dell’umanità: infatti i beni atti al sostentamento della vita umana che sono prodotti da un acro di terra cintata e coltivata sono, a dir poco, dieci volte quelli forniti da un acro di terra altrettanto ricca ma lasciata incolta e comune. Perciò si può veramente dire che colui che recinta un terreno, e da dieci acri trae maggior quantità di mezzi di sussistenza di quanto potrebbe trarre da cento lasciati allo stato naturale, dona novanta acri all’umanità.  (21)


Come si vede, nessuna considerazione per tutta la vita che viene distrutta, né per la bellezza del mondo. Manca inoltre ogni forma di percezione dell’equilibrio globale e del complesso di relazioni che legano tutti gli organismi viventi.

Purtroppo siamo andati su quella strada e ancora oggi il mondo economico-industriale la pensa sostanzialmente in quel modo. Secondo il parere di Rifkin:


Rileggendo Locke oggi, si ricava la sgradevole sensazione che egli non sarebbe stato soddisfatto fino a quando non avesse visto ogni fiume della Terra sbarrato da dighe, ogni meraviglia della natura ricoperta da cartelli pubblicitari e ogni montagna ridotta in frantumi per produrre scisti bituminosi.  (22)


Locke disprezzava i nativi dell’America del Nord perché non riusciva a capire come - con tante risorse naturali a disposizione - vivessero “peggio di un bracciante inglese”. Non riusciva a vedere altro metro di misura che quello strettamente economico-monetario: considerava quindi “più felici” i salariati inglesi delle prime catene di montaggio (!) che i sereni Lakota che si godevano la natura delle grandi praterie. Era incapace di concepire scale di valori che non fossero basate sul reddito e sulla proprietà.

Da idee simili sono derivati il primato dell’economico e la visione economicistica della vita che caratterizzano la civiltà industriale.

Per quanto riguarda Bacone, è noto il fondamento del suo pensiero che indicava come unico scopo quello di dominare la natura, vista come forza contrapposta e ostile, che andava piegata ai voleri umani. Ormai, dopo Cartesio, la natura era vista come materia inerte e manipolabile.

E’ in questo periodo che inizia a prendere forma quel concetto di progresso visto come spinta “naturale” dell’umanità, considerata in marcia continua verso un futuro sempre migliore.

Anche se ora qualcuno comincia a diffidare di queste concezioni, in pratica esse sono ancora integralmente ed entusiasticamente seguite, con i risultati ben noti.


Opinioni diverse del 17° e 18° secolo

Non sono mancate - anche in quei secoli - forme di pensiero ben diverse da quelle accennate, ma sono rimaste idee di minoranza e non si sono diffuse nelle masse, non hanno influenzato il modo di vivere collettivo.

Un esempio notevole di tali concezioni di minoranza è dato da Leibniz, secondo il quale la creazione è il risultato di un’operazione mentale con cui Dio, considerati tutti i possibili mondi, avrebbe scelto quello con il maggior numero di beni e la minor quantità di mali. Per il filosofo, infatti, ogni evento particolare è inserito in una concatenazione di fatti, dove il positivo e il negativo si intrecciano, essendo tra loro consequenziali ed interdipendenti. Nel giudicare la creazione non dobbiamo guardare solo il nostro particolare interesse, poiché Dio, tenendo conto del bene generale, ha creato il migliore dei mondi possibili.

Consapevolmente critico nei confronti dei “moderni” e della dilagante interpretazione geometrico-quantitativa della natura, Leibniz concepisce la forza come l’essenza stessa della res corporea, fonte del movimento, dell’estensione, della corporeità. La nozione di “forza”, quale principio interno ai corpi, frantuma l’omogeneità della materia cartesiana, dando luogo ad una ben più dinamica intuizione. L’universo si popola così di punti inestesi ed immateriali, principi teleologici di sviluppo e di attività. Pensiero ed estensione, spirito e natura, che per Cartesio sono radicalmente distinti, trovano, in questi principi metafisici immanenti al mondo fisico, una loro linea di comunicazione.

Afferma Leibniz:


Ritengo…che gli stessi principi meccanici e le leggi generali della natura, nascano da più elevati principi, non possano essere spiegati attraverso la sola quantità o la considerazione delle verità geometriche e che in essi piuttosto inerisca alcunchè di metafisico…da riferirsi a una sostanza priva di estensione. Poiché, al di là dell’estensione e delle variazioni, è insita nella materia una forza o potenza di azione che costituisce il passaggio dalla metafisica alla natura, dalle cose materiali a quelle immateriali.  (23)


Agli automatismi cartesiani, privi di vita e di soggettività, Leibniz oppone un universo organico in ogni sua parte, disseminato di principi psichici e vitali.

    Contro la riduzione cartesiana della natura a termini intellegibili, Leibniz rivendica la profondità inesauribile di ogni individualità vivente, ma la sua filosofia è di tale portata che, come abbiamo visto, va ben oltre la critica al sistema di Descartes. (24)

La differenza fra Leibniz e Cartesio è quella fra mondo-organismo e mondo-macchina, fra mondo della complessità e mondo della schematizzazione, fra qualità e quantità, fra la bellezza-forma-vita e un mondo senza forma, opaco, inerte.

Non sono mancate pesanti obiezioni a Cartesio - su questo punto - perfino nel secolo dell’Illuminismo, come dimostrano le critiche di Voltaire all’idea degli animali-automi e come si deduce dal seguente brano di Diderot:


Vedi questo uovo? Grazie a lui si possono rovesciare tutte le scuole di teologia e tutti i templi della Terra. Che cosa è questo uovo? Una massa insensibile prima che il germe vi si sia introdotto… Come farà questa massa a passare ad un’altra organizzazione, alla sensibilità, alla vita? Col calore. Ma chi produrrà il calore? Il moto? Quali saranno gli effetti successivi di questo moto? Invece di rispondermi, siediti, e seguiamoli attimo per attimo con i nostri occhi.

Dapprima c’è un punto che oscilla, un filetto che si estende e si colora; si forma della carne, un becco, la punta delle ali, occhi, zampe che cominciano ad apparire; una materia giallastra che si divide e produce degli intestini; è un animale… Cammina, vola, si irrita, fugge, si avvicina, si lamenta, soffre, ama, desidera, gioisce; ha tutte le tue caratteristiche; compie tutte le tue azioni.

Vorresti, con Descartes, che esso sia una pura macchina imitativa? Ma ti prenderanno in giro pure i bambini e i filosofi ti replicheranno che, se quella è una macchina, tu ne sei un’altra. Se confessi che, tra te e l’animale, ci sono soltanto differenze di organizzazione, mostrerai buon senso e ragionevolezza, sarai in buona fede; ma si potrà concludere contro di te che, con una materia inerte, disposta in un certo modo, impregnata con un’altra materia inerte, con un po’ di calore e di movimento, si ottiene sensibilità, vita, memoria, coscienza, passioni, pensieri…Ascolta e avrai pietà di te stesso; capirai che, per non ammettere una supposizione semplice che spiega tutto, la sensibilità, proprietà generale della materia, o prodotto dell’organizzazione, rinunci al senso comune e ti sprofondi in un abisso di misteri, contraddizioni, assurdità.  (25)


Fra le altre opinioni “di minoranza” di quei secoli, citeremo poi quella di Giordano Bruno che, con l’espressione Mens insita rebus intendeva che la Mente è in tutti i processi, è onnipervadente: tutto è dotato di Mente. Ogni essere partecipa all’Anima universale secondo la formazione del corpo (serpente, uccello, pesce, uomo): tutti gli enti naturali partecipano di una medesima Anima.

E’ nota poi la posizione di Spinoza, che con l’espressione sive Deus sive Natura indicava che l’Entità universale poteva essere chiamata indifferentemente Dio oppure Natura.

Inoltre, già nel Cinquecento, Montaigne scriveva:


Non c’è nulla “di barbaro o di selvaggio” negli Indiani. C’è invece che: “Ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa”. Dunque: “Essi sono i selvaggi allo stesso modo che noi chiamiamo selvatici i frutti che la natura ha prodotto da sé nel suo naturale sviluppo: laddove, in verità, sono quelli che nel nostro artificio abbiamo alterati e distorti dall’ordine generale che dovremmo piuttosto chiamare selvatici”.

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“Quando mi trastullo con la mia gatta, chi sa che essa non faccia di me il proprio passatempo più di quanto io faccia con lei?” E più oltre: “Noi non le comprendiamo più di quanto esse comprendano noi. Per questa ragione esse possono considerarci bestie come noi le consideriamo. Bisogna che osserviamo la parità che c’è fra noi. Noi comprendiamo approssimativamente il loro sentimento, così le bestie il nostro, pressappoco nella stessa misura, esse ci lusingano, ci minacciano, ci ricercano; e noi loro”.  (26)


Lo sviluppo

Dal sottofondo culturale cartesiano è nato il moderno concetto di sviluppo, di cui passeremo in rassegna alcune caratteristiche:


1 – Distruzione delle altre specie di esseri viventi


Lo sviluppo provoca estinzione di specie ed ecosistemi su larga scala. L’obiezione che ci sono sempre state estinzioni in natura non è rilevante perché l’entità e la scala dei tempi sono completamente diverse. Il cambiamento degli ecosistemi e le estinzioni per cause naturali avvengono in genere su un arco temporale dell’ordine del milione di anni. Anche le teorie sull’estinzione dei dinosauri, a parte quella “repentina” dello scontro con un asteroide, richiedono almeno un milione di anni come tempo di passaggio dal Cretaceo al Cenozoico. Anche le modalità sono completamente diverse, perché le estinzioni naturali non sono accompagnate dagli altri fenomeni correlati. 

Si ha oggi - per la prima volta - un processo di depauperamento globale della vita, perché nelle estinzioni naturali la complessità relazionale dei viventi è sempre cresciuta, cioè c’è stato un aumento della varietà sistemica e quindi della “spiritualizzazione” della vita.

Nel caso attuale di estinzioni massicce dovute alla civiltà industriale, la varietà vivente è in netta diminuzione, gli ecosistemi scompaiono riducendosi a pochissimi tipi.  La complessità relazionale sistemica tende a sparire.

Infatti, dopo tre miliardi di anni di evoluzione, la Vita mostrava una varietà, un equilibrio e un’armonia mirabili con milioni di specie; ogni nicchia ecologica pullulava di vita. La varietà, la variabilità e le relazioni erano il segno dello spirito vitale, che raggiungeva il massimo nella foresta equatoriale, ma era comunque notevolissimo anche nelle paludi, negli ambienti acquatici, nel bosco sub-artico.

  Tutto questo fino all’Ottocento: ora l’inarrestabile tendenza del cosiddetto progresso è di trasformare tutto in una struttura rigida e disarmonica in cui sono rappresentate poche specie: quella umana, alcuni suoi “compagni” resi nevrotici, alcune specie animali allevate e degenerate, qualche specie vegetale estesa a monocoltura.


2 – Distruzione delle culture umane


Abbiamo già accennato al fatto che l’Occidente, con la pretesa dell’universalità, impone la sua scala di valori e il suo modo di vivere a tutta l’umanità. Lo schema industriale pone al vertice l’incremento indefinito dei beni materiali, visto come apportatore di felicità. Ma la fine della varietà culturale significa anche la fine di numerose possibilità di vita diversa, la scomparsa di tesori di conoscenza e di pensiero.

Inoltre l’estensione a tutta l’umanità del modello occidentale è semplicemente impossibile perché la Terra non può sopportare miliardi di persone che vivono con il perenne miraggio del consumo. A parole si nega ogni integralismo, ma poi si considera evidente, ovvio e vero il desiderio consumistico, non accettando alcun modo di vita al di fuori di esso.


3 – Distruzione del bello e della varietà del mondo


Un ecosistema naturale è fonte di ispirazione ed è religiosamente bello. Invece una distesa disarmonica ed uniforme di poche specie (monocolture, allevamenti in serie, umanità densa) mette angoscia.

Sembra che il senso estetico-religioso sia correlato alla salute ecologica del sistema, probabilmente per effetti mentali, di cui faremo cenno in seguito.

Le specie uniche delle monocolture e degli allevamenti sono inoltre degenerate e private di ogni dignità e spiritualità. Non costituiscono un ecosistema.

Inoltre in Natura non esistono due individui uguali in nessuna specie. La Natura non agisce mai in serie: questa è una caratteristica della civiltà industriale.

In un Kmq di foresta pluviale ci sono migliaia e migliaia di specie diverse, un complesso armonico di vita-morte che si mantiene in equilibrio dinamico al di là del tempo. In un Kmq di area “rifatta” dalla nostra civiltà ci sono o una distesa di inerti, o una esagerata densità umana produttrice di angoscia, o una moltitudine di esemplari ripetuti di un’unica specie tenuta in vita con sostanze estranee, che hanno inoltre degradato il mondo da qualche altra parte.

Se le tendenze ora in corso dovessero continuare e la natura spontanea dovesse quasi-sparire o comunque essere antropizzata, le differenze fra le varie aree del mondo si ridurrebbero sempre più.

Già oggi questo accade per l’ambiente umano costruito: le periferie delle grandi città del mondo sono tutte uguali, i grandi alberghi sono ovunque gli stessi, gli aeroporti si assomigliano tutti. L’aria condizionata rende uniforme anche il clima. Ma allora, a cosa giova fare il giro del mondo in pochi giorni per ritrovare ovunque la stessa uniformità e la stessa noia?

C’è da chiedersi dove siano finite le “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità, tanto celebrate nell’Ottocento.


4 – Introduzione dei concetti di risorse e rifiuti


La Natura è caratterizzata da cicli chiusi, al termine dei quali si riproducono le condizioni iniziali, così che i processi possono durare per un tempo indefinito. Almeno se non si considerano tempi astronomici, la Natura si alimenta su un incessante fluire dinamico di energia in un mondo complesso e sistemico. Questo fluire costituisce anche le menti o la Mente del sistema naturale. Le condizioni si ripristinano - o quasi - al termine di ogni ciclo. L’antica cultura agricola e le civiltà tradizionali funzionavano anch’esse in questo modo.

Invece i processi industriali funzionano in modo “aperto”, cioè prelevano qualcosa di fisso e insostituibile (le cosiddette risorse) e scaricano prodotti (i rifiuti) in ambienti che vengono considerati per definizione “infiniti”. E’ da processi di questo tipo che proviene l’inquinamento: qualunque provvedimento che mantenga questo modo di funzionare è solo un palliativo che rinvia il problema nel tempo e sposta l’inquinamento da un ambiente all’altro (dall’acqua all’aria o alla terra, o viceversa): non può risolvere il problema in modo permanente.

Non ci devono essere né risorse né rifiuti: nei cicli naturali e tradizionali quelli che possono sembrare rifiuti sono risorse per qualcos’altro. I due concetti non sono necessari.


5 – Diminuzione del lavoro fisico


     La nostra civiltà ha diffuso l’idea che uno degli scopi naturali della persona umana sia quello di evitare completamente il lavoro fisico: poi si è riempita di palestre, percorsi ginnici e attrezzi vari per farci passare il “tempo libero” facendo fatica. In tal modo si rendono massimi i consumi, che sono il vero scopo di questa società.

    Chi fa fatica per portare una gerla di fieno sulle spalle è considerato un “poveretto” ridotto a fare “quella vita dura”, chi gli passa accanto con un sacco sulle spalle per salire una montagna è considerato - o vuole considerarsi - un “ardimentoso”.

Lo stesso vale per il sottofondo psicologico che accompagna i lavori fisici in confronto alla fatica di chi va a sudare nelle palestre a pagamento.

Invece i lavori fisici e intellettuali sono componenti complementari entrambi necessari alla completezza del vivere. I concetti di superiore e inferiore sono un’invenzione dell’Occidente.


6 – Sostituzione di materia inerte a sostanza vivente


La trasformazione di un ecosistema naturale in un’area industrializzata consiste nel sostituire gruppi di inerti (cemento, metalli, fabbriche, impianti, ecc.) a un complesso di viventi, nel sostituire l’inorganico all’organico.

Macchine, impianti, strade, al posto di foreste, paludi, savane.


7 – Aumento della vita media umana


Lo sviluppo porta in genere l’aumento della durata media della vita umana, ottenuto in gran parte da una diminuzione della mortalità infantile: infatti l’attesa di vita di un bambino che abbia già raggiunto i cinque anni di età non è molto diversa nelle varie culture umane.

Se la diminuzione della mortalità non è accompagnata da un corrispondente calo della natalità, si ha uno squilibrio non sostenibile e l’allungamento diviene illusorio su tempi lunghi: ai bambini salvati corrisponderanno, in altra parte del mondo o in generazioni successive, altrettanti bambini condannati a morte per l’eccesso numerico, oltre alla degradazione del complesso dei viventi.

        Anche il cosiddetto “invecchiamento” della popolazione che si ha quando calano le nascite è un fenomeno transitorio: è evidente che, passato quel paio di generazioni nelle quali l’eccesso di anziani è dovuto al fatto che c’erano troppe nascite sessanta o settanta anni prima, il rapporto fra le fasce di età viene ristabilito; si ritorna ad un equilibrio dinamico in cui la popolazione fluttua attorno a valori stabili, unica condizione che può durare per un tempo indefinito, se la densità non è eccessiva.

Secondo una ricerca dell’Istituto di Ecologia dell’Università Cornell (U.S.A.) la popolazione umana complessiva sostenibile in permanenza dall’ecosistema terrestre è di circa due miliardi di persone.

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Riassumendo, si può dire che quando arriva il concetto di sviluppo economico, scompaiono l’equilibrio dell’animo e l’armonia del mondo.

In realtà, la crescita materiale di qualcosa è sempre accompagnata dal degrado di qualcos’altro nello spazio o nel tempo. La locuzione “sviluppo equilibrato” è solo una contraddizione di termini, oppure è priva di significato, essendo concettualmente diversa dall’espressione “equilibrio dinamico”, che denota situazioni in cui i parametri economici fluttuano continuamente attorno a valori stabili. Del resto i pregi di un’economia stazionaria erano già stati messi in evidenza da John Stuart Mill nel 1858, ma tale bellezza colpì solo rari spiriti isolati, mentre l’Occidente era ormai lanciato nella religione della crescita.

Come già accennato in un capitolo precedente, la locuzione “sviluppo sostenibile” andrebbe sostituita con l’espressione “sistema sostenibile”, cioè appunto un sistema variabile, ma sempre in equilibrio, o meglio stazionario.

Quando poi si sente parlare di contrasto fra le esigenze dell’economia e quelle dell’ecologia, non si dimentichi che:


- le cosiddette “esigenze dell’economia” non esistono, perché dipendono esclusivamente dalla scala di valori di ogni modello culturale. L’economia è un fatto umano e sociale controllabile: niente impone che debba essere “in crescita”;


- le “esigenze dell’ecologia” sono leggi fondamentali fisiche e biologiche ben al di sopra di quelle che possono essere le smanie passeggere della nostra specie.


Quindi, anche al di là di considerazioni morali ed estetiche, è indispensabile che il sistema economico sia compatibile con il funzionamento del Complesso dei Viventi per un tempo indefinito.

E’ poi utile una breve riflessione sul concetto di benessere, che è essenzialmente uno stato mentale e non un mucchio di oggetti. Per ottenere qualcosa in tal senso, sarebbe logico uno studio preliminare sulla natura della mente, piuttosto che la forsennata spirale dell’eterno desiderio imposta dal modello attuale.

Per quanto riguarda il futuro, l’ipotesi più catastrofica che si può fare è che lo sviluppo continui ad oltranza, perché in tal caso si arriverebbe ad un mondo estremamente degradato. Il fenomeno non potrebbe comunque continuare per l’impossibilità di persistenza dei processi vitali.

Come alternative, occorre prendere in considerazione anche le utopie.


Basi dell’industrialesimo

Vediamo ora su quali correnti filosofiche o di pensiero si basa la società industriale (i vari punti, distinti solo per chiarezza espositiva, sono intercollegati e parzialmente sovrapposti):


- il positivismo, in cui viene negata ogni metafisica; anzi si pretende di cancellarne l’esigenza nell’essere umano, con il pretesto di attenersi solo alle cose “reali” e “positive”, come se non fossero anch’esse creazioni della mente. Ritiene che ciò che si percepisce sia “vero” e “indiscutibile”. Secondo il positivismo, esistono “i fatti” e bisogna attenersi solo a quelli;


- il materialismo, per il quale gli unici scopi della vita sono di natura materiale, cioè si riducono a una ricerca di oggetti e soddisfazioni individuali sul piano fisico. Viene in pratica negata ogni esigenza spirituale come una fastidiosa aggiunta che distoglie dallo scopo “vero”, quello tecnologico-economico-produttivo;


- il meccanicismo, in cui si considera il mondo e qualunque sua parte, anche vivente, come una specie di orologio smontabile, un meccanismo che funziona in base a rigide leggi esistenti in sé e indipendenti dal pensiero, ridotto a una specie di secrezione cerebrale. Una metafisica meccanicista pone problemi di funzionamento e non di responsabilità morale verso il mondo vivente;


- il riduzionismo, secondo il quale le proprietà di un sistema complesso si comprendono studiando il comportamento delle sue parti componenti. Le scienze sono in sostanza riportabili alla fisica delle particelle, tutto è riconducibile a uno schema di tanti individui in interazione fra loro: la materia è fatta di atomi, gli atomi sono fatti di particelle più piccole, la società è fatta di individui; viene negato ogni effetto dovuto alla complessità e alla rete di relazioni. Tutto sarebbe divisibile e schematizzabile;


- il determinismo, cioè l’assunzione secondo la quale gli eventi sono determinati completamente da altri eventi precedenti. Si ha come conseguenza che lo stato del mondo in un certo momento è sufficiente a stabilire il suo stato in un momento successivo.

E’ nota l’affermazione di Laplace che, all’inizio dell’Ottocento, considerava il determinismo quasi come una religione:


Un’intelligenza che conoscesse, in ogni istante di tempo dato, tutte le forze agenti in natura, oltre alle posizioni momentanee di tutte le cose che compongono l’universo, sarebbe in grado di comprendere in una singola formula i moti dei corpi più grandi del mondo e quelli degli atomi più piccoli, purchè fosse abbastanza potente da sottoporre tutti i dati ad analisi; per essa niente sarebbe incerto, e tanto il futuro quanto il passato sarebbero presenti dinanzi ai suoi occhi.  (27)


- il cartesianesimo, cui si è già accennato più volte e sul quale farò poi alcuni commenti: afferma il primato assoluto della ragione e la separazione drastica fra spirito e materia. E’ evidente ad esempio l’abuso che viene fatto normalmente del termine “più razionale” nel significato di “migliore”.

Si dà per scontato che il “razionale” sia un superamento migliorativo dell’ “istintivo” e dell’“emotivo”, senza analizzare il contenuto e il significato dei termini. Si può affermare che il cartesianesimo è la base filosofica dell’attuale civiltà occidentale. E’ evidente quali enormi conseguenze ha avuto, ad esempio, nella medicina la separazione mente-materia, che ha portato a considerare il corpo come una macchina con vita propria. Solo molto recentemente è nata una medicina un po’ diversa, appena tollerata, battezzata come “psicosomatica”, termine ancora abbastanza rassicurante per la ragione.

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Come prima osservazione ai punti sopra elencati, ricordiamo che Bateson chiama “follia riduzionista” l’idea che si possa descrivere con pienezza ontologica la Natura, che è molto più ricca di significato di quanto non sia possibile rappresentare. La complessità fisico-spirituale del mondo naturale è infinita: solo con la percezione intuitiva se ne può avere una pallida idea.

Il paradigma della semplificazione si basa su quella che è stata chiamata la “schizofrenica dicotomia cartesiana”, il dualismo fra il cogito soggettivo e la res extensa oggettiva. La scienza occidentale è stata fondata (fino alla prima metà del ventesimo secolo) sull’eliminazione del soggetto, nella convinzione illusoria che gli oggetti, esistendo indipendentemente dal soggetto, possano essere studiati in quanto tali.


Qualche brano di Ceronetti sullo sviluppo

Ecco un pensiero di Konrad Lorenz: “l’unico introito legittimo di energia del nostro pianeta è costituito dall’irraggiamento solare, e ogni crescita economica che consumi più energia di quella che riceviamo dal sole, irretisce l’economia mondiale in una spirale debitoria, che ci consegnerà a un creditore spietato….”

Il Creditore Spietato, evocato da Lorenz, non è un fantasma del futuro. Si presenta ogni giorno, e ogni sua apparizione è una rapina: si porta via della vita vivente, ma ci lascerà fino all’ultimo lo sviluppo.

I governi possono governare - sono lasciati fare - fintanto che non si oppongano allo sviluppo, vuol dire che ne sono tutti, dal più potente all’ultimo di forza, prigionieri e servi. La grande domanda metafisica: l’uomo è libero? si può anche buttarla qui, parlando di governi che tutti, nessuno escluso, possono procedere soltanto in un’unica direzione, senza che gli sia data una scelta. Se fossi papa o presidente americano o presidente russo mi piglierei il piacere di rispondere che l’uomo può solo decidere quel che è già deciso. E questo irrefrenabile sviluppo era nel segreto del tempo, nel mistero tragico del destino umano, ma quel che mi dà scandalo, quel che mi fa più soffrire, è che “gli si voglia bene”, che si parli incessantemente di “ripresa” del lavoro di questo assassino come di qualcosa di desiderabile, non come di una necessità ineluttabile, come di una caduta progressiva nell’infelicità.

Vorrei un capo di governo o di azienda che facesse precedere da un purtroppo le frasi consuete: “dobbiamo aumentare la produzione”, “la ripresa è imminente”… Neppure questa libertà gli è data. Sono costretti anche ad adularlo, il Maligno: se aggiungono un purtroppo li scaraventa in basso come birilli. Questo non è più avere un potere, tanto meno corrisponde a qualcuno dei sensi profondi di comando. L’asservimento all’economia dello sviluppo, senza neppure un accenno di sgomento, dice l’immiserimento, la perdita di essenza e di centro, della politica. Se il fine unico è lo sviluppo, la politica è giudicata in base alla sua bravura (che è pura passività) nello spingerlo avanti a qualsiasi costo….

Non c’è nessuna idea politica dietro, sopra o sotto: c’è il Dio dell’economia industriale geloso del suo culto monoteistico. Nulla è di troppo per questa ingorda idolatrata Bestia.

Un inferno urbano contemporaneo è fatto di molte cose. Tra le più evidenti, c’è l’eccesso di circolazione di macchine, auto e moto. Contro smog e paralisi si almanaccano palliativi di ogni genere, ma soltanto abbattendo la produzione automobilistica si potrebbe ridare alle città un po’ di respiro post-diluviale. Immediatamente sulle piazze liberate dai grovigli di auto, si adunerebbero a migliaia, e a migliaia di migliaia, i tamburi di latta della protesta di quelli a cui fosse stato restituito il respiro: non vogliono la cura, ma la malattia in tutta la sua spietatezza…Così i chimici che producono veleni per l’agricoltura: vietarli, anche per amore dei loro stessi figli, ne scatenerebbe la collera. Ma sarà la collera dei chimici, o dei veleni in loro? Chi dice che non abbiano un’anima, i veleni che produciamo?... La sola voce concorde, universale, in alto e in basso, grida che nessuna industria si fermi o chiuda, qualsiasi cosa produca, sia pure inutilissima o micidialissima, sia pure destinata a restare invenduta: la sola voce concorde invoca che si aprano cantieri su cantieri e che si investano finanze in nuovi progetti industriali: a costo di qualsiasi inquinamento e imbruttimento, a costo anche di fare accorrere, per l’immediata ritorsione morale che colpisce chi accolga progetti simili, le furie di una intensificata violenza. E se deve, sul mare delle voci tutte uguali, planare una promessa rassicurante, è sempre la stessa: ci sarà la “ripresa”, ne avrete il triplo di questa roba…(28)


Note sui punti fondamentali della filosofia cartesiana

ï Il dualismo spirito-materia è smentito dalla fisica moderna (come vedremo) e in particolare dall’interpretazione di Bohr-Heisenberg che nega l’esistenza di una realtà oggettiva esterna, cioè di un mondo energetico-materiale indipendente dalla psiche. Spirito e materia sono inscindibili.


ï Il primato della ragione su emozione e sentimento è smentito dalla psicoanalisi. Il richiamo all’inconscio fa svanire in gran parte l’idea che il comportamento è conseguenza dei ragionamenti. Secondo le correnti psicoanalitiche più “estreme” tutto è guidato dall’inconscio che si costruisce i ragionamenti come giustificazioni apparenti.


ï Il “Cogito. Ergo sum” è una proposizione illusoria. Già nella premessa (Penso) è implicita la conclusione (Quindi sono).


Infatti non è evidente un “io” pensante, ma soltanto un pensiero variabile. La sua condensazione in un ego distinto e autonomo è un passaggio arbitrario, perché in realtà non viene constatata l’esistenza di una entità permanente chiamata “io”, ma solo un flusso di pensieri in perenne mutamento, una successione incessante di stati mentali in continua variazione. In altre parole, dal fluire di pensiero (nel divenire), Cartesio fa un passaggio arbitrario ad una entità stabile (nell’essere).

Pensare è un processo. Essere è uno stato. Quando penso, il mio stato mentale cambia nel tempo. Come può l’ego cui si riferisce restare lo stesso?

Dall’idea di un ego individuale, autonomo e permanente è nato poi il concetto di società come somma di tante individualità che interagiscono.


Osservazioni all’idea corrente di progresso

Ciò che viene automaticamente chiamato progresso, cioè un aumento di tecnologia, non corrisponde sempre a un miglioramento: viene visto come tale solo in base a una scala di valori precostituita ed arbitraria.

In particolare, in seguito al cosiddetto progresso:


- i luoghi diventano sempre più brutti: basta rivedere un posto a distanza di anni per rendersene conto;


- non è vero che il cosiddetto “tempo libero” sia aumentato: le popolazioni tribali, o civiltà tradizionali, passano la maggior parte del loro tempo dedicandosi all’aspetto spirituale-magico della vita e non a “sgobbare” per la sopravvivenza;


- aumentano psicopatie, criminalità, droghe, suicidi, depressioni: ciò significa che la serenità mentale peggiora decisamente; del resto non è tenuta in alcun conto nella scala di valori della civiltà industriale;


- si manifesta necessariamente una sorta di razzismo culturale, dato che si viene a considerare la civiltà occidentale “migliore” delle altre, perché la sua scala di valori e 

il suo modo di vivere vengono imposti a tutta l’umanità.


Anche l’idea che le culture dove si conosce la scrittura siano migliori delle culture tramandate oralmente non è poi così evidente: le modalità orale e scritta sono aspetti complementari di pari dignità. Dove si è interiorizzata completamente la scrittura si sono perse le “modalità” e le percezioni della trasmissione orale. 

 Si tratta di equilibrare i due aspetti, non di “progredire” da uno all’altro. Anche l’idea della “storia” fa parte di un retaggio culturale particolare: spesso i cosiddetti “popoli rimasti fuori dalla storia” sono semplicemente quelli che non hanno mai fatto guerre.

Riporto inoltre questo pensiero di Platone:


Chi ritenesse di poter tramandare un’arte con la scrittura, e chi la ricevesse convinto che da quei segni scritti potrà trarre qualcosa di chiaro e saldo, dovrebbe essere colmo di grande ingenuità.  (29)


Non c’è quindi alcun parametro per valutare una cultura migliore o “più avanzata” di un’altra. Il concetto di progresso è un’invenzione di qualche modello, non un fatto evidente.

Comunque, anche nella cultura occidentale, ci sono alcuni segni che indicano l’inizio di un lento tramonto del concetto di progresso.


Riassunto

Riassumiamo le origini del concetto di sviluppo e quindi della crisi ecologica:


- L’idea biblica di separazione fra la nostra specie, protagonista, e il mondo, palcoscenico fatto per noi. Con la concezione di un “Dio distinto dal mondo” è stato facile togliere di mezzo la Divinità (materialismo-marxismo) e sostituire il “diritto divino” con il “merito selettivo”. Così non è cambiato nulla: la stessa mano distrugge la foresta amazzonica e la taiga siberiana.


- Solo la nostra specie “ha l’anima”. Il concetto è stato aggravato dalla filosofia cartesiana, secondo la quale c’è una distinzione netta e insanabile fra lo spirito e la materia, che non si incontrano e non interferiscono: l’uomo sarebbe anche “spirito” (oltre che corpo), mentre gli altri esseri viventi sarebbero solo “materia”, cioè macchine. Il pensatore francese ne era così convinto, che pare abbia gettato un gatto dalla finestra per dimostrare la sua certezza che “non poteva soffrire”.

Così l’umanità, la sola ad essere anche spirito, poteva fare ciò che voleva della natura, che sarebbe stata materia: questa idea ha aggravato il preesistente “diritto divino”. Con il materialismo, ultimo figlio dell’Occidente, cambia ben poco: materia contro materia, vince il più forte, che a suo piacimento può conservare pezzi di “natura originaria” per allietarsi la vita: questa è l’ecologia di superficie.
































Note al Capitolo 5


(20) Vilma Baricalla – Gli animali hanno un’anima? da Lo specchio oscuro – Ed. Satyagraha, 1993

(21) La citazione di Locke è tratta dal libro: Jeremy Rifkin - Entropia – Ed. Mondadori, 1980.

(22) Jeremy Rifkin - Entropia – Ed. Mondadori, 1980.

(23) William Leibniz - Scritti filosofici - Ed. D. Bianca, Torino, 1968

(24) Vilma Baricalla - Gli animali hanno un’anima? da Lo specchio oscuro - Ed. Satyagraha, 1993.

(25) La citazione di Diderot è tratta dal libro: Prigogine-Stengers-La Nuova Alleanza-Einaudi,1981

(26) Montaigne - Apologia e Saggi – ed. varie.

(27) Questo pensiero di Laplace è riportato in molti testi di filosofia, di matematica e di divulgazione. In particolare si trova nel libro di G. e S. Arcidiacono – Entropia, Sintropia, Informazione, Ed. De Renzo, e nell’articolo Il caos di autori vari, pubblicato sulla Rivista Le Scienze del febbraio 1987. E’ citato anche nel libro di R. Sheldrake - La rinascita della Natura - Ed. Corbaccio, 1994.

(28) Guido Ceronetti - Peggio che sterminati: infelici, articolo pubblicato sul quotidiano La Stampa del 9 marzo 1993

(29) Giovanni Reale – Ecco il Platone non scritto, Supplemento domenicale de Il Sole-24 ore del 12 febbraio 1995.




6 - OCCIDENTE - ORIENTE - ANIMISMO



Noi crediamo che Dio sia in tutte le cose: nei fiumi, nell’erba, nella corteccia degli alberi, nelle nuvole e nelle montagne.

(espressione di una cultura africana)



In Ani Yonwiyah, la lingua del mio popolo, c’è una parola per indicare il suolo: Eloheh. Questa stessa parola significa anche storia, cultura e religione. La ragione di ciò sta nel fatto che noi indiani Cherokee non possiamo separare il nostro posto sulla terra dalla nostra vita e neppure dalla nostra visione e dal nostro significato come popolo. Impariamo sin da bambini che animali, alberi e piante, con cui dividiamo il posto sulla terra, sono nostri fratelli e sorelle. 

Quando dunque parliamo di suolo, non parliamo di una proprietà terriera, di un luogo e neppure del pezzo di terra su cui sorgono le nostre case e dove crescono i nostri raccolti. Parliamo invece di un qualcosa di veramente sacro.

J. Durham, indiano Cherokee



Potete visitare tutta la Terra, ma non troverete in alcun luogo la vera religione; essa non esiste che nel vostro cuore.

Ramakrishna



Non facendo nulla, non c’è nulla che non venga fatto.

Lao-Tze



E’ la storia di tutta la vita che è santa e buona da raccontare e di noi che la condividiamo con i quadrupedi e gli alati dell’aria e tutte le cose verdi: perché sono tutti figli di una stessa madre e il loro padre è un unico Spirito. Forse che il cielo non è un padre e la Terra una madre e non sono tutti gli esseri viventi con piedi, con ali e con radici i loro figli?

Alce Nero









Premesse

Molti modi di pensare, o idee-guida, diffusi nel pensiero corrente, sono recepiti come premesse evidenti e naturali o come tendenze proprie della natura umana: sono invece assai spesso soltanto cornici concettuali della cultura occidentale, cioè pregiudizi.


Il senso comune (o buon senso) designa il complesso dei pregiudizi della cultura in cui siamo stati allevati. Qui la parola “pregiudizi” non ha significato negativo ma è quel complesso di idee in cui inquadriamo ogni evento: si tratta però di un sottofondo variabile e relativo, non di una verità evidente.


  Al solo scopo di una maggiore chiarezza, suddividerò le culture umane in tre gruppi:


- le culture di tipo occidentale, quelle che hanno come mito delle origini la Genesi dell’Antico Testamento, cioè in pratica le culture ebraico-cristiana e islamica, fiorite originariamente in Europa e nel Medio Oriente. Esse hanno in comune:

* l’idea dell’espansione: infatti vogliono convertire tutto il mondo al proprio sottofondo culturale;

* un atteggiamento di sopraffazione sul resto della Natura, considerata al servizio della nostra specie;

* una percezione lineare del tempo;

* la convinzione che esista un’unica verità.


- le culture di tipo orientale, fiorite soprattutto in Asia, con tre filoni principali: il Buddhismo, l’Induismo e il Taoismo. Esse sono caratterizzate da:

* l’idea dell’Essere come immanenza cosmica, tranne che nel Buddhismo dove si arriva al superamento di ogni dicotomia, comprese quelle di immanenza-trascendenza e di Essere-Nulla;

* l’importanza fondamentale attribuita all’idea di equilibrio sia interiore sia cosmico-naturale;

* la ricerca della serenità mentale come scopo essenziale;

* una percezione ciclica del tempo.


- le culture di tipo animista, fiorite in tutto il mondo per decine di millenni. Erano caratterizzate in genere da una integrazione completa nell’ambiente naturale e climatico in cui vivevano e di cui si sentivano parte inscindibile: elaboravano complesse metafisiche legate al mondo naturale. Le abbiamo chiamate anche civiltà tradizionali. Per le cultura animiste il mondo è un flusso di forze psichiche: il ciclo vitale umano deve integrarsi nella più grande vita-morte dell’Universo.


Atteggiamenti verso l’ecologia profonda

Perché i fondamenti dell’ecologia profonda possano farsi strada nell’animo umano, occorre sottoporre a critica le concezioni derivate dal racconto biblico della Genesi e che sono divenute “evidenti” per la cultura occidentale, cioè capovolgere l’atteggiamento di aggressione verso la Natura e di indifferenza per la bellezza del mondo.

E’ evidente che ci sono molti occidentali con visioni del mondo diverse, almeno a livello intellettuale e cosciente, ma i modi del pensiero e l’atteggiamento inconscio possono differire non poco da quanto consegue dai ragionamenti.

Comunque qui non intendo parlare del pensiero individuale.

Per dare poi un piccolo sguardo al secondo gruppo di culture, riportiamo questo brano tratto da un testo ispiratore della cultura indù:


     I fiumi, o caro, scorrono gli orientali verso oriente, gli occidentali verso occidente. Venuti dall’Oceano celeste, essi nell’Oceano tornano e diventano una cosa sola con l’Oceano. Come là giunti non si rammentano di essere questo o quest’altro fiume, proprio così, o caro, i viventi, che sono usciti dall’Essere, non sanno di provenire dall’Essere. Qualunque cosa siano qui sulla Terra - uomo, tigre, leone, lupo, cinghiale, verme, farfalla - essi continuano la loro esistenza come Tat (30). Qualunque sia questa essenza sottile, tutto l’Universo è costituito di essa, essa è la vera realtà, essa è l’Atman. Essa sei tu, o Svetaketu.  (31).


E’ chiara la profonda differenza di concezione rispetto alla Genesi.

In queste concezioni metafisiche manca il rapporto dualistico, né si trova quella contrapposizione uomo-natura propria dell’Occidente. Anziché tre piani ben distinti come Dio-uomo-natura (nel materialismo restano gli ultimi due, ma sempre contrapposti), troviamo il Dio-Natura onnipresente e indistinguibile dall’universale.

       Assai semplice poi è la prima indicazione dell’etica buddhista: “Non danneggiare alcun essere senziente”. Con il termine “senziente” si può anche indicare una specie, un ecosistema, o entità di quel tipo, in quanto dotate di una forma di mente.

Solo alcune filosofie orientali raccomandano di diventare quasi-vegetariani; ma in generale chiedono di rispettare la Vita in tutte le sue componenti. Invece le morali delle tradizioni giudaico-cristiana e mussulmana, in accordo con le posizioni espresse nella Genesi, si occupano esclusivamente di valori e rapporti interni alla nostra specie, come se tutto il resto fosse solo un palcoscenico, o “l’ambiente”.

Per quanto riguarda poi le varie forme di animismo che sono state presenti nell’umanità un po’ dovunque, è abbastanza evidente che in queste visioni del mondo non siamo gli unici esseri dotati di “spirito”: una dicotomia di questo genere sarebbe probabilmente impensabile per chi ha vissuto a contatto con gli oranghi o i gorilla. Ma dovrebbe essere inconcepibile anche per chi conosce la natura dei fenomeni vitali e il quadro unitario fornito dall’evoluzione biologica.

Comunque, anche presso di noi, possiamo notare che l’animismo è spontaneo nei bambini: sono i condizionamenti culturali che lo cancellano. 

Facciamo ancora qualche esempio:

I Lapponi considerano l’orso re degli animali, forse perché riesce a stare ritto sulle zampe posteriori prendendo atteggiamenti quasi umani, ma anche perché nell’antichissima tradizione del popolo, all’orso si guarda come ad una specie di antenato lontanissimo. Si dice dell’orso in Lapponia quello che in certe zone dell’Africa si dice del gorilla, cioè che sono uomini; lo stesso accade nelle isole della Sonda per gli oranghi e in Guinea per gli scimpanzè bonobo.




La “domanda delle domande”

Un sottofondo culturale non appare tanto nelle risposte che vengono date alle domande considerate fondamentali, ma soprattutto da come vengono formulate le domande stesse. Le risposte sono sempre relative e mutevoli: sono soprattutto le domande a rendere interessanti le questioni.

Quella considerata basilare, detta anche “la domanda delle domande” è “Dio esiste?”. Ma questa formulazione richiama una figura di Dio come Essere personale e distinto dal mondo (cioè il Dio dell’Antico Testamento) e presuppone che sia chiaro il concetto di esistenza.

        Vedremo in un prossimo capitolo che l’idea di esistenza è tutt’altro che evidente. Nel modo di formulare le domande sono impliciti tutti i pregiudizi di una cultura.

La “domanda delle domande” presuppone già una risposta binaria (SI-NO), cioè sottintende le concezioni dell’Occidente, in cui si dividono le persone in due categorie (credenti-atei). Tale spaccatura ha ben scarso significato in altri modelli culturali. Inoltre, come si è visto, la divisione è meno profonda di quanto si creda, almeno per quanto riguarda il comportamento verso il resto della Natura.

Nella domanda è già dato per scontato un dualismo di fondo dell’Occidente (Dio-il mondo). La nostra cultura attuale ha comunque altri tipi di divinità, qualifica che si può attribuire ad alcuni concetti astratti cui viene sacrificato molto, come libertà, democrazia, efficienza, produttività, senza parlare del denaro, al quale viene attribuito un potere magico. Si tratta sempre di concetti astratti, scarsamente esprimibili in lingue non-occidentali.

Se cambiamo le premesse filosofiche e ci portiamo in culture di tipo orientale, la superdomanda si può dividere in due:


- Può l’Universale essere suddiviso in parti autonome e indipendenti?

- L’Universale ha, o è, uno psichismo (cioè una struttura psicofisica globale)?


Se l’Universale non può in alcun modo essere suddiviso, allora è appunto unico e a questa Totalità diamo il nome di Dio, che può significare anche Equilibrio Cosmico (Tao). E’ chiaro che noi stessi non possiamo esserne separati e che - sul piano metafisico - il concetto di “individuo” è superato.

Ad esempio, la proposizione occidentale “non cade foglia che Dio non voglia” diviene l’affermazione che ad ogni processo, o fenomeno, partecipano tutte le forze dell’universo, fatto confermato - come vedremo - anche da alcune correnti della scienza moderna.

Nel Buddhismo poi il rapporto col metafisico assume aspetti ancora più generali dato che l’Essere-Nulla o Vacuità (in sanscrito sunyata) supera anche l’idea di immanenza, cercando di fondere l’immanente-trascendente in una specie di vuoto-pieno pulsante e permanentemente creativo.

Nel Buddhismo è comunque essenziale l’idea di karuna o compassione universale verso tutti gli esseri (non solo umani), il cui scopo è superare ogni tribolazione nel divenire (samsara) per raggiungere la serenità totale al di fuori di ogni dualismo (nirvana).

Per quanto riguarda le culture animiste, in esse non viene separato il fisico dal metafisico: si trova spesso l’idea del Grande Spirito immanente nel mondo (o Grande Mistero): l’idea di ambiente “esterno” è pressochè incomprensibile. Quello poi di ambiente “ostile” è un concetto tipico delle culture ispirate all’Occidente. I Boscimani e gli Eschimesi, secondo le concezioni europee, vivono in ambienti ostili, ma questo non ha senso per loro, che non si distinguono dal mondo che li circonda: i Boscimani sono il Kalahari, gli Eschimesi sono l’Artide.

Sempre come esempio, fra gli Algonchini il segno che veniva usato per denotare il Grande Spirito era anche il segno per la parola “mondo”: in tal modo Dio e il mondo venivano identificati.

Gli Algonchini certo non avevano un Dio tanto remoto dal mondo delle cose materiali quanto lo era Allah o il Signore dell’Antico Testamento, ma il Grande Spirito poteva essere senz’altro identificato con il mondo. Per gli Algonchini il mondo era un segno del Grande Spirito, così come lo era il circolo suddiviso in quattro parti. Non era al mondo che rivolgevano le loro preghiere, ma al Grande Spirito.

In una lingua amazzonica il termine che significa il massimo livello di Mente significa anche “tutto” nel linguaggio corrente.


Intermediari col metafisico

Le culture occidentale e islamica hanno in genere delle istituzioni che si proclamano intermediarie con il divino; anche in alcune culture orientali si sono formate istituzioni di questo tipo. 

Poiché le concezioni metafisiche di ogni modello culturale sono diverse e non c’è alcuna valenza “oggettiva” o “assoluta”, non si capisce la necessità dell’intermediazione. L’unica che potrebbe avere un senso sembra quella di persone predisposte che si pongono in uno stato di coscienza ampliata, o comunque diverso dallo stato di veglia ordinario, cioè in una condizione di contatto mistico con la Natura. Si tratta in sostanza dello sciamanesimo, diffuso in moltissime culture animiste, dove gli altri animali e la Natura stessa sono una parte importante delle visioni mistiche. Si tratta spesso di un’intermediazione semi-inconsapevole, di uno stato di coscienza ampliato oltre i confini dell’ego, ben lontano dall’essere un’istituzione e soprattutto senza alcuna gerarchia. Lo sciamano o la sciamana (attuale Corea) si portano in un altro livello di percezione. Nella società tradizionale, espressione di un modo complesso e unitario di intendere la vita, l’attività dello sciamano comprendeva quella di tanti specialisti dell’Occidente: sacerdoti, medici, poeti, studiosi, ecc. La vitalità cosmica si manifestava in lui o lei con eccezionali poteri paranormali.

Come esempio di atteggiamento di culture diverse, citiamo anche il seguente episodio:


Durante un incontro interreligioso, mentre i rappresentanti delle tre religioni teiste (cristianesimo, ebraismo, islam) avevano recitato preghiere al Dio Personale, un monaco buddhista aveva preparato una “preghiera al Nulla”. 

Se si considera l’Essere, non si può evitare di considerare il Nulla come polo complementare e necessario. La Totalità contempla anche il superamento del dualismo Essere-Nulla: la preghiera al Nulla ha significato come le altre e si imprime anch’essa nell’inconscio collettivo.

Non si capisce come sia possibile disegnare una figura senza lo sfondo: le due modalità sono intercambiabili. (32).


La lotta

In Occidente tutto è visto come “lotta contro qualcosa”, e questo prova ancora una volta che non viene dato alcun valore alla serenità mentale. Anche le istituzioni con le finalità più nobili amano presentare la propria azione come lotta contro forze negative. La medicina occidentale si presenta come lotta contro le malattie, naturalmente oggettivate e personificate come un “nemico”. Non è così in tante altre culture, soprattutto in Oriente.

La competizione, propagandata dall’Occidente come una specie di molla del progresso ed evidenziata in tutti i campi, ma soprattutto in quello economico-industriale, non è presente naturalmente nell’animo umano ma è un modo di vivere di qualche modello culturale.

Così pure la nostra civiltà considera come “vinta” negli ultimi secoli la lotta dell’uomo contro le forze della natura.

Le culture animiste non si consideravano mai in lotta contro la Natura, ma in una rete interconnessa di “spiriti”, cioè in una spiritualità diffusa che a volte si concentra in entità apparentemente singole, ma in realtà legate nell’Entità Totale, chiamata appunto il Grande Spirito o il Grande Mistero.


La verità

Per le culture di tipo occidentale la ricerca della verità è considerata un nobile scopo: una volta trovata, la verità deve essere spiegata e imposta a tutti gli altri. Così in genere è andata avanti anche la scienza, almeno fino alla metà del ventesimo secolo. Tutto ciò presuppone innanzitutto l’esistenza di una verità, di qualcosa di reale e oggettivo; altrimenti la verità diventa un concetto pericoloso, fonte di fanatismo.

Come vedremo, recentemente sono sorte nella scienza stessa correnti di pensiero - sia pure di minoranza - che mettono in dubbio questo paradigma della “verità” e non ritengono più di scoprire qualcosa di reale ed esterno che, una volta provato, verrebbe acquisito “definitivamente” alla conoscenza umana.

Molte culture ritengono la verità qualcosa di relativo, una creazione della mente: pertanto non nascono lotte per affermarla.

Un aneddoto racconta di un colloquio fra uno studioso occidentale, di cultura giudaico-cristiana, e uno studioso orientale, di cultura buddhista, sugli eventi che si potevano attendere dopo la morte.

Il primo sosteneva che avrebbe visto San Pietro, o il diavolo, che gli avrebbero assegnato la destinazione. Il secondo avrebbe incontrato Cenresig, o il Buddha Amithaba, o qualche divinità “terrificante”. Il primo considerava ovvio che entrambi avrebbero fatto lo stesso tipo di incontro, quello “vero”, ma dopo qualche spiegazione riuscì a comprendere che per l’orientale ciascuno avrebbe incontrato le “sue” divinità. 

Per l’orientale l’attenzione non era centrata su quale delle due versioni fosse quella vera, ma sul fatto che entrambe erano creazioni della mente e prive di realtà, quindi relative al soggetto sperimentante. Il suo consiglio era soltanto di tenere presente che si trattava di creazioni della mente - qualunque immagine fossero - e di fissare l’attenzione sulla “luce incolore al centro”, che significa l’assenza delle impurità mentali. Cioè l’essenziale non era di fissarsi sulla “verità” ma di liberarsi dai condizionamenti.

La differenza era dunque la concezione di realtà o di verità e non di sapere quali “divinità” si sarebbero incontrate, cioè chi fosse “nel giusto”.

Per l’occidentale invece il problema era scoprire quale fosse la verità, e se fossero “esistenti oggettivamente” la figura di San Pietro o la figura del Buddha che si presentavano ai due soggetti. La differenza era di concezione filosofica e non di credenza religiosa.


La caccia

      Esaminiamo ora l’atteggiamento dei tre gruppi di culture nei riguardi della caccia:


- Nelle civiltà di tipo occidentale esiste il fenomeno “uccidere per divertimento”: spesso l’uccisione è addirittura considerata un “merito” da parte del cacciatore. Il fenomeno, gravemente presente, interessa comunque una minoranza, anche se piuttosto invadente; l’unico modo per limitarlo consiste per ora in rigorosi divieti. Nell’Occidente c’è chi spende soldi per poter uccidere, il che è addirittura il contrario del “procurarsi il cibo” indispensabile all’idea di caccia in tanti altri modelli.


- In molte culture animiste la cattura della preda era vista come il dono di un dio, che si può interpretare come “il genio della specie”: la cattura era lecita soltanto se era seguita dall’utilizzazione completa di tutte le parti del dono, a scopo prevalentemente alimentare e comunque di sopravvivenza. Spesso l’animale più cacciato era considerato anche un totem, aveva una sua sacralità. L’eventuale uccisione fatta “per divertimento” o “senza scopo” era un’offesa al dio: quindi veniva vissuta come un delitto e poneva il cacciatore nella posizione di chi attende la punizione del dio, che potremmo anche chiamare “conseguenza del complesso di colpa”: di solito poi questa punizione arrivava puntualmente, attraverso le misteriose vie dell’inconscio e gli indissolubili legami fra mente e corpo.

Le culture animiste provocavano ben raramente l’estinzione di specie o la distruzione di ecosistemi: per molte migliaia di anni i nativi d’America sono vissuti in simbiosi con milioni di bisonti e con tutte le altre specie in armonico e dinamico equilibrio; sono bastati due o tre secoli di civiltà europea per distruggere tutto.


- In genere le culture dell’Oriente consideravano gli altri esseri o in un ciclo di morti e rinascite (samsara) o comunque degni della massima benevolenza: tutti i viventi facevano parte di un equilibrio cosmico. Ciò dava luogo a morali del tipo “Non danneggiare alcun essere senziente”. Anche qui l’eventualità di divertirsi ad uccidere era vissuta come un grave delitto.

Nelle concezioni orientali le altre specie viventi sono composte di esseri che vivono in modi diversi la nostra stessa avventura, con pieno diritto a una vita libera e autonoma. Invece, nel nostro mondo, i cosiddetti “movimenti per la vita” ritengono ovvio occuparsi solo della vita umana, senza neanche il bisogno di precisarlo. Dell’equilibrio e dello stato di salute della Vita, cioè del Complesso dei Viventi, non si preoccupano affatto. 

In sostanza, perché finisca veramente il fenomeno “caccia”, pur essendo assai utili anche i divieti, è indispensabile una nuova base etica e culturale.

Occorre comunque fare attenzione ai permessi di “caccia tradizionale” accordati da alcuni governi, e quindi dall’Occidente, alle culture tribali con il pretesto di mantenerle in vita, perché spesso questa caccia si traduce in un massacro con armi da fuoco per vendere pellicce a grosse compagnie commerciali e avere così il denaro per comprarsi il televisore. Gli eschimesi o i siberiani a caccia con l’elicottero non hanno niente di tradizionale: quando imbracciano un fucile sono già l’Occidente. Le civiltà tradizionali non esistono più dal momento in cui arriva un’arma da fuoco e vengono persi i valori della cultura originaria.

L’Occidente è contagioso e seduce facilmente con i suoi nuovi miti. Con questa caccia si ottiene solo un’ulteriore degradazione della Natura ed un massacro “occidentale” anche se compiuto da ex-appartenenti ad altre culture umane.

C’è una grande confusione fra razza e cultura: un eschimese che uccide la foca con un fucile o comunque con lo scopo di vendere la pelle a una compagnia commerciale non è un eschimese, ma è l’Occidente.

La caccia integrata nelle culture animiste è una cosa del tutto diversa dalla caccia commerciale o industriale, anche se effettuata da persone o collettività di etnìe non europee. La sostanza è data dall’intenzione, lo scopo e il modo, non dall’origine etnica del cacciatore.


L’individuo

L’Occidente diffonde l’idea che tutto sia composto da unità che interagiscono fra loro, ognuna con uno spiccato carattere individuale ed egoico. Le tradizioni religiose talvolta provano ad attenuare il senso dell’ego, considerando però il non-ego come “il prossimo”, “gli altri”, il sociale, limitando così l’attenzione ai componenti della nostra specie, individuali o collettivi.

Invece nelle tradizioni orientali e animiste il non-ego è una totalità che comprende tutti gli esseri viventi, le montagne, i fiumi, gli alberi. L’altro-da-sé è degno di rispetto, ammirazione e venerazione.

Anche una certa idea dell’immortalità risente di questa concezione. In Occidente si cerca una forma di “immortalità” esaltando l’ego, con grandi opere individuali, “passando alla storia” e simili. Le strade portano nomi di persone, perfino le montagne ricordano individui.

Invece i nomi di fiumi e montagne dell’Oriente e delle civiltà tradizionali ricordano la natura del luogo o qualche “divinità” che vi dimora, cioè richiamano una sacralità naturale. L’immortalità viene cercata identificandosi con la Natura e annullando l’ego mortale, aumentando la percezione e la sintonia con il ritmo vitale del cosmo, superando il dualismo vita-morte, visto come un ripetersi di cicli che si alimentano uno dall’altro.

L’Occidente vuole far persistere anche l’ego delle opere, cercando di renderle permanenti, insieme ai loro autori, esaltati come individui. E’ sintomatico invece quanto avviene in una festa buddhista, dove uno splendido mandala (33), realizzato con finissime sabbie di molteplici colori e frutto del lavoro di un mese di monaci attentissimi, viene subito disperso nel vento come simbolo dell’impermanenza universale: la sua esistenza ha lo stesso valore della sua non-esistenza.

Ma oggi anche la scienza ci dice che tutto è destinato comunque a dissolversi e a ricrearsi in un fluire incessante. Non c’è alcuna entità stabile nell’Universo. 

Quindi, anziché cercare di lasciare una traccia nella storia, cosa destinata comunque al fallimento, sarebbe meglio “non lasciare mai orme così profonde che il vento non le possa cancellare”.


Il progresso

Il concetto di progresso è un modo di interpretare il fluire degli eventi, è il paradigma dell’Occidente moderno, non è affatto una constatazione “oggettiva” di come si svolgono i fatti. Discende solo dal considerare come ovvia e propria di tutta l’umanità la scala di valori della civiltà industriale.

Vediamolo nei tre gruppi di culture:


- Nella cultura occidentale è visto come incremento indefinito di beni materiali e diminuzione del lavoro fisico. Ciò è reso possibile dall’idea che dobbiamo “manipolare il mondo” data l’assoluta supremazia della nostra specie; per questo l’Occidente è dominato dal dèmone del fare, cui sacrifica il vivere e l’essere.

      Ogni generazione si pone come scopo di lasciare un mondo “migliore” di come l’ha ricevuto. Naturalmente non ci riesce affatto.


- Nelle culture orientali il progresso consiste nell’aumento della percezione e della serenità mentale, è interpretato come un avanzamento sulla via del non-ego e della serenità (nirvana).


- Nelle culture animiste non c’è alcun bisogno dell’idea di progresso: manipolare la Natura significa alterare il sacro e sé stessi e perdere l’armonia del mondo.

Nelle civiltà tradizionali ogni generazione si pone come scopo di lasciare il mondo il più possibile uguale a come l’ha ricevuto, perché l’Anima del mondo non si deve e non si può modificare.


Queste culture non sono affatto prese dai problemi della sopravvivenza materiale, cui non dedicano più di poche ore al giorno. Tutto il resto del tempo è dedicato all’aspetto magico-spirituale della vita, a dare un senso all’esistenza. La civiltà moderna non ci ha regalato il “tempo libero”.

I popoli tribali dipendono dalle loro terre come nessun altro. Da esse infatti traggono i cibi, i medicinali, i materiali da costruzione e i contenuti spirituali e culturali. Invadere la fragile foresta amazzonica significa impedire agli indios di vivere della caccia e della raccolta tradizionali e costringerli, nella migliore delle ipotesi, a lavorare per gli invasori come manovali.

Aprire una miniera in una delle terre sacre dell’Australia equivale a conficcare un coltello nel cuore del patrimonio culturale di una popolazione aborigena e recidere le radici, vecchie di quarantamila anni, che alimentano la sua anima.

Paragoniamo la vita degli indios dell’Amazzonia con quella dei poveri che vivono nelle città, ai margini della cosiddetta civiltà: gli indios vivono serenamente in abitazioni confortevoli, in comunità dove la solitudine è sconosciuta, e hanno un’alimentazione variata e sana. Provvedono a tutti loro bisogni lavorando solo tre o quattro ore al giorno riuscendo, quindi, a dedicare molto tempo ai bambini, alla filosofia, alla religione e ai riti.

Per contro, i poveri del Terzo Mondo, che dovrebbero beneficiare della “civiltà”, diventano ogni giorno più poveri a dispetto delle ingenti somme spese in aiuti. La morte e la malattia, l’abuso di droga e alcool sono per loro fatti consueti. E questo perché lo sviluppo, la costruzione di dighe, l’industria mineraria, ecc. non apportano benefici alle popolazioni tribali, le cui terre vengono invece distrutte, con tutta la Natura in esse vivente.

Infine, ecco come alcune culture amerindiane poeticamente scandivano il ritmo quasi-mensile:

- la luna quando le anatre tornano e si nascondono (febbraio);

- la luna quando appare l’erba (aprile);

- la luna quando fioriscono i gigli rossi (giugno);

- la luna quando i cervi perdono le corna (agosto);

- la luna degli alberi colorati (ottobre);

e così via  (34).







Note al Capitolo 6


(30) Termine sanscrito che significa letteralmente “Quello”. E’ usato per indicare la sostanza primordiale, immanente in tutte le cose, che può manifestarsi come psiche, materia, energia.


(31) Chandogya Upanishad, 10° khanda, da Upanishad, Ed. UTET, 1976.


(32) Notizie tratte da alcuni quotidiani e dal periodico Paramita – Quaderni di Buddhismo.


(33) Rappresentazione simbolica universale in un finissimo e complicato disegno colorato, denso di particolari carichi di significato.


(34) Queste espressioni sono tratte dal volume: Dee Brown - Seppellite il mio cuore a Wounded Knee - Ed. Mondadori, 1972.




7TENDENZE DEL PENSIERO ATTUALE

1- Biologia – Psicoanalisi – Antropologia


   L’idea che l’uomo sia sin dall’inizio dei tempi la meta prestabilita di ogni evoluzione naturale mi sembra il paradigma della cieca superbia che precede la caduta. Se dovessi credere che un Dio onnipotente ha creato intenzionalmente l’uomo attuale così come è rappresentato  dall’esponente medio della nostra specie, allora sì che dubiterei dell’esistenza di Dio.

Konrad Lorenz


   La nostra scienza ha bisogno di una biologia dell’immateriale.

Jean Servier


   Le forze psichiche non hanno certamente niente a che fare con la coscienza; per quanto ci piaccia trastullarci con il pensiero che coscienza e psiche siano identiche, la nostra non è altro che una presunzione dell’intelletto. La nostra manìa di spiegare tutto razionalmente trova una base sufficiente nel timore metafisico, perché illuminismo e metafisica sono sempre stati due fratelli ostili. Le “forze psichiche” hanno piuttosto a che fare con l’anima inconscia; per questo tutto ciò che si fa improvvisamente incontro all’uomo uscendo da quell’oscura regione è considerato o come proveniente dall’esterno e perciò reale, o come un’allucinazione e perciò non reale. Ma la possibilità che esistano cose vere che non provengano dall’esterno è finora a malapena balenata alla mente dell’uomo del nostro tempo.

Carl Gustav Jung


   Nessuna verità sembra a me più evidente di quella che gli animali sono dotati di pensiero e di ragione al pari degli uomini. Gli argomenti sono a questo proposito così chiari, che non sfuggono neppure agli stupidi e agli ignoranti.

David Hume



Premesse

Nei prossimi due capitoli passerò in rassegna alcune tendenze che si sono manifestate in vari campi della scienza nel secolo ventesimo. Si tratta di idee di minoranza, ma che sono decisamente diverse dalla corrente principale di pensiero affermatasi in Occidente soprattutto nell’Ottocento e che costituisce la matrice della civiltà industriale.

Questo capitolo è dedicato alle premesse generali e ai campi della biologia, della psicoanalisi e dell’antropologia, mentre il capitolo successivo è dedicato essenzialmente alla fisica.


Partirò da alcuni secoli orsono, cioè da Copernico. Sarà bene premettere che, quando si parla dei vari Autori, non ci si riferisce alla loro personale visione del mondo, ma ad interpretazioni nate alla luce di passaggi ed ampliamenti successivi, cioè ad estensioni sorte in seguito, anche per fusione col pensiero di altri. Infatti assai spesso le novità del pensiero sembrano poi diffondersi quasi in contrasto con le intenzioni coscienti di alcuni fra i maggiori loro iniziatori.

Come segno di speranza, si può notare che, proprio nel periodo in cui le concezioni meccaniciste nate dall’Antico Testamento e dalla filosofia di Cartesio si stanno diffondendo come “moderne” sull’onda della potenza materiale dell’Occidente, esse vengono sottoposte a critiche sempre più numerose e serrate da parte degli stessi studiosi occidentali, fino al punto di poter dire che, alla luce delle conoscenze attuali, sono pressochè insostenibili.

Ma per una modifica profonda della filosofia di base di larghi strati di persone c’è bisogno di qualche secolo, dopo i primi segni di cambiamento. Purtroppo oggi non abbiamo a disposizione neppure qualche decennio per evitare che l’espansione demografica ed economico-industriale trascini il mondo verso la catastrofe per la rottura di ogni equilibrio vitale: le specie e gli ecosistemi distrutti non sono riproducibili.

Secondo Fritjof Capra, la metafisica di un’epoca discende dalla fisica dell’epoca precedente: si tratta di accelerare al massimo il “punto di svolta”.

Con la rivoluzione copernicana il centro dell’Universo passa dalla Terra al Sole: si tratta del primo passo per mettere in discussione il rapporto uomo-natura, di un primo spostamento dalla posizione centrale, anche se ci vorranno secoli per percepirne l’effettiva portata. Tuttavia l’esclusiva spirituale della nostra specie non viene ancora minimamente intaccata.


Biologia

Nell’Ottocento si era ormai affermato il pensiero cartesiano, cui abbiamo già accennato. La corrente principale della biologia considerava gli animali e lo stesso corpo umano come macchine, automi da sezionare in parti sempre più piccole, specie di orologi da smontare pezzo a pezzo per comprenderne il funzionamento. I fenomeni spirituali ed emotivi erano considerati appannaggio del solo essere umano e completamente separati dal corpo.

Sono noti i danni - ancora oggi ben visibili - apportati dalla visione cartesiana alla medicina, che considera il corpo come un automa smontabile dotato di un funzionamento suo proprio.

Solo recentemente sono nati diversi dubbi che hanno dato luogo a correnti di minoranza che tentano una visione unitaria della salute. Tale approccio è stato all’inizio indicato riduttivamente con il nome di “medicina psicosomatica” e ora tende a prendere la denominazione di “medicina olistica”.

Vediamo, ad esempio, il parere di Servier che confronta la medicina occidentale con le medicine tradizionali di altre culture umane:


Nelle civiltà tradizionali il corpo umano è concepito come un fascio di princìpi: il disordine dell’uno porta squilibrio nell’altro. La malattia è un disordine del corpo legato al male dell’anima. Dopo molto tempo siamo arrivati anche noi ad ammettere questo principio, e lo abbiamo coperto con il nome di medicina psicosomatica, che è più rassicurante per la ragione. Soltanto l’Occidente ritiene che il corpo abbia una vita propria e che le sue malattie non dipendano anche dai principi immateriali della persona umana. Nelle altre civiltà che ci circondano, al contrario, l’uomo ha pensato che ogni malattia del corpo proviene da un disordine dell’anima, che va guarito prima di curare il corpo.

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L’uomo delle civiltà tradizionali colpito dalla malattia cercherà di scoprire in che cosa ha offeso l’Invisibile. Se la causa del suo male non è metafisica - psicosomatica, se si vuole - cercherà di procurarsi i migliori rimedi materiali, compresi quelli dell’uomo bianco. L’occidentale utilizza prima tutti i rimedi materiali che conosce, per finire poi tra le mani dei guaritori, ripetendo ancora: “Non si sa mai”. Ma non cerca mai in sè stesso la causa del proprio male. (35)


Ma torniamo alla biologia dell’Ottocento.

L’evoluzione biologica, espressa in forma completa soprattutto per opera di Carlo Darwin, intaccò decisamente l’idea che l’umanità fosse “speciale”, “frutto di creazione separata”, qualcosa di “staccato dalla Natura”.

Tuttavia, quando comparve il pensiero di Darwin, si perse un’ottima occasione per una vera svolta culturale: invece di mettere in evidenza il fatto essenziale, cioè l’appartenenza della nostra specie alla Natura e quindi la necessità di seguirne le grandi leggi cicliche, l’evoluzione fu inquadrata in pieno nel meccanicismo imperante: venne evidenziata soprattutto l’idea di “selezione naturale e sopravvivenza del più adatto” con ogni sorta di estensione arbitraria.

L’evoluzione poteva soppiantare ben più a fondo la concezione precedente: ma questo non è avvenuto, o forse non ancora. Al contrario, alcuni degli aspetti superficiali della teoria di Darwin sono stati assimilati immediatamente e sfruttati in modo da legittimare ancora di più la visione meccanicistica del mondo. Le sue implicazioni profonde non sono state mai veramente esplorate, almeno fino a tempi molto recenti.

Infatti, il clima di pensiero dominante nell’Ottocento ha prodotto un’idea dell’evoluzione biologica in cui si poneva soprattutto l’accento, come sopra detto, sulla selezione naturale basata sulla lotta per la vita e la sopravvivenza del più adatto. 

Tali idee, subito recepite ed esportate in altri campi (dove a volte hanno dato luogo a espressioni come la “sopravvivenza del migliore”) perché nate appunto in un determinato clima culturale-sociale, sono state addirittura prese come il principale fondamento dell’evoluzione biologica, fino al punto di sovrastare l’idea di “appartenenza della specie umana alla Natura” che doveva essere la percezione essenziale.

Il mondo economico-industriale di oggi si regge soprattutto su quelle concezioni nate nell’Ottocento.

Come esempio di qualche segno di passaggio ad un’altra visione anche in quel campo, citerò il biologo Laborit che scrive:


…Ogni cellula, coinvolgendosi nelle funzioni di un organo, si affida a quelle di altri organi dell’organismo per assicurarsi quelle funzioni cui non deve più assolvere. La sua esistenza diventa dipendente dall’insieme e l’esistenza dell’insieme diventa dipendente dal lavoro di ciascuna di esse. Ecco un’altra tappa dell’evoluzione che non sembra essere stata ricordata né da Darwin, né dai suoi “neo” epigoni, durante la quale non sono la competizione, né la sopravvivenza del più forte ad essere stati gli obiettivi principali, ma, al contrario, proprio l’accordo, il mutuo appoggio, la cooperazione. 

All’inizio del secolo P.A.Krapotkin aveva già avanzato l’idea che l’evoluzione fosse dovuta più al mutuo appoggio che alla lotta competitiva.(36).


In sostanza, l’evoluzione, anziché essere vista come il fatto essenziale e cioè che noi siamo Natura, è stata vista nel suo svolgersi nel tempo come “progresso” solo perché questo punto di vista era molto utile alla nascente società industriale. Competizione e selezione non erano i punti essenziali, erano solo l’espressione di una cultura umana.

Come esponente del ventesimo secolo del pensiero biologico meccanicista, possiamo citare Jacques Monod, fondatore della biologia molecolare, che negli anni Sessanta così concludeva il suo pensiero:


L’antica alleanza è rotta. L’uomo sa finalmente di essere solo nell’immensità indifferente dell’Universo, da cui è emerso per caso. Il suo dovere e il suo destino non sono scritti in nessun luogo.  (37)


Qui siamo al massimo dell’angoscia metafisica, appena attenuata da una forma di etica della conoscenza. Niente ha un senso.

Perché siamo qui noi, eventi così estremamente improbabili?

Per puro caso, anche se il “caso” non ha un significato del tutto chiaro. Secondo Monod, noi siamo qui perché “il nostro numero è uscito sulla ruota di Montecarlo”.

Per questo tipo di materialismo, la vita si riduce a cadere in un Universo non fatto per accoglierla, restare aggrappati a un granello di sabbia sino a che la morte non ci dissolva, pavoneggiarci per un tempo brevissimo su un piccolissimo teatro, ben sapendo che tutto quanto facciamo o pensiamo è condannato a uno scacco finale e che tutto perirà con la nostra specie o col nostro sistema solare, lasciando l’Universo come se non fossimo mai esistiti. E’ assolutamente vano cercare uno scopo o una continuità nella storia: quando il Sole, seguendo la sua evoluzione stellare, sarà diventato una stella gigante rossa estendendo il suo volume fino all’orbita di Marte, non resterà nulla di tutto quanto è avvenuto sulla Terra.

Ma già François Jacob, collega di Monod, parla di “logica del vivente”. (38)

Il vivente ha una sua logica, c’è una forma di immanenza.

Come vedremo nel prossimo capitolo, alla scuola di Bruxelles, il gruppo condotto da Ilya Prigogine, studiando le “strutture dissipative” o lontane dall’equilibrio, come sono anche i sistemi viventi, parla di una tendenza a strutturarsi, ad auto-organizzarsi. (39)  Anche qui compare una spinta interiore, un immanente “desiderio” di creare strutture.

Nel determinismo biologico non si tiene conto della creatività del caos, dell’indeterminazione creativa delle strutture dissipative, del fatto che c’è una sorta di libero arbitrio, o proto-intelligenza, nell’energia-materia. Anche il DNA è intrinsecamente indeterminato, così come tutte le influenze ambientali non sono mai identiche, perché basta una differenza infinitamente piccola per provocare divergenze macroscopiche dopo tempi finiti. L’instabilità è creativa e genera differenze.

Occorre poi rivedere il concetto di ambiente. Infatti, secondo Bateson:


Ora cominciamo a scorgere alcuni degli errori epistemologici della civiltà occidentale. In armonia col clima di pensiero che predominava verso la metà dell’Ottocento in Inghilterra, Darwin formulò una teoria della selezione naturale e dell’evoluzione in cui l’unità di sopravvivenza era o la famiglia o la specie o la sottospecie o qualcosa del genere. Ma oggi è pacifico che non è questa l’unità di sopravvivenza del mondo biologico reale: l’unità di sopravvivenza è il complesso “organismo più ambiente” (cioè non è una unità delimitabile). Stiamo imparando sulla nostra pelle che l’organismo che distrugge il suo ambiente distrugge sé stesso. (40)


Più avanti si legge che l’unità di sopravvivenza evolutiva risulta coincidente con l’unità mentale.

Ma se si sceglie l’unità sbagliata, si finisce col contrapporre una specie a un’altra che la circonda o all’ambiente in cui vive: uomo contro Natura.

Richiamando un insegnamento morale già citato (“Non danneggiare alcun essere senziente”), è chiaro che si può intendere come “essere senziente” una tale unità mentale. Anziché il termine mente, forse sarebbe meglio usare, con Jung, la parola psiche per ricordare chiaramente che non si tratta solo della parte cosciente, ma soprattutto di “inconscio più coscienza”, in cui il primo è preponderante. Non si intende insomma il concetto restrittivo proprio del pensiero corrente dell’Occidente moderno. Quindi, anche con le concezioni di Bateson, sono dotati di “mente” o “psichismo” un ecosistema, una specie, una collettività di viventi legati da relazioni di reciprocità o simbiosi multipla.

Per un confronto con le concezioni orientali, l’unità mentale coincide con l’entità soggetto del karma (41): non si tratta soltanto dell’individuo in senso fisico o meccanicista. I Complessi di Viventi costituiscono, con le loro interrelazioni, fenomeni e soggetti mentali.

Quindi l’invito a “Non danneggiare alcun essere senziente” può essere inteso come una prescrizione sommamente ecologica e non come un semplice invito a diventare vegetariani; a parte che naturalmente anche i vegetali e i complessi di vegetali e animali sono da intendersi come “senzienti”, anche se il grado di coscienza di tutte queste entità può essere notevolmente diverso.

Osserva Fritjof Capra:


Secondo Bateson la mente è una conseguenza necessaria e inevitabile di una certa complessità, la quale ha inizio molto tempo prima che degli organismi viventi sviluppino un cervello e un sistema nervoso superiore. Egli sottolineò anche che caratteristiche mentali sono manifeste non solo in singoli organismi, ma anche in sistemi sociali e in ecosistemi, che la mente è immanente non solo nel corpo ma anche nelle vie e nei messaggi fuori dal corpo. Una mente senza un sistema nervoso? La mente si manifesterebbe in tutti i sistemi che soddisfano certi criteri? La mente sarebbe immanente in vie e messaggi fuori dal corpo? Queste idee erano così nuove per me che, a tutta prima, non riuscii a dar loro un senso. La nozione di mente di Bateson non sembrava aver nulla a che fare con le cose da me associate alla parola “mente”.(42).



Gaia

Fra le forme diverse di pensiero emergenti in questi anni è degna di nota anche la concezione di James Lovelock, che con la sua teoria della Terra vivente, o Gaia, mette in evidenza che gli individui - o le specie - non si evolvono nell’ambiente (per contrasto o adattamento), ma che organismi ed ambiente formano un complesso unico in continua evoluzione: si noti l’analogia, su questo punto, con la visione di Bateson. In tale contesto la “lotta per la vita” perde molto del suo significato.

La Gaia di Lovelock è un’entità anche metafisica, è una “divinità”: la limitazione ai confini del Pianeta è dovuta solo al fatto che non si ipotizza un collegamento con il resto dell’Universo.

Ma con la concezione dell’astronomo inglese Fred Hoyle la vita viaggia largamente attraverso gli spazi interstellari. In tal modo si ritrova l’idea dell’Universale Divino, non solo centrato sulla vita in senso biologico. Naturalmente anche la terra, le rocce, i torrenti sono Gaia.

A questo punto è utile riportare qualche brano di Rupert Sheldrake, naturalista e filosofo:


Da qualche secolo una minoranza colta dell’Occidente ritiene che il nostro pianeta sia morto, sia una semplice sfera nebulosa di pietre inanimate che ruota attorno al Sole seguendo le leggi meccaniche. Questa è un’opinione molto azzardata, ove la si consideri in un contesto umano più ampio. Nel corso della storia quasi tutta l’umanità ha ritenuto che la Terra fosse viva.

………………………….

L’ipotesi di Gaia è indubbiamente un notevole passo avanti verso un nuovo animismo; proprio per questo motivo è così discussa. D’altro canto suscita molto interesse perché ci ricollega agli schemi di pensiero del pre-meccanicismo e del pre-umanesimo.

…………………………..

Se Gaia è in qualche modo animata, allora deve possedere qualcosa di simile a un’anima, un principio organizzatore con fini e obiettivi propri. Ma non dobbiamo supporre che la Terra sia cosciente solo perché sembra viva e provvista di intenzionalità. Potrebbe essere cosciente, ma se lo fosse la sua coscienza probabilmente sarebbe incredibilmente diversa dalla nostra, che è inevitabilmente influenzata dalla cultura e dal linguaggio degli uomini. D’altro canto potrebbe anche essere completamente inconscia. Oppure potrebbe, come noi, essere una creatura dalle abitudini inconsce provvista, a volte, di una certa dose di coscienza. Questo interrogativo deve restare aperto.

……………………………

Che cosa cambia se consideriamo la natura viva piuttosto che inanimata? Primo, mettiamo in crisi le ipotesi umanistiche su cui la civiltà moderna è basata. Secondo, instauriamo un rapporto diverso con il mondo naturale e acquistiamo una prospettiva diversa della natura umana, Terzo, diventa possibile una nuova sacralizzazione della natura.  (43).


Etologia

Faremo qualche cenno al moderno campo dell’etologia: anche qui è stata messa in evidenza la non-distinguibilità qualitativa fra la nostra specie e le altre specie animali. Ricordiamo soprattutto il pensiero di Konrad Lorenz, come appare in un breve articolo di Anacleto Verrecchia pubblicato sul quotidiano La Stampa dell’8 settembre 1986. Ne riportiamo qualche brano:


Einstein diceva che è più facile spezzare un atomo che un luogo comune. Chi mai riuscirà a spezzare il luogo comune che nega agli animali non solo l’intelligenza, ma anche la capacità di soffrire o di amare? Dinanzi al commovente episodio del gorilla che accarezza il bambino caduto nella sua gabbia non si sa fare altro che parlare di istinto, come se le scimmie fossero degli automatismi per la salvaguardia dei ragazzini sbadati. E se nella gabbia fosse caduto un adulto, per esempio un teologo o un filosofo dell’istinto, il gorilla si sarebbe comportato in maniera altrettanto gentile?

Ho conversato a lungo, su questi argomenti, con Konrad Lorenz, padre dell’etologia moderna. Alla domanda se anche gli animali siano consapevoli, con il tono passionale e affascinante che lo distingue, risponde: “Nessuna persona seria dovrebbe dubitare di questo. Sono pienamente convinto, dico pienamente, che gli animali hanno una coscienza. L’uomo non è il solo ad avere una vita interiore soggettiva”. E aggiunge che l’uomo è troppo presuntuoso, troppo preso di sé. Naturalmente, dice ancora il grande scienziato, il fatto che gli animali abbiano una coscienza “solleva dei problemi”. Forse l’uomo ha paura di fare altri passi in questa logica: riconoscendo una vita interiore agli animali, sarebbe costretto a inorridire per il modo con cui li tratta.

Lorenz mi ha parlato anche dell’infallibilità con cui gli animali conoscono subito le intenzioni di chi sta loro di fronte. Ma non c’è bisogno di scomodare tanta autorità, per commentare l’episodio del gorilla in questione. Solo una mente rozza o malata di dogmatismi, potrebbe dubitare delle buone intenzioni dell’animale. E i cani di Vienna, compresi quelli di Lorenz, non sono mai minacciosi per istinto o perché capiscono che la gente li ama e non farebbe loro mai del male?

In fondo l’etologia va confermando quello che Giordano Bruno aveva intuito con il suo genio filosofico, e cioè che tutti gli esseri viventi sono fenomeni diversi di un’unica sostanza universale. Traggono dalla stessa radice metafisica e la loro differenza è quantitativa non qualitativa o, per usare il linguaggio di Kant, fenomenica non noumenica. L’intelletto, che serve a intuire la relazione delle cose tra di loro, è comune, sia pure proporzionato ai bisogni, a tutti gli esseri viventi. Questo insegnano i grandi pensatori, a incominciare da Schopenhauer, e questo sostiene, in ultima analisi, Lorenz.

Sarebbe pura cecità considerare l’uomo come qualche cosa di completamente avulso dal resto del regno animale. La scoperta che gli animali mentono - per esempio i gracchi alpini e corallini, ma Lorenz mi ha parlato anche di altri animali - e quindi sono capaci di astrazione ha fatto cadere perfino il dogma che solo l’uomo avesse la facoltà di riflettere in abstracto.

La filosofia occidentale è troppo impregnata di teologia. Lo riconosceva perfino Nietzsche, che pure parlava e predicava come un prete capovolto. Il male è già all’inizio: “Crescete e moltiplicatevi, e popolate la terra, ed assoggettatevela, e signoreggiate i pesci del mare e i volatili del cielo, e tutti gli animali che si muovono sulla terra.  Signoreggiate, cioè opprimete, tormentate e uccidete tutti gli altri esseri viventi: parla così, un Dio? E non poteva anche risparmiarsi queste parole, dopo aver creato un essere malvagio come l’uomo? Lorenz, sia pure dopo una disamina di carattere storico, definisce “satanico” un simile comandamento.

Quale penoso contrasto con le sublimi parole che Buddha rivolse al suo cavallo quando lo lasciò libero: “Và! Anche tu, un giorno, sei destinato al nirvana”.

Questo episodio faceva tremare di commozione Schopenhauer e Wagner, ma non impressiona minimamente la corteccia cerebrale dei nostri filosofi-teologi. A loro è più congeniale Cartesio, che considerava gli animali delle semplici macchine.

Vicino a Lorenz si respira meglio sia scientificamente che moralmente. Proprio perché ha scandagliato come nessun altro la vita interiore degli animali, sa anche quale responsabilità morale questo comporti….(44)


Da un’intervista al mensile Natur del novembre 1988, tre mesi prima della sua morte, riportiamo queste parole di Lorenz:


Una volta lei ha detto di avere paura di un nuovo tipo di uomo circondato solo da cose brutte e tecnologiche. Arriviamo così alla questione della formazione culturale.

“Sì, io non vedo come sia possibile che una persona nata e cresciuta a New York possa capire la bellezza di una pulce d’acqua o di una salamandra maculata. La cosa più bella che ha visto è una Cadillac; quindi desidera una Cadillac. E non sa che esistono cose che incutono rispetto. Bisogna mettere i giovani nelle condizioni di poter provare rispetto….

Se vedo un essere vivente o addirittura una varietà di esseri viventi - per esempio una dafnia, una leptodora e altri tipi di pulci d’acqua - intuisco che sono membri di un unico albero genealogico, che incorporano un divenire. In tal modo mi è possibile un’intuizione dei milioni di anni passati. E questo è un fatto che suscita in me il più profondo rispetto”.

Rispetto per che cosa?

“Per il buon Dio, se vuole”

Ma allora lei è un credente…

“In un certo senso si è panteisti per natura. Il sistema periodico degli elementi è costituito in modo tale che la vita doveva nascere. Ma non credo nel “buon Dio” e meno ancora nel “Padre dei cieli”, non voglio fare parte di una Chiesa…” (45)


Psicoanalisi

Veniamo alla psicoanalisi. Dopo Copernico e Darwin, la specie umana non è più staccata dalla Natura, né al centro dell’Universo; almeno così doveva essere. Ma dopo la rivoluzione di pensiero iniziata da Freud, l’uomo non è più padrone neanche di sé stesso. Ci sono in noi forze, pulsioni, spinte di cui non siamo coscienti. Tutto ciò che ci accade o che facciamo risente di eventi che non ricordiamo minimamente.

Tuttavia il fondatore della psicoanalisi parlava sempre solo della persona umana come individuo autonomo e definito. Pensava che l’inconscio fosse individuale e cominciasse a “formarsi” alla nascita, o al concepimento.

Solo con la più profonda svolta operata soprattutto da Carl Gustav Jung si comincia a manifestare, anche nella cultura occidentale, l’idea dell’inconscio collettivo, di qualcosa che collega interiormente le varie individualità.

Più si va nel profondo, più la psiche si espande, più diventa collettiva e generalizzata, ancestrale o “archetipica”; comprende comunità sempre più ampie, classificazioni animali sempre più vaste, tutta la Vita, probabilmente la Totalità Universale.

Jung, pur usando le categorie concettuali dell’Occidente, aveva una profonda conoscenza delle filosofie orientali. Si comincia a parlare di fenomeni sincroni non-causali e a considerare altre dimensioni che non siano soltanto la sfera razionale e cosciente. Il concetto di persona autonoma che agisce sul mondo vacilla sempre più. Qualunque cosa facciamo, manipoliamo anche noi stessi: non c’è nessun “mondo esterno”.

Del resto l’idea che l’”io cosciente” sia un’entità autonoma e permanente è soltanto un pregiudizio. Il nostro ego non ha più potere sul complesso universale di quanto abbia un gabbiano in fuga di influenzare i venti e le tempeste. Questo non significa che siamo come fuscelli nel turbine. Il gabbiano può volare assecondando il vento e non contro di esso: può rifugiarsi nelle cavità delle rocce e non farsi sbattere contro la costa. Non siamo né “predestinati” né signori di noi stessi. Possiamo assecondare o meno il fluire universale, che ha una vita propria.

Per quanto riguarda alcuni studi recenti di psicologia transpersonale, riporto come esempio un brano di Stanislav Grof:


L’esistenza delle esperienze transpersonali viola alcuni dei presupposti e principi più basilari della scienza meccanicistica. Esse implicano concetti apparentemente assurdi, quali la natura arbitraria e relativa di tutte le barriere fisiche, le connessioni dell’universo di natura non spaziale, la comunicazione tramite mezzi e canali ignoti, la memoria senza substrato materiale, la non linearità del tempo, o la coscienza associata a tutte le forme di vita (compresi gli organismi unicellulari e le piante) e persino alla materia inorganica.  (46)


Antropologia

La corrente principale degli studi di etnologia delineatasi negli ultimi secoli vedeva le altre culture come “primitive”, in attesa di raggiungere il livello della civiltà occidentale attraverso il progresso, fenomeno inarrestabile ed evidente per l’intera umanità.  Tutte le culture umane erano destinate a progredire e quindi a diventare “occidentali”: per questo scopo occorreva aiutarle, insegnare loro come si fa a vivere bene.

Anche il pensiero corrente è in generale su queste posizioni. Non è stata ancora superata la concezione ottocentesca dell’europeo “civile” che va a studiare i “selvaggi” e ad aiutare “i primitivi”.

Fra le idee di minoranza, nate negli ultimi decenni e in fase di risalita, oltre a citare il pensiero di Levy-Strauss, di cui abbiamo già avuto occasione di riportare qualche brano e che non ha lesinato critiche alla superbia culturale dell’Occidente, indicherò la corrente di Marcel Griaule e Jean Servier, in cui il quadro di parità fra i modelli culturali umani acquista una connotazione ancora più definita, come si nota da qualche pagina conclusiva di un libro di Servier (anno 1967):


Il secolo 18° è stato il Secolo dei Lumi, nel quale pensatori di buona volontà hanno fatto progetti per migliorare il destino dell’umanità, credendo che fosse sufficiente educare “quelli là” per condurli a una condizione migliore.

Il secolo 19° l’ha seguito e gli eredi di quei pensatori hanno voluto migliorare la condizione dei popoli che sfuggivano ancora all’Occidente, senza chiedere il loro parere, rinnovando i tentativi, peraltro sempre votati all’insuccesso, dei despoti illuminati.

Come ha detto Madame de Genlis, “per civilizzare i selvaggi bisognerà sempre cominciare col dominarli, come bisogna cominciare col governare dispoticamente i fanciulli”.

Ogni secolo ha avuto i propri Enciclopedisti; il nostro ha gli economisti. Essi si sono chinati gravemente su questi Paesi considerati sottosviluppati, offrendo le proprie consulenze con il tono sentenzioso di un medico chiamato al capezzale di un malato. Poi è venuto l’ultimo missionario: l’Intellettuale, che vuol fare entrare i “Paesi sottosviluppati” nella Storia, senza mai essersi domandato, nel suo sciocco orgoglio, quale posto occupa l’Occidente nella storia dei Bambara, dei Moi o degli Eschimesi. Anche l’Intellettuale vuole civilizzare i selvaggi, cioè renderli simili a sé; anche lui tenta di dominarli, come può. In fondo, disprezza i popoli del “Terzo Mondo” così come sono: li accetta solo nella misura in cui si sottomettono e capitolano ancora una volta davanti al pensiero occidentale più intransigente che mai.

Nessuno di questi “eroi civilizzatori”, ingenui oppure odiosi, si è domandato se non sia ridicolo proporre la civiltà occidentale come la sola possibile, se questo non sia tanto assurdo quanto offrire all’eremita del Monte Athos un posto in una fabbrica e due stanze più servizi, per una esistenza più “razionale”, “progressista” e “civile”.

Nessuno di questi professionisti del pensiero riesce ad ammettere che la macchina, come il nostro sistema di produzione e di consumo, è un criterio esclusivo della civiltà occidentale in un dato momento della sua esistenza: un criterio relativo, come la ruota, il tornio del vasaio, il boomerang o il gioco delle carte, che non sono mai l’indice innegabile di un punto d’arrivo del pensiero umano.

Vi è anche il “Quarto Mondo”, quello di cui nessuno si cura, così come agli Stati Generali i signori del Terzo Stato non si preoccupavano degli interessi dei contadini che lavoravano le loro terre. Vi sono i tatuati, i piumati, i nudi, messi ai margini dell’umanità, sfruttati da tutti, anche dal “Terzo Mondo”; popoli i cui nomi compaiono soltanto nei musei di etnografia. Questi non hanno altra scelta che quella di morire: si spengono a poco a poco inesorabilmente, davanti alla civiltà occidentale, come sono scomparsi certi animali senza difesa o troppo ornati.

Così l’Occidente ritaglia l’umanità secondo la propria struttura, stroncando civiltà in fiore, gettando via deliberatamente tesori di conoscenza e di pensiero. Non abbiamo mai compreso che questo sottosviluppo ostinato di interi continenti o anche di regioni europee è in realtà la grossa valvola di sicurezza dell’umanità, una valvola che protegge i soli uomini capaci di sopravvivere quando gli ascensori si bloccano e le panetterie sono chiuse.

Molti casi della nostra civiltà dovrebbero farci misurare l’orgoglio dell’Occidente, che ammette soltanto il sottosviluppo materiale.

Mi domando quale sociologo accetterebbe di studiare il sottosviluppo intellettuale e morale della civiltà occidentale in questa fine del secolo ventesimo. Saremmo disposti ad accettare che filosofi oceaniani, africani o asiatici si preoccupassero per l’aumento delle malattie mentali e della criminalità in Occidente o che ci proponessero un piano metodico che tendesse a fare di noi delle popolazioni “in via di sviluppo”?

Abbiamo deciso di ignorare il nostro enorme passivo, per proporci come modello al resto del mondo, un po’ per vanità, ma soprattutto per interesse. Siamo i “benestanti” e per questo abbiamo tutti i diritti sul resto dell’umanità. Abbiamo deliberatamente falsato l’equilibrio economico e umano delle civiltà tradizionali e abbiamo trascinato il resto dell’umanità dietro a noi, nella nostra lotta senza fine per conquistare i beni di questo mondo.

Nessun moralista ha mai posto il problema della responsabilità dell’Occidente in questa creazione di bisogni artificiali, che mascheriamo sotto il nome di “civiltà” o di “tenore di vita”, che ha l’unico scopo di far lavorare le nostre fabbriche.

Sul piano umano ci siamo imposti come esempio al resto del mondo. La colonizzazione è stata sempre soltanto la volontà di provocare deliberatamente dei mutanti intellettuali sotto l’etichetta del progresso morale: essa prosegue la sua opera inesorabilmente, molto dopo che le armi sono state deposte…

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Il Grande Consiglio d’Onondaga non riuscì più a imporre la sua autorità e le strutture tradizionali affondarono, minate dall’oro dell’uomo bianco. Nel 1666 i missionari gesuiti si lamentano perché gli irochesi percorrono fino a ottocento chilometri per ottenere un bidone di “acqua-di-fuoco”. I villaggi sono abbandonati, i campi restano incolti. La guerra al servizio dell’uomo bianco è diventata un mestiere in cui si perde una popolazione intera.

Altrove, è stata la carità dell’uomo bianco ad essere mortale.

“Il bianco fornisce tutto e risponde a tutto. Distribuisce prodotti già fatti. Gli uomini, pigiati in capanne sempre più ripugnanti, muoiono aspettando la distribuzione successiva. Ciò che resta del gruppo non è che morte e malattia, ciò che resta di speranza è tutto rivolto verso l’esterno”.

A ciò si aggiunga il desiderio di uguagliare gli occidentali, che costringe al lavoro e all’umiliazione (sempre meno sentita con il passare del tempo) delle distribuzioni, dei doni, del mantenimento gratuito.

“Trovando più facile domandare che cercare, si degradano progressivamente alla condizione di mendicanti”. Questo atteggiamento, mal sopportato all’inizio, è diventato un’abitudine e poi una politica.

Lo spirito di conquista, la volontà di potenza, sono la misura di una qualsiasi riuscita?

Se gli oceaniani avessero avuto un’ambizione analoga alla nostra, nessuno avrebbe loro impedito di sbarcare in Europa come dei nuovi vichinghi, sulle loro piroghe a bilanciere. Quale rinascimento avrebbe potuto resistere alle frecce intinte nel curaro, lanciate con cerbottane venute dall’Amazzonia?

La nostra civiltà avrebbe indietreggiato davanti alla minaccia nascosta nelle foreste dell’Europa abitate da strane popolazioni capaci di viverci. Le nostre alte mura non ci avrebbero protetto per molto tempo contro uomini nudi, silenziosi, agili e affamati.

La storia classica ha conservato il ricordo di periodi durante i quali un sovrano ha potuto imporre la propria dominazione grazie a una casta guerriera omogenea. Questo dominio in genere ha toccato rapidamente i propri limiti nello spazio e nel tempo.

Gli imperi di Ninive, d’Assur, di Micene o d’Egitto hanno oscillato attorno a un medesimo centro di gravità geografico, coprendo periodi più o meno lunghi.

Gli imperi persiani e l’impero di Alessandro sembrano i primi a essere usciti dalle loro aree di civiltà e ad avere vissuto solo pochi anni, talvolta, come l’impero di Alessandro, lo spazio di una vita umana.

Tutti erano già prefigurazioni della civiltà occidentale per la loro volontà di egemonia, e anche per la loro profonda coscienza di essere dei punti di arrivo, di possedere tutte le tecniche, tutte le raffinatezze, tutta la “civiltà” di un’epoca.

 Ogni volta, questi regni della materia hanno trascinato con sè un indebolimento dei valori spirituali, dando all’uomo la conquista dei beni di questo mondo come unico scopo della vita terrena.

In ciò l’Occidente del secolo ventesimo non è che un punto culminante, non un fenomeno nuovo. Esso è andato più lontano di tutti gli altri imperi, asservendo l’intera umanità, dominando il mondo materiale, perpetuandosi nel tempo, realizzando i più folli e crudeli sogni di potenza assopiti nell’uomo e finora repressi.

Il ricordo delle stragi di massa perpetrate in Occidente e dall’Occidente in questo secolo ventesimo è ancora in ogni memoria; è inutile ricordare i fatti.

Nessun popolo tecnicamente arretrato, nessun “selvaggio” nudo e tatuato ha mai concepito che si possa calpestare la dignità umana al punto di arrivare all’abominio delle camere a gas, ai campi di concentramento, ai corpi umani trasformati in concime o in sapone.

L’Occidente è stato trascinato dalla guerra nel più profondo dell’abisso, verso il compimento della spirale discendente, il fondo della materia. E’ difficile sostenere ancora le teorie secondo cui la civiltà occidentale segna una qualche evoluzione cronologica verso il bene o verso una presa di coscienza della persona umana moralmente più efficace.

Ripensando a questo dramma, le cui tracce sono ancora sensibili nel nostro ricordo, è difficile affermare che la civiltà occidentale è il bene supremo dell’umanità, il suo logico punto d’arrivo, materiale e metafisico. E’ impensabile fare della guerra voluta dall’uomo l’agente di un qualsiasi perfezionamento, a meno di vedere il mondo a rovescio e di considerare la caduta come un’ascesa….

Immaginiamo che domani i nostri scienziati sbarchino sulla Luna, navighino da un pianeta all’altro, realizzino la sintesi della vita e scoprano contemporaneamente, con l’elisir di giovinezza, un rimedio contro tutte le malattie: che cosa ne guadagneremmo? Uomini che non sono capaci di collocare un’eccedenza di patate come sapranno impiegare il soprappiù di vita umana che verrà loro offerto?  (47)


Forse queste pagine di Servier sono eccessivamente dure verso la civiltà occidentale, che deve considerarsi un modello culturale alla pari degli altri e non qualcosa di diverso, né superiore, né inferiore. Ma si può comunque farne qualche considerazione.

Come abbiamo visto, non esistono “primitivi” ma solo modelli diversi: non ci sono i “selvaggi” che passano le giornate pensando solo a procurarsi il cibo e a far l’amore, ma culture dedite soprattutto alla percezione dell’”invisibile”, cioè dell’unità spirituale con la Vita e con tutta la Natura. Le concezioni europee degli ultimi secoli, derivate dai Greci, dai Romani e dal mondo ebraico, sono soltanto l’espressione della superbia dell’Occidente, al seguito della sua schiacciante potenza materiale, ottenuta a prezzo di un’estrema povertà di percezione cosmica e causa di nevrosi e di angosce.

In sostanza, la causa dei nostri guai è il distacco psicofisico dalla Natura, alla quale apparteniamo.

Anche l’attuale problema razziale viene abitualmente visto con un’ottica che non può portare ad alcun risultato. Infatti il razzismo e l’antirazzismo hanno in sostanza la stessa matrice, cioè l’idea di fondo che si tratti di razze diverse che possono, o non possono, convivere nel mondo “moderno”.

Ma se guardiamo il fenomeno sotto un’angolazione più ampia e in un arco temporale di qualche secolo, l’arrivo di “razze diverse” appare come il riflusso di individui sbandati le cui culture originarie sono state distrutte.

Si tratta cioè dei residui di scontri squilibrati fra modelli di vita: l’Occidente ha distrutto le culture originarie in Asia, in Africa e nelle Americhe; i figli di queste ex-culture, occidentalizzati, vanno a cercare di soddisfare i nuovi “bisogni”, o i nuovi non-valori, al margine del modello loro imposto.

L’Occidente ha portato uno spaventoso eccesso di popolazione umana sulle ceneri delle altre culture, e questa eccedenza di persone, occidentalizzate, si riversa dove può. Un africano con in mano un accendino costruito in serie in una fabbrica o un mitra che esce da una catena di montaggio non è più un Bantù o un Bambara, è l’Occidente.

Anche le Nazioni e i Governi del cosiddetto Terzo Mondo sono già l’Occidente, essendo istituzioni tipiche di questa cultura: è anche così che l’Occidente distrugge quanto resta delle civiltà tradizionali di quelle terre.

Il problema cosiddetto razziale non esisterebbe se si fossero conservate la diversità e la distribuzione geografica e ambientale delle culture umane e non ci fosse stata l’espansione mondiale di un’unica cultura egemone.

Nel cosiddetto Terzo Mondo la degradazione che vediamo non è dovuta, come si vuol far credere, “al sottosviluppo e alla povertà”, che sono concetti esclusivi della civiltà occidentale, ma è causata dalla distruzione delle culture originarie.

Tutto questo naturalmente non deve far pensare che vi sia necessariamente “colpa” intenzionale e cosciente da parte di qualcuno, ma solo un fluire incessante di eventi dovuti al prevalere o meno di determinate scuole di pensiero.












Note al Capitolo 7


(35) Jean Servier – L’uomo e l’Invisibile – Ed. Rusconi, 1973.


(36) Henry Laborit – Dio non gioca a dadi – Ed. Eleuthera, 1989.


(37) Jacques Monod – Il caso e la necessità – Ed. Mondadori, 1970.


(38) François Jacob – La logica del vivente – Ed. Einaudi, 1971.


(39) I.Prigogine e I.Stengers – La Nuova Alleanza – Ed. Einaudi, 1981.


(40) Gregory Bateson – Verso un’ecologia della mente – Ed. Adelphi, 1976.


(41) Termine sanscrito intraducibile, che significa “l’azione” o “la conseguenza delle azioni”. E’ una specie di “destino” ma dovuto ad azioni compiute in precedenza e non imposto dall’esterno. Il karma è una forza naturale, essenzialmente inconscia e non pianificata. Il modello e la natura di qualsiasi complesso dipenderebbero dal karma collettivo degli esseri senzienti e delle loro relazioni. Il karma si può definire come il processo causale che lega ogni azione a cause precedenti e ai risultati che devono derivare da esse.


(42) Fritjof Capra – Verso una nuova saggezza – Ed. Feltrinelli, 1988.


(43) Rupert Sheldrake – La rinascita della Natura – Ed. Corbaccio, 1994.


(44) Anacleto Verrecchia – Lorenz: anche le bestie hanno un’anima – articolo pubblicato sul quotidiano La Stampa dell’8 settembre 1986.


(45) Traduzione dal periodico Natur, novembre 1988.


(46) Stanislav Grof – Oltre il cervello – Ed. Cittadella, Assisi, 1988.


(47) Jean Servier – L’uomo e l’Invisibile – Ed. Rusconi, 1973.





8 – TENDENZE DEL PENSIERO ATTUALE

2 – Fisica – Cosmologia



   Qualunque cosa io dica, Vi prego di interpretarla come una domanda.

Niels Bohr



   Non è l’Universo fatto secondo la nostra logica. Siamo noi fatti secondo la logica dell’Universo.

Fred Hoyle



   Non sono sicuro che l’individualità che noi sentiamo come persona, come individuo, sia reale, che essa non sia un’illusione. E’ in ogni caso un’idea diffusa in Oriente, presso i maestri delle Upanishad, che si tratti di un’illusione, che noi non siamo realmente individui spirituali, ma “parte” di una stessa Entità.

Erwin Schroedinger



   Credo che vi sia un’Intelligenza nell’Universo. Badi, ho detto nell’Universo. L’idea giudaico-cristiana è quella di un Dio che, dal di fuori, fabbrica l’Universo come si fabbrica un oggetto in uno stabilimento. E’ un’idea che non mi attira. Io penso che l’Intelligenza sia nell’Universo. Che sia l’Universo.

Fred Hoyle



Prima della relatività, se toglievate la materia restavano il tempo e lo spazio, dopo la relatività se togliete la materia se ne vanno anche il tempo e lo spazio.

Albert Einstein






Premesse

Secondo la visione del mondo attualmente dominante, consolidata soprattutto nell’Ottocento, tutte le scienze che studiano il mondo cosiddetto oggettivo o reale sono riconducibili alla fisica, cioè all’esame del comportamento di qualche componente “elementare” o “mattone fondamentale”.

Secondo questo paradigma, le modifiche di pensiero che riguardano la fisica sono quelle che avranno maggiore influenza anche sull’evoluzione futura. Perciò dedicherò un intero capitolo ad alcune idee sorte nella fisica nel ventesimo secolo.


Fisica classica

La fase iniziale della fisica, più o meno ai tempi di Galileo e Newton, ha riguardato soprattutto la meccanica: come già accennato, la “forza” newtoniana, causa del movimento, era qualcosa di esterno al punto materiale su cui agiva, che veniva quantificato come “massa” e considerato come inerte.

Secondo la scienza ufficiale del 19° secolo, tutto è riconducibile alla meccanica, le cui equazioni sono simmetriche rispetto al tempo, non riconoscono cioè alcuna “freccia preferenziale del tempo”.

I primi accenni di idee meno meccaniche vennero con la termodinamica, dove il secondo principio introduce una direzione del tempo, quella che porta verso la massima entropia. (48)  Tuttavia la termodinamica restava una scienza interpretata in modo newtoniano perché l’irreversibilità era considerata il frutto statistico di una somma di moltissimi processi elementari di natura meccanica, cioè il movimento di atomi e di molecole: anche i fenomeni relativi ai gas e al calore erano riconducibili a urti e movimenti di tante “palline”.

Successivamente fu introdotta l’idea del campo; nacque tuttavia l’obiezione che si poteva fare a meno del concetto di campo, solo rendendo molto più complicata la descrizione matematica.

In realtà, solo con la teoria della propagazione delle onde elettromagnetiche (equazioni di Maxwell) si cominciò a intravedere qualcosa di non-meccanico nel mondo materiale, anche se detta propagazione venne in seguito interpretata come “movimento di fotoni”.

 Malgrado queste piccole ombre sul modello, l’idea dominante era che il mondo fosse in sostanza comprensibile in via meccanica: il massimo del meccanicismo, derivato dalla concezione di Newton per cui l’Universo è come un gigantesco Orologio e tutte le sue parti dei “meccanismi” separabili in pezzi sempre più piccoli, è stato raggiunto alla fine dell’Ottocento, quando imperava inoltre la convinzione di “avvicinarsi sempre più alla verità”. Infatti non veniva mai messo in dubbio il dualismo cartesiano, in base al quale si stava studiando qualcosa di vero, reale, esterno.

Anche gli esseri viventi erano considerati “macchine” straordinariamente complicate.

C’erano i 92 atomi, specie di palline indivisibili, che costituivano tutta la realtà fisica, in cui agivano anche i campi. Lo spazio e il tempo erano realtà assolute e in essi si svolgevano tutti i processi. I fenomeni spirituali venivano tenuti completamente separati o considerati “immaginari” e negati.

Il pensiero corrente si basa in generale ancora su queste posizioni.

Vale la pena vedere, con una descrizione semplificata, come queste idee si sono radicalmente modificate nel corso del Novecento, almeno in alcune correnti, che potrebbero un giorno influenzare anche il pensiero generale, tuttora dominato dalla visione cartesiana-newtoniana.


La relatività speciale (o ristretta)

Il primo dubbio sull’indivisibilità degli atomi venne con la scoperta della radioattività da parte di Becquerel negli ultimi anni dell’Ottocento.

Di lì a poco si affermò il modello di Rutherford, in cui l’atomo appariva come un sistema solare in miniatura, cioè era fatto di “palline” ancora più piccole. La concezione restava ancora quella di Democrito: esistevano le particelle elementari e il vuoto, attraverso il quale si propagavano le forze che le tenevano unite.

Con la relatività speciale o ristretta, enunciata da Einstein nel 1905, la fisica meccanicista o classica ha cominciato a vacillare: spazio e tempo hanno perduto ogni connotazione assoluta, materia ed energia sono diventate la stessa cosa.

La constatazione dell’invarianza della velocità della luce nel vuoto ha portato a rivedere i concetti di spazio e tempo, ora non più assoluti. Il fatto che spazio e tempo siano relativi ha spinto a ricercare un modo di descrivere i fenomeni indipendente dal sistema di riferimento e questo ha portato a definire il continuo spaziotempo.


Vale la pena accennare a un piccolo esempio classico.

Si consideri il seguente esperimento ideale:

Un ambiente mobile, limitato dalle pareti A e B, si sta spostando con velocità uniforme v rispetto a un sistema di riferimento considerato fisso. Una sorgente luminosa S è posta al centro dell’ambiente in movimento. Confrontiamo il punto di vista di un osservatore posto all’interno del locale con quello di un osservatore “fisso”.


1. Per l’osservatore nel locale, la luce deve percorrere due distanze uguali per raggiungere le due pareti: quindi arriva su A e su B nello stesso istante.


2. Per l’osservatore considerato fisso, la luce deve percorrere verso B una distanza maggiore, dato che, durante il viaggio della luce da S a B, la parete si è allontanata. Analogamente la parete A si è avvicinata e quindi la luce deve percorrere una distanza minore per arrivare su A.


Nel caso 2):

- Secondo gli schemi della fisica classica:

La velocità della luce fra S e B è maggiore di quella fra S e A (perché risente della velocità di S) e la differenza fra le due velocità compensa la differenza fra le due distanze da percorrere. Pertanto i due eventi “luce che tocca la parete A” e “luce che tocca la parete B” sono ancora contemporanei. Infatti la fisica classica postula l’esistenza di un tempo assoluto, indipendente dall’osservatore: perciò i due eventi devono essere contemporanei per tutti gli osservatori.

Ma la luce ha una velocità costante che non dipende dalla velocità della sorgente né dal sistema di riferimento (dato sperimentale).


Quindi il ragionamento della fisica classica non è più possibile.


Secondo la relatività speciale:

Poiché la velocità della luce è costante, per l’osservatore cosiddetto fisso i due eventi “luce che tocca la parete A” e “luce che tocca la parete B” non sono più simultanei, ma la parete A viene raggiunta prima della parete B. Invece per l’osservatore posto nel locale i due eventi sono ancora contemporanei (distanze uguali).

Per riuscire a descrivere i fenomeni, si deve rinunciare al concetto di tempo indipendente dall’osservatore: ogni sistema di riferimento ha il suo proprio tempo e la sua propria successione degli eventi (prima-poi) e quindi una “sua” sequenza di cause-effetti.

La descrizione dei fenomeni diviene possibile solo in uno spaziotempo a quattro dimensioni dove il tempo è una coordinata variabile come le tre coordinate spaziali. In tal modo si è ricostituito uno schema concettuale in cui è possibile descrivere i fenomeni per tutti gli osservatori in moto rettilineo uniforme fra loro.


La relatività (speciale) è un modo di descrivere i fenomeni in maniera indipendente dal sistema di riferimento (osservatore): la descrizione classica vale soltanto per un dato sistema, perché spazio e tempo sono relativi, cioè variabili.

Su di un piano interiore, la relatività può significare il bisogno di recuperare un concetto di tempo che non sia quella freccia unidirezionale in avanti che caratterizzava la fisica classica.


La relatività generale

Con la relatività generale, formulata da Einstein nel 1916, la gravitazione, vista da Newton e seguaci come un “campo”, diventa la “geometria dello spaziotempo”.

Vediamo un piccolo esempio molto semplificato.

Si tratta di estendere il problema della relatività speciale a tutti i sistemi di riferimento in moto anche accelerato uno rispetto all’altro, cioè con velocità relativa variabile e non solo uniforme.


Si consideri il seguente esperimento ideale.

1. – Astronave ferma in un campo gravitazionale, ad esempio sulla Terra. La massa m cade a terra, cioè sulla parete A, con l’accelerazione di gravità.


2 – Astronave che si muove con un’accelerazione pari a quella di gravità (accelerando in direzione da A a m) al di fuori di ogni campo gravitazionale, cioè in spazio vuoto a distanza infinita. In tal caso la parete di fondo A si muove verso m con un’accelerazione uguale a quella del caso 1, dove m andava verso A.


Un osservatore posto all’interno dell’astronave non ha alcun modo per stabilire se si trova nella situazione 1) o nella situazione 2).

Quindi le due situazioni sono equivalenti, il che significa che si può rinunciare al concetto di campo gravitazionale, sostituendolo con qualcosa che comprenda sia la situazione “gravità” sia la situazione “moto accelerato”.

La descrizione ridiventa possibile, per tutti i sistemi di riferimento in moto relativo qualsiasi (uniforme e accelerato) se si suppone che lo spaziotempo citato nella relatività speciale sia “curvo”, dove la curvatura è dovuta alla presenza di masse e sostituisce il vecchio “campo gravitazionale”.

Secondo le parole di Einstein, la materia dice allo spaziotempo come deve curvarsi e lo spaziotempo dice alla materia come deve muoversi.

Questo schema concettuale supera anche il problema della necessità di chiedersi rispetto “a cosa” ci si muove.

E’ interessante notare che, nella costruzione teorica della relatività, esiste un operatore matematico (chiamato i, cioè la radice quadrata di -1) che sembra avere la proprietà di “trasformare” il tempo in spazio. Ciò porta a considerare che si tratta comunque di creazioni mentali, come lo stesso operatore i.

Tutto quanto è stato accennato finora, pur abbastanza lontano dal cosiddetto “senso comune”, non ha mai intaccato il principio cartesiano fondamentale di netta separazione fra un osservatore (spirito, o mente) e un osservato (materia, o materia-energia). Anzi, con la relatività generale si pensava di essere riusciti ad ottenere una formulazione matematica in grado di descrivere la “realtà oggettiva” in modo valido per tutti gli osservatori in movimento reciproco, uniforme e accelerato.


Il principio di indeterminazione

Già nei primissimi anni del Novecento Max Planck aveva dovuto introdurre il concetto di “quanto” per giustificare un fenomeno altrimenti inspiegabile: l’elettrone, essendo in rotazione ed elettricamente carico, avrebbe dovuto irradiare nel vuoto, perdere energia e quindi precipitare rapidamente sul nucleo dell’atomo.

A seguito della descrizione quantistica, fu necessario successivamente introdurre il principio di indeterminazione, formulato per la prima volta da Werner Heisenberg nel 1927.

L’interpretazione di Copenhagen di questo principio, sostenuta soprattutto da Niels Bohr e confermata nei decenni successivi, nega l’idea di “realtà oggettiva” e la possibilità di separare, anche solo concettualmente, il fenomeno dalla sua osservazione.  Ne parleremo in seguito.

Come dire, è impossibile distinguere lo spirito dalla materia. Ovvero, senza una forma “mentale”, non si può parlare di alcunchè, se non come fantomatica onda di probabilità. Con un’ardita ma concisa estensione, ciò significa che lo psichismo deve essere universale. Altrimenti, quali sono i sistemi con lo status di “osservatore”?

Come noto, la prima formulazione del principio di indeterminazione riguardava l’imprecisione con cui sono definibili due grandezze relative a una particella, come la posizione e la quantità di moto (per chiarezza, diremo la velocità).

        Più precisamente, come conseguenza del fatto che i “costituenti della materia” si comportano ora come onde, ora come particelle (cioè non “sono” niente di definito) risulta che il prodotto dell’indeterminazione di due grandezze (ad es. posizione e velocità, come sopra) è sempre superiore a una quantità fissa e calcolabile. Da un punto di vista concettuale non ha alcuna importanza che tale quantità sia molto piccola, anche se questo fatto rende possibile il mondo macroscopico.

Inoltre, se una delle due imprecisioni tende a zero (cioè cerchiamo la posizione esatta), l’altra imprecisione tende all’infinito: non si può sapere nulla della velocità, anzi non è definibile in alcun modo. Solo l’osservazione (cioè l’aspetto mentale) può stabilire una delle due grandezze, ma non entrambe contemporaneamente: l’altra risulta indeterminata.

Dopo il 1927 i fisici si schierarono grosso modo in due correnti di pensiero (a parte quelli che non si interessarono della questione):


- una corrente (49) sosteneva che quanto sopra detto è dovuto all’imprecisione “congenita” dei nostri strumenti e dei nostri sensi, e solo per questo non riusciamo a cogliere la realtà oggettiva, comunque considerata esistente. E’ nota l’esclamazione di Einstein: “Dio non può aver giocato a dadi con l’Universo”.


- l’altra corrente (50), con ragionamenti molto sottili e successivamente confermati, sosteneva che l’indeterminazione è intrinseca nella natura delle cose, cioè la particella-onda non ha una posizione e una velocità, anzi non è alcunchè di definibile a priori.


Un famoso congresso, alla fine degli anni Venti, si concluse con una certa “dimostrazione” della seconda ipotesi, chiamata da allora “interpretazione di Copenhagen”. Tutti gli esperimenti successivi, di solito molto sofisticati, hanno confermato l’interpretazione di Copenhagen.

Il fatto stesso che ci siano stati due “schieramenti” fa pensare a quali resistenze interiori potevano nascere in chi scopriva in sé e nel mondo una tale rivoluzione concettuale: alcuni sostenitori della prima ipotesi erano stati addirittura gli involontari iniziatori della seconda.

E’ chiaro che quanto sopra detto significa la fine dell’idea che il mondo materiale sia costituito di “particelle” e di “vuoto”, concezione che era in sostanza ancora quella di Democrito. Al suo posto sta subentrando un’idea di vuoto-pieno eternamente e “contemporaneamente” pulsante, una specie di vacuità creativa, che ricorda quanto scritto in un sutra 2500 anni orsono:


        Questa sostanza immateriale e priva di forma contiene funzioni innumerevoli come le sabbie del Gange, funzioni che corrispondono infallibilmente alle circostanze, cosicchè è descritta come non-vuota. (51)


Così pure, nel Sutra del Cuore:


O Sariputra, la forma è vacuità e la vacuità è forma. La vacuità non differisce dalla forma, la forma non differisce dalla vacuità. Qualunque cosa sia forma, quella è vacuità; qualunque cosa sia vacuità, quella è forma.  (52)


La contrapposizione fra vuoto e pieno perde significato.


Il gatto di Schroedinger

Come divertente esempio della nuova fisica quantistica, citiamo un famoso esperimento mentale.

In una scatola si collocano:

- un piccolo campione di radio, scelto in modo tale che vi sia una probabilità del 50% che nel tempo di un’ora si verifichi un decadimento;

- un rivelatore che segnala ogni decadimento dei nuclei di radio;

- un circuito tale che si chiuda al verificarsi di un decadimento mettendo in funzione un meccanismo che rompe una fiala contenente un liquido che sprigiona vapori mortali;

- un gatto.


Si chiude il coperchio e si lascia passare un’ora.

Poi l’osservatore apre la scatola e guarda il rivelatore e il gatto.

Solo in quel momento il sistema entrerà in uno stato particolare (gatto vivo o morto), dato che è l’osservazione a determinare se il decadimento è avvenuto oppure no.

In quell’ora il gatto è stato in una situazione indeterminata di vivo-morto.

Questa è la storia del felice-infelice gatto di Schroedinger.


Il vuoto quantistico e il concetto di esistenza

Fra le coppie di grandezze soggette al principio di indeterminazione c’è, ad esempio, la coppia energia-tempo che, per la nota relazione relativistica (E=mc2), si può interpretare come coppia massa-tempo. Cioè il prodotto delle indeterminazioni dell’energia e del tempo è maggiore di una quantità costante e calcolabile:

^E . ^t > k

Questo significa che, con tempi molto precisi (durate molto piccole), l’indeterminazione di E (o m) è molto grande, cioè ad esempio dell’ordine della massa di una data particella. Quindi non ha alcun senso dire che una particella “esiste” o “non esiste” al di sotto di una certa durata di tempo. Se si assume un istante preciso (indeterminazione del tempo nulla), la cosiddetta particella non ha alcuna massa-energia definibile in alcun modo: l’indeterminazione della massa è infinita. Quindi il concetto di “esistere” è privo di significato.

  Ciò vuol dire che il cosiddetto “vuoto” è “pieno” di miriadi di particelle che nascono e muoiono in continuazione, vivendo meno del tempo massimo loro concesso.

A questo vuoto-non vuoto pulsante di energia si dà il nome di vuoto quantistico: partendo da considerazioni di questo tipo è apparsa in cosmologia l’affermazione che “l’Universo potrebbe essere nato da una fluttuazione quantistica del nulla”, dove le parole vanno meditate, in quanto spesso permeate di un significato “classico”. Alcuni hanno usato l’espressione “fluttuazione spontanea del vuoto”.

Qualunque fenomeno avvenga nel vuoto quantistico, è possibile “prendere a prestito” energia dal vuoto purchè il prestito abbia durata breve: tanto più è grande l’energia (o la massa) temporaneamente “nata dal nulla”, tanto più è piccola la durata del prestito e urgente la sua “restituzione” al vuoto. Così è pure possibile “far sparire” nel vuoto una massa-energia pur di farla ricomparire prima della scadenza del tempo assegnato (o indeterminazione del tempo).

Tutto si riconduce al vuoto quantistico, cioè a una meravigliosa danza di energie che continuamente nascono nell’essere e svaniscono nel nulla.

Tutto questo significa che non è possibile definire lo stato di qualcosa in un tempo “fermo” o vedere il mondo come una successione di “stati”, ma che ha senso solo la variazione: si tratta di un passaggio dall’essere al divenire. Il mondo non ha “esistenza” in un determinato “istante”.

Queste considerazioni hanno fatto cadere il concetto di oggetti esistenti per lasciare posto a una rete di processi senza alcunchè di autonomo.

In sostanza l’impossibilità di ragionare “per opposti” si estende anche alla contrapposizione esistenza/non-esistenza.


Le teorie realistiche locali

Vi sono alcune ipotesi che vengono considerate “evidenti” non solo dalla scienza classica, ma anche dalla fisica relativistica; esse sono:


- che un esperimento sia esattamente ripetibile, almeno su un piano ideale, cioè che il risultato consegua in modo univoco dalle condizioni “oggettive” dell’esperimento;


- che esista una realtà oggettiva “esterna”, che noi andiamo via via scoprendo (come già accennato);


- che non vi possano essere influenze istantanee a distanza, cioè che nessun “segnale” possa superare la velocità della luce (relatività).


Le teorie che si basano su queste ipotesi sono dette “teorie realistiche locali”. Tutta la scienza – fino a tempi molto recenti – le considerava “acquisite”.

Vi sono parecchi indizi per dire che oggi, in qualche pensiero d’avanguardia, le tre ipotesi sono venute meno. Con l’interpretazione di Copenhagen della fisica quantistica e i successivi sofisticati esperimenti, malgrado la forte resistenza del mondo ufficiale, anche scientifico, non si sa più che senso dare alle tre ipotesi citate.

Infatti, secondo una corrente del pensiero attuale:


- la ripetibilità viene meno, dato che lo “psichismo” di cui è imbevuto ogni esperimento ne modifica il risultato;


- la realtà oggettiva esterna ha perso significato con l’interpretazione di Copenhagen;


- le particelle-onde che si separano da un unico punto restano indissolubilmente legate, dato che l’“osservazione” anche di una sola di esse influenza istantaneamente il comportamento delle altre, a qualunque distanza si trovino.


Come esempio, accennerò a un esperimento ideale di informazione “istantanea”: se in un processo microfisico, una particella-onda viene “colpita” e spezzata in due, le due “particelle” uscenti si allontanano e “hanno” certe caratteristiche che sono funzione una dell’altra. Ad esempio, se lo spin di una ha un determinato valore, lo spin dell’altra ne risulta definito.

Ma lo spin, come qualunque altra caratteristica, ha un valore definito solo all’atto dell’osservazione, altrimenti è in uno stato indeterminato. Quindi, “osservando” una delle due particelle uscenti, viene istantaneamente determinato anche lo spin dell’altra, a qualunque distanza essa si trovi. Naturalmente la caratteristica della seconda particella viene determinata anch’essa all’atto di un’osservazione, ma risulta sempre collegata all’osservazione della prima.

Questo porta alla considerazione che nulla è separabile nell’Universo e qualunque processo (o “oggetto”) ha influenza su qualunque altro, su un piano psicofisico, dato che è necessario l’intervento dell’aspetto mentale.

Una delle conseguenze pratiche più notevoli della visione “quantistica” sull’idea di “realtà” può essere il tramonto di concetti contrapposti come ragione-torto, giusto-sbagliato, verità-errore, e così via. Questo dovrebbe togliere progressivamente ogni base logica-razionale al litigio e alla contrapposizione e portare alla fine delle forme “razionalizzate” di competizione e quindi dei fondamenti della civiltà industriale odierna.

Inoltre l’indistinguibilità fra soggetto e oggetto, fra io e mondo “esterno” dovrebbe portare alla fine dell’aggressività della nostra specie verso la Natura. Manipolare il mondo significa manipolare noi stessi.


Bootstrap (53)

     Per sostituire l’immagine meccanicista che considerava la materia come costituita di “mattoni fondamentali” è in corso un tentativo di descrivere i fenomeni in termini non di “particelle elementari”, ma di processi, esaminando solo la “coerenza interna” di ogni processo ed eliminando il concetto di entità stabili o fondamentali.

     In tale elaborazione teorica l’Universo è visto come una rete dinamica di eventi interconnessi: nessuna proprietà di una parte della rete è fondamentale, ma ciascuna deriva dalle proprietà delle altre parti e la coerenza delle reciproche connessioni determina la struttura della rete.

     Un formalismo matematico con cui si è sviluppata la teoria è quello della “matrice S” (o di scattering), dove le cosiddette particelle non ci sono più, sostituite da entità matematiche, che ne evidenziano maggiormente il contenuto mentale.

     Inoltre una “matrice S” dovrebbe essere illimitata, altrimenti si introduce un’approssimazione:ci si imbatte ancora nell’impossibilità di spezzettare l’universale.

     In un completamento dell’ipotesi bootstrap si evidenzia che la coscienza è necessaria per la coerenza interna del tutto, dato che la struttura della matrice S dipende dall’atteggiamento di osservazione.


Teorie cosmologiche

Premettiamo alcune definizioni:


Principio cosmologico: l’Universo si presenta allo stesso modo (su grandi estensioni) in qualunque punto di esso ci troviamo, anche se non in qualunque istante: cioè può esserci variazione nel tempo ma non nello spazio.


Principio cosmologico perfetto: l’Universo si presenta nello stesso modo (su grandi estensioni) in qualunque punto di esso ci troviamo e in qualunque istante di tempo da sempre e per sempre. E’ senza origine e senza fine.


Nel ventesimo secolo le ipotesi cosmologiche più accreditate sono state (trascurando quella cosiddetta dell’”Universo elettrico”):


1. L’ipotesi dello “stato stazionario”, detta anche della “creazione continua”, che rispetta il principio cosmologico perfetto, cioè l’Universo è dinamicamente sempre lo stesso. L’espansione viene compensata dal continuo apparire di nuovi atomi di idrogeno (ne bastano circa due o tre per Kmc ogni anno). Si ha cioè l’uscita di galassie alla velocità della luce e la comparsa di atomi di idrogeno per compensarla.

      Ha perso credito dopo la “scoperta” della radiazione di fondo a 3 °K  (54)

      Con questa ipotesi è evidente che:

ï La densità di materia è costante;

ï Il punto di origine del tempo è inutile;

ï Non c’è inizio né fine.


2. L’ipotesi del Big Bang, che presuppone l’origine in una singolarità (55) avvenuta circa quindici miliardi di anni orsono, seguita da una fase di espansione fino ad oggi. L’ipotesi è suffragata dalla presenza della radiazione residua (Penzies e Wilson, 1965), completamente isotropa (56) e corrispondente a una radiazione di corpo nero a 3° K ai giorni nostri.

      La fase espansiva potrebbe non continuare per sempre, essendo l’Universo attuale sotto l’azione di due tendenze complementari:

ï l’espansione iniziale

ï la contrazione gravitazionale.


L’ipotesi del Big Bang si è poi suddivisa in altre ipotesi:


a) Universo aperto:

la gravitazione non riuscirà mai a compensare l’espansione che continuerà per sempre, lasciando l’Universo sempre meno denso e più “vuoto”.


b) Universo piatto:

la gravitazione compenserà esattamente l’espansione e l’Universo tenderà asintoticamente (57) a una dimensione stabile.


c) Universo chiuso:

la gravitazione finirà col prevalere sull’espansione; in questo caso alla fase attuale espansiva seguirà una fase di contrazione fino a tornare a dimensioni estremamente piccole (Big Crunch), cioè l’Universo si riporterà a una quasi-singolarità puntiforme.


     Quest’ultima ipotesi si è suddivisa in ulteriori varianti, di cui la più notevole è quella che prevede infiniti cicli tutti uguali di Big Bang e Big Crunch.

     In questo caso, anche se non si rispetta completamente il principio cosmologico perfetto, il punto-origine perde significato e si ha un’oscillazione pulsante da sempre e per sempre. Di nuovo non c’è inizio né fine.


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Qualunque ipotesi venga adottata per l’origine, solo gli elementi molto leggeri possono essersi creati nei primi tempi dopo la singolarità iniziale. Per gli elementi medi e pesanti devono essersi formate prima stelle e galassie. Infatti solo nel corso successivo dell’evoluzione stellare si può arrivare alle temperature e durate necessarie per ottenere gli elementi più pesanti.

Le stelle che hanno una massa compresa entro certi valori evolvono verso uno stato di esplosione (supernove): gli elementi pesanti vengono così proiettati nello spazio; poi si possono raccogliere, per gravità, a formare sistemi planetari, gli unici dove può sorgere la vita, che richiede elementi come carbonio, ossigeno, azoto, ecc.

Quindi noi, come gli alberi e i fiumi, gli insetti e le montagne, siamo tutti polvere di stelle.


Il principio antropico

L’evoluzione dell’Universo così come si presenta e che ha consentito la formazione di atomi, molecole, galassie, stelle e pianeti dipende in modo assai stretto dal valore di alcune costanti universali, quali – ad esempio – la costante di gravitazione, la velocità della luce, la costante di Planck, la costante dell’interazione forte, e così via.

Da un punto di vista classico, ciascuna di tali costanti avrebbe potuto essere diversa: non era necessariamente legata ad altre grandezze.

Sarebbe bastata la variazione dell’uno o due per cento in una sola di esse per non consentire la vita: quindi l’Universo di oggi potrebbe sembrare un avvenimento estremamente “improbabile”.

Questa estrema improbabilità dell’Universo come lo conosciamo ha dato luogo a molte considerazioni, fra cui abbastanza interessante il principio antropico (che ha diverse formulazioni) e che forse sarebbe meglio chiamare principio osservazionale.

In base a tale principio, è perfettamente logico – anzi, necessario – che troviamo “quelle” costanti: non potrebbe essere diversamente perché, dato che siamo qui, possiamo soltanto trovarci in un universo che consente la nostra esistenza. (58)

Secondo John Archibald Wheeler, fisico teorico, “la fisica quantistica ci ha condotto a considerare seriamente e ad esplorare l’opinione che l’osservatore sia altrettanto essenziale per la creazione dell’Universo quanto l’Universo è per la creazione dell’osservatore”.


C’è anche la versione “a molti mondi” che suppone l’esistenza di infiniti Universi, di cui noi possiamo osservare solo quello che consente la nostra esistenza: quindi “deve” avere quelle costanti. Oppure è l’osservazione (o l’aspetto mentale) che dà a quel particolare Universo la prerogativa di essere “reale”.

Abbiamo riportato queste tendenze solo per renderci conto di quanto ci stiamo allontanando dalla visione classica, anche se appare evidente come in certe interpretazioni ricompaiano sia l’antropocentrismo sia alcune forme di finalismo, ma occorre fare attenzione a non considerare il tempo in modo newtoniano soprattutto quando si esaminano eventi prossimi a singolarità. Aver fatto risorgere un “principio antropico” denota una certa nostalgia di riportare l’uomo “al centro”: infatti la considerazione dell’improbabilità delle costanti universali è valida non solo per l’uomo, ma anche per l’abete rosso, la marmotta, una montagna o un torrente. Ognuno vede l’universo come “fatto per sé”.  Vedremo in seguito che, per alcune correnti, non serve un osservatore umano, ma si tratta di fenomeni auto-organizzativi della sostanza universale. Così ricompare l’Anima del mondo e sparisce la megalomania dell’osservatore-uomo.

Comunque il fatto che le costanti universali siano rimaste invariate nel tempo e nello spazio – ovunque e da sempre – è un puro atto di fede.

I tachioni

Solo come ulteriore esempio di allontanamento dal pensiero meccanicista, ricordiamo anche le ricerche sui cosiddetti tachioni, particelle-onde sempre più veloci della luce, studiati teoricamente da una ventina d’anni, e che attendono di essere “scoperti”. (59)

Secondo questi studi, un tachione:

- non porta energia se è a velocità infinita;

- non è in alcun modo localizzabile, neanche su un piano puramente ideale; quindi invade tutto lo spazio e può interagire con sorgenti remote.

Queste proprietà dei tachioni comportano un’influenza “istantanea” su tutto l’universale. Inoltre il comportamento dei tachioni rispetto al tempo è, in certo modo, rovesciato. Non c’è più il tempo unidirezionale del nostro pensiero attuale.


A cosa corrispondono queste novità scientifiche, anche se non ancora recepite dalla scienza ufficiale, sul piano emotivo?

Forse ad una esigenza di universalità e non-separabilità e ad una speranza inconscia di abbandonare la concezione del tempo come fluire unidirezionale “verso il futuro”, propria della cultura occidentale.

Forse c’è sotto una esigenza emotiva-inconscia di ritrovare il tempo ciclico e non lineare e di non “separarsi” più dal mondo. Può esserci anche un bisogno-desiderio di “magico” per attenuare gli eccessi della sfera razionale degli ultimi due secoli.


In sostanza, i tachioni contribuirebbero a quella tendenza del pensiero “nuovo” ad allontanarsi dalle concezioni che stanno alla base della civiltà industriale: manipolazione del mondo esterno, idea del progresso materiale come avanzare indefinito nel tempo.

Se queste tendenze si rafforzeranno, è molto probabile che i tachioni vengano prima o poi “scoperti” e diventino perciò “esistenti”.


Le leggi del caos

Secondo la fisica classica, l’Universo si evolve dall’ordine al disordine, dalla varietà all’uniformità: è destinato alla morte termica, cioè a uno stato “definitivo” dovuto al raggiungimento del massimo dell’entropia. (60)

Questo consegue dal fatto di considerare l’Universo come un sistema chiuso, in quanto comprende tutto, ma il ragionamento è valido solo se l’Universo è statico.

L’Universo in espansione è invece un sistema sempre aperto, dove l’aumento di entropia può essere allontanato continuamente verso l’infinito.

Negli ultimi decenni, soprattutto alla scuola di Bruxelles per opera del gruppo guidato da Ilya Prigogine, lo studio delle “strutture dissipative” o lontane dall’equilibrio ha evidenziato che in tale situazione di non-equilibrio si manifesta un “desiderio” immanente di “creare strutture”, una spinta alla diversificazione e alla creazione.

I sistemi viventi sono un caso particolare molto vivace di strutture dissipative, ma anche nella sostanza cosiddetta “inerte” tali strutture risultano creative.

Lo studio classico era basato su una successione di stati di equilibrio e considerava le condizioni che se ne discostano quasi come una specie di disturbo da eliminare. Si studiava una serie di condizioni statiche evitando lo studio del dinamismo stesso. Per la visione classica i sistemi stabili erano la regola e i sistemi instabili delle eccezioni, mentre qui tale prospettiva viene capovolta.

Anche dal punto di vista quantistico, questa recente corrente di studi porta a una visione del mondo in cui i fenomeni possono essere descritti senza bisogno dell’osservatore-uomo, solo partendo da un approccio diverso: quello delle biforcazioni e dell’instabilità.

       La descrizione quantistica tipo Schroedinger è fatta in termini di funzione d’onda e di “collasso del vettore di stato” ad opera dell’osservatore: invece la descrizione in termini di instabilità ha in sé il suo psichismo e la sua freccia del tempo.

Con questo approccio, si parte dalla constatazione che i fenomeni sono quasi sempre “non-lineari” e quindi completamente indeterminati nella loro evoluzione: una variazione infinitamente piccola, anche in senso matematico, fa prendere al processo vie completamente diverse. Cioè il sistema può “scegliere” una via anziché un’altra (biforcazione) ed avere tutt’altra evoluzione. Tali fenomeni sono intrinsecamente aleatori ed ammettono quelli che vengono chiamati “attrattori strani”, geometricamente frattali. Si noti che nei disegni frattali, molto simili alle strutture che si trovano nel mondo naturale, non compaiono mai linee rette.

Il fatto di parlare di caso e aleatorietà quando il sistema prende una via anziché un’altra al momento di una biforcazione-instabilità e parlare di scelta o volontà quando c’è di mezzo l’uomo è dovuto esclusivamente all’attuale sottofondo culturale: come fenomeno, non c’è alcuna differenza fra i due casi e si può dire benissimo che il sistema sceglie la sua via fra le varie possibili, attribuendo così uno psichismo immanente a tutti i processi. Cioè il sistema sceglie fra tutti i suoi tipi di futuro possibili. La creazione non è più avvenuta in un momento remoto del passato, ma è un processo continuo.

Un tempo le leggi della natura erano associate all’irreversibilità nel tempo, mentre ora per i sistemi instabili diventano probabilistiche ed esprimono ciò che è possibile e non ciò che è “sicuro”. Contengono sempre un certo grado di libertà o, se si vuole, un certo “libero arbitrio” o aspetto mentale.


Ripetiamo questi cenni in altro modo.

Il comportamento di un sistema si dice caotico se le traiettorie nate da punti infinitamente vicini si allontanano fra loro in modo esponenziale. In altre parole, uno spostamento infinitamente piccolo provoca nel processo modifiche macroscopiche e divergenti: c’è sempre un orizzonte temporale oltre il quale il comportamento del sistema è assolutamente indefinibile. Per usare un esempio preso dalla meteorologia: “Il battito d’ali di una farfalla nella campagna inglese può provocare un ciclone nei Caraibi”, da cui la denominazione di effetto-farfalla data alla conseguenza di una biforcazione in questo tipo di processi.

Non si tratta della nostra incapacità o impossibilità di conoscere tutte le variabili, ma della natura intrinseca dei fenomeni. Queste considerazioni fanno perdere all’idea di causa ogni portata cognitiva. Le influenze probabilistiche, caotiche e non-locali prendono il posto del determinismo della scienza classica.

Si dice che queste considerazioni disorientano e fanno “mancare la terra sotto i piedi”. Trovo invece che la mancanza di certezze non risulta affatto preoccupante né pessimista: anzi, un mondo governato dall’indeterminazione universale, dall’effetto-farfalla e dagli “attrattori caotici” sembra molto più interessante di un mondo deterministico e causale.

Se è consentita un’analogia, il desiderio di appoggiarsi a “punti fermi” assomiglia al tentativo di un nuotatore di aggrapparsi all’acqua in cui sta nuotando.

Anche se non ha niente a cui aggrapparsi, il nuotatore – se si rende conto della sua posizione – si troverà molto meglio senza tentare di stringere l’acqua come un “sostegno”, ma semplicemente muovendosi e sincronizzando i movimenti.


Il tempo è il risultato di un’instabilità.

Le leggi universali sono quelle del caos, dove l’irreversibilità e le risonanze creano strutture.    La megalomania dell’osservatore è scomparsa.

Il non-equilibrio e l’irreversibilità non sono più fastidi negativi come nella visione classica, ma hanno una funzione creatrice imprevedibile, sono l’origine della varietà e della molteplicità.

Da un libro di Laborit già citato riportiamo il brano seguente:


Questo stato di non-equilibrio di cui parla Prigogine, che caratterizza l’organizzazione della materia in un organismo vivente, questo non-equilibrio fragile mantiene così le proprie caratteristiche originarie solo attraverso ciò che chiamiamo il pensiero. (61)


Le antenne della materia

La visione corrente sulla struttura della materia (su scala atomica e non nucleare) fa riferimento a particelle tenute unite da forze elettrostatiche (coulombiane) che, analogamente alla gravità, diminuiscono rapidamente con la distanza. La formula di Coulomb è formalmente analoga a quella di Newton che regola, nella fisica classica, le attrazioni gravitazionali e quindi il moto dei pianeti.  Le forze di Coulomb trattengono gli elettroni in rotazione attorno al nucleo atomico. Così è fatta la materia nell’immaginario collettivo dell’Occidente.

Se però consideriamo che una carica in movimento irradia, cioè trasmette energia a varie frequenze, possiamo vedere la materia come una rete di forze elettrodinamiche di irraggiamento-trasmissione: una materia fatta di “antenne”. Con questo approccio si può immaginare che vengano trasferite energie coerenti a grandi distanze: si dovrebbe esplorare soprattutto l’interazione elettrodinamica, anche all’interno della materia condensata, “governata” non soltanto dalla formula di Coulomb, ma soprattutto dalle equazioni di Maxwell.

L’affinità energetica non è più dovuta alla vicinanza spaziale, ma alla sintonia o quasi-identità di frequenze. In questo quadro si possono creare risonanze e quindi attivare trasferimenti di strutture energetiche che si amplificano: in altre parole, si auto-organizzano. In tal modo, più che vedere particelle individuali, si vedono collettività strutturate di energia. Attraverso l’approccio elettrodinamico accennato l’energia può essere resa coerente da analogie strutturali di campo anche a distanze di ben altri ordini di grandezza rispetto ai valori iniziali. I fenomeni diventano anche qui essenzialmente non-locali. La psiche, che era vista come apporto dell’osservatore-umano nella prima versione dell’interpretazione di Copenhagen, è ora nella materia-energia, facendola diventare un ente trinario.

Invece di un nucleo statico e tante “palline” che gli ruotano attorno, si ha un insieme dinamico di relazioni che costituisce la materia, così come una foresta, un torrente o una specie vivente. I “modelli di sintonia” si chiamano fra loro, non ubbidiscono a un comando “esterno”.


Considerazioni riassuntive

L’evoluzione del pensiero cui abbiamo accennato scegliendo una certa sequenza di idee ha portato ad allontanarsi sempre più dalla concezione cartesiana, quindi dal cuore stesso dell’Occidente degli ultimi tre secoli: e tutto questo si è originato dal metodo scientifico, che è il più accettato dall’Occidente stesso.

La sequenza di allontanamento può essere individuata nella successione: relatività-fisica quantistica e indeterminazione-leggi del caos.

Il mondo non è un orologio, ma un grande Pensiero in cui dominano l’instabilità, il non-equilibrio, le biforcazioni e l’effetto-farfalla. Qualunque ente o processo ha il suo grado di libertà. Il mondo è creativo, imprevedibile, indeterminato, come il Grande Spirito.

Non è possibile sapere se nei prossimi decenni, o secoli, queste tendenze si estenderanno nel pensiero corrente provocando la fine della civiltà industriale e del suo sviluppo, oppure resteranno in qualche biblioteca come spinte di minoranza. Le abbiamo riportate come segno di speranza.

La concezione che tutta la Natura è anche Mente, che richiama le idee panteiste-animiste di tante culture umane, è infatti incompatibile con l’attuale civiltà industriale, che richiede la manipolazione di una materia che non c’è più. Anche se nulla “ritorna” in senso stretto, verrebbero di nuovo in luce quelle concezioni di pensatori come Bruno, Leibniz e Spinoza che non si sono diffuse qualche secolo fa e non hanno avuto conseguenze pratiche sulla vita successiva.


Torniamo per un attimo alla fisica degli anni Trenta.

Spesso si sente dire che la fisica quantistica va contro il senso comune. Ma il cosiddetto “senso comune” (o “buon senso”) è semplicemente formato dai paradigmi e dalle cornici concettuali – cioè dai pregiudizi – della cultura in cui siamo nati e che quindi abbiamo sempre respirato. 

Secondo il parere di un noto scienziato del Novecento:


   Oggi c’è una concordanza di vedute molto vasta – che tra i fisici raggiunge quasi l’unanimità – sul fatto che la corrente delle conoscenze si sta dirigendo verso una realtà non meccanica: l’Universo comincia ad assomigliare ad un grande Pensiero piuttosto che ad una grande macchina. (62)


E’ sintomatico che gli stessi risultati sul piano fisico-matematico siano stati interpretati in modo diverso sul piano filosofico:


- Einstein, di formazione culturale ebraica, non riuscì a rinunciare al concetto di “realtà oggettiva esterna” e non si convinse mai completamente della fisica quantistica; in sostanza, anche se a livello intellettuale si dichiarò favorevole al “Dio di Spinoza”, non potè mai rinunciare alla sua posizione “occidentale” nei riguardi del mondo fisico;


- Schroedinger, profondo conoscitore della filosofia vedica, non accettò che il mondo “reale” fosse inconoscibile in quanto riteneva che la mente umana fosse un riflesso, un “ologramma” della Mente Universale, e quindi doveva poter conoscere fino in fondo;


- Bohr, che conosceva anche il Tao, accettò in pieno le conseguenze delle formulazioni fisico-matematiche di Heisenberg e dello stesso Schroedinger, rinunciando senza traumi al concetto di “realtà oggettiva” e considerando gli aspetti apparentemente contradditori (tipo onda-corpuscolo) come complementari e necessari; estese quindi ad altri “opposti” il concetto di complementarietà.


Come si è visto, anche nella fisica vi sono state interpretazioni, da parte di qualcuno degli stessi fondatori, tendenti a mantenere le nuove concezioni in una visione antropocentrica, a conferma della tendenza a inquadrare nuove idee nei vecchi schemi, almeno per qualche decina di anni. 

Ma l’impostazione della scuola di Bruxelles non ha più il rischio dell’antropocentrismo.

Però la scienza ufficiale resta sulle posizioni tradizionali, come ha sempre fatto. Ciò che esce dal paradigma dominante non viene preso in considerazione: solo i fenomeni ripetibili e inquadrabili nello schema di pensiero ufficiale sono riconosciuti, gli altri vengono scartati, negati.

Così non si può toccare il campo dei fenomeni parapsicologici, o di indistinguibilità macroscopica fra psiche e materia, cioè di quei fenomeni che la scienza ufficiale cartesiana è costretta ad accantonare o negare per non vedere intaccate le sue premesse.

Davanti a un fenomeno che mette in discussione la cornice concettuale vigente, non resta che la negazione, tipica reazione della psiche alle novità sgradite. Ad esempio, la constatazione che il pensiero o l’emozione influiscono sullo sviluppo di una pianta viene “dimenticata”, o tutt’al più interpretata come intervento di una forza “esterna” che “agisce” sulla pianta stessa.

Così pure, se lo scienziato francese Benveniste scopre la “memoria dell’acqua” cioè si accorge che l’acqua “è cambiata” se ha avuto con sé una sostanza di cui poi è stata tolta anche l’ultima molecola, la cosa viene accantonata, lo scienziato viene deriso, non si fanno ulteriori indagini. Tanta è la forza del paradigma dominante: se non c’è più nessuna molecola, si è tolta anche l’ultima “pallina”, la sostanza non c’è più, l’acqua ritorna quella di prima; quindi la medicina omeopatica non può esistere, anche quando funziona.


Credo invece che in realtà ci stiamo avvicinando al pensiero “selvaggio”, nei cui simboli è probabilmente nascosta la metafora di una scienza indipendente.

Ricordo che negli ultimi sviluppi della fisica sono stati messi in dubbio i presupposti delle già citate “teorie realistiche locali”, cioè i pilastri su cui poggiano non solo la fisica classica, ma anche la relatività prequantistica, che riportiamo di nuovo:


- l’esistenza di un mondo oggettivo reale e materiale (ipotesi cartesiana-newtoniana);


- la ripetibilità dei fenomeni, secondo la quale dalle stesse cause e con le stesse premesse, si ottengono gli stessi effetti. Ma se è sufficiente una variazione infinitamente piccola per far evolvere il fenomeno in direzioni completamente diverse, allora il concetto di “stesso” scompare;


- l’impossibilità di azioni istantanee a distanza, cioè la necessità che qualunque “messaggio” debba viaggiare a velocità inferiore o uguale a quella della luce.

Qualunque azione, o modifica, o fenomeno ha effetti istantanei su tutto l’universale. Non si può isolare alcun fenomeno, né separare alcunchè.

Pertanto, con la caduta delle teorie realistiche locali e della distinguibilità fra mente e materia, diventa possibile esplorare campi di conoscenza come l’astrologia e la parapsicologia (precognizione, chiaroveggenza, azioni a distanza), con un notevole riavvicinamento al pensiero magico.

A seguito degli studi e delle teorie della scuola di Bruxelles, qualche commentatore ha parlato di proto-intelligenza della materia: anche se la definizione è affascinante, occorre tenere presente che la parola “materia” è per noi carica di significato cartesiano e ci evoca l’idea di qualcosa di inerte. Sarebbe meglio cambiare il termine.

L’immersione nel divenire offre una variabilità imprevedibile: un ente trino, la mente-energia-materia, si evolve senza schemi fissi: è la Natura stessa. Non solo il vuoto quantistico pulsa di vitalità, ma il tempo è divenuto una forza creativa.


  E’ infine interessante notare che molte tradizioni metafisiche e religiose pongono l’accento su aspetti dell’universale che troviamo anche nella fisica. In particolare:


- l’aspetto unitario (collegamento totale istantaneo) è più o meno presente in tutte le tradizioni;


- l’aspetto binario di complementarietà degli opposti (fisica di Bohr) si trova nel Taoismo e nello Shintoismo;


- l’aspetto trinario (mente-energia-materia) è ben presente nelle religioni cristiana e induista;


- l’aspetto della molteplicità delle manifestazioni dell’Uno è presente in generale nelle religioni animiste, oltre che in qualche tradizione indù;


- la Vacuità (vuoto quantistico) o sunyata è essenziale nella tradizione buddhista, con il superamento del dualismo Essere-Nulla e l’impermanenza di qualunque entità.


Note al Capitolo 8


(48) Il termine entropia indica una grandezza fisica cha dà una misura del grado di “disordine” o “uniformità” in cui si trova un sistema.


(49) Einstein, De Broglie, Planck, Schroedinger.


(50) Bohr, Heisenberg, Max Born, Wolfgang Pauli.


(51) John Blofeld – L’insegnamento Zen di Hui Hai - Ed. Ubaldini, 1977.


(52) Edward Conze – Sutra del Diamante e Sutra del Cuore – Ed. Ubaldini, 1976.


(53) Il significato del termine bootstrap è quello di “reggersi ai tiranti dei propri stivali” ovvero “stivale che si regge sui suoi propri tiranti”, cioè che ha in sé stesso i motivi della propria esistenza.


(54) 3 gradi Kelvin è una temperatura che corrisponde a 270 gradi sotto zero secondo la scala Celsius.


(55) Una situazione di volume zero e densità infinita, cioè Universo puntiforme, è detta matematicamente una singolarità. La singolarità viene “coperta” e resa indeterminata da fenomeni quantistici.


(56) Isotropa significa uguale in tutte le direzioni dello spazio.


(57) Si dice asintotico l’andamento di una grandezza che si avvicina sempre più a un valore finito senza raggiungerlo mai.


(58) Analogamente, alcuni millenni orsono, a un Faraone egiziano che aveva chiesto “Perché esiste il Nilo?” fu risposto “Perché il Nilo rende possibile la vita dell’Egitto”. La non-esistenza del Nilo era intrinsecamente non osservabile.


(59) A proposito dei tachioni, uno dei primi a ipotizzarli è stato il fisico indiano Sudarshan, che così illustrava le sue considerazioni: “Supponiamo che un demografo, che studi i popoli dell’India, se ne esca con l’ingenua affermazione che non c’è nessuno a nord dell’Himalaya, dato che mai alcuno è riuscito a valicare tali montagne. Questa sarebbe una conclusione assurda. I popoli dell’Asia Centrale sono nati e vivono al di là dell’Himalaya: essi non hanno avuto bisogno di nascere in India e poi scavalcare i monti. Analogamente per le particelle più veloci della luce”. Sui tachioni sono stati pubblicati diversi articoli sulle riviste Le Scienze, Scientia e sul Bollettino della Società Italiana di Fisica, soprattutto ad opera del fisico italiano Erasmo Recami. Cito in particolare: E. Recami – M.Fracastoro Decker – I tachioni – Il Nuovo Saggiatore, maggio-giugno 1986.


(60) Il termine entropia indica una grandezza fisica che dà una misura del grado di “disordine” o “uniformità” in cui si trova un sistema.


(61) Henry Laborit – Dio non gioca ai dadi – Ed. Eleuthera, 1989.


(62) James Jeans – I nuovi orizzonti della scienza – Ed. Sansoni. 

Un’affermazione analoga è stata espressa anche dal fisico inglese Arthur Stanley Eddington ed è riportata in numerose pubblicazioni.




9 – VISIONE OLISTICA DEL MONDO



Mi abbandono alla convinzione fiduciosa che il mio conoscere è una piccola parte di un più ampio conoscere integrato che tiene unita l’intera biosfera.

Gregory Bateson


Chi si astiene dal maltrattare ogni essere senziente, a maggior ragione si asterrà dal nuocere ai suoi simili. Più grande sarà la sua amicizia per il genere animale, più grande sarà la giustizia che porterà verso il genere umano.

Porfirio di Tiro (270 d.C.)


Buddha, meditando sul modo di liberare l’umanità dall’oppressione del dolore, giunse a questa verità: che, quando l’uomo consegue il suo fine più alto, dissolvendo nell’universale tutto ciò che è individuale, si libera dalla servitù del dolore.

Tagore


Nel nuovo paradigma il rapporto fra le parti e il tutto è invertito. Le proprietà delle parti possono essere comprese solo alla luce della dinamica dell’intero. In definitiva, le parti non esistono. Ciò che chiamiamo parte è solo una configurazione in una rete inseparabile di relazioni.

Fritjof Capra


Dio è infinito nell’infinito, dovunque in tutte le cose, non al di sopra né fuori di esse, ma ad esse assolutamente intimo.

Giordano Bruno


Credo nel Dio di Spinoza, che si manifesta nell’armonia di tutte le cose, non in un Dio che si interessa del destino e delle azioni degli uomini.

Albert Einstein





Quando si parla di ecologia e protezione della Natura, occuparsi di “visioni del mondo” sembra una cosa più astratta, o meno pratica, rispetto a dare consigli sullo smaltimento dei rifiuti o la conservazione delle foreste, ma è soltanto perché parlare di “visioni del mondo” ha effetti a scadenza molto più lunga. Sono però aspetti che toccano molto più in profondità il comportamento e gli atteggiamenti, rispetto ai più immediati consigli pratici di ecologia spicciola.



Premesse

Riassumiamo qualche fondamento delle conoscenze attuali incompatibile con il sottofondo culturale ebraico-cristiano e con il dualismo di Cartesio:


- Né la Terra, né il Sole, né niente altro sono al centro di qualcosa: gli astri sono tutti ugualmente granelli nel mare dell’Infinito. Non c’è nessun centro di alcun tipo.


- L’umanità è una specie animale comparsa su uno dei tanti pianeti solo tre milioni di anni fa, contro i tre o quattro miliardi di anni di esistenza della Vita sulla Terra e i quindici o venti miliardi trascorsi dalla presunta nascita dell’Universo, ammesso che il Tutto non sia qualcosa di pulsante ciclicamente da sempre. Quindi il presunto “re del Creato” sarebbe arrivato un po’ tardino, mentre il suo cosiddetto “regno” lo stava aspettando con scarsa impazienza.

Inoltre, ci vuole una bella presunzione a pensare di “migliorare” ciò che ha impiegato quattro miliardi di anni per divenire ciò che è. L’umanità fa parte in tutto per tutto della Natura. I fenomeni vitali sono uguali in tutte le specie.


- La cultura occidentale ha solo due o tremila anni, la civiltà industriale ha duecento anni: si tratta di tempi del tutto insignificanti. Anche il concetto di progresso ha una vita brevissima, non più di due o tre secoli; evidentemente si può vivere anche senza questa idea fissa.

La divisione fra preistoria e storia è solo uno schema mentale della nostra cultura, che serve ad alimentare una certa visione del mondo. Non c’è alcun motivo, né alcuna scala di valori privilegiata, per considerare una cultura migliore o peggiore di un’altra. Si noti poi che si usa chiamare “storia” ciò che è accaduto negli ultimi cinquemila anni alla civiltà occidentale e viene liquidata con l’unica etichetta di “preistoria” tutta la Vita della Terra, cioè quattro miliardi di anni e cinquemila culture umane.


- Il funzionamento mentale essenziale, il comportamento, sono in sostanza simili in tutte le specie animali vicine a noi. In gran parte si tratta di fenomeni non-coscienti.


- La fisica quantistica ha dimostrato l’impossibilità intrinseca di descrivere fenomeni materiali o energetici senza considerare l’osservazione; ciò significa che, senza la mente, la materia-energia è priva di significato, non è in alcun modo descrivibile, è “priva di realtà”, è solo una specie di onda di probabilità. Della fisica meccanicista di Newton resta solo la funzione pratica, anche se nelle nostre scuole di base non c’è traccia del profondo cambiamento avvenuto.


Da questo quadro rinasce una concezione antichissima e assai diffusa: l’animismo. Una forma di “mente” deve essere ovunque, è insita nell’universale, se vogliamo evitare il paradosso dell’”osservatore” che determina la cosiddetta realtà. La distinzione fra spirito e materia cade completamente. Tornano alla memoria il Grande Spirito e lo spirito dell’albero, della Terra, del fiume, del bisonte.

C’è un’altra leggenda da sfatare, quella della cosiddetta neutralità della scienza, o indipendenza della scienza dalle concezioni metafisiche. La scienza ufficiale ricorre spesso a vere acrobazie intellettuali pur di non uscire dal paradigma cartesiano, che considera “ovvio” ed “acquisito”. Così si trova in vie senza uscita, ed a volte è costretta a negare o a non considerare i fatti non inquadrabili in quello schema concettuale, pur di non mettere in discussione le premesse: e allora deve far sparire intere categorie di fenomeni di interferenza macroscopica, o non-distinguibilità, fra spirito e materia, con la scusa che non sarebbero “ripetibili”.

Le gravi difficoltà della fisica provengono dalla disperata insistenza nel volere inquadrare le conoscenze moderne nel paradigma cartesiano.

Eppure ancora oggi, per apparire “moderne”, tante persone amano definirsi “cartesiane” o “razionali”, non sapendo di difendere invece il pensiero dell’Ottocento. Le idee del filosofo francese sono accettate dalla grande maggioranza delle persone semplicemente perché ciò che respiriamo fin dalla nascita ci appare ovvio, il che significa che non ci appare affatto. Ma il primato del razionale sull’emotivo e sull’intuitivo è solo un pregiudizio della cultura occidentale odierna.


Gli opposti

La cultura occidentale vede tutto spaccato in due: questo è già motivo di ansietà; non solo, ma considera “opposte” le due parti e le vive in modo schizofrenico, non le considera due poli indivisibili, due facce della stessa medaglia, due aspetti della stessa cosa.

Pensa che un “polo” sia migliore e pretende di far sparire l’altro polo.

Alcuni scienziati stanno perfino cercando disperatamente il “monopòlo” magnetico, cioè vogliono “scoprire” un polo nord senza il polo sud, cosa risultata finora impossibile. Ma forse anche il monopòlo sarà una creazione della mente. Perfino nel magnetismo sembra che qualcuno consideri il polo nord “un po’ più bello” del polo sud.

Se vogliamo usare la terminologia del Taoismo, l’Occidente vuole un Universo solo Yang: lo Yin deve essere abolito; come se questo avesse senso. Comunque, in tal modo si causa solo angoscia. L’Occidente vuole il sereno senza la pioggia, il tempo unidirezionale e non quello ciclico, vuole la competizione, la supremazia, l’affermazione dell’ego, il progresso verso il futuro come una semiretta. Vuole la vita senza la morte, l’Essere senza il Nulla, l’attività senza la passività, il fare senza il meditare, la crescita senza la diminuzione.

I giornalisti del mondo economico arrivano a non nominare neppure la diminuzione, vogliono esorcizzarla chiamandola “flessione”, che invece è un’altra cosa. Come se fosse possibile avere le montagne senza le valli.

Questo vedere il mondo come complementarietà di Yin e Yang e non come inseguimento di un polo solo è in fondo la filosofia per la quale era ben difficile che in Cina potessero nascere il progresso tecnologico e la civiltà industriale mille anni prima che in Occidente.


Per quanto riguarda la morte, vediamo come è venuta.

Due o tre miliardi di anni orsono, la Terra era popolata di microorganismi che si riproducevano dividendosi in due: quindi non morivano.

C’era a disposizione un patrimonio genetico che poteva rinnovarsi solo con molta lentezza attraverso qualche mutazione. Era assai difficile creare organismi nuovi.

Per consentire il sorgere di varietà, bellezza e spiritualità nella vita bisognava avere tante forme e organismi nuovi: quindi mescolare il tutto in modo molto più rapido e creativo.

Perciò la Natura - che potete chiamare anche Dio - inventò il sesso e la morte.

Ecco perché, da allora, si è resa utile e necessaria la morte per consentire la Vita. La morte è solo l’altra faccia della vita.


Oggi imperano le immagini nate dal computer, che alcuni salutano come non-meccaniche, come olistiche. Ma anche se introducono le idee non-meccaniche di informazione e di relazione, si basano – a livello elementare – su una logica binaria, ancora su un dualismo SI-NO o pieno-vuoto, quindi su una contrapposizione. Inoltre perpetuano la divisione cartesiana, ribattezzata hardware e software.

Ben difficilmente una visione di questo tipo può essere un punto di partenza per fondere o integrare le cosiddette due culture, o un approccio per integrare gli opposti.

La fisica quantistica invece ammette una logica “SI e contemporaneamente NO”, “vuoto e contemporaneamente pieno”, e può accettare posizioni non-quantitative e non-meccaniche. Con l’indeterminazione universale si possono integrare gli opposti vedendoli come complementari e compresenti. Non si tratta di una logica trinaria SI-NO-NON SO ma di una possibilità multipla indeterminata. Anche distinzioni come reale-immaginario, scoperta-invenzione, e così via, perdono significato. Con il nuovo approccio si potrebbe uscire dall’intrico delle innumerevoli particelle che vengono via via “scoperte”: altrimenti si finirà con trovare tutto quello che si cerca, pur di cercarlo in un certo modo, cioè si potranno inventare-scoprire chissà quante altre “particelle” in una sequenza senza fine. Ormai tutte queste “entità” hanno un contenuto mentale a malapena celato dal linguaggio matematico.

Con una eventuale rifondazione concettuale non-cartesiana, non si avrebbe più soltanto una “fisica” nel senso materialistico o prequantistico, ma qualcosa di più, rendendosi sempre più evanescente anche la distinzione fra fisica e metafisica, fra conoscenze “materiali” e “spirituali”. Soprattutto, in questo senso, la nuova fisica può essere il ponte per collegare le cosiddette “due culture” e portare a una progressiva scomparsa della loro distinzione.


Visioni del mondo

     Fra le tantissime “visioni del mondo” presenti nell’umanità è assurdo che esista quella “vera” o “giusta” perché questo costituirebbe una inspiegabile asimmetria.

     Pertanto l’idea della “verità” è una caratteristica che discende dalla visione cartesiana del mondo “oggettivo” o “reale” che “è” in un certo modo.

     Le visioni del mondo sono tutte equivalenti e reali in quanto tali e in quanto manifestatesi in qualche sistema di pensiero. Non può esserci quella più “vera” o più “giusta” delle altre.  Altrimenti, come potevano manifestarsi tante visioni diverse e inoltre variabili continuamente nel tempo?

     Anche le religioni (componenti essenziali della visione del mondo) sono tutte ugualmente vere o non-vere. Costituiscono il nostro rapporto con l’Invisibile.

     Abbiamo già accennato al concetto di verità. Le domande sono assai stimolanti, le cosiddette risposte “definitive” portano solo guai. Non si tratta di chiedersi “Non avrà ragione l’altro?” perché questo presuppone che esista una “ragione”. Non si tratta neppure di “essere sempre in dubbio” perché ciò presuppone qualcosa di sicuro e reale su cui dubitare, significa che si è in dubbio su qualche “verità”.

     Il concetto di dubbio presuppone quello di verità. Diverso è abolire l’antitesi vero-falso, considerando i due termini come complementari e compresenti. Così la distinzione fra “i fatti” e “le opinioni” è illusoria, perché quelli che vengono chiamati “fatti oggettivi” sono soltanto le opinioni di un modello culturale umano: nel nostro mondo vengono chiamati fatti reali le opinioni della cultura occidentale. In ogni cultura si forma una verità, che però vale quanto qualsiasi altra.

     Comunque il concetto di “verità assoluta” e la conseguente necessità di “scoprirla” possono essere assimilati a una gabbia, a un’oppressione.

     L’universale appare come spirito o come materia, a seconda di cosa si cerca. Come il fisico trova particelle o onde a seconda di cosa cerca, così le culture materialiste trovano materia, le culture animiste trovano spiriti.

     Ogni disputa su quale sia l’interpretazione “giusta” è priva di significato: è questo dualismo, creato da noi, che fa nascere il problema, altrimenti inesistente.

     Solo in assenza del concetto di verità si può vedere qualcosa di assoluto, o non-differenziato. La verità è mutevole e sfuggente, mentre la variabilità è universale e incessante.


   Cartesio ci ha condannato alla verità, ma già quattro secoli orsono Montaigne aveva scritto: Il concetto di certezza è la più solenne scemenza inventata dall’essere umano.

    Del resto queste non sono neppure novità, se si pensa ad antiche affermazioni, quali ad esempio:


- “Il Tao che può essere spiegato non è il vero Tao” (Lao-Tse);


- “Quello che ho da insegnare non può essere insegnato” (Buddha);


- Infine, alla domanda di Pilato: “Cosa è la verità?”, Cristo rispose con il silenzio.


 Per quanto riguarda l’integrazione di opposti del tipo “colui che agisce” e “la materia su cui si agisce”, si noti che le stesse lingue europee ci impediscono di pensare a un processo che avvenga spontaneamente, che abbia in sé la sua ragione d’essere.

    Pensiamo sempre a “qualcuno” che agisce, a qualcosa di “esterno” che causa gli eventi. Non siamo psichicamente attrezzati per concepire l’immanenza; così pure traduciamo a volte come non-azione il termine taoista wu-wei, che significa “azione spontanea secondo la natura delle cose.

     Ogni verbo deve avere un pronome per soggetto, un agente: così siamo abituati a pensare che una cosa non sia al proprio posto se non c’è qualcuno o qualcosa che le assegna quel posto, se non c’è un responsabile. L’idea di un processo che avviene totalmente da solo quasi ci spaventa: ci sembra che manchi l’autorità. L’idea del Dio dell’Antico Testamento e il dualismo cartesiano ricompaiono ovunque.


Stabilità e movimento

L’antica divergenza metafisica fra Eraclito e Parmenide, cioè il contrasto fra il divenire e l’essere, è anch’essa una questione di visioni complementari. Apparentemente, con il fluire perenne e imprevedibile, con il divenire e le leggi del caos, la disputa sembra “risolta” a favore di Eraclito, dopo 2500 anni. L’universo appare un fluire incessante se teniamo il tempo come una variabile autonoma.

Adottando un approccio quadridimensionale, cioè comprendendo il tempo come variabile intercollegata a quelle spaziali, ci troviamo in un quadro diverso, che appare “immobile”.  In un universo di Minkowsky – direbbero i matematici – il mondo sembra parmenideo, “immutabile”.

Ma non si tratta di visione giusta o sbagliata.

Il dilemma è insolubile, in quanto intrinsecamente inesistente. Si tratta di modalità complementari che si attirano a vicenda, non di posizioni contrarie.

In uno dei frammenti dello stesso Eraclito, si trova scritto che il mutamento incessante presuppone uno sfondo immobile senza il quale non si potrebbe apprezzare il movimento.


Conclusioni

Proviamo ad abbozzare qualche conclusione.

Esiste un approccio di tipo riduzionista mirante allo studio delle cause elementari prime di un fenomeno, che suppone sempre scomponibile in parti più semplici, e c’è un approccio di tipo olistico, che parte dalle proprietà globali di un sistema, non riducibile all’insieme dei suoi elementi.

Il fisico fa riferimento continuo alle particelle elementari, il biologo al DNA, il sociologo all’individuo, sperando di ridurre il complesso al semplice, e così viene fatto per gli ecosistemi.

Ma la recente nozione di complessità è diversa. Il tutto vale di più della somma delle parti, perché ci sono le mutue correlazioni. Non solo, anche il modo di scegliere i componenti (che singolarmente non hanno alcuna realtà autonoma) è arbitrario, perché presuppone una cornice concettuale preconcetta, un pregiudizio.

Il riduzionismo nasce dal paradigma dominante dell’Occidente, cioè dall’idea che sia possibile scomporre qualsiasi cosa, o evento, in parti separate.

L’approccio riduzionista è stato quello seguito soprattutto negli ultimi secoli e che ha portato alla visione del mondo e al modo di vivere attuali delle genti di cultura occidentale, o che hanno assorbito i valori di tale cultura. L’approccio olistico riesce difficile a chi è nato con i fondamenti del primo e sta appena cominciando a manifestarsi oggi in forma individuale o poco più.

Quindi per ora possiamo anche ritenerci liberi di immaginare, o di sperare. Il passaggio necessario per attuare e rendere abituale un nuovo modo di pensare è difficilissimo, anche per chi ne fosse convinto intellettualmente. Ciascuno può immaginare a suo modo le conseguenze che potranno derivare da un’eventuale affermazione su scala generale dell’approccio olistico.


Come esercizio, proviamo ad immaginare un mondo in cui:


- gli opposti sono soltanto aspetti complementari della stessa cosa;


- la morte è semplicemente l’altra faccia della vita: la Natura è fatta di entrambe come aspetti inscindibili dello stesso fenomeno;


- non c’è niente da combattere, niente da dimostrare, nessuna gara da vincere o perdere, non c’è alcun bisogno di graduatorie né di primati. I concetti stessi di vittoria, sconfitta e sfida sono inutili;


- non c’è nulla da conquistare, manipolare, alterare;


- i concetti di ragione e torto, merito e colpa, sono soltanto pericolose sovrastrutture della mente, che eccitano la violenza e spengono il sorriso;


- non c’è alcuna distinzione fra spirito e materia, fra umanità e natura, fra Dio e il mondo. La mente è diffusa, universale, indivisibile. Non siamo alcunchè di particolare, né di centrale.


Poiché è sparita l’idea di “realtà oggettiva”, i concetti di verità e di certezza diventano inutili: con tutto in continuo dinamismo, il concetto di verità tende a coincidere con quello di Natura e quindi, in una visione panteista, con l’idea della divinità.

E’ bene chiarire che non si tratta di una visione statica, di un mondo in cui l’assenza del concetto di “progresso” comporti un modo di vivere immutabile, sempre uguale a sé stesso, oppure “di attesa”. In un certo senso, si può paragonare ad un fiume: sembra simile a sé stesso, ma invece scorre, magari anche velocemente.

Nel torrente non ci sono mai due istanti in cui passa la stessa acqua, che è continuamente in movimento. I sassi sono là in mezzo: non vengono aggrediti o spaccati, ma lasciati dove sono. L’acqua li aggira, passa ugualmente e scende verso il piano e il mare.

Non si tratta di “non fare”, ma di agire seguendo il corso naturale delle cose, secondo la Natura. Così si può continuare a fare oscillare un pendolo colpendolo ritmicamente, purchè i colpi siano sincroni con la sua frequenza.

Inoltre, oggi nel nostro mondo c’è un’ossessiva invasione di termini come lotta, battaglia, supremazia, competizione, gara, sfida, vittoria, sconfitta e simili: basta leggere un giornale per rendersi conto di quanti fatti vengano interpretati con questo schema.

Nella nuova visione, proviamo invece a privilegiare l’aspetto cooperativo e universalizzante nei confronti di quello competitivo e autoassertivo oggi esaltato in modo abnorme dalla cultura occidentale; con altro linguaggio, si tratta di recuperare l’aspetto “femminile” del mondo.

Proviamo anche a lasciar perdere qualche “simbolo” animale, smettiamo di esaltare chi imita l’aquila, il leone, la tigre per la loro simbolica aggressività. Il mondo è pieno di roditori, non di aquile che, poverette, stanno per estinguersi per la folle espansione umana. Per frenare un po’ la mania imperante, è ora di fare l’elogio del coniglio, l’elogio della fuga, in senso anche emotivo, psicologico. (63)

Non c’è alcun bisogno di “battaglie”, ma c’è bisogno soprattutto di comprendere, accettare e sorridere. La “lotta per la pace” è un’espressione ambigua, perché la pace è una condizione di non-lotta: è un atteggiamento. Si tratta di renderlo universale. Ripeto, questo non significa “far niente” o “lasciar fare”: l’azione più utile è forse quella della diffusione di idee, cioè quella di opporsi a idee correnti preconcette, magari col sorriso. Contribuire attivamente a rendere universale l’idea di non-lotta è comunque un’azione.


Il mondo non è una cosa da conquistare, ma è l’Insieme di cui facciamo parte. Se poi dobbiamo proprio cercare di “far crescere” qualcosa, vediamo di migliorare le nostre qualità percettive per raggiungere una migliore sintonia con il ritmo vitale del Cosmo. Non è che in un mondo del genere ci sia “niente da fare” o “niente a cui pensare”: si possono ammirare i fiori e gli alberi, guardare la luna e le stelle, osservare il volo degli uccelli e sentirsi in sintonia con essi, e soprattutto pensare, partecipare della simbiosi universale.

Se abbandoniamo la manìa del successo e assaporiamo il piacere della non-competizione faremo rinascere il gusto di vivere.

Nella concezione che vede mente e materia come unica espressione indivisibile della Natura, siamo certamente abbastanza lontani dall’idea della “materia bruta” mossa da qualcosa di “esterno”, dall’idea di un mondo fatto per noi e manipolabile a nostro vantaggio (!) e piacimento. La realtà di oggi, dovuta all’affermarsi di un particolare modo di pensare in una cultura umana, quella occidentale, dimostra che i disastri arrecati dalla nostra specie all’Equilibrio Globale sono di gravità infinitamente maggiore di quelli eventualmente provocati dagli altri esseri viventi, ma non si tratta solo di considerazioni etiche, perché, se non cambieranno le premesse culturali, i disastri – già enormi – diventeranno irreversibili. Anche se la Natura riuscirà su tempi lunghi a riportare un equilibrio (come fa con le altre specie, ma su scala ben più piccola), ne risulterà una situazione molto più “povera” di Vita e mente.

Il fatto di non considerarci “esseri speciali” o “in posizione centrale” non deve affatto indurre al pessimismo; anzi, è motivo di lieta serenità.

Invece del Dio-Persona distinto dal mondo e giudice delle azioni umane, troviamo il Dio-Natura immanente in tutte le cose, e quindi anche in noi stessi, che ne siamo partecipi. La Divinità osserva sé stessa anche attraverso gli occhi di una marmotta, o di una formica, o l’affascinante e misteriosa sensibilità di un albero.





Note al Capitolo 9


(63) Henry Laborit – Elogio della fuga – Ed. Mondadori, 1982.


10 – COSA FARE ORA



Nel 1953 mi resi conto che la linea retta porta alla caduta dell’umanità. Ma la linea retta è divenuta una tirannia totale! E’ una linea tracciata da una mano pavida, col righello, senza riflessione o sentimento: una linea che non esiste in natura. E quella linea costituisce il corrotto fondamento della nostra dannata civiltà. Anche se da più parti è stato osservato che essa ci sta rapidamente portando alla malora, il suo corso continua ad essere disegnato... Ogni opera realizzata con linee rette nasce senza vita. Oggi siamo testimoni del trionfo della cultura razionalista, eppure ci troviamo davanti a un vuoto. Ed è vuoto estetico, deserto di uniformità, criminale sterilità, perdita di potere creativo. La creatività stessa è prefabbricata. Siamo divenuti impotenti, incapaci di creare. Questa, è la nostra vera ignoranza.

Friedensreich Hundertwasser


Staccarsi progressivamente dall’esistenza è l’insegnamento tradizionale dell’India, l’immersione frenetica nel vivere è l’inarrestabile malattia dell’Occidente. Abbiamo esportato dappertutto questo nostro miasma, eccitatore di violenza, spegnitore di sorriso.

Guido Ceronetti


La religione del futuro sarà una religione cosmica. Dovrebbe trascendere un Dio personale ed evitare dogmi e teologia. 

Incorporando sia il mondo naturale che il mondo spirituale dovrebbe fondarsi su un senso religioso che scaturisce dall’esperienza di ogni cosa, naturale e spirituale, come di un’unità piena di significato.

Albert Einstein



Premesse

L’ecologia profonda è un sistema di pensiero: non richiede azioni drastiche o violente né dimostrazioni plateali. Un movimento si ispira a un’ecologia profonda se ne segue la radicalità del pensiero e intacca alla radice gli attuali fondamenti culturali, non se compie azioni fanatiche o di rottura. Non si può comunque dimenticare che per modificare il sottofondo filosofico del pensiero generale e quindi l’atteggiamento verso la Natura occorrono tempi lunghi.


Quasi tutti i movimenti ecologisti oggi presenti in Italia, e forse nel mondo, si fondano sulle concezioni dell’ecologia di superficie.

E’ probabile che l’azione ecologista impostata senza modifica del pensiero generale comporti solo vantaggi limitati nel tempo e non riesca ad evitare un successivo collasso del Pianeta. Comunque, in questo mondo dominato dalla religione industriale-tecnologica, anche la posizione “di superficie” è assai utile, soprattutto per salvare almeno isole di Natura e per guadagnare tempo, dando così qualche possibilità di diffusione a filosofie naturali più profonde.

Nelle nostre scuole non c’è praticamente alcuna traccia delle tendenze del pensiero moderno cui si è accennato nel testo. Il sottofondo cartesiano-newtoniano è sempre presente e non viene mai messo in discussione. Si vogliono ottenere tecnici e specialisti, non offrire un panorama delle diverse visioni del mondo. Così si perpetua l’attuale aggressione alla Natura.

Comunque, nei cenni di confronto fra diverse concezioni, un po’ schematizzate per semplicità espositiva, non ho inteso dare alcun giudizio di valore né voluto considerarne qualcuna “migliore” di qualcun’altra. Ho cercato solo di evidenziare che le idee-guida della civiltà industriale non sono né uniche, né più “vere”, né migliori di tante altre. Fra le varie concezioni globali, quelle “non-ecologiche”, come quella diffusa oggi nella nostra cultura, sono sostanzialmente impossibili, su tempi lunghi, perché incompatibili con il sistema biologico terrestre, cioè con il funzionamento vitale della Terra.

       Si potrebbe ripetere la premessa di Bateson ai corsi di una Università americana:


E’ una questione di obsolescenza. Mentre buona parte di ciò che le Università insegnano oggi è nuovo e aggiornato, i presupposti o premesse di pensiero su cui si basa tutto il nostro insegnamento sono antiquati e, a mio parere, obsoleti.


Mi riferisco a nozioni quali:


- Il dualismo cartesiano che separa la “mente” dalla “materia”.


- Lo strano fisicalismo delle metafore che usiamo per descrivere e spiegare i fenomeni mentali: “potenza”, “tensione”, “energia”, “forze sociali”, ecc.;


- Il nostro assunto antiestetico, derivato dall’importanza che un tempo Bacone, Locke e Newton attribuirono alle scienze fisiche; cioè che tutti i fenomeni (compresi quelli mentali) possono e devono essere studiati e valutati in termini quantitativi.


La visione del mondo – cioè l’epistemologia latente e in parte inconscia – generata dall’insieme di queste idee è superata da tre diversi punti di vista:


- Dal punto di vista pragmatico è chiaro che queste premesse e i loro corollari portano all’avidità, a un mostruoso eccesso di crescita, alla guerra, alla tirannide e all’inquinamento. In questo senso, le nostre premesse si dimostrano false ogni giorno, e di ciò gli studenti si rendono in parte conto.


- Dal punto di vista intellettuale, queste premesse sono obsolete in quanto la teoria dei sistemi, la cibernetica, la medicina olistica, l’ecologia e la psicologia della Gestalt offrono modi manifestamente migliori di comprendere il mondo della biologia e del comportamento.


- Come base per la religione le premesse che ho menzionato divennero chiaramente intollerabili e quindi obsolete circa un secolo fa.


   Ogni aspetto della nostra civiltà è necessariamente spaccato in due. Nel campo dell’economia ci troviamo di fronte a due caricature esagerate della vita – quella capitalista e quella comunista – e ci viene detto che dobbiamo schierarci per l’una o per l’altra di queste due mostruose ideologie in lotta. Nella sfera del pensiero, siamo lacerati tra varie forme estreme di negazione dei sentimenti e la forte corrente del fanatismo anti-intellettuale.  (64)


Agli atteggiamenti, agli schemi mentali ed ai comportamenti dispotici di cui i sistemi economici capitalisti o socialisti sono intessuti, alla loro cultura riduzionistica e meccanicistica, la nuova cultura propone di sostituire l’idea di cooperazione simbiotica con la natura, una visione sistemica della vita, il riconoscimento dei diritti degli altri animali, una concezione olistica della salute del corpo e della mente.

Per un settore delle scienze sociali che alla fine del secolo ventesimo appare in crescita, sebbene ancora minoritario, la nuova sensibilità per i problemi della sopravvivenza e dell’adattamento dovrebbero tradursi in misure originali della qualità della vita.

Fino ad oggi le misure del livello di vita sono state basate esclusivamente su indicatori economici. Ma, per quanto siano disaggregati e ponderati, gli indicatori economici presentano una correlazione assai scarsa con il benessere fisico e psichico; e in certi casi, anzi, presentano una relazione inversa, come mostrano quegli indicatori di malessere che sono i tassi di criminalità, suicidi, tossicodipendenze e malattie mentali caratteristici della civiltà industriale.


Allenamento

Siete qui, in mezzo a un mondo tecnologico e inquinato. Automobili corrono ovunque. Questa è la realtà di oggi. 

Non potete lasciare tutto, anche perché siete parte di quanto vi sta attorno.

Potete provare a fare qualcosa di diverso, o di normale, ma con atteggiamenti nuovi. Prendete un sacco in spalla e girate per le montagne: le Alpi si prestano bene. Da una valle all’altra, dormendo dove capita: rifugi, o baite, o fienili. Ricordate l’atteggiamento: non competere con nessuno e con niente, né arrivare prima né dopo di alcunchè. Non c’è alcun tempo da rispettare.

Se piove o c’è la nebbia, godetevele: anch’esse hanno la loro magica bellezza. Anche la pioggia ha il suo bello, e le nuvole sono meravigliose.

Il tempo qualche volta è bello, e qualche volta no.

L’atteggiamento mentale sarà di non-competizione, mai di conquista. Non dovete dimostrare niente a nessuno, neppure a voi stessi; non dovete competere né con il tempo, né con la montagna, né con niente altro. L’esperienza sarà rasserenante, di percezione della Totalità, sentendovi parte della Natura, in posizione di non-contrasto, di non-dualità. Il camminare lento e ritmico della salita concilierà questa integrazione. La respirazione profonda e il ritmo lento vi saranno amici. Non sarà necessario “raccontare”, né “dimostrare” niente. Non preoccupatevi della fatica: niente vi aspetta, niente ha fretta. Il corpo non si affaticherà, se in armonia con il profondo.

Potete sostare quando volete, parlare dell’Essere, o dell’ultima pianticella incontrata. Ma non strappatela, non raccogliete. Potete prendere un fungo, se poi lo mangiate quella sera; o fragole e mirtilli. Altrimenti lasciate stare la Manifestazione, anche voi siete Quella.

Potreste andare anche in pianura, ma in Europa questa possibilità è perduta. Sulle montagne potete ancora. Tenetevi lontani dal fondovalle invaso dalle auto; state lontani il più possibile anche dalle funivie. Potete anche pensare a nulla, o al Nulla. Fermatevi quando volete, dove volete. E’ una esperienza non di alpinismo, ma soprattutto di integrazione nella Natura alpina.

Non dovete conquistare né dimostrare niente, neanche a voi stessi. Non c’è da lottare con la montagna, né conquistarla: non ha senso. L’io deve attenuarsi, non esaltarsi. Solo contemplazione, ritmo, e percezione. Oppure Nulla.

Anche se siete materialista, sarà un’esperienza edificante: vi riposerà. Lasciate a casa l’automobile, scenderete ben lontano da dove siete partiti. Per recarvi alla partenza e per tornare dopo, usate il treno, o le corriere.

Poi vi disintossicherete dall’inquinamento: sulle montagne ci sono gli ultimi posti con aria e acqua pure.

Se non siete materialista, vi sentirete maggiormente parte della Mente Universale, della Natura, e questo contribuirà all’allentamento dell’ego. Assaporate il piacere della non-competizione. Se vi salta in mente di salire una cima, non è per conquistarla, ma per integrarvi con una natura di quota maggiore. O per niente, senza nessun altro scopo.

    Potreste scoprire che, dopo avere magari provato a fare viaggi in treno, auto, aereo, pullman e nave, il mezzo più bello e completo per passare qualche settimana girando è viaggiare a piedi. E’ il mezzo meno pericoloso e più soddisfacente. Chi seguiva le carovane al passo dello yak o del cammello viveva anche durante il viaggio, senza preoccuparsi della rapidità, a cui si sacrifica già troppo durante il tempo lavorativo.

Cercate di dimenticare la velocità, questo valore così strano della nostra epoca e della nostra civiltà.


Azioni possibili

Credo che la cosa migliore sia vivere normalmente, coscienti però che il nostro comportamento dipende dal fatto che siamo nati in una determinata cultura umana e che su questo punto possiamo fare ben poco.

   Ma, oltre all’eventuale allenamento sopra accennato o altri simili, possiamo seguire i dettami dell’ecologia di superficie, che non provocano alcun trauma culturale.


      Inoltre è certamente utile:


- parlare, scrivere, diffondere il più possibile le idee dell’ecologia profonda, o perlomeno evidenziare quali schemi concettuali hanno generato le idee correnti, che sono particolari di una cultura umana – per quanto potente – e non tendenze naturali ed evidenti di tutta l’umanità;


- evidenziare che la scala di valori accettata comunemente non è migliore di qualunque altra;


- fare uscire questi argomenti di fondo da ristrette cerchie di studiosi per renderli oggetto di divulgazione e di dibattito;


- cercare di influenzare qualche forza politica o autorità didattica soprattutto allo scopo di modificare l’istruzione di base o, in altre parole, i programmi scolastici, per comprendervi i fondamenti di altre culture umane, con sottofondo orientale e animista. Ora le forze politiche organizzate non sospettano neppure che possano esistere istanze del genere.

Poi gli eventi seguiranno il loro corso e la cultura occidentale cambierà, anche se è difficile che un modello culturale riesca a concepire la propria fine. Speriamo che si modifichi in tempo e così a fondo da rendersi compatibile con la Vita sulla Terra.


Note al Capitolo 10


(64) Gregory Bateson – Mente e Natura – Ed. Adelphi, 1984



























































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(solo di libri in lingua italiana)

(aggiornata al maggio 2006)


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