giovedì 29 agosto 2019

Il naturalista/biologo contemporaneo

Wild Nahani





NB. Testo tratto dal libro "L'uomo naturale"


“Che ti move, o omo, ad abbandonare le tue proprie abitazioni delle città, e a lasciare li parenti ed amici, ed andare in lochi campestri per monti e valli, se non la naturale bellezza del mondo ?...” (Leonardo da Vinci).

Il naturalista “spirituale” e “profondo” si volge ad osservare la natura con lo stupore che pervade chi si appresta ad ascoltare con umiltà di spirito e di intelletto il misterioso concerto col quale l’universo scandisce la propria dialettica. L’attenzione di quel ricercatore non si dirige ad uno specifico fenomeno naturale, ma si interessa della natura nella sua totalità, si arricchisce del suo fascino e ne ricava a volte intuizioni tali, da far compiere un salto di qualità alla ricerca scientifica.

Del tutto diversi sono gli interessi reali del naturalista superficiale che soggiace ad una sorta di esasperazione delle categorie aristoteliche, ossia ad una specializzazione portata alle sue estreme espressioni, in ciò assecondato dallo straordinario sviluppo tecnologico; accade così che egli si trasformi, in molti casi, in una specie di “computer” ambulante, che raramente si allontana dall’Università o da altri laboratori per effettuare l’osservazione sul campo e, quando vi si piega, non vede l’ora di ritornare tra le fidate mura dei gabinetti scientifici per “scaricare” nel computer i dati frettolosamente raccolti (vigono le dovute eccezioni). “La mente moderna divide, specializza, pensa per categorie....” (Adorno et. alii., 1991), oppure, citando Thomas Kuhn, “la scienza normale è un tentativo strenuo e determinato di costringere la natura nelle caselle concettuali fornite dall’istruzione professionale”.

Questo declassare la natura da categoria dell’universo a mero strumento di competizione utilitaristica, riguarda quindi la cosiddetta “ricerca” scientifica? Certo, qui la riflessione deve farsi più attenta e circospetta, giacché la ricerca è materia che incute un timore reverenziale, quasi che la sua carica esoterica sia pari a quella che circondava l’antica alchimia. È vero, si rimane ammirati innanzi al paziente metodo del botanico o dello zoologo, che tutto annotano, ordinano, sperimentano e - alla fine - catalogano con estremo rigore. E che dire dei mostri in camice bianco che “torturano” nei laboratori di tutto il mondo milioni di animali sia per ricerche medico-farmaceutiche che per studi etologici (p.e. le ricerche sul comportamento degli scimpazè in gabbia ridotti a vere e proprie macchine). Da questa attività i solerti “ricercatori” trarranno senza dubbio un accresciuto prestigio accademico e una grande notorietà all’interno dell’opinione pubblica, ma è tuttavia lecito chiedersi se, al di là della speranza di conseguire questi ambiti riconoscimenti, essi siano stati mossi anche dal rispetto per la natura, che è un rispetto del tutto indifferente alla fama e al prestigio. Rispetto per la natura significa anche “sentire” che l’esemplare di orso, poco prima osservato e catalogato, non è soltanto un’entità da racchiudere nell’elaborazione di dati statistici, ma è una creatura che deve essere riconosciuta ed ammirata per quello che essa è, e per quello che essa rappresenta all’interno del mirabile ordine/disordine universale.

Scrive Brian Martin (1993): “Gli esperti scientifici sono i nuovi santoni della società moderna. Sentenziano su qualunque argomento con la massima delle autorità, quella scientifica. Criticarne l’opinione è eresia.

Eppure si può fare. Anche gli esperti sono vulnerabili, in molti modi. I loro dati possono essere messi in discussione e anche le ipotesi su cui si basano. Si può contestare la loro credibilità e anche la loro competenza in quanto tale. I loro punti deboli possono essere svelati e sfruttati senza pietà........

Gli anarchici sono contrari ad ogni sistema in cui un ristretto numero di persone domina sugli altri. A loro modo di vedere, le decisioni andrebbero prese direttamente dalla gente, sulla base di un dialogo libero e aperto. Il sapere è importante, ma dovrebbe essere un sapere accessibile e utilizzabile da parte di tutti. Oggi, invece, la ‘competenza’ è tanto specialistica ed esoterica da essere utile soltanto agli esperti e ai loro datori di lavoro....... Una società egualitaria e partecipativa darebbe certo un alto valore alla conoscenza, ma la renderebbe disponibile a tutti e non esclusivo appannaggio delle elite..... Eppure è raro che il ruolo degli esperti venga messo in discussione in quanto tale...... E’ tempo invece di incoraggiare la gente a pensare con la propria testa invece di affidarsi continuamente a qualcun’altro”.

“L’esperto è colui che sa moltissimo su pochissimo” (N. M. Butler).

Giova qui ricordare il pensiero e la vita pratica di un biologo canadese, Sam Miller, che si occupava di ricerche sugli orsi e su altre specie animali il cui “habitat” ricadeva nello sterminato territorio del Canada. Giorno dopo giorno egli si rendeva conto che la sua “forma mentis” era sempre più “imbrigliata” dalla ricerca pura e astratta che lo costringeva a trascorrere la maggior parte del tempo dinanzi al computer per elaborare dati ed a riempire tabelle. Un giorno, all’improvviso, disse basta, lasciò tutto e si rifugiò nella tundra canadese, poco oltre le grandi foreste di conifere. Lì oggi vive in un piccolo chalet dove ospita, come una sorta di albergatore sui generis, quelli che vogliono trascorrere in quei luoghi giorni indimenticabili; in questo modo egli si guadagna da vivere e può girovagare in quella natura selvaggia munito del binocolo e di taccuino per gli appunti, alla stregua di un naturalista spensierato che, quasi con l’animo di un fanciullo, si entusiasma dinanzi ai meravigliosi scenari della natura (vedasi ad esempio John Muir o Sigurd Olson). 

Il naturalista che oggi indaga nella natura come fa Sam Miller è al di fuori della competizione scientifica, al di fuori delle carriere universitarie o dei riconoscimenti di prestigio, né può intervenire in convegni altolocati dove si discutono le relazioni dei “sapienti”, giacché un naturalista di tal genere è certamente “fuori mercato” ed è perciò irriso dalla confraternita dei ricercatori. “L’indiano che riesce perfettamente a trovare la sua strada nel bosco, è dotato di un’intelligenza di cui l’uomo bianco non dispone. Osservarla aumenta la mia capacità, e così pure la mia fede. Mi rallegro di scoprire che l’intelligenza scorre in canali diversi da quelli che conosco” (H. D. Thoreau - in AA. VV., 1995).

Si è voluto citare l’esperienza di Sam Miller poiché essa non proviene, come qualcuno potrebbe pensare, da un naturalista frustrato nelle sue ambizioni, e perciò critico del sistema, ma è un’indicazione, anzi è un merito che si leva ad alta voce da un naturalista che poteva primeggiare nel “sistema”, se lo avesse voluto. Col seguente pensiero di H. D. Thoreau sembra completarsi il ritratto di Sam Miller:”Lo studioso che ha solamente armi letterarie è incompleto. Deve essere un uomo spirituale. Deve essere preparato al cattivo tempo, alla povertà, all’offesa, alla stanchezza, alla dichiarazione di fallimento, a molte altre contrarietà. Dovrebbe avere tanti talenti quanti più può” (23 giugno 1845). Sempre facendo riferimento a Thoreau, Worster scrive (1994): “I fatti dovevano diventare esperienze per l’uomo nella sua interezza, non mere astrazioni in una mente scissa dal corpo, e il naturalista doveva immergersi completamente negli odori e nelle trame della realtà percepibile..... ‘Giri senza meta con un impermeabile, bagnato fino alle gambe, ti siedi sulle rocce coperte di muschio e sui ceppi ad ascoltare il verso delle rondini migratrici che volteggiano tra le querce.... a casa nonostante tu sia all’aperto, comodo nonostante tu sia bagnato, affondando ad ogni passo nella terra in disgelo’”.

Essere preparati al cattivo tempo, alla povertà, alla stanchezza dice il Thoreau, e - si potrebbe soggiungere - essere preparati ai pericoli e alla drammaticità della solitudine, come lo erano gli uomini primitivi che, col vivere secondo le leggi naturali, acquisivano la perfetta conoscenza del loro ambiente.

Scrive G. Celli a proposito del naturalista Bernd Heinrich (riferendosi alla sua opera “Corvi d’Inverno, 1992) ".... il buon Heinrich non è uno psicologo, proclive ai congegni tecnologici e al laboratorio, è un naturalista, e pensa che l'occhio, a presa diretta con il cervello, e quindi con il giudizio, resti ancora uno strumento organico insostituibile per cogliere le peculiarietà del comportamento animale........ un conto è osservare l'animale dal vivo, e un conto sul video. In questo secondo caso, mancano gli odori del bosco, il rumore del vento tra gli alberi, la meravigliosa liquidità del cielo d'inverno, quel paesaggio vivente che respira attorno all'animale nel bersaglio. Del cannocchiale, si capisce!...".

Su queste considerazioni dovrebbe meditare il naturalista di oggi, onde riappropriarsi delle ragioni della natura che sono ben lontane dalle ragioni del successo cattedratico, e ancor più lontane "dall'accanimento dell’indagine”, oggi di moda (radiocollari, catture continue per studi fisiologici, ecc.), che non solo disturba gli animali che ne sono oggetto, ma li danneggia ed invade per di più quella che potrebbe essere definita la “privacy fisiologica” dei poveri inquisiti, e tutto con il principale intento di fare uno “scoop” che abbia risonanza in una pubblicazione scientifica di prestigio. Il naturalista, invece, potrebbe svolgere un ruolo importante nella divulgazione del concetto del valore in sé della natura e quindi della sua reale conservazione. Scrisse Adolph Murie (in Heacox, 1991), studioso dei lupi dell’Alaska: “Ricordo la prima impronta di orso che vidi in vita mia...... Tutto ciò che vedemmo fu un’impronta in una pozzanghera di fango. Ma l’impronta era un simbolo, ancora più poetico che il vedere lo stesso orso - un approccio delicato e profondo allo spirito dell’Alaska selvaggia. In qualunque momento l’impronta di un orso può creare un’emozione più forte che il vedere l’orso stesso, perché viene chiamata in gioco l’immaginazione. Ti metti a osservare accuratamente il paesaggio, aspettando di vederlo comparire a ogni momento, mentre l’attenzione si affina e si rinvigorisce. L’orso è da qualche parte e può essere dovunque. La zona si è improvvisamente vivificata, ha acquisito una qualità nuova e più ricca”.

Ma come si è già notato, il ricercatore dei nostri giorni, fatte le dovute eccezioni, non ama eccessivamente le “uscite sul campo” ma predilige riferirsi più spesso alle esperienze maturate da altri, che a loro volta si abbeverano ad altre fonti, sì che sia gli uni che gli altri si giovano di una quantità di dati che, opportunamente elaborati, vanno a formare relazioni o pubblicazioni che si impongono alla generale attenzione per la loro voluminosità. Lo sviluppo della specializzazione scientifica ha portato ad una sorta di “sordità specialistica” (Boulding in Pignatti 1994), cioè all’incapacità di percepire i caratteri generali di un sistema a causa della concentrazione ossessiva dell’attenzione sui particolari (Pignatti, 1994). La nozione olistica di paesaggio tende invece a superare questa particolare “sordità” ricercando una rappresentazione globale del sistema (Pignatti, 1994). L’etnologo ed esploratore norvegese Thor Heyerdahl (Del Re, 1997) ci ricorda che “presto ci renderemo conto che per salvarci dovremo collaborare e cominciare a capire il mondo nel quale viviamo. Servirà un atteggiamento più interdisciplinare, quasi ecumenico. Servirà più coordinamento tra le varie discipline scientifiche, ma anche tra la biologia e la teologia, tra la fisica e la filosofia. Perché chi è un’autorità in un campo specifico di solito è il più ignorante al di fuori di quel campo”. Completa il discorso Rocco Guy  Jaconis (1992): “Quando era un laureando in biologia della selvaggina alla Cornell University, nella mia mente avevo organizzato il mondo naturale in tanti piccoli compartimenti. Trentacinque anni di esperienza nella natura e nell’insegnamento, mi hanno fatto invece comprendere che c’è una sottile, travolgente, comprensione la quale non è divisibile in compartimenti, e che è parte della conoscenza quotidiana delle genti primitive, in tutto il mondo”.

La natura, in tutte le sue manifestazioni, non è un laboratorio “scientifico”, tecnico, categorico ed asettico. Un membro di una comunità selvaggia non conosce l’ambiente circostante secondo un approccio “razionale e scientifico”, ma secondo un dettame istintivo e “mentale”. Ora noi, nel nostro pensiero contemporaneo, riduciamo i fenomeni naturali alla pura sfera scientifica, archiviandoli come concetti che hanno significato solo se analizzati e sezionati da questo punto di vista (leggasi razionalismo cartesiano). Occorre invece “sentire” diversamente le cose, e porsi nella natura con una visione spontanea, intuitiva ed olistica. La scienza naturale, invece, deve essere concepita esclusivamente come il “prodotto” successivo di una visione filosofica e spirituale della conoscenza. “Il primato del ‘razionale’ sull’’emotivo’ e sull’’intuitivo’ è solo un pregiudizio della cultura occidentale odierna” (Dalla Casa, 1996).

L’analisi ecologica che ne deriva deve muoversi in “profondità” senza fini “antropici” anche solamente sottintesi, e deve approdare ad una visione transpersonale e non egocentrica (leggasi ecologia profonda). Il naturalista “profondo” deve quindi riconoscere il valore intrinseco della natura e deve imparare a non definirla, poiché, come detto, “il Tao definito non è l’eterno Tao” (Lao Tse).

Worster (1994) evidenzia bene la visione “stretta” dello scienziato: “La delusione di Leopold per il paesaggio troppo artificiale influenzava anche la sua fede nella scienza; egli era giunto a pensare che la capacità di percezione dei ricercatori accademici fosse troppo limitata per cogliere la completezza della natura, fattore essenziale per realizzare una protezione ambientale a vasto raggio. Uno dei saggi di Sand County Almanac dal titolo Storia naturale - La scienza dimenticata, rappresenta un appello al ritorno all’educazione all’aperto, olistica, ad uno stile scientifico aperto ai dilettanti e agli amanti saggi della natura , più sensibile al ‘piacere di essere immerso in una natura selvaggia’. Nei laboratori e nelle università si insegnava che ‘la scienza è al servizio del progresso’; essa faceva lega con la mentalità tecnologica che regimentava il mondo inseguendo il progresso materiale e doveva quindi essere trasformata insieme alla tendenza manageriale”.

Scrive l’impeccabile penna di Della Casa (1996): “........ ricordiamo che Bateson chiama ‘follia riduzionista’ l’idea che si possa descrivere con pienezza ontologica la Natura, che è molto più ricca di significato di quanto non sia possibile rappresentare. La complessità fisico-spirituale del mondo naturale è infinita: solo con la percezione intuitiva se ne può avere una pallida idea.

Il paradigma della semplificazione si basa su quella che è stata chiamata la ‘schizofrenica dicotomia cartesiana’, il dualismo fra il cogito soggettivo e la rex exstensa oggettiva. La scienza occidentale è stata fondata (fino alla prima metà di questo secolo) sull’eliminazione del soggetto, nella convinzione illusoria che gli oggetti, esistendo indipendentemente dal soggetto, possano essere studiati in quanto tali”.

Quali conclusioni trarre dalle considerazioni sulle quali ci siamo finora intrattenuti? Una è certamente la più importante: è necessario che la mente del naturalista si volga esclusivamente all’osservazione della natura, liberandosi dall’acriticismo, dal dogmatismo scientifico e dall’idolatria degli archetipi accademici ed antropici che riducono la scienza a livello di vuoti rituali officiati da alcuni “grandi turiferari”. Ovviamente il naturalista contemporaneo non può essere visto solo in questa luce negativa che abbiamo appena tratteggiato. Ci sono le dovute eccezioni e ci sono “scienziati” che si discostano nettamente da quella visione dogmatica e antropocentrica. E’ certamente nutrita la lista di “operatori” del settore che si dedicano veramente alla conservazione e alla ricerca con una visione globale e profonda. Questo per onor di verità!

“Anche le piante mi interessavano, ma non scientificamente. Ero attratto da esse per un motivo che mi sfuggiva, e col sentimento che non dovessero essere estirpate e seccate: erano esseri viventi che avevano significato solo finché crescevano e fiorivano, un significato nascosto, segreto, uno dei pensieri di Dio. Dovevano essere considerate con reverenziale timore e contemplate con filosofica meraviglia. Ciò che poteva dire la biologia era interessante, ma non era l’essenziale” (Carl Gustav Jung).