martedì 29 aprile 2025

LA VITA SOCIALE DELLE API

 

Wild Nahani


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La vita sociale delle api

Breve trattazione divulgativa

 



















Il principio fondamentale dovrebbe

essere: evitare tutte le misure che

disturbano l’ordine e le leggi che 

governano e regolano la vita delle

api e secondo le quali questa si

sviluppa.


Ferdinand Gerstung



“Le api vivono nell’ombra dell’alveare, 

ma ritrovano sempre la strada per la luce”











Al mondo naturale

e al caro ricordo di mio padre, Vittorio Spinetti






PREFAZIONE




Il carattere distintivo di questo libro è il suo intento divulgativo e semplificativo; infatti esso, pur salvaguardando la parte basilare del nozionismo scientifico, ha inteso esprimersi mediante una terminologia accessibile anche ai non addetti ai lavori. Questi ultimi hanno ispirato in particolar modo il nostro impegno perché lo straordinario diffondersi della coscienza ecologica fa supporre che essi, nell’accostarsi per la prima volta al mondo delle api, possano rimanere affascinati dall’armonia che regola la vita dell’alveare, mirabile testimonianza dell’equilibrio della natura.

Proprio pensando agli appassionati del mondo naturale, nonché ai piccoli apicoltori, ci siamo sforzati di dare alla materia una esposizione che possa risultare gradita a chi non ha dimestichezza con problemi di tipo naturalistico. 

La pubblicazione è stata arricchita con numerosi disegni e foto didascaliche che ne accentuano la sua comprensione.

Avvertiamo comunque che quest’opera non è un libro di apicoltura poiché, come detto, espone solamente la vita naturale delle api sociali, ma si reputa molto importante apprendere l’etologia delle api ancor prima - per coloro che desiderano farlo - di por mano all’attività apistica in maniera tale che, l’apicoltore, conoscendo le nozioni basilari sulla vita di questi insetti, quando praticherà le varie tecniche di apicoltura, potrà fare sempre riferimento ai “costumi” delle api per non operare in maniera tale che le sue tecniche siano in contrasto con il mirabile mondo di questi imenotteri. Si reputa che alla base di ogni pratica biologica, nel nostro caso quello delle api, è fortemente consigliato conoscerne in primis il loro comportamento. Non essendo quindi un’opera di apicoltura ne possono soprattutto trarne forte giovamento i senpre più numerosi appassionati della storia naturale di cui le api reppresentano un mondo particolarmente affascinante e, per molti, del tutto oscuro. Leggendo i vari passi del testo si scoprirà un’etologia animale davvero sorprendente e variegata. 



L’Autore






INTRODUZIONE



L’equilibrio che si instaura tra un determinato ambiente e il mondo vegetale  ed animale che su quell’ambiente gravita, si chiama “ecosistema”; ove non sia turbato dall’uomo è un equilibrio perfetto che si scandisce secondo i seguenti ritmi: l’energia luminosa proveniente dal sole genera un determinato sviluppo di vegetali, i quali consentono una proporzionale sopravvivenza di animali erbivori che, a loro volta, alimentano un correlato numero di animali carnivori, secondo una “piramide”  alimentare che, in termini di chilocalorie, risponde ai seguenti valori: 1000 - 10 - 1 - 0,1. Ma il ciclo non sarebbe perfetto se si fermasse qui, perché rimarrebbe indefinita la sorte riservata alle spoglie vegetali ed animali: queste ultime vengono allora elaborate dai microorganismi (principalmente funghi e batteri) e restituite al terreno sotto specie di sostanze inorganiche. Nè il perfetto equilibrio concerne soltanto le forme viventi, perché esso si estende anche alla materia inerte che, attraverso un’incessante dialettica, tende a pervenire ad un assetto ottimale, com’è possibile osservare nel corso dei fiumi che non esercitano in nessun caso una violenza gratuita a scapito della natura circostante, ma  provvedono anzi a ripristinare senza sosta l’equilibrio turbato, come fanno quando, mediante il deposito delle arenarie trasportate, contrastano l’erosione che il mare produce alla loro foce.

Un siffatto equilibrio è, o per meglio dire sarebbe perfetto se l’uomo non intervenisse a turbarlo con i suoi dissennati interventi, quali l’indiscriminato uso dei diserbanti e degli antigrittogamici, l’incontrollato disboscamento, lo scarico dei veleni nei fiumi e nei mari, l’immissione di gas venefici o di sostanze radioattive nell’atmosfera. Nè bisogna credere che le insidie tese alla sopravvivenza delle specie viventi siano le colpe più gravi che possano addebitarsi all’uomo, perché forse più gravi, anche se ad evoluzione più lenta, sono le insidie che derivano dallo sconvolgimento climatico (leggasi effetto serra) e dell’assetto della materia inerte, come quelle connesse, ad esempio, alla deviazione di un alveo fluviale, ad uno sbarramento di dighe, al drenaggio profondo del letto dei fiumi, alla “bonifica” di paludi lacustri, ecc.. Qual è l’effetto prodotto da tali, incisive manomissioni? Forse non si riflette abbastanza a lungo sullo stretto, intimo rapporto che intercorre tra ambiente e specie viventi, su quello che si usa scientificamente definire “adattamento”, forse non si comprende che, se ad esempio l’uccisione di un lupo da parte di un bracconiere costituisce certamente una grave turbativa dell’equilibrio naturale, una turbativa ancora maggiore è insita in un atto che, nel modificare l’ambiente, determina, col tempo, la morte di tutti i lupi  presenti in quel territorio. 

Prima che l’uomo civilizzato “apparisse” sulla terra, tutto il mondo era “wilderness”, un’immensa area selvaggia dove regnava solo la verità naturale. Poi è arrivato l’uomo civilizzato e, poco a poco, ha sottratto al mondo e a se stesso l’armonia imprevedibile e “caotica” della natura che era lo spirito della vita.

All’uomo risale dunque la responsabilità di provvedere alla conservazione della natura (perché è l’uomo che la distrugge e quindi è lui che deve conservarla); a meno che non lo si voglia considerare alla stregua di un semplice componente del materialismo dialettico, cui sarebbe stato affidato il compito di sovvertire integralmente l’ambiente naturale: solo questo potrebbe essere, in chiave ironica, l’essenza della filosofia androcentrica. Dinanzi ad un siffatto degrado la difesa dell’ambiente deve divenire un obiettivo primario e globale. Ma nella conservazione del mondo naturale occorre sgombrare il campo da una pregiudiziale che è di un tale rilievo da assumere il valore di una contraddizione in termini, poiché tale è appunto la pretesa di chi si ostina a considerare il problema ambientale esclusivamente in funzione dell’uomo. L’uomo è una parte, un tassello dell’ecosistema, non è l’ombelico della natura, perciò cade in grave errore chi subordina la salvaguardia dell’ambiente al primato dell’uomo. C’è insomma il rischio che nei nostri discorsi si presenti ognora il nostro inveterato antropocentrismo, tutto e sempre per l’uomo. Occorre ribaltare una siffatta concezione per porre al centro di tutto gli interessi globali della natura (ecocentrismo - olismo). La regola deve tendere a conservare la natura per il suo valore in sé: alla fine anche l’uomo se ne avvantaggerà ma sarà un riflesso, non lo scopo di quel salvataggio. “La civiltà non può prescindere dalla wilderness, la natura selvaggia ed incorrotta!”(John Muir).

Tra tutti gli esseri viventi occorre ricordarne uno la cui sensibilità alle mutazioni ambientali è estrema, perché estremo è il suo legame con lo spazio che lo circonda: intendiamo riferirci all’ape che, traendo alimento dalle inflorescenze, cioè dal momento più dinamico del processo vegetativo, è per ciò stesso l’organismo estremamente sensibile ad ogni turbativa del ritmo della natura. L’intera organizzazione dell’alveare è, del resto, un paradigma della misteriosa armonia universale, poiché la vita che lo anima, il suo incessante moto di decine di migliaia di api, sembra riprodurre in un microcosmo il perfetto equilibrio gravitazionale di una galassia, e, come la galassia non è la somma degli astri che la compongono, ma è l’espressione di un mirabile disegno unitario, così l’alveare non è la somma delle api che lo popolano, ma è una superiore autonoma entità governata da una misteriosa, perfetta coesione. Già Virgilio, nel IV° libro delle Georgiche diceva: “ esse sole hanno in comune le cose della loro città, e trascorrono la loro vita sotto le grandi leggi della natura, ed esse solo hanno una patria e una fissa dimora; e memori dell’inverno che verrà sperimentano  nell’estate la fatica e mettono in comune quel che è stato da loro procacciato. Infatti alcune pensano al vitto e, secondo  il patto stabilito, si affaticano nei campi a cercarlo; altre dentro le pareti delle case pongono la lacrima del narciso e il glutine vischioso delle cortecce degli alberi come prima base dei favi, e poi attaccano la cera tenace; altre conducono fuori i figli già cresciuti, speranza della razza; altre ammassano il purissimo miele e gonfiano di limpido nettare le celle. Vi sono quelle cui toccò in sorte la guardia alle porte, e a turno osservano le piogge e le nubi del cielo o, fatta la schiera, scacciano dall’alveare i fuchi, oziosa genia”.

Nel leggere una siffatta descrizione che alla singolare ricchezza delle notizie unisce l’afflato poetico, si rimane stupefatti e non si può fare a meno di volgere il ricordo a Tommaso Moro e a Tommaso Campanella che in “Utopia” e nella “Città del sole” disegnano un modello di società governata da leggi che hanno sorprendente analogia con quelle che regolano la vita dell’alveare.

Il comportamento naturale delle api dà dunque luogo ad una organizzazione razionale dell’alveare in cui la somma dei prodotti conseguiti sotto forma di miele, polline, propoli, cera, ecc. è superiore alla somma delle energie spese. Ciò è reso possibile dalla rigorosa divisione del lavoro che vede le bottinatrici delegate all’approvvigionamento del nettare, del polline, dell’acqua e della propoli; le guardiane preposte alla sorveglianza dell’alveare; le altre operaie impegnate in variegate funzioni strettamente correlate con la loro età; la regina, deputata alla deposizione delle uova per assicurare la perennità della famiglia e, infine, i fuchi, l’oziosa genia virgiliana, che coniugano la fecondazione con la morte, drammatica antitesi dell’atto creativo.

Ma le api sono portatrici di vita sotto un altro aspetto: esse, nell’assicurare l’impollinazione delle piante entomofile, incrementano notevolmente sia dal punto di vista quantitativo che da quello qualitativo la produzione dei frutti e dei semi e svolgono pertanto una funzione rilevante anche sotto il profilo economico. Tuttavia l’uomo ripaga con ben altra moneta la loro benefica opera cospargendo sul terreno e sulla vegetazione micidiali veleni, sia in maniera indotta che in maniera diretta. Sotto la prima specie occorre ricordare innanzitutto la ricaduta radioattiva (fall-out), quella delle piogge acide, l’inquinamento delle falde acquifere e contaminazioni di altri tipi; sotto la seconda specie si ricorda l’uso dei fitofarmaci (pesticidi, diserbanti, ecc.) che gli agricoltori spargono indiscriminatamente sulle colture. Una condotta così dissennata è esiziale per l’alveare che, perfetto organismo regolato sull’armonia naturale, registra a proprie spese tutto quello che può arrecare turbamento all’ampio respiro della natura. Nè la morte subitanea dell’ape è l’evento più grave e più temibile; ben più devastante è il ritorno dell’ape intossicata all’interno dell’alveare, giacché in tale evenienza l’intera famiglia è destinata il più delle volte a perire o comunque a rimanere gravemente intossicata.

Ma, anche da una situazione allarmante come quella appena descritta, le api sanno trarre lo spunto per riaffermare la propria vocazione “altruistica” e “filantropica”; infatti esse divengono involontarie “indicatori biologici” del grado di inquinamento, sia chimico che radioattivo, elettromagnetico o di altra natura, e si trasformano perciò in un prezioso strumento per la ricerca scientifica volta a determinare con tecniche specializzate, ma non eccessivamente complesse, l’individuazione, l’estensione e il grado di inquinamento di specifiche zone. A ciò si perviene mediante l’esame di campioni di api adulte, di larve, di favi, di miele e di polline che siano stati oggetto di contaminazione, ed estendendo tale pratica su vasta scala si possono redigere apposite mappe in grado di suddividere un territorio in zone di alta, media e bassa pericolosità da inquinamento ambientale.

Ma è tempo di distogliere il nostro pensiero da un quadro tanto desolante; volgiamolo invece verso la mirabile vita naturale che si svolge all’interno dell’alveare per osservare con umiltà il comportamento naturale di un insetto che, forse, ha tanto ha da insegnarci.











1 - L’ ORIGINE, L’EVOLUZIONE E L’ADATTAMENTO DELLE API

SOCIALI – CENNI DI  PALEONTOLOGIA  APICOLA




1.1 - L’origine, l’evoluzione e l’adattamento


L’ape da miele è un insetto sociale; la sua coesione sociale è a tal punto sviluppata da conferire ad un’intera famiglia il carattere di un’entità biologica a sé stante, superiore e separata dai singoli individui che la compongono, tanto che questi, presi isolatamente, sono incapaci di sopravvivere. Tuttavia vi sono anche specie di api che indulgono ad una sorta di istinto anarcoide, vivono in perfetta solitudine e sopravanzano in numero di specie quelle che vivono in colonia; quest’ultime meritano comunque una particolare attenzione in quanto la loro organizzazione si attesta ad uno dei più elevati stadi del processo evolutivo. Ovviamente, nel corso di questo studio verranno prese in considerazione soltanto le api sociali, con particolare riferimento alla razza da miele più diffusa, la cosiddetta Apis mellifera.

Quando si osserva la morfologia o il comportamento di una specie animale occorre tener presente che sia l’una che l’altro non costituiscono archetipi immobili e immutabili, ma rappresentano al contrario momenti dinamici e mutevoli della incessante dialettica della natura. Il mondo animale e vegetale è appunto condizionato da mutamenti genetici e ambientali; le api sociali hanno subíto tali condizionamenti sia a livello dei singoli individui nei tempi remoti, che a livello di gruppo in epoca recente (in senso evolutivo ovviamente). Sembra che l’origine geografica dell’ape da miele sia da ricercarsi nell’Asia meridionale. Si pensa  che nel primo di questi stadi l’ape abbia avuto un antenato simile alla vespa che, passando da una alimentazione carnivora ad una vegetariana, ha dovuto necessariamente sviluppare le strutture deputate alla raccolta del nettare e del polline. Ecco allora il verificarsi delle seguenti mutazioni morfologiche: appare una ligula adatta alla raccolta del nettare, si formano i peli sul corpo e i cestelli sulle zampe per facilitare la raccolta e il trasporto del polline, si ingrandiscono le ingluvie per dar luogo alla formazione della borsa melaria, deputata al deposito e al trasporto di nettare, di acqua e di  miele (Grout, 1981).

In uno stadio successivo le api sociali conseguono una evoluzione di gruppo, che si estrinseca con adattamenti comportamentali di tipo collettivo, regolati da leggi che potrebbero ben paragonarsi ad una sorta di “Corpus juris”. Queste leggi tendono a definire un insieme di comportamenti atti a soddisfare due esigenze: la prima è quella che mira a realizzare all’interno dell’alveare condizioni termiche tali da neutralizzare le condizioni climatiche esterne, circostanza questa di grande rilievo per un insetto a sangue freddo qual è l’ape; la seconda è quella volta a sottrarre la colonia al pericolo di morte per inedia nei periodi in cui cessano le fioriture. Alla prima esigenza le api hanno risposto realizzando all’interno dell’alveare un microclima (vedremo più innanzi i connessi fenomeni della ventilazione e del glomere); alla seconda esigenza hanno risposto mediante l’accumulazione di scorte di miele e di polline  sistemate in veri e propri “magazzini”. E’ proprio grazie ai suoi adattamenti anatomo - comportamentali che l’ape riesce a sopravvivere e a diffondersi dall’equatore fino all’estreme latitudini australi e boreali.

Tuttavia è interessante notare che ipoteticamente, quando si trasferisce un alveare dall’emisfero nord all’emisfero sud, le api appaiono completamente disorientate, il che sembrerebbe configurare una sorta di handicap del complesso meccanismo associativo, ma in realtà non è così perché le api appena nate, cioè quelle che non hanno avuto precedente esperienza esistenziale nell’emisfero nord, sono in grato di calcolare con estrema precisione la posizione che esse occupano all’interno dell’ambiente circostante.


1.2 – Cenni di paleontologia apicola


I ritrovamenti di fossili di api sono, purtroppo, estremamente rari, tuttavia, nulla vieta di pensare che le api, come tutti gli altri esseri viventi (piante ed animali), abbiano subito nel corso dei millenni una graduale trasformazione per adeguarsi alle mutazioni dell’ambiente. Il più antico ritrovamento del calco di uno sciame di api sociali, è quello che si osserva nel marmo di Göttingen, che consente di risalire a 35 milioni di anni fa, nel Miocene. Tuttavia, si presume con quasi assoluta certezza, che l’esistenza dell’ape mellifera sia anteriore a quella data, risalendo all’Oligocene, in quanto sono state rinvenute labili immagini di api nell’ambra fossile, pur rimanendo nel dubbio l’ipotesi che in quell’epoca l’ape avesse già acquisito una struttura sociale. Sembra infatti possibile che inizialmente esistessero soltanto api solitarie, e che -  solo in un secondo tempo - parte di esse si siano aggregate per pervenire alla mirabile organizzazione che distingue l’alveare (Grout, 1981).

L’uomo, sin dalle epoche più remote, ha volto il proprio interesse al miele e ai modi di impossessarsene, tanto che la più antica raffigurazione concernente la raccolta di miele risale ad un graffito dell’età paleolitica (circa 20.000 anni fà) scoperto nel 1921 nella grotta del Ragno, nei pressi di Valenza, in Spagna. Il graffito raffigura anche un gruppo di api che volano intorno all’intruso, nonché alcuni cerchi concentrici che simulano presumibilmente il fumo impiegato dall’uomo per stordire le api. A distanza di decine di migliaia di anni vi sono ancora oggi popolazioni primitive che, sparse in tutte le parti del mondo (Australia, Nepal, Amazzonia, Africa, ecc.), usano la tecnica cui ricorreva quell’ignoto uomo del paleolitico. Oltre al graffito menzionato sono molti i reperti datati in epoche successive, come per esempio quello che appare in un bassorilievo scolpito nel 2500 a sul sarcofago del Faraone Mikerinos, oggi esposto nel British Museum di Londra. Il più antico documento scritto riguardante il miele risale al 2.700 a.c. ed è stato rinvenuto in Mesopotania, a Nippur Irak; sono delle piccole tavole di argilla nella quale si descrivono alcuni medicamenti che hanno come componente principale il miele. Occorre poi ricordare che l’immagine dell’ape, simbolo faraonico dell’Alto e Basso Egitto, ricorre anche su antichi bassorilievi egizi che raffigurano lavori concernenti l’estrazione del miele. Occorre infine ricordare che in epoca recente, a partire dal 16° secolo d.c. ca. dopo la scoperta del nuovo mondo, l’Apis mellifera è stata oggetto per opera dell’uomo di una massiccia immigrazione dall’Europa verso quelle nuove terre (p.e. in Australia, grazie all’isolamento, si trovano i ceppi più puri di ape italiana Apis ligustica).



2 - ANATOMIA DELL’APE



Come in ogni altro tipo di insetto, il corpo dell’ape è suddiviso in tre distinte parti: testa (o capo), torace e addome ed è rivestito da una sostanza chitinosa detta “esoscheletro” che funge da protezione e da sostegno. Ecco una schematica e breve descrizione della struttura anatomica di un’ape. 


2.1 - Il capo


Il capo ha forma ovoidale per la regina, tondeggiante per i fuchi, vagamente triangolare per le operaie. Nel capo sono presenti due occhi composti, formati da migliaia di sfaccettature lenticolari (denominate ommatidi), nel numero di 3000 per l’operaia e 6/7000 per il fuco; essi, leggermente tondeggianti, sono situati lateralmente sul capo. Si osservano poi tre occhi semplici detti ocelli, posti sulla fronte. Gli occhi composti adempiono a due compiti, e cioè alla visione in lontananza all’esterno dell’alveare e all’orientamento, mentre gli occhi semplici servono per la visione ravvicinata e per quella in luoghi poco luminosi.

Più in basso rispetto agli occhi troviamo l’apparato boccale formato da due mandibole e da una ligula a tromba. Le mandibole sono indispensabili per afferrare oggetti di piccole dimensioni, per la lavorazione della cera, per aprire opercoli, e così via; la ligula invece serve per suggere il nettare, l’acqua o il miele liquido. Essa a seconda della razza, può variare da 5,5 a 7 mm. di lunghezza. Sulla fronte sono inoltre presenti due antenne orientabili, di forma cilindrica, che contengono 2400 placche sensibili nelle operaie, 30.000 nel fuco; esse adempiono alla funzione di organo sensibile all’umidità, alla temperatura, agli odori, ecc.. Un’ape senza le antenne perde ogni relazione con il mondo esterno ed è destinata a morire.


2.2 - Il torace


Passando alla descrizione del torace, denominato anche corsaletto, notiamo che esso è diviso in tre parti risultanti dalla saldatura di tre anelli. In ogni anello sono presenti un paio di zampe che, oltre ad avere l’ovvia funzione deambulatoria e di appoggio, svolgono anche, in maniera differenziata, altre importantissime funzioni. Infatti le zampe anteriori sono munite di una specie di spazzola circolare, detta stregghia, che viene usata per la pulizia delle antenne e dell’apparato boccale; le zampe intermedie sono fornite sia di una setola mediante la quale l’ape stacca il polline dalle cestelle che sono poste sulle zampe posteriori, sia una specie di pettine e di spazzola. Gli apparati preposti alla raccolta e al trasporto del polline appaiono esclusivamente nelle operaie.

La parte terminale di ogni zampa è munita di un artiglio e di una ventosa; gli artigli servono per consentire all’ape di muoversi su superfici irregolari o per afferrare cose  o insetti, mentre le ventose le consentono di spostarsi su superfici lisce, anche verticali.

Altra importante componente del torace è costituita da due paia di ali che, collocate al secondo e al terzo anello, vengono distinte in anteriori più grandi, e posteriori più piccole. La loro funzione è diversificata: infatti le ali anteriori servono per il volo vero e proprio, mentre quelle posteriori sono preposte principalmente ai movimenti direzionali. Le ali, che sono trasparenti e tenute tese da apposite nervature, vengono utilizzate anche per effettuare la ventilazione. I battiti alari di un’ ape operaia oscillano tra 180 e 500 cicli al secondo.


2.3 - L’addome


Vediamo ora com’è fatto l’addome. Esso è composto da sette anelli telescopici ai cui lati si notano dei piccoli fori detti stigmi; questi, unitamente a quelli presenti nei tre anelli del torace,  svolgono - nell’ambito del processo respiratorio - la funzione di valvole, e mettono in comunicazione le trachee con l’esterno. Nell’ultimo anello dell’addome è presente il pungiglione che è retrattile ed è formato da setole uncinate. E’ assente nei fuchi, mentre nella regina è a forma di sciabola ed ha uncini più piccoli. Il pungiglione è in grado di inoculare un veleno prodotto da due ghiandole velenifere, l’una acida, l’altra alcalina; se viene infisso nel corpo di un mammifero o di un uccello, esso - grazie alla sua conformazione ad uncino - rimane conficcato nel punto che ha colpito. Questa caratteristica è fatale all’ape perché essa, nel ritrarsi, lascia attaccato al pungiglione il suo settimo segmento addominale, perendo miseramente. Tuttavia, essa - prima di morire - emette un particolare feromone (feromoni d’allarme) che serve a porre sull’avviso le compagne. 

Infine, sempre nell’addome, tra il terz’ultimo e penultimo anello, si trova l’apparato genitale che, atrofizzato nelle operaie, è attivo e funzionante nella regina e nel fuco.


2.4 - La struttura interna


Vediamo ora come si presenta internamente l’anatomia dell’ape:

osserviamo un apparato digerente che è costituito da: il sacco melario, che ha la funzione di contenere l’acqua o il nettare bottinato dai fiori, nonché il miele; l’intestino medio che ha la funzione di digerire gli alimenti; l’intestino posteriore che precede il retto e funge da deposito delle deiezioni prima della loro espulsione (in inverno le deiezioni possono stazionare anche per molto tempo).

Abbiamo poi l’apparato respiratorio che, come accennato precedentemente, comunica con l’esterno grazie a 10 paia di stigmi presenti nel torace (3) e nell’addome (7); seguono le trachee che, subendo delle dilatazioni, formano i cosiddetti sacchi aerei dai quali si dipartono altre esilissime trachee, dette tracheole, che - preposte al compito di portare direttamente l’ossigeno agli organi e ai tessuti interni - consentono gli scambi respiratori.

L’apparato circolatorio ha la funzione di distribuire nelle varie parti del corpo le sostanze nutritive e di raccogliere quelle di rifiuto. Il vettore di tale funzione è l’emolinfa, il “sangue” delle api, che è un liquido incolore, incoagulabile e privo di globuli. A differenza di quanto accade nei dei mammiferi la circolazione dell’emolinfa non avviene esclusivamente attraverso specifici vasi (vene ed arterie), ma avviene anche liberamente nel corpo, dando così luogo ad una circolazione mista, vasale e lacunare. La circolazione dell’emolinfa è assicurata sia da un vaso pulsante detto cuore, sia dalla contrazione di un diaframma ventrale e dorsale. 

Passando a considerare il sistema nervoso si osserva che esso è costituito: da un sistema centrale con sede nel cervello; da un sistema viscerale che, partendo dal cervello, si divide in sistema simpatico viscerale e in sistema simpatico ventrale; infine da un sistema nervoso periferico costituito da numerose cellule collegate tra loro.

In ultimo troviamo il sistema muscolare, formato da fibre striate, e particolarmente sviluppato nel torace, sede degli organi di locomozione (ali e zampe).


2.5 - Le ghiandole


Non si possono concludere questi brevissimi cenni anatomici senza occuparsi delle numerose ghiandole presenti nel corpo delle api, distinte in: 


- Ghiandole ipofaringee, situate nel capo; presenti solo nelle operaie e attive nelle giovani nutrici di età compresa tra i 5 e i 15 giorni, hanno il compito di secernere la parte bianca della gelatina reale;

- Ghiandole mandibolari, anch’esse poste nel capo, presenti sia nelle operaie che nella regina, con funzioni diverse (nella regina servono a secernere il feromone reale, nelle operaie sono in simbiosi con quelle ipofaringee per la produzione della gelatina reale);

- Ghiandola di Nasanoff (o Nasanof, Nasonof), esclusiva delle operaie, è situata tra il 6° e il 7° anello dell’addome ed è preposta alla secrezione di un segnale olfattivo, detto feromone. Quando la ghiandola entra in funzione le operaie battono le ali allo scopo di diffondere l’odore del feromone;

- Ghiandole cerarie, presenti solamente nelle operaie in numero di quattro paia, sono poste nella parte inferiore dell’addome, e si attivano nell’età compresa tra i 12/20 giorni;

- Ghiandole velenifere, in numero di due, una acida, e l’altra alcalina, collegate al pungiglione;

- Ghiandole labiali, appaiono sia nella regina che nel fuco e nelle operaie, sono situate nel capo e nel torace. Lo scopo di queste ghiandole è quello di sciogliere gli alimenti solidi; altre funzioni non sono ancora del tutto note.



3 - LA CLASSIFICAZIONE DELL’APE E

L’ORGANIZZAZIONE  DELLA FAMIGLIA



3.1 - La classificazione


L’ape da miele è un insetto pronubo, cioè un insetto che, come dice la definizione, favorisce le nozze, in quanto determina la fecondazione dei fiori trasportando il polline dagli stami ai pistilli, funzione sulla quale ci intratterremo diffusamente più innanzi; subisce una completa metamorfosi passando dallo stadio di larva, propupa, pupa (o ninfa) fino a quello di insetto compiutamente formato; fa parte dell’ordine degli imenotteri aculeati, al sottordine degli apocriti, alla famiglia degli Apidi; conta numerosi generi diffusi nel mondo.


3.2 - Le razze di api


Le api, nelle diverse razze che le distinguono, si sono evolute nel corso dei millenni indipendentemente dall’intervento dell’uomo. La loro straordinaria diffusione nel pianeta è dovuta ad una sorprendente capacità di adattamento, mediante la quale l’habitat delle api si è esteso dall’estremo nord e dall’estremo sud fino all’equatore. Ovviamente si notano alcune differenziazioni tra le api che risiedono in un luogo, rispetto a quelle che risiedono in un altro, ma ciò non muta, in sostanza, la identificazione anatomica-morfologica. Piccole differenziazioni, anche nell’ambito della medesima razza, sono apparse a volte per opera dell’uomo, allorché le api sono state traslocate in luoghi caratterizzati da condizioni ambientali assai diverse da quelle dei luoghi in cui precedentemente vivevano. Tuttavia, il concetto di razza, riferito all’ape, non deve essere inteso come il risultato di una selezione artificiale effettuata dall’uomo, come è avvenuto per gli animali domestici, ma deve essere intesa come il risultato di una selezione naturale, che ha adeguato la struttura anatomo-comportamentale dell’ape alle caratteristiche ambientali in cui è venuta a trovarsi.

I principali caratteri che distinguono le varie razze possono essere identificati in cinque punti (Grout, 1981):



1) dimensioni;

2) colore;

3) lunghezza della ligula;

3) peli del tegumento;

5) venatura delle ali (indice cubitale).


Nel genere Apis si distinguono quattro specie:


1) Apis dorsata

2) Apis florea

3) Apis indica (o cerana)

4) Apis mellifera

(quest’ultima, suddivisa in numerose sottospecie, è la più diffusa).


Apis  dorsata

a) diffusione: India, Indocina, Ceylon, arcipelago della Sonda e Filippine.

b)caratteristiche: ape gigante, costruisce il nido all’aperto (favo unico di grandi dimensioni: 1 o 2  m), è molto aggressiva ed è una buona raccoglitrice di nettare.


Apis  florea

a) diffusione: India, Giava, Ceylon, Borneo, Sumatra, Birmania.

b)caratteristiche: ape nana, costruisce favi di piccole dimensioni, generalmente sui rami degli alberi (favo unico).


Apis indica o cerana

a) diffusione: Asia (India, Cina, Giappone)

b) caratteristiche: ape di medie dimensioni, molto mansueta, ma poco laboriosa.


Apis mellifera

a) diffusione: in quasi tutto il mondo con numerose sottospecie

b) caratteristiche: ape di medie dimensioni, mansueta, ottima raccoglitrice, costruisce il nido al buio (tronchi cavi, fessure di rocce, ecc.) con numerosi favi paralleli verticali che mantengono tra loro una costante distanza. I favi assumono generalmente un contorno simile a quello dell’ambiente in cui si sviluppa il nido. Grazie alla caratteristica naturale di costruire nidi al buio, questa razza si adatta ad essere allevata entro arnie di legno o di analoga struttura. Questa razza comprende numerose sottospecie che sono, tra l’altro, le più allevate per la produzione di miele. Le principali sono:


- Apis mellifera mellifera, detta ape tedesca, di colore scuro, leggermente aggressiva, ma molto resistente al freddo; infatti, è presente in Scandinavia, Germania, Ungheria, Austria, Danimarca, Gran Bretagna, Belgio, ex U.R.S.S., Francia, Svizzera, Italia settentrionale  (e quasi in tutto il resto dell’Europa). Sottospecie dell'ape mellifica mellifica sono l'apis mellifica sylvarum diffusa in Scandinavia/zone settentrionali ex URSS, l'apis mellifica lehzei diffusa in Olanda.


- Apis mellifera ligustica, detta ape italiana, di colorazione chiara (fasce addominali gialle) è considerata fra le migliori razze del mondo, sia per la produttività, sia per la qualità della regina, sia per la sua domesticità. Oltre che in Italia, è presente in quasi tutto il mondo, in quanto è spesso oggetto di esportazione.


- Apis mellifera sicula, è un’ape nera, poco più piccola dell’ape ligustica, ma con caratteri biologici simili. È  diffusa in Sicilia dove convive con la ligustica, con la quale è spesso incrociata.


- Apis mellifera carnica, distribuita nelle Alpi orientali, nei Carpazi e nei Balcani, è mansueta, sufficientemente attiva, incline alla sciamatura ed è molto resistente alle basse temperature.


- Apis mellifera caucasica, simile all’ape tedesca, vive nelle regioni del Caucaso ed è una razza che produce molta propoli ed una cera estremamente bianca; ha carattere mansueto e una sciamatura limitata.


- Apis mellifera banatica, presente in Jugoslavia e in Romania, è di colorazione bruna ed è molto resistente ai diversi climi.


- Apis mellifera cypria, presente nell’isola di Cipro, è di aspetto molto simile all’italiana, ma più piccola; è in netta decadenza poiché è poco attiva, aggressiva e di facile sciamatura.


- Apis mellifera syriaca, è simile alla cipriota, sia nelle caratteristiche morfologiche che in quelle comportamentali e, come l’altra, è in decadenza.


- Apis mellifera remipes, di colorazione gialla, è presente lungo la costa del Mar Caspio.


Le principali razze extraeuropee dell’apis mellifera sono:


- A.m. fasciata, detta anche lamarkii, presente in Egitto, Siria, Somalia, Sudan;

- A.m. unicolor, nera, presente nell’isola di Madacascar e nelle regioni del sud-est africano;

- A.m. intermissa, presente nell’Africa del nord;

- A.m. capensis, presente nell’Africa sud-occidentale;

- A.m. adonsonii, presente nell’Africa tropicale;

- A.m. sahariensis, presente nelle oasi del deserto del Sahara;

- A.m. jemenitica, presente nello Yemen e nel sud-est dell’Arabia; ecc.


3.3 - Caratteristiche generali delle razze d’api di interesse apistico


Dal punto di vista generale, le caratteristiche delle principali razze d’api utilizzate per la produzione di miele, sono le seguenti:


1) Apis mellifera mellifera

a) Origine e distribuzione: originaria dell’Europa, a nord e ad ovest delle Alpi, nonché della Russia centrale; è distribuita in Germania, Ungheria, Austria, Danimarca, Gran Bretagna, Belgio, ex U.R.S.S., Francia, Svizzera, Italia settentrionale (e in quasi tutto il resto dell’Europa).

b) Aspetto: ape relativamente grande con ligula corta (da 5,7 a 6,3 mm), addome abbastanza largo e di colorazione scura, con assenza di fasce gialle; sufficientemente pelosa.

c) Comportamento: ape mediamente aggressiva, si stacca facilmente dai favi, ha uno sviluppo primaverile lento, mentre diviene forte e dinamica nella tarda estate. Ha una scarsa tendenza alla sciamatura ed una notevole resistenza ai climi freddi e incostanti, ottima svernatrice.


2) Apis mellifera ligustica

a) Origine e distribuzione: originaria dell’Italia (con esclusione della Sicilia), è distribuita, oltre che in Italia, in molte parti del mondo, in quanto è spesso oggetto di esportazione.

b) Aspetto: poco più piccola della mellifera e più slanciata; ha la ligula lunga circa 6,5 mm; la colorazione è chiara, con presenza di fasce gialle, la cui ampiezza varia nell’ambito della stessa razza; mediamente pelosa.

c) Comportamento: indole generalmente tranquilla e, quindi, poco aggressiva; sviluppo molto accentuato a cominciare dalla primavera, forma famiglie forti, dinamiche e attive. Buona produttrice, è mediamente propensa al saccheggio e alla deriva; si adatta bene al clima mediterraneo, mentre non sopporta il clima invernale dell’Europa centro-settentrionale. Quando necessario, alleva un numero limitato di celle reali (da 5 a 15). Nel complesso questa razza, a giudizio di molti, è tra le migliori, con particolare riferimento alle qualità della regina; per le sue caratteristiche, come detto, la ligustica è stata ed è spesso oggetto di esportazione.


3) Apis mellifera carnica

a) Origine e distribuzione: originaria della zona posta a sud delle Alpi austriache e dei Balcani settentrionali, è attualmente distribuita nelle Alpi centro-orientali, Austria, Jugoslavia, sud della Germania, parte meridionale della Russia.

b) Aspetto: ha dimensione maggiore della mellifera e della ligustica ed è di colorazione mediamente scura, con peluria corta e fitta. La ligula ha una lunghezza di circa 6,6 mm.

c) Comportamento: tra le razze più miti e mansuete, difficilmente si staccano dai favi; presenta uno sviluppo primaverile elevatissimo ma sverna in piccole famiglie. Molto propensa alla sciamatura, ha pochissima disposizione al saccheggio e alla deriva; si adatta bene ai climi invernali freddi e lunghi, svernando senza gravi problemi. Da alcuni autori, è considerata tra le razze che hanno più vitalità e, perciò, capacità di sviluppo.


4) Apis mellifera caucasica

a) Origine e distribuzione: è originaria del Caucaso, dove è maggiormente distribuita.

b) Aspetto: simile alla carnica, ha una ligula più lunga che misura circa 7 mm e, quindi, molto adatta a bottinare fiori con corolla profonda (p. es. trifoglio violetto).

c) Comportamento: razza mansueta con sviluppo tardivo, ha tendenza alla deriva e al saccheggio, mentre ha una sciamatura poco rilevante. Fa elevatissimo uso di propoli, che produce in abbondanza (per tale ragione nei paesi dove è presente si fanno molti preparati con tale sostanza); ha qualche problema di svernamento, in quanto è molto sensibile al Nosema apis. Ha la caratteristica di allevare, quando necessario, numerosissime celle reali.


3.4 - Biometria applicata alle api


Per una maggiore completezza occorre ora occuparsi dei dati inerenti alla biometria applicata alle api; questa è intesa come la misurazione delle caratteristiche morfologiche al fine di catalogare le variazioni che distinguono le varie razze d’api. Con l’indagine biometrica si può valutare la purezza di una razza ed, eventualmente, constatare la presenza di particolari ibridi. Per effettuare un’analisi biometrica sufficientemente significativa è necessario assumere a parametro svariati caratteri morfologici, ma per esplicare un’indagine semplificata e, nel contempo  attendibile, è sufficiente considerare 5 caratteri morfologici:

1) indice cubitale, inteso come il rapporto tra due venature particolari di un’ala anteriore;

2) lunghezza della villosità del 5° anello addominale (o tergite) espressa in mm.;

3) indice della fascia di colore giallo dei tergiti, misurato in mm., all’altezza del secondo anello addominale;

4) misurazione in mm. della lunghezza della ligula.


I dati medi inerenti alle quattro principali razze di interesse apistico, sono i seguenti: (dati desunti da Bailo, 1983).


- Apis mellifera ligustica = indice cubitale: 2,30

lunghezza della villosità del 5° tergite: 0,30 mm.

colore del 2° tergite: 1,75 mm.

larghezza della fascia villosa del 4° anello: 0,85 mm.

lunghezza della ligula: 6,5 mm.


- A. m. mellifera = indice cubitale: 1,75

lunghezza della villosità del 5° tergite: 0,46 mm.

colore del 2° tergite: 0,25 mm.

larghezza della fascia villosa del 4° anello: 0,75 mm.

lunghezza della ligula: 6,3 mm.


- A. m. carnica = indice cubitale: 2,60

lunghezza della villosità del 5° tergite: 0,30 mm.

colore del 2° tergite: 0,35 mm.

larghezza della fascia villosa del 4° anello: 0,90 mm.

lunghezza della ligula: 6,6 mm.


- A.m. caucasica = indice cubitale: 2,00

lunghezza della villosità del 5° tergite: 0,30 mm.

colore del 2° tergite: 0,30 mm.

larghezza della fascia villosa del 4° anello: 1,00

lunghezza della ligula: 7,00 mm


3.5 - L’organizzazione della famiglia 


L’Apis mellifera, alla quale si fa costante riferimento in questa trattazione, vive in popolose colonie permanenti nelle quali l’istinto di gruppo e la divisione del lavoro sono fortemente accentuati. Occorre tenere comunque presente che quando diciamo colonia, famiglia o gruppo non ci riferiamo ad un insieme di individui omogenei, ma ci riferiamo al contrario ad un’associazione di individui diversi, che hanno compiti specifici che si classificano secondo la ripartizione che segue.


La regina


Femmina fertile che ha due compiti fondamentali: deporre le uova e assicurare la coesione della famiglia tramite l’emissione di specifici odori, chiamati feromoni; essa - avendo la lunghezza di 18/20 mm. e il torace di 4,2 mm.- è più grande di un’operaia ma, come accade spesso anche nella vita degli uomini, essere più grandi non vuol dire essere più intelligenti, tanto che la sua  struttura cerebrale è meno evoluta di quella dell’ape operaia. Si accoppia coi fuchi una sola volta nella vita durante il volo nuziale ed incamera nella spermateca il liquido seminale necessario alla fecondazione delle uova. Al culmine della deposizione, cioè nel periodo primavera/estate, può deporre anche 1500/2000 uova al giorno; il volume della deposizione, non solo è correlato alle caratteristiche generali della regina (razza, condizione fisica, età, ecc.), ma è anche influenzato dalla forza della famiglia e dall’attività di bottinatura da parte delle operaie. Durante i mesi freddi la deposizione si arresta del tutto; tuttavia, già verso gennaio/febbraio, sebbene lentamente, essa può riprendere. La dinamica della deposizione è la seguente: la regina ispeziona il favo ed introduce il capo in ciascuna delle cellette incontrate nel suo percorso; se trova una celletta che, oltre ad essere priva di uova, risponde anche ad altri requisiti (pulizia generale, integrità delle sue pareti, ecc.), vi inserisce l’addome e in pochi istanti depone l’uovo; questo, attaccatosi alla cella grazie al glutine che lo avvolge, si presenta il primo giorno in posizione verticale, il secondo leggermente adagiato, il terzo adagiato del tutto (la posizione dell’uovo può tuttavia presentare qualche anomalia). L’uovo ha colore bianco traslucido e ha forma simile a quella di un seme di niger; trascorsi tre giorni dalla deposizione, si schiude e nasce una piccolissima larvicina che prende una posizione leggermente acciambellata (a forma di una C).

La regina è assistita da uno stuolo di operaie giovani, le cosiddette “dame d’onore” che provvedono alla sua nutrizione, alla sua difesa e alla sua  pulizia. La durata media della vita della regina è di circa 3/4 anni; è fornita di pungiglione che impiega solo per antagonismo nei confronti delle consorelle; infatti quando in un alveare convivono due regine (evento peraltro molto raro), esse si scontrano frontalmente e danno inizio ad una lotta dalla quale uscirà vincitrice la regina più “astuta”, più robusta e sana. La vincitrice viene accettata dalle operaie con dimostrazioni, per così dire, di gioia e di simpatia.

Una nuova regina che per vari motivi non viene accettata dalle operaie (come per esempio accade quando essa è introdotta dall’apicoltore senza i dovuti accorgimenti), può essere soppressa dalle operaie stesse, le quali non ricorrono mai all’uso del pungiglione, ma si servono invece del cosiddetto aggomitolamento, che consiste nel raggrupparsi strettamente intorno alla regina, fino a soffocarla.


I Fuchi


Maschi della colonia, presenti in numero limitato e soltanto durante la bella stagione, sono deputati ai seguenti compiti: fecondare le regine vergini, collaborare con le operaie per la trasformazione del nettare in miele, dare il proprio contributo al riscaldamento della covata, stimolare l’attività delle operaie mediante l’emissione di uno specifico odore. Nascono per partenogenesi  (dal greco “partenos”, vergine e “genesis”, nascita/origine) da uova non fecondate, sono privi di pungiglione, hanno un corpo tozzo (lunghezza 15 mm. - larghezza torace 5 mm.), grandi occhi composti; sono ridotti in uno stato di assoluta subordinazione nei confronti delle operaie in quanto non possono alimentarsi se non imboccati da quelle. Hanno un destino quanto mai infelice e, sotto certi aspetti, drammatico perché alla fine della stagione estiva, o quando il pascolo diminuisce bruscamente, essi - forti consumatori di miele, ma “oziosa genia” come li chiama Virgilio - vengono scacciati dalle api con una sequenza impietosa che vede i poveri fuchi soccombere miseramente dopo aver opposto una inutile resistenza passiva. Tuttavia non si esclude che qualche fuco sverni all’interno dell’alveare.


Le operaie


Con una dimensione di 12/13 mm. di lunghezza per 4 mm. di larghezza al torace, sono notevolmente più piccole della regina, ma tale divario non ne sminuisce l’importanza perché esse rappresentano circa il 90% dell’intera popolazione dell’alveare. La loro vita media durante la stagione attiva, che corrisponde al periodo primavera/estate, è di 4/6 settimane, mentre si protrae fino a 6 mesi durante la stagione autunno/inverno. Un siffatto stupefacente comportamento biologico trova la propria ragione in due fattori contrapposti: lo stressante dispendio di energie cui le api sono sottoposte nel periodo della stagione attiva; il lungo periodo di riposo durante le avverse condizioni atmosferiche, cui si somma l’insorgere di una provvida difesa fisiologica che consiste in un rilevante sviluppo delle ghiandole ipofaringee nonché di corpi grassi ricchi di proteine. 

Lo stupore che suscita un così perfetto strumento di equilibrio, aumenta se consideriamo che la consistenza numerica delle api adulte si mantiene in costante equilibrio nei confronti della estensione della covata e delle scorte alimentari, offrendoci in tal modo una ulteriore testimonianza delle connessioni deterministiche cui la natura ricorre a volte per mantenere il suo misterioso e mirabile equilibrio.


3.6 - Le attività delle operaie


Le api operaie rappresentano il vero motore dell’alveare; esse, attente e infaticabili, svolgono tutti i lavori necessari alla comunità ad eccezione della deposizione delle uova e del mantenimento della coesione della famiglia. La loro importante funzione, modulata a seconda dell’età, si esplica in:


1 - attività interna, corrispondente ai primi 20/25 giorni di vita;

2 - attività esterna, corrispondente ai restanti 10/15 giorni di vita.


Durante il primo periodo le operaie compiono le seguenti mansioni:


- pulizia delle celle, riscaldamento e protezione della covata (dal 1° al 3° giorno);

- alimentazione delle larve e della regina (dal 3° al 12° giorno);

- secrezione della cera, costruzione dei favi, immagazzinaggio scorte, pulizia alveare, ventilazione interna e quanto altro è necessario  fare (dal 12° al 20° giorno);

- attività di guardia (dal 18° al 22/25° giorno).


Durante il secondo periodo le api operaie svolgono l’attività di raccolta bottinando i seguenti prodotti:


nettare

polline

propoli

acqua


Occorre peraltro osservare che, ove l’equilibrio dell’alveare fosse turbato da un qualsiasi fattore estraneo, il rapporto esistente tra età dell’ape e lavoro esplicato potrebbe subire qualche variazione.

Le denominazioni attribuite alle api a seconda dei compiti che esse esplicano sono le seguenti:


- nutrici: si occupano della alimentazione delle larve e della regina, nonché della protezione e riscaldamento della covata;

- dame d’onore: assegnate alla pulizia, alimentazione e protezione della regina;

- ventilatrici: rinfrescano l’ambiente interno e fanno maturare il miele tramite l’evaporazione dell’acqua eccedente che esso contiene; per conseguire lo scopo battono rapidamente le ali effettuando fino a 500 cicli al secondo;

- ceraiole: deputate alla produzione della cera necessaria alla costruzione dei favi;

- architette: ordinano e preparano la costruzione dei favi;

- muratrici: chiudono fessure del nido o compiono altre riparazioni mediante la cera e la propoli;

- operaie chimiche: tramite l’emissione di acido formico provvedono alla conservazione del miele;

- opercolatrici: provvedono a chiudere gli alveoli dei favi contenenti miele o larve mature;

- spazzatrici: presiedono alla pulizia del nido;

-necrofore: rimuovono i cadaveri delle compagne, o di altro insetto accidentalmente entrato nell’alveare, per trasportarli fuori dell’alveare;

- guardiane: preposte alla difesa del nido;

-bottinatrici: deputate alla raccolta esterna delle sostanze necessarie alla sopravvivenza della colonia;

- esploratrici: incaricate della individuazione di una nuova dimora durante le fasi della sciamatura.





4 - LA COSTRUZIONE DEI FAVI



4.1 I nidi delle api e lo “spazio d’ape”


I nidi naturali delle api variano a seconda della razza considerata. Alcune razze usano costruire all’aperto il loro nido composto da un solo favo (Apis dorsata e Apis florea), mentre l’Apis mellifera e l’Apis indica o cerana usano costruire il proprio nido entro cavità naturali (tronchi cavi, anfratti rocciosi, ecc.) edificando numerosi favi paralleli, di medie dimensioni, in senso verticale e intrecciati tra loro; tuttavia, può accadere a volte che possano costruire nidi all’aperto. L’apicoltura razionale, adeguandosi alle caratteristiche delle api che usano costruire i propri nidi al buio, è riuscita a trasferire tali razze nelle arnie in legno (o eventualmente, ma raramente, in altro materiale), senza che ne venisse alterato il ritmo biologico. Queste debbono essere appunto costruite in maniera da consentire la mobilità dei favi, mobilità che consente all’apicoltore di vivere, per così dire, all’interno dell’arnia, per osservare le mutazioni e lo sviluppo della famiglia. Questa necessità di controllo ha stimolato gli studi tendenti a pervenire alla costruzione di un tipo di arnia che fosse una sorta di “casa di vetro”, nel senso che nulla di quanto avviene al suo interno possa sfuggire all’attenzione dell’apicoltore. Per pervenire ad un tale risultato occorreva rimuovere innanzitutto l’ostacolo rappresentato dai “legamenti” e dai “ponti” che, unendo i favi l’un l’altro, ne impediscono la rimozione senza danneggiarli o arrecare disturbo alle api. Il problema fu brillantemente risolto da Lorenzo Lorraine Langstroth, reverendo americano, che nel 1851 determinò nella misura minima di 7,9 mm, e massima di 9,6 mm. il cosiddetto “spazio d’ape”, lo spazio che deve cioè intercorrere tra i listelli laterali dei telaini (telaini: telai di legno quadrati o rettangolari entro i quali vengono fatti costruire i favi dalle api) e le pareti dell’arnia, nonché tra la parte superiore dei telaini e il coperchio dell’arnia stessa.


4.2 - La tecnica di costruzione dei favi


Costruzione dei favi e allevamento della covata sono in stretta correlazione, anzi possiamo dire che senza i primi non si avrebbe la seconda. Ecco che la cera, materia prima dei favi, viene dunque ad assumere un compito basilare nella vita dell’alveare; essa è prodotta da quattro paia di ghiandole allocate nell’addome, attive nelle operaie di età compresa fra il 12° e il 18/20° giorno di vita; la secrezione della cera è condizionata dal consumo di miele e di polline e necessita di una temperatura di almeno 33/36°C.. Vediamo ora come avviene la costruzione dei favi. 

Le operaie addette alla bisogna si incatenano l’un l’altra, fino a formare veri e propri grappoli che adempiono la funzione di un ponteggio a misura variabile; formata la catena, le operaie mettono in attività le ghiandole cerarie e, raccolte le piccole scaglie di cera, se le portano alle mandibole con le zampe anteriori, masticandole accuratamente. La cera così elaborata per un tempo di 4/5 minuti, viene poi posta in opera per la costruzione dei favi; è da osservare che l’intera operazione richiede un grande dispendio di energie, per cui si calcola che le operaie consumino 10 kg. di miele per produrre un solo kg. di cera.


4.3 - La struttura e le funzioni dei favi


Visto le modalità di costruzione dei favi, consideriamone ora la struttura e gli scopi, non senza fare una preliminare riflessione: se un architetto volesse progettare un insieme di esagoni perfettamente identici tra loro e connetterli l’un l’altro in modo da occupare il minore spazio possibile, dovrebbe certamente sviluppare calcoli matematici e geometrici di notevole difficoltà. Ebbene, le api conseguono lo scopo senza ricorrere all’algebra o al computer, mediante una misteriosa, inafferrabile intuizione che lascia ammirati e perplessi. Unendo tra loro migliaia di cellette esagonali le api mellifere formano i favi che hanno una duplice funzione:

a) accogliere la covata nel suo intero ciclo di sviluppo (uova, larve, ninfe);

b) immagazzinare provviste di miele e polline.


Ma vediamo più attentamente quali sono le caratteristiche costruttive e funzionali delle cellette. Notiamo per primo che le vespe, che costruiscono anch’esse favi con celle esagonali, non hanno saputo risolvere il problema inerente alla massima economia di materiale e di tempo con la stessa ingegnosità di cui le api danno esempio. Il divario esistente tra le due soluzioni può così riassumersi: le vespe costruiscono le celle su un solo lato del favo, mentre le api le costruiscono su entrambi i lati, in modo che le celle contrapposte abbiano un fondo comune, realizzando in tal modo la rilevante economia di cui abbiamo parlato. Di grande rilievo è anche un’ulteriore caratteristica costruttiva delle cellette delle api: il fondo di esse è costituito da tre piani romboidali che si incontrano in un punto e che hanno un angolo di inclinazione di 70°32' mediante il quale si ottiene la massima economia di cera a parità di volume.


4.4 - I tipi di celle


Gli alveoli dei favi possono essere così classificati a seconda della funzione cui sono preposti:


1 - celle piccole, le più numerose (90%), sono destinate a contenere la covata femminile (api operaie) e le  scorte alimentari; la loro profondità è di circa 12 mm. ed hanno una larghezza di 5,5 mm.. Il miele contenuto in una cella da operaia pesa circa 380 mg..

Il numero di celle da operaie per ogni decimetro quadrato è approssimativamente il seguente:

- Apis mellifera ligustica (italiana) 750/800

- Apis mellifera caucasica 850/860

- Apis mellifera carnica         860

- Apis mellifera tedesca         854

- Apis mellifera adonsonii 1000/1050

- Apis indica         1200/1300

- Apis dorsata         790/800


2 - celle medie, limitate nel numero, sono simili a quelle da operaie e sono destinate a contenere la covata maschile nonché le scorte; loro caratteristica è una maggior grandezza e una vistosa sporgenza che appare sulla superficie dei favi allorché esse contengono larve e ninfe dei fuchi; la loro profondità è di circa 13 mm., con una larghezza di 7 mm..


3 - celle grandi, di specifiche caratteristiche, presenti solo in determinati periodi dell’anno (primavera) o al verificarsi di particolari condizioni della colonia (orfanità della regina o sostituzione naturale della stessa); esse si chiamano celle reali perché la loro destinazione è quella di accogliere le future regine. Il loro aspetto è simile a quello di una ghianda di lunghezza oscillante tra i 18 e i 26 mm.; nello sporgere notevolmente dal favo, presentano l’apertura rivolta verso il basso.  Allorché si tratta di celle di emergenza (orfanità), esse sono generalmente poste nella parte centrale dei favi, mentre - quando si tratta di celle programmate per la sciamatura o per la sostituzione naturale della regina - si trovano sui bordi dei favi; negli alveari dell’ape ligustica, o ape italiana, le celle grandi   sono circa una decina.

Le celle reali si suddividono quindi in 3 classi, a seconda della causa che spinge le api ad allevarsi una nuova regina e a costruire, di conseguenza, una cella reale:

1. celle reali di sciamatura naturale;

2. celle reali di sostituzione naturale;

3. celle reali di emergenza.


4.5 - La disposizione delle scorte e della covata


La disposizione delle scorte di miele e di polline all’interno dell’arnia, nonché quella della covata, non è lasciata al caso, ma rispetta un preciso ordine; di norma i favi che contengono celle di covata sono collocati verso la zona centrale del nido, mentre il polline di norma e posto a contorno e subito a ridosso della covata. Il miele invece è allocato nel resto dei favi, anche se spesso si rinviene anch’esso vicino alla covata.




5 - LA  RACCOLTA, LA TRASFORMAZIONE E L’IMMAGAZZINAMENTO  

DELLE  SOSTANZE NUTRITIVE



5.1 - Generalità


Le api provvedono alla propria sussistenza mediante la raccolta di specifiche sostanze in quantità correlate ai bisogni della famiglia. Una esposizione sistematica della materia richiederebbe una preliminare descrizione di quelle sostanze, ma di ciò ci occuperemo più oltre perché ravvisiamo l’opportunità di svolgere preliminarmente alcune considerazioni che tendono a focalizzare l’attività che l’ape bottinatrice svolge per assicurare l’equilibrato approvvigionamento dell’alveare.

Chi si sofferma a considerare per un istante il frenetico andirivieni che distingue un apiario, non immagina mai che un’ape bottinatrice deve effettuare circa 40.000 voli per produrre un kg. di miele. Infatti, tenuto conto che una bottinatrice può trasportare in ogni volo un carico di circa 60 mg. di nettare, considerato che per trasportarne un chilogrammo deve compiere quasi 18.000 voli, osservato infine che il nettare ha un contenuto d’acqua pari a circa il 60/70% del suo peso, si perviene appunto al predetto dato complessivo di circa 40.000 voli. Ma la nostra meraviglia aumenta se riflettiamo che l’approvvigionamento di un chilogrammo di nettare richiede che la bottinatrice “visiti” un incredibile numero di fiori che, a seconda delle specifiche qualità botaniche, varia da un milione a cinque milioni di esemplari. Tutto questo stressante lavorio avviene a una velocità di 20/25 Kmh., che può elevarsi fino a 50 Kmh. quando le condizioni atmosferiche sono favorevoli e se il percorso segue un terreno pianeggiante. Il raggio d’azione di una bottinatrice si estende fino a 3/4 km. in linea d’aria, mentre è interessante notare che i fuchi, nel periodo della sciamatura, si spingono fino a 5/6 km. e, secondo alcuni ricercatori, fino a 10 km. dall’alveare.


5.2 - La raccolta e il trasporto delle sostanze nutritive


Vediamo ora qual è la meccanica della raccolta e del trasporto delle sostanze che sono alla base dell’economia dell’alveare:


Nettare: è raccolto dalla bottinatrice mediante la ligula con la quale succhia il liquido zuccherino che deposita poi nella borsa melaria; il modo col quale si svolge l’operazione varia a seconda della dimensione del fiore bottinato, cosicché se il fiore è di misura modesta l’ape lo sugge tenendosi al suo esterno, se è di misura considerevole vi penetra all’interno.

Nel corso della bottinatura l’ape offre un ulteriore esempio della  misteriosa e mirabile organizzazione dell’alveare; infatti essa, al fine di segnalare alle altre api che il prelievo del nettare è stato già effettuato, emette una sostanza odorosa chiamata “repulsina” che esplica il proprio effetto per un certo tempo sul fiore bottinato. Quando, terminata la raccolta, la bottinatrice torna all’alveare, rigurgita il nettare ad una sua compagna, la quale poi ripete l’operazione con altre api. Il nettare viene poi trasformato in miele.


Polline: raccolto tramite le mandibole, viene deposto mediante le zampe anteriori nelle cestelle collocate nelle zampe posteriori, preposte appunto al trasporto. Nelle cestelle vengono raccolti anche i granelli di polline che le zampe mediane, nella loro funzione di raccordo tra le zampe anteriori e quelle posteriori, ricuperano diligentemente dal torace e, in maniera maggiore, dalla regione ventrale. Ritornata all’alveare, l’ape procede all’ispezione di diverse cellette per individuare la più idonea a ricevere il bottino e in quella, posta in ogni caso in prossimità della covata, scarica il polline. Il travaso non è quasi mai totale perché, nonostante le bottinatrici cerchino scrupolosamente di liberarsi dei granuli pollinici rimasti impigliati tra i peli, è inevitabile che una parte di essi rimanga sul corpo dell’ape. E’ da notare che, secondo alcuni ricercatori, le bottinatrici effettuano il simultaneo trasporto di nettare e di polline.


Acqua: attinta da una fonte idonea, che può essere rappresentata da una pozzanghera, da abbeveratoi artificiali, da corsi d’acqua, da terreno umido, ecc., viene bottinata per le necessità contingenti, mai immagazzinata. Il liquido è succhiato con la ligula e depositato nella borsa melaria per il trasporto.


Propoli: è prelevata dalla corteccia o dalle gemme di alcune piante mediante le mandibole, cui si aggiunge spesso l’intervento delle zampe anteriori; tramite le zampe mediane viene poi deposto nelle borsette collocate su quelle posteriori. Prima di essere deposta nel cestello, la propoli è spesso leggermente impastata dalle mandibole.

L’operazione di scarico della propoli nell’alveare differisce dallo scarico del polline; infatti, la bottinatrice non si libera da sola della propoli ma si fa aiutare da un’altra operaia; dopo aver impastata la propoli unitamente ad un po’ di cera, l’ape la deposita dove occorre.

Per dovere di informazione si sottolinea che, secondo alcuni ricercatori, la propoli è il compendio di alcune trasformazioni operate dalle api, e non un prodotto allo stato naturale.


5.3 - Le caratteristiche fisico-chimiche dei singoli alimenti


Abbiamo considerato finora la fase di provvista delle scorte alimentari e della propoli; vediamo ora quali sono le caratteristiche fisico/chimiche dei singoli alimenti:


Nettare: tratto dai fiori, è una soluzione zuccherina secreta dalle piante fanerogame; le sue caratteristiche organolettiche sono costituite dal dolce e dal profumo. Il nettare è di fondamentale importanza perché si trasforma dopo laboriosa elaborazione in miele, indispensabile fonte energetica dell’alveare, e a tale scopo immagazzinato in grande quantità all’interno dell’arnia durante la stagione attiva. La composizione del nettare, i suoi aromi caratteristici e le proprietà specifiche, non sono standard, ma variano a seconda del genere di piante che lo producono e, all’interno di queste, a seconda dell’andamento stagionale. Il nettare è inoltre influenzato dalla natura del terreno in cui si sviluppano le piante donatrici, nonché dalle condizioni climatiche prevalenti nella zona di provvista; la sua composizione media è quella che segue:


- Saccarosio: 15/20% 

- Acqua: 70/80%

- Sostanze varie: sali minerali, destrine, gomme, acido fosforico, oli essenziali, carbonati, ad altre sostanze in minima quantità.


Occorre osservare che quando si parla genericamente di miele non sempre si fa riferimento al miele da nettare, ma a volte ci si riferisce anche a mieli di altra origine, quale quello che proviene dalla raccolta di secrezioni zuccherine extra floreali (melata vegetale), e quello che ha origine da deiezioni zuccherine di insetti parassiti di alcune specie arboree (melata animale). Le cennate produzioni alternative hanno comunque scarso rilievo rispetto alla produzione del miele ricavato dal nettare.


Polline: formato da microscopici granuli allocati nello stame dei fiori costituisce il seme maschile che, tramite contatto diretto, va a fecondare l’ovulo femminile collocato nel pistillo. A differenza del nettare che abbisogna di trasformazione per divenire alimento delle api, il polline non necessita di alcuna elaborazione. Trasportato tramite le cestelle poste nelle zampe posteriori delle bottinatrici, è immagazzinato - così com’è - in prossimità della covata. Grande è la sua importanza nell’economia dell’alveare a causa del suo alto contenuto proteico, tanto che una colonia - pur fornita di notevole scorte di miele - si spopola se manca di polline. Di rilievo è la sua funzione di stimolo per la secrezione della pappa reale e della cera. Osservato infine che esso si presenta sotto forma di piccole palline variamente colorate a seconda della loro origine botanica, diamo qui di seguito la sua composizione:

Acqua - Proteine - Aminoacidi - Zuccheri - Grassi - Oligoelementi - Vitamine - Enzimi - Sostanze antibiotiche e batteriostatiche


Propoli: trattasi di una resina che le api raccolgono dalle gemme o dalla corteccia di alcune piante; subíta una parziale trasformazione ad opera delle api, viene utilizzata per molteplici scopi, tra cui ricordiamo quello che concerne la chiusura di eventuali fessure delle pareti del nido, la sistemazione del vano d’ingresso, l’assemblaggio di parti mobili. Agli usi citati si aggiunge quello importantissimo che attiene all’imbalsamazione dei corpi di animali antagonisti deceduti all’interno dell’alveare, allo scopo di prevenirne la pericolosa putrefazione.

La composizione della propoli, dopo la trasformazione subita ad opera delle api, è la seguente:


Resina                 50/55%

Cera d’api          30%

Polline                    5%

Sostanze diverse           10% 

(con prevalenza di oli 

essenziali e di altre sostanze volatili).


La colorazione della propoli, variabile a seconda della sua provenienza, spazia dal giallo chiaro al nero.


Acqua: secondo l’opinione prevalente è bottinata di volta in volta in relazione alle necessità contingenti; a parere di qualche ricercatore è immagazzinata sulle traverse superiori dei favi.

L’acqua si presta a due scopi: uno collegato all’alimentazione delle larve, l’altro alla climatizzazione dell’alveare. Nel primo caso l’acqua serve a diluire il miele e il polline della pappa larvale (miele + polline + acqua); nel secondo caso, contribuisce a rinfrescare l’alveare tramite l’evaporazione, accentuata dalle api mediante la ventilazione. E’ da notare infine che l’approvvigionamento di acqua destinata alla preparazione della pappa larvale sta ad indicare che l’alveare ha scarsità di nettare fresco, poiché - se quest’ultimo fosse presente in quantità sufficiente - il suo elevato contenuto di acqua basterebbe al bisogno.


5.4 - L’immagazzinamento delle scorte


Terminata la descrizione delle scorte e dello scopo del loro approvvigionamento, vediamo ora in qual modo le api provvedono ad immagazzinarle nell’alveare. Del miele parleremo tra poco, allorché descriveremo la sua trasformazione dal nettare; dell’immagazzinamento dell’acqua abbiamo già detto sottolineando peraltro la difformità di opinioni; in conseguenza la nostra attenzione deve ora volgersi soltanto alla conservazione delle scorte di polline. Questo è prevalentemente immagazzinato in celle femminili che, mai riempite per intero, sono poi chiuse mediante un sottile strato di miele. In tal modo viene assicurata la perfetta conservazione del potere nutritivo del polline, che - protraendosi per un lungo periodo - permette l’allevamento della covata anche quando v’è penuria o assenza di polline fresco. Che cosa avviene delle scorte quando le api, minacciate da eventi eccezionali, sono costrette ad abbandonare l’alveare, o quando uno sciame sta per dividere una famiglia? Come abbiamo già osservato altre volte, la natura delle api è provvida, e perciò esse - anche nei casi ipotizzati -  provvedono alla sopravvivenza di gruppo riempiendosi la borsa melaria di nettare o di miele prima di avventurarsi al di fuori dell’arnia.


5.5 - La trasformazione del nettare in miele


Ci siamo occupati finora di alcuni importanti aspetti della complessa attività dell’alveare, descrivendo le fasi relative alla raccolta, al trasporto e alla conservazione delle riserve alimentari. Abbiamo lasciato per ultimo la descrizione delle fasi di trasformazione del nettare in miele, perché abbiamo voluto dare una particolare sottolineatura ad un momento che corona e dà un senso all’infaticabile lavorio esplicato dalle bottinatrici e dalle altre operaie.

Vediamo dunque in che modo le api, muovendo dal momento in cui hanno approvvigionato il nettare, pervengono alla produzione del miele e successivamente alla sua conservazione.

Distinguiamo il suddetto processo in quattro fasi:


Fase della concentrazione: consiste nel sottrarre dal nettare appena bottinato la parte d’acqua in eccesso mediante uno speciale processo chiamato “trofallassi”: esso consiste nella catena di scambio del nettare da un’ape all’altra, per cui - grazie ai continui assorbimenti e conseguenti rigurgiti - una parte dell’acqua viene eliminata.


Fase della trasformazione: la “invertasi” presente nella saliva delle api provoca l’inversione dei polisaccaridi del nettare negli zuccheri semplici levulosio e fruttosio.


Fase della maturazione: il miele, prodotto grazie alla concentrazione e alla inversione degli zuccheri, viene immagazzinato nei favi, pur non avendo ancora raggiunto il suo stadio definitivo. Infatti il suo contenuto d’acqua, ancora eccessivo, viene ridotto grazie alla ventilazione attuata dalle api, alla quale si aggiunge l’effetto calorico dell’interno dell’arnia; quando il contenuto d’acqua nel miele perviene a un livello massimo del 20%, la fase di maturazione è completata. E’ da osservare peraltro che alcuni tipi di miele hanno contenuti maggiori di acqua, come per es. il miele di brugo che ne contiene il 22%.


Fase dell’opercolatura: completata la fase della maturazione il miele deve essere conservato nel tempo, giacché - trattandosi di una scorta alimentare - il suo consumo avverrà gradualmente; le api conseguono lo scopo proteggendo le cellette in cui è depositato il miele con un sottile strato di cera.


Durante le fasi che sono state descritte, e in particolar modo durante le prime due, il miele si arricchisce di varie sostanze, tra cui enzimi e fermenti, grazie alle quali acquista le ben note proprietà terapeutiche ed alimentari.

  



6 - IL MICROCLIMA - IL CONSUMO DELLE SCORTE E IL NUMERO DI INDIVIDUI DI UNA FAMIGLIA



6.1 - Il microclima


Prima di vedere in che modo le api riescono a determinare un microclima all’interno dell’alveare formuliamo due considerazioni:


grazie al microclima e all’immagazzinamento delle scorte le api sono in grado di sopravvivere in condizioni climatiche che registrano anche escursioni termiche esterne oscillanti da -40°C. a +60°C.;


la temperatura minima  all’interno dell’alveare non deve essere inferiore a 10°C., mentre per consentire lo svolgersi delle fasi vitali (allevamento della covata, costruzione dei favi, ecc.), la temperatura deve aggirarsi intorno a 30/33°C. in prossimità della covata; questa richiede inoltre una umidità relativa del 40%. E’ da notare altresì che la temperatura diminuisce man mano che ci si allontana dal centro del favo. In sintesi la temperatura interna dell’alveare si aggira mediamente  sui seguenti valori:

estate:  35°C.

autunno: 20/25°C.

inverno: 15/20°C.


Tanto premesso, vediamo ora a quali accorgimenti ricorrono le api per determinare il microclima dell’alveare attraverso la riduzione delle alte temperature e l’innalzamento di quelle basse. In presenza di alte temperature la reazione è la seguente: quando la temperatura esterna incomincia a superare certi limiti e minaccia di  innalzare l’optimum termico interno che, come abbiamo visto, è un po’ superiore ai 30°C., le api evitano di concentrarsi e si allargano quanto più possibile, tanto che una parte delle operaie va a collocarsi addirittura all’esterno dell’alveare. Se la temperatura si innalza ulteriormente, le api ricorrono alla ventilazione; con rapidissimi movimenti delle ali, che possono raggiungere anche 500 cicli al secondo, generano una corrente d’aria che provoca un abbassamento della temperatura interna, abbassamento che viene accentuato per effetto della evaporazione dell’acqua appositamente bottinata e di quella che è in eccesso nel miele immaturo. E’ da tenere inoltre presente che il numero delle ventilatrici cresce in proporzione al crescere della temperatura, e viceversa. È cosa nota che il metabolismo delle api aumenta con l’aumentare della temperatura; ne consegue che quando la famiglia si scalda aumenta proporzionalmente l’anidride carbonica (CO2) e diminuisce l’ossigeno. In genere la percentuale di anidride carbonica è inferiore all’1%; se l’incremento supera il 3% si ha un notevole aumento della ventilazione (Free, 1982).

La reazione generata dalle basse temperature esterne è invece la seguente: le api si raggruppano formando una specie di gomitolo, chiamato “glomere”, nel cui centro si mantiene una temperatura che si aggira intorno ai 30°C., mentre nella parte esterna essa oscilla intorno ai 10/15°C.. E’ da considerare altresì che il glomere non rimane immobile ma si muove a guisa di fisarmonica, contraendosi quando la temperatura esterna all’alveare diminuisce, ed espandendosi quando aumenta. All’effetto della contrazione messa in atto quando diminuisce la temperatura esterna, si aggiunge l’effetto delle microvibrazioni toraciche effettuate dalle api che nell’assolvere al compito, si alternano dalla posizione periferica  a quella centrale, e viceversa. Le api posizionate all’interno del glomere sono al minimo del loro metabolismo che viene determinato in base alla produzione di anidride carbonica (117 µg. per ape/ora) a + 10°C (Free, 1982). Col crescere della temperatura cresce anche il metabolismo della famiglia che conseguentemente aumenta la sua attività. Da accurate ricerche effettuate da Prost, risulta che il bilancio annuale espresso in kg. dei prodotti di entrata e di uscita in un alveare è il seguente (da Prost,1981 - parzialmente modificato):



Consumi (entrata) Produzione (uscita)


Ossigeno     30 Anidride carbonica   70

Propoli     0,3 vapore d’acqua       120

Nettare e melata 40 Miele compreso il

consumo interno       45

Polline     40 Cera                            0,5

Acqua 10 Propoli                        0,2

Polline                       34

Allevamento api        20

Deiezioni                   30

Totale circa 320            Totale circa                    326 



6.2 - I consumi alimentari e il numero degli individui


L’energia spesa per mantenere la temperatura ottimale all’interno dell’alveare nel periodo invernale comporta ovviamente un maggior consumo di alimenti come si osserva nel seguente prospetto che prende in considerazione il consumo invernale di miele di una media famiglia d’api posizionata in zone diverse:


zona nord  (Canada, Europa sett. ,ecc.): 35/40 kg.

zona centro europa:         20/25 kg.

zona nord mediterranea:              15 kg.

zona mediterranea:         10/12 kg.


Nel seguente prospetto si pongono in evidenza i consumi alimentari di una famiglia d’api durante tutto l’arco dell’anno in zone con temperature invernali relativamente rigide:


miele: 60 kg.

polline: 40 kg.

acqua: 20 kg.


Osservato che le api non cadono in letargo, rileviamo che un’ape adulta consuma circa 5 mg. pro-die di miele, mentre una larva, nel suo ciclo vitale, ha bisogno di circa 100/125 mg. di miele, 70/140 mg. di polline e 40/60 mg. di acqua.

Occorre poi notare che, come già detto in precedenza, una famiglia d’api non è composta da un numero fisso di individui, ma è formata da un numero che varia a seconda delle stagioni, tanto che da 50/60.000 operaie presenti in un arnia durante la stagione attiva (primavera/estate/inizio autunno), si può scendere a 10/20 mila individui nel periodo invernale anche perché nella stagione fredda la regina interrompe la deposizione delle uova. La diminuzione massima della colonia si rileva proprio all’inizio della primavera, periodo in cui le api che muoiono sopravanzano quelle che nascono. Tuttavia la situazione descritta muta in breve tempo perché, con l’inizio della buona stagione, l’estensione della covata determina una inversione del rapporto decessi/nascite.

Per pura curiosità osserviamo che una singola ape raggiunge un peso di circa 100 mg., per cui una famiglia di 60.000 api, (quante ne possono essere contenute in una sola arnia) raggiunge un peso complessivo di circa 6 kg.  




7 - LA COVATA, IL DETERMINISMO DI CASTA, IL CICLO DI VITA, IL DETERMINISMO DEL SESSO



7.1 - La covata e il determinismo di casta

 

L’estensione e lo sviluppo della covata sono in stretta correlazione con l’attività di raccolta, in particolare del polline, correlazione che ci lascia ancora una volta stupiti nel constatare la straordinaria facoltà di intuizione di cui sono dotate le api. Nel soggiungere che anche la temperatura influenza l’estensione della covata, osserviamone ora le varie fasi e occupiamoci anche dei soggetti che danno origine alle nuove vite. Occorre tener innanzitutto presente che la regina può deporre sia uova fecondate, come accade solitamente, sia uova non fecondate; le prime daranno origine ad api operaie, ed eccezionalmente a regine; le seconde, dette aploidi, origineranno per partenogenesi i fuchi. A questo punto ci si pone una domanda: chi decide se una larva deve diventare operaia o fuco, anziché regina? Straordinario interrogativo e straordinaria soluzione: la risposta è nell’alimentazione, perché quella riservata alla larva destinata a diventare regina sarà diversa da quella riservata alla larva che è destinata a dar luogo ad una operaia o ad un fuco. Infatti, mentre nei primi tre giorni di vita tutte le larve vengono nutrite con la gelatina reale secreta dalle ghiandole ipofaringee delle nutrici, dopo tale termine soltanto la larva della regina continuerà a ricevere lo stesso trattamento, a differenza delle larve di operaie o di fuchi che verranno alimentate dal terzo giorno in poi con una miscela di acqua, miele e polline (pappa larvale). 

Un ordinamento di tale natura dà luogo a quello che si chiama determinismo di casta, che nel caso specifico è fondamentalmente di origine trofogenica, dovuto cioè alla differente alimentazione. Occorre sottolineare che i motivi che danno luogo all’allevamento di una nuova regina sono l’orfanità della famiglia, oppure la sostituzione di un esemplare troppo invecchiato, o infine la preparazione alla sciamatura. La scelta di allevare una nuova regina è comunque effettuata dalla famiglia, non oltre il terzo giorno di vita delle larve, mediante la modifica delle celle di operaie in celle di regina; ciò non deve avvenire oltre tale limite temporale perché proprio in coincidenza di esso si divarica l’alimentazione. Bisogna far ora cenno di un fenomeno alquanto strano che farebbe pensare ad uno di quei rari momenti in cui la natura si mostra improvvida e contraddittoria; accade dunque che quando una famiglia rimane orfana e per vari motivi non può allevare un’altra regina, alcune api (operaie figliatrici) attivano gli ovari e incominciano a deporre uova che, non essendo fecondate ne fecondabili, genereranno soltanto fuchi, per cui - dopo breve tempo - l’intera famiglia si estingue. Ciò ci fa rendere conto della grande, insostituibile funzione della regina che si può così compendiare: deposizione delle uova, coesione della famiglia mediante l’emissione del feromone reale (peculiare ad ogni famiglia), inibizione dell’allevamento di altre regine, impedimento dello sviluppo degli ovari nelle operaie. La mancanza della regina, e l’impossibilità di allevarne una nuova, genera una situazione di vera e propria anarchia in cui il mirabile equilibrio della comunità si deteriora, fino a produrre il grave stato di degenerazione che dà luogo allo sviluppo di ovari nelle operaie. Ma, se fin qui abbiamo esaltato la funzione della regina, è ora tempo di occuparci anche delle api operaie che assolvono tuttavia funzioni preziose con infaticabile lena.

Le operaie non hanno un attimo di tregua nel governo della covata e si adoperano con ammirevole zelo non solo per assicurarne l’alimentazione e la pulizia, ma anche per mantenerla costantemente nel giusto grado di calore che non deve mai scostarsi dai 33°C., e di umidità relativa che deve mantenersi sul 40%. Per avere un quadro esauriente dell’attività svolta dalle operaie basta pensare che ogni larva riceve oltre 1000 visite di ispezione, che si sommano a quelle dedicate alla nutrizione; un impegno tanto solerte si intensifica addirittura quando  si tratta di accudire la larva reale che, secondo alcuni ricercatori, può ricevere anche 1200/1600 nutrizioni a base di gelatina reale. 


7.2 - Il ciclo di vita


A questo punto spostiamo l’attenzione sul ciclo di vita delle api per considerarne le evoluzioni e i ritmi. Occorre anzitutto ricordare che, come abbiamo accennato all’inizio di questa trattazione, l’ape da miele è un insetto oleometabolo, termine che sta ad indicare che esso subisce una metamorfosi completa che lo conduce dallo stadio di larva a quello di insetto adulto mediante profonde trasformazioni morfologiche e fisiologiche. Osservato che questo tipo di sviluppo si definisce “indiretto”, in contrapposizione con quello “diretto”, che è proprio dei mammiferi, vediamo  nel seguente specchio i tempi di metamorfosi dei vari soggetti di una famiglia d’ape: 


Regina

- uovo: giorni     3

- larva:                  5,5

- ninfa:                  7,5

- nascita:                16° giorno

- durata della vita: 3/4 anni.


Operaia

- uovo: giorni     3

- larva:                  6

- ninfa:        12

- nascita:                21° giorno

- durata della vita: estate 30/40 giorni, inverno 4/6 mesi


Fuco

- uovo: giorni     3

- larva:                  6,5

- ninfa:        14,5

- nascita:                24° giorno

- durata della vita: 30/50 giorni

                                                            

Se ora vogliamo farci un’idea delle fasi evolutive che scandiscono la metamorfosi delle api, osserviamo la seguente successione:


1 maturazione dell’uovo (3 giorni);

2 schiusa dell’uovo e nascita della larva;

3 successione di mute larvali (quattro) fino al 

completo acciambellamento;

4 opercolatura della cella (circa dall’ottavo al 

nono giorno dalla deposizione);

5 la larva (stadio di prepupa) si posiziona 

longitudinalmente;

6 la larva si trasforma in pupa (o ninfa);

7 graduale trasformazione della pupa con la 

comparsa delle parti anatomiche dell’insetto 

(testa, torace, addome, occhi, antenne, ecc.);

8 trasformazione definitiva della pupa in insetto 

adulto;

9 uscita dalla cella.


A completamento della precedente elencazione occorre soggiungere che per uscire dalla cella l’ape provvede da sola a rompere l’opercolo di cera e, appena uscita, dà senza indugio inizio ai compiti che la natura le ha assegnati.


7.3 - Il determinismo del sesso


Occupiamoci ora di uno degli aspetti più affascinanti e misteriosi della vita delle api, qual è quello che si riferisce alla determinazione del sesso.

Come abbiamo già visto la regina può deporre uova fecondate che daranno origine a regine o ad operaie, e uova non fecondate che daranno origine a fuchi (partenogenesi). Fatta questa precisazione, permane comunque un interrogativo: la scelta tra uova fecondate e non, deve essere attribuita a una facoltà della regina o, invece, ad una sorta di equilibrio che scaturisce dalla colonia nel suo insieme? Per completezza di informazione riportiamo le varie teorie quanto mai discordi che si possono così riassumere:


nel preparare le celle, le operaie programmano selettivamente la nascita delle operaie e quella dei fuchi;

quando la regina effettua l’ispezione delle varie cellette, recepisce uno stimolo inibitorio dalle celle dei fuchi, e si astiene dal fecondare  l’uovo;

la deposizione di uova fecondate da parte della regina è la regola che non offre eccezioni; sono poi le api che tolgono il liquido seminale da  alcune uova.


Concludiamo osservando che la maggior parte dei ricercatori reputa che il determinismo del sesso sia il risultato di una scelta effettuata collegialmente dall’intera famiglia, ma è da ritenere che il problema, quanto mai arduo, rimarrà insoluto ancora per molto tempo.



8 - IL VOLO NUZIALE


8.1 - La fecondazione della regina


La fecondazione della regina è preceduta, a somiglianza di quanto accade in quasi tutte le specie animali, da un rituale che vuole appunto sottolineare un evento di grande rilievo, qual è quello che assicura la conservazione della specie. Accade dunque che una regina vergine di età compresa tra i 5 e i 20 giorni, limite oltre il quale essa perde l’estro fecondativo, dia luogo al cosiddetto “volo nuziale”; questo, effettuato fino ad una altezza di 15 metri da terra, vuole essere, oltre che un invito al corteggiamento, anche un mezzo per selezionare i fuchi che si contendono l’impresa. I pretendenti che raggiungono lo scopo sono molti, in genere 8 o 9, ma la loro vittoria si tinge di drammaticità perché gli sventurati fuchi muoiono subito dopo la copulazione (secondo una teoria non ancora confermata sembra che l’ape regina, qualora necessario, possa effettuare altri accoppiamenti all’esterno dell’alveare anche in anni successivi). Se durante gli accoppiamenti la regina non riempie a pieno la spermateca può effettuare altri voli fecondativi uno o due giorni dopo (Free, 1982).

Abbiamo visto che il volo nuziale è importante per selezionare i pretendenti, ma la sua importanza si accresce se si considera che il volo della regina - accompagnandosi alla emissione di particolari feromoni sessuali - attira i fuchi da più parti, per cui riduce al minimo i rischi di consanguineità. Sono stati registrati l’arrivo di fuchi da distanze considerevoli (260/520 kmq - Free, 1982); più è alta la distanza di provenienza tanto maggiore sarà la varietà genetica.

La regina, in definitiva, tratta i fuchi con “sdegnoso distacco”, anche perché il liquido seminale che essa incamera dopo gli accoppiamenti le basterà per fecondare le uova per tutto il suo ciclo di vita che può protrarsi fino a 4 anni, durante i quali non avrà altri contatti con gli “infelici” parteners. Ad ulteriore dimostrazione che il fuco sembra essere per la regina soltanto uno strumento necessario alla riproduzione, e niente di più, notiamo che lo stesso feromone che essa emette all’interno dell’alveare, cioè nell’ambiente in cui convive usualmente coi fuchi, inibisce l’accoppiamento, anziché stimolarlo come accade soltanto ed unicamente in occasione del volo nuziale. 

Occorre notare infine che sarebbero stati osservati veri e propri sciami di fuchi che, in belle giornate di sole, si spostano a volte lentamente raggruppati in forma sferica, a volte rapidamente a mo’ di cometa; sembra che questi assembramenti, di solito osservati in zone collinari o montane ricche di punti di  riferimento, abbiano lo scopo di esercitare un richiamo sulle regine vergini.




9 - L’ORIENTAMENTO DELLE API - L’AGGRESSIVITA’



9.1 - L’orientamento


Le api sono fornite di una straordinaria capacità di orientamento che si basa sulla memorizzazione dei punti che assumono per esse particolare importanza, come le fonti nettarifere, i corsi d’acqua, ecc.. L’orientamento si giova principalmente di tre supporti, di cui due sensori ed uno trigonometrico; i primi due sono:


la vista, mediante la quale le api osservano sia i colori predominanti negli oggetti (per es. l’arnia), sia le caratteristiche topografiche del luogo da memorizzare;


l’olfatto, tramite il quale esse localizzano sia l’odore dei fiori, sia quello dell’eventuale messaggio chimico lasciato da altre compagne.  


Il terzo supporto è dato dalla posizione del sole, riferimento che non è in alcun modo condizionato dalla presenza di nubi, a patto che sia visibile una piccola parte del cielo azzurro; ciò avviene perché le api riescono a rilevare la polarizzazione del cielo e da questa ricavano la posizione del sole (per polarizzazione ottica si intende il processo mediante il quale la luce si comporta in modo diverso nelle varie direzioni ortogonali a quella di propagazione).


Lo studioso e ricercatore tedesco Karl Von Frisch (1886/1982) dimostrò dopo una lunga serie di esperimenti che il sole è alla base dell’orientamento delle api che sono in grado di calcolare le variazioni dell’angolo di incidenza del sole con l’orizzonte. Facciamo un esempio: se durante il mattino un’ape bottinatrice individua una fonte alimentare a 20° a ovest del sole, e se durante le ore pomeridiane quella stessa fonte andrà a troverà a 30° est, le api hanno la capacità di effettuare con precisione i calcoli che compensano le intervenute variazioni della posizione del sole. La facoltà di compensazione appare tanto più straordinaria se si pensa che le api riescono a determinarla anche se nell’intervallo di ore che intercorre tra i voli del mattino e quelli del pomeriggio esse vengono rinchiuse al buio. Ciò dimostra che le api sono in grado di calcolare l’orientamento non solo con la misurazione diretta dell’angolazione del sole, ma anche stando all’interno dell’alveare grazie al loro stupefacente “orologio” interno.

  

I tre supporti ora considerati vengono utilizzati dall’ape per effettuare il cosiddetto volo di orientamento, durante il quale essa registra tutti i necessari dati di riferimento; così una volta memorizzato il punto in cui per es. è collocata la sua arnia, l’ape può allontanarsene tranquillamente perché è in grado di ritrovarla al suo ritorno; per questo bisogna assolutamente evitare di effettuare spostamenti dell’arnia senza le dovute precauzioni perché, se la dislochiamo anche soltanto di pochi metri, l’ape resta disorientata, e non sarà più capace di rientrare nel suo nido. Interessanti sono i voli di orientamento effettuati dalle api di età compresa tra i 3 e i 17 giorni di vita, con voli circolari progressivamente più larghi, aventi per loro centro l’arnia, allo scopo di memorizzarne la posizione. Sembra che tali voli siano compiuti dalle api anche per liberare l’intestino all’esterno dell’arnia, cosa che esse non fanno mai al suo interno, a meno che non siano colpite da affezioni diarroiche. Quando le api escono dall’arnia per liberare il proprio intestino, si dice che esse fanno il “volo di pulizia”.


Abbiamo dunque visto come le api sono dotate di sensibili facoltà di orientamento, ma ciò non toglie che tal volta esse non siano in grado di ritrovare il luogo memorizzato, come accade quando si verifica quello che è chiamato il fenomeno della deriva. Questo fenomeno, quasi sconosciuto allo stato di natura, ma frequente negli apiari, si verifica quando le bottinatrici, nel rientrare dai campi, restano disorientate dalla spinta del vento ed entrano erroneamente nell’arnia di un’altra famiglia contigua o posta troppo nelle immediate vicinanze.


9.2 - L’aggressività

 

La deriva, come abbiamo appena visto, provoca l’ingresso involontario di una bottinatrice in un arnia adiacente alla sua; diverso è il fenomeno del saccheggio. Questo, alquanto raro in natura, attesa la bassa densità delle famiglie esistenti in un determinato territorio, è frequente negli apiari, quasi sempre in seguito ad errori di conduzione. Si chiama saccheggio un’ intrusione volontaria di api in un’arnia appartenente ad altra famiglia, allo scopo di depredarla delle scorte di miele immagazzinate nei favi; la forma in cui  può manifestarsi è triplice:


saccheggio latente: l’intrusione, effettuata furtivamente, e mai in gruppo, avviene spesso attraverso un accesso secondario dell’arnia e poco per volta; tuttavia, le intruse rapinano notevoli quantità di miele;


saccheggio episodico: violento ma di breve durata, è caratterizzato da un ronzio di tono molto  elevato;


saccheggio violento: di natura analoga a quello episodico, è tuttavia più cruento e di più lunga durata; ha spesso per epilogo la distruzione della colonia assalita.


Un’ ulteriore notazione merita l’argomento delle intrusioni: durante la stagione della sciamatura i fuchi si aggirano all’interno di famiglie estranee senza che ne vengano scacciati.

Al termine della stagione attiva, le operaie provvedono all’espulsione dei fuchi ormai non più necessari all’economia della famiglia, ma, secondo quanto affermano alcuni ricercatori, sembra che a volte qualche fuco riesca a svernare all’interno della colonia. Il processo di espulsione dei fuchi non è rapido né improvviso, ma viene preceduto da un periodo in cui le operaie cessano di rifornirli di cibo. Al momento dell’espulsione, le operaie afferrano i fuchi per le zampe, cercando di allontanarli, ma i maschi adottano una resistenza passiva che è tanto tenace da indurre le operaie a desistere dal loro intento; a quel punto però i fuchi si allontanano spontaneamente dall’alveare. L’espulsione è provocata dalla diminuzione del pascolo e coincide, pertanto, con la fine della buona stagione, ma può accadere a volte che una brusca diminuzione del raccolto durante il periodo di normale attività (luglio-agosto), spinga le operaie ad espellere i fuchi repentinamente.


A questo punto ci sembra che, avendo fatto cenno di alcune forme di violenza esercitate dalle api, sia opportuno intrattenersi più diffusamente e in modo più organico sulla loro aggressività e sulle varie forme che questa esprime.

Osservato preliminarmente che le api diventano aggressive nei confronti dell’intruso soltanto per garantire la difesa della famiglia, occorre sottolineare che il  grado di aggressività dell’ape è in relazione al suo patrimonio genetico, alla sua razza di appartenenza, nonché alla sua età (le api giovani sono poco aggressive). Certe api africane posseggono un’ aggressività notevolmente superiore a quella della nostra ligustica e a quelle delle altre razze europee (v. oltre). Si è verificato in questi ultimi tempi che alcuni sciami di una razza africana particolarmente aggressiva, l’Apis mellifera adonsonii, accidentalmente importati nel 1956 in Brasile, si sono diffusi in quasi tutto il Sud America ed hanno già raggiunto la parte meridionale del territorio statunitense; si tratta di api che non hanno nessun pregio, essendo pessime impollinatrici, estremamente aggressive (vengono soprannominate api-killer), e sfortunatamente capaci di lunghe migrazioni che consentono loro di colonizzare in breve tempo territori lontani. Tanto numerosi sono stati i casi di aggressione anche mortali a bestiame e a persone, che i ricercatori statunitensi, nel tentativo di impedire il diffondersi di una razza tanto pericolosa, hanno messo a punto sofisticati strumenti di controllo e di studio; tra questi, una microscopica trasmittente a batterie solari che, posta sul dorso di alcune api dà modo di seguirne gli spostamenti per studiarne le abitudini alimentari e comportamentali, dati indispensabili all’approntamento di una strategia di lotta che abbia possibilità di successo.

Tornando a considerare in linea generale l’aggressività delle api, occorre ricordare come le fumigazioni siano sia allo stato attuale il mezzo migliore, per contrastarla; infatti il fumo, determinando uno stato di pericolo, induce le api (sempre coerenti con il loro spiccato spirito di prevenzione) a predisporre un piano di fuga e perciò a rimpizzarsi di miele che tuttavia le appesantisce e le rende meno aggressive. Alcuni studi recenti sono inclini a sostenere che il fumo esplica nei confronti delle api altri effetti non ancora del tutto noti, come per es. quello di inibirne direttamente l’aggressività, o quello di distrarre la loro attenzione dall’odore di chi opera, impedendo perciò l’emanazione e la diffusione del feromone di allarme. 

L’aggressività insorge in ogni caso in presenza di un pericolo; l’allarme viene dato dalle api guardiane tramite l’emissione di un apposito feromone (feromone d’allarme: acetato di isopentile) che pone sul chi vive l’intera famiglia. Le guardiane oltre che emettere il cennato feromone, sono anche pronte a battersi per respingere l’aggressione ma, se la loro forza non è sufficiente alla bisogna, sopravvengono le altre operaie che interrompono momentaneamente le loro occupazioni. Quando una guardiana si accinge a pungere un intruso, lo afferra spesso con le mandibole; così facendo esse secernono dalle loro ghiandole mandibolari un altro feromone di allarme, il 2-eptanone che contribuisce, sebbene in misura minore rispetto al primo a svolgere funzione di allarme. I sistemi chimici di allarme hanno comunque una breve durata e svaniscono rapidamente, onde evitare che la famiglia permanga in stato di allerta più del dovuto (tranne casi particolari in cui i feromoni di allarme vengono secreti di continuo). In caso di siccità e di periodo di scarso raccolto onde ridurre il rischio del “saccheggio” da parte di api di altri alveari (questo soprattutto negli apiari moderni dove le arnie sono posizionate le une vicino alle altre) la guardiania è notevolmente accresciuta. 

E’ caratteristica la posizione che assumono le guardiane quando sono in stato di allerta: esse, appoggiandosi sulle quattro zampe posteriori, sollevano le due anteriori e, serrando le mandibole, protendono le antenne in avanti. Quando il pericolo si fa incombente, le guardiane dischiudono le mandibole, allargano le ali e affrontano il nemico.

Si riportano in forma comparativa gli indici di comportamento aggressivo espressi da una famiglia di api di razza “Italiana” e da una di razza “Africana” (Free, 1982):



                Italiana                        Africana

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- Numero di punture su una pallina di cuoio 

sospesa davanti all’entrata del nido 26                                         64

- Tempo trascorso fino alla prima puntura 19 sec.                                  3sec.

- Tempo necessario per diventare aggressive 23 sec.                                  7sec.

- Distanza a cui le api hanno seguito

l’osservatore

dopo essere diventate molto aggressive 23 m                                     170m

- Tempo necessario per ritornare tranquille 149 sec.                               1801sec.

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10 - LA COMUNICAZIONE TRA LE API - I SENSI



10.1 - Generalità


L’ape, abbiamo detto più volte, è un insetto sociale. La coesione della famiglia è assicurata anche dai mezzi di comunicazione senza i quali la famiglia d’api perderebbe quella peculiarità di “unità biologica” che è una delle meraviglie della natura. I mezzi con i quali le api comunicano sono sensori e chimici; tra i primi annoveriamo la vista, il tatto, l’odorato e forse l’udito, tra i secondi i feromoni.


10.2 - Lo scambio del cibo: la trofallassi


La comunicazione tattile assume particolare rilievo tramite la trofallassi che è lo scambio del cibo da un’operaia all’altra, mediante il quale si rafforza la coesione della famiglia, tanto più se si considera che lo scambio avviene in maniera tanto rapida da interessare - nel giro di 24 ore - il 60% delle api che compongono la colonia. Grazie alla trofallassi le api riescono a valutare sia la quantità del nettare bottinato, che la sua qualità. Durante lo scambio del cibo le due api che lo attuano sono in continuo contatto con le antenne; l’ape che offre il bottino schiude le mandibole e muove la proboscide, in avanti e in basso (Free, 1982). L’odore della testa è uno stimolo di estrema importanza nel determinare lo scambio del cibo (Free, 1982).

Il fenomeno della trofallassi favorisce la coesione familiare in quanto determina:

1. una maggiore diffusione di particolari feromoni;

2. una diffusa conoscenza della quantità e qualità del nettare bottinato;

3. una concentrazione degli zuccheri presenti nel nettare, fase importantissima nell’ambito del processo di trasformazione di quest’ultimo in miele.

4. uno stimolo alla raccolta di polline e di acqua.


10.3 - I feromoni

    

Di capitale importanza ai fini della comunicazione è il messaggio chimico connesso all’emissione di particolari odori, detti feromoni (o ferormoni). Il feromone, prodotto e secreto, oltre che dalla regina, anche dalle operaie, dai fuchi e dalla stessa covata, è l’elemento che determina la coesione della famiglia, è il misterioso fattore che favorisce la perfetta armonia di un’orchestra formata da decine di migliaia di orchestrali. La sua funzione che è non solo stimolante, ma in certi casi anche inibitoria, trova la sua massima espressione nel feromone emesso dalla regina all’interno dell’alveare, feromone che, articolandosi in oltre 32 tipi, può dar luogo a numerose combinazioni, tra cui emerge per importanza il feromone reale che determina la coesione della famiglia. Anche le operaie emettono feromoni di grande rilievo per l’economia della colonia, tra cui ricordiamo quello che funge da richiamo reciproco al di fuori dell’alveare durante la sciamatura o in altre circostanze, quello che ha per scopo una richiesta d’aiuto in caso di pericolo, quello tracciante, infine, che tende a segnalare la posizione delle fonti di bottino.

Stupefacente è il feromone emesso dalla covata, sia per stimolare le bottinatrici alla raccolta di nettare e di polline, sia per inibire - secondo quanto affermano alcuni ricercatori - lo sviluppo degli ovari nelle operaie. All’interno della colonia v’è dunque un fitto intrecciarsi di migliaia di messaggi veicolati da due supporti, quali la volatizzazione e il contatto, in cui è compresa la trofallassi. La temperatura costante e l’assenza o scarsa presenza di correnti d’aria favorirebbero la produzione e la diffusione dei feromoni (Free, 1982).

Osserviamo infine che lo studio scientifico dei feromoni delle api, pur tenendo per fermo la enorme importanza del fenomeno, non perviene a conclusioni univoche. Diamo tuttavia qui di seguito una elencazione schematica dei compiti assolti dai principali feromoni, senza far cenno delle complesse questioni che dividono gli esperti.


Feromoni emessi all’esterno del nido


- Regina


Feromone sessuale principale: attira i fuchi durante il volo nuziale.

Feromoni sessuali secondari: svolgono una funzione accessoria nelle fasi dell’accoppiamento.

Feromone della sciamatura: mantiene unito lo sciame, sia durante la sua formazione che durante gli spostamenti successivi.




- Operaie


Feromone di richiamo: è emesso, tramite la ghiandola di Nasanoff, all’ingresso del nido per facilitare l’orientamento delle bottinatrici che ritornano dai campi; ha anche lo scopo di coordinare lo sciame nelle fasi susseguenti alla sciamatura per facilitarne l’ingresso nella nuova dimora.

Feromone d’allarme: è emesso nel momento in cui il pungiglione colpisce un presunto nemico; ha lo scopo di richiamare l’attenzione di altre guardiane.

Feromoni traccianti: emessi per facilitare la ricerca delle fonti di bottino.

Repulsine: sostanze che le operaie lasciano sui fiori bottinati per avvertire le compagne, per un tempo limitato, che i fiori stessi sono già stati bottinati.


Feromoni emessi all’interno del nido


- Regina


Feromone reale: è il più importante ed è emesso dalla regina sia per caratterizzarsi, sia per dare un odore proprio all’intera famiglia e conferirle armonia e coesione. Ha inoltre il compito di inibire lo sviluppo degli ovari nelle operaie e impedire l’allevamento di celle reali.

Altri feromoni: sono numerosi ma ancora non del tutto noti; essi adempirebbero il compito di stimolare la costruzione dei favi, nonché la pulizia delle celle, l’allevamento e la custodia della covata, l’immagazzinamento e l’accumulo di miele, polline, ecc..


- Covata


I feromoni emessi hanno il duplice scopo di stimolare l’attività delle bottinatrici e inibire nel contempo lo sviluppo degli ovari nelle operaie.


- Fuchi


Il feromone emesso dai fuchi ha lo scopo di stimolare l’attività delle operaie.




10.4 - I sensi


Come abbiamo già osservato, la relazione che le api intrattengono col mondo esterno è basata sulla loro percezione sensitiva che ha come supporti la vista, il gusto, l’odorato, il tatto e, secondo alcuni, l’udito. Allo scopo di approfondire l’argomento ci intratteniamo qui di seguito sui dettagli connessi alla percezione sensitiva.


La vista: la percezione visiva delle api, basata sia sugli occhi semplici, che su quelli composti, non include l’intera gamma dei colori, ne le multiformi sfumature alle quali essi danno luogo. Infatti, approfonditi studi condotti prima dal naturalista tedesco K. Von Frisch, poi da altri studiosi, sono pervenuti alla seguente conclusione: le api vedono bene soltanto il bianco, l’ultravioletto, il giallo, il nero, il blu e, secondo alcuni autori, anche il verde. E’ da notare inoltre, come singolare anomalia, che le api percepiscono il rosso come se fosse nero. Oltre a questa limitata sensibilità cromatica, sembra che le api abbiano un’approssimativa percezione delle figure geometriche, tanto da confondere, per es., un circolo con un quadrato, ma ciò non sminuisce la importante funzione che la vista svolge nell’orientamento delle api. E’ interessante osservare infine che la peculiare struttura anatomica degli occhi delle api dà luogo ad una visione a mosaico degli oggetti osservati.


L’odorato: la percezione odorosa delle api, allocata nelle antenne, assume grande importanza in quanto consente di associare una fonte alimentare al peculiare odore che essa emana; per quanto attiene all’orientamento, si è potuto sperimentare che l’ape si giova anche dell’odorato per stimare le piccole distanze.


Il gusto: la percezione gustativa delle api, allocata nella cavità boccale e nella ligula, è assimilabile in via di massima a quella dell’uomo, in quanto essa è in grado di distinguere il dolce, l’agro, il salato e l’amaro. Tuttavia occorre sottolineare che le api non riescono a percepire certe differenziazioni gustative con la stessa sensibilità umana. Per es., se ad uno sciroppo zuccherino si aggiunge una certa percentuale di chinino (sostanza amarissima), le api non ne avvertono la presenza e continuano a suggere lo sciroppo senza esitazione. Per  quanto si riferisce invece alla percezione del sale, si è visto che le api disdegnano lo sciroppo zuccherino se ad esso è stato aggiunto sale in quantità eccessiva. E’ da osservare inoltre che quando la percentuale di zucchero disciolto nell’acqua è particolarmente bassa (ad esempio 3%), le api non ne avvertono la presenza e considerano la soluzione alla stregua di acqua pura (esperimenti condotti da K. Von Frisch).


Il tatto: la percezione tattile, che si estrinseca principalmente tramite le antenne, è molto importante per la vita di relazione delle api e rappresenta anche, come abbiamo più volte osservato, uno strumento che assicura la coesione tra i membri della stessa famiglia; è infatti da notare che le api, mentre si scambiano il cibo (trofallassi), sono in continuo contatto tramite le antenne e si trasmettono anche particolari feromoni. Le antenne adempiono dunque una funzione importante, sia per quanto attiene al senso tattile vero e proprio, sia per quanto si riferisce alla percezione dell’umidità, della temperatura, degli odori ecc., al punto che, come abbiamo già osservato, un’ape privata delle antenne perde ogni relazione con il mondo esterno ed è destinata a perire in breve tempo.




11 - IL LINGUAGGIO DELLE API: LA DANZA



11.1 - La danza circolare e la danza dell'addome


Se la vita dell’alveare è nel suo insieme un intrecciarsi di mirabili “ingegnosità” della natura, il linguaggio delle api, che si esprime con la danza, ci lascia attoniti per la perfezione delle sue leggi, quasi che esse fossero il prodotto di una superiore mente matematica. 

Vediamo dunque in sintesi, e semplificando le difficoltà dell’esposizione, in quali modi si estrinseca il linguaggio delle api.

L’ape supplisce all’assenza della parola con la gestualità della danza che, variando di intensità, di frequenza, di forma o di percorso, riesce a fornire un preciso messaggio: così quando una bottinatrice individua una fonte di raccolta e vuole renderne edotte le compagne rimaste nel nido, esegue una danza dalla quale le astanti apprendono con stupefacente precisione l’ubicazione del bottino, nonché la sua quantità e la sua qualità. Preliminarmente l’ape effettua un volo di orientamento allo scopo di imprimere nella memoria l’ubicazione della fonte alimentare; poi, tornata nell’alveare con un campione di cibo, esegue una vera e propria danza che assume varie cadenze a seconda della distanza della fonte alimentare e, come abbiamo già osservato, a seconda delle sue caratteristiche qualitative e quantitative. Generalmente l’ape effettua una danza che ha un andamento circolare allorché la fonte del raccolto è situata a una distanza inferiore a cento metri dall’alveare, mentre effettua la danza dell’addome, che si esprime con rapidi movimenti vibratori, quando la distanza è superiore. Ma le specificità della danza non si fermano qui, perché essa si svolge anche con forme diverse intermedie, come la danza a falcetto, o quella a zig-zag, ecc. che riescono a fornire ulteriori e più precisi riferimenti in ordine alle caratteristiche della fonte del bottino.

Occorre poi fare una notazione di grande rilievo: nel momento in cui l’ape effettua la danza circolare o quella dell’addome rigurgita contemporaneamente una piccola quantità di bottino che, diffondendo il proprio odore alle compagne vicine, rafforza il significato della danza che a volte, a seconda del caso, si esplica anche con una serie di cerchi che si sviluppano alternativamente nel senso orario o in quello antiorario. Le compagne, appena ricevuto il messaggio dalla danzatrice, non perdono tempo e si dirigono senza indugio verso il pascolo; circostanza che ci lascia ancora una volta sbalorditi, è che il numero delle partenti risulterà proporzionato sia alla durata che alla vivacità e al vigore della danza. Dimenticavamo di dire che per effetto della danza circolare, che non ha lo scopo di segnalare la posizione del bottino, ma ha solo quello di indicarne l’esistenza nelle vicinanze dell’alveare, le api che hanno recepito il messaggio si dedicano alla ricerca della fonte alimentare volando in tutte le direzioni, ma sempre nel raggio di 100 metri. Allorché il pascolo si trova invece ad una distanza superiore ai 100 metri, la bottinatrice compie, come già osservato, la danza dell’addome (i dimenii di cui parla il Maeterlinck), che ha lo scopo di delimitare con maggior precisione la posizione dell’alimento, di cui indica direzione e distanza. Con quale meccanismo viene determinata la direzione del bottino? Ancora una volta la risposta fornitaci dalle api è sorprendente perché essa implica calcoli trigonometrici che l’uomo apprende attraverso severi studi sui banchi di scuola. Qui entrano in gioco i rapporti intercorrenti tra la posizione del bottino e quelle del sole e dell’arnia. Così, sulla scorta di quei parametri, l’ape indica con la sua danza se il bottino è nella stessa posizione del sole, o se la sorgente alimentare è in opposizione al sole rispetto all’alveare, riferimenti che comunque risultano allineati in entrambi i casi su una retta; nella prima circostanza l’ape percorrerà il tratto rettilineo della danza col capo rivolto verso la parte alta del favo, nel secondo caso col capo rivolto verso il basso.

Vediamo ora cosa succede quando i tre punti di riferimento (arnia, bottino, sole) non sono tutti e tre allineati su una retta, ma sono posti in modo tale da delimitare un angolo formato da due rette ideali che uniscono l’arnia al sole, da una parte, al bottino dall’altra. In questo caso l’ape, che abbiamo già definito insetto modesto e insignificante nell’aspetto, compie i propri calcoli trigonometrici e dà luogo alla seguente esibizione coreica effettuata sulla superficie del favo: percorre il tratto rettilineo con la danza dell’addome in modo che questo si ponga in una posizione tale da formare con la verticale del favo un angolo uguale a quello determinato dalla posizione del bottino e del sole rispetto all’arnia. Ad ulteriore chiarimento si sottolinea che l’angolo di cui si è parlato si sviluppa in sensi diversi a seconda che il bottino si trovi alla destra o alla sinistra del sole. In quest’ultimo caso l’ape, danzando va a delimitare un angolo che, sviluppandosi in senso antiorario dalla congiungente arnia/sole va a toccare la congiungente arnia/bottino; quando invece il bottino è situato alla destra del sole, l’angolo tracciato dalla danza, si muove, rispetto ai due riferimenti citati, in senso orario.

Cerchiamo di capire ora in che modo l’ape comunica alle compagne la distanza che separa l’arnia dal bottino. Per conseguire lo scopo l’ape si serve di due parametri: il ritmo della danza e il numero di volte che essa viene eseguita; se il bottino è distante poco più di cento metri, l’ape effettua numerosi percorsi in rettilineo con ritmo accentuato; se il bottino è invece posto ben oltre i 100 metri, e fino a qualche chilometro, il percorso in rettilineo non sarà effettuato più di una o due volte, e con ritmo notevolmente rallentato.

Si tenga presente che il ricorso a riferimenti trigonometrici intesi a delimitare la posizione del bottino si rende necessario quando la danza dell’addome è eseguita sul favo che è posto verticalmente all’interno dell’alveare, non lo è invece quando il messaggio coreico è effettuato all’esterno dell’arnia. In quest’ultimo caso il compito della danzatrice è estremamente semplificato, sempre che essa disponga di un supporto orizzontale, come può essere il predellino d’entrata dell’arnia; in tal caso il messaggio si estrinseca così: la danzatrice percorre un tratto rettilineo che, proiettato oltre il supporto indica direttamente la direzione che conduce alla fonte alimentare.

A somiglianza di quanto avviene nella danza circolare, anche in quella rettilinea le api astanti vengono informate sul conto della quantità e qualità del pascolo grazie all’odore che emana dal corpo della danzatrice, nonché per effetto del campione di cibo che essa rigurgita. Se invece di una fonte alimentare, l’informazione riguarda una fonte idrica che non ha ovviamente odore caratteristico, l’ape, oltre alla danza, usa un altro messaggio: emette un particolare feromone secreto dalla ghiandola di Nasanoff che stimola le api alla ricerca dell’acqua. Occorre altresì ricordare che le bottinatrici emettono dalle ghiandole tarsali un feromone tracciante che crea un vero e proprio “sentiero” che conduce le altre api alla fonte nutritizia.

Come il lettore certamente ricorderà abbiamo già osservato che, oltre alla danza circolare e a quella dell’addome, vi sono altri tipi di danze, dette intermedie, tendenti in ogni caso ad indicare la posizione del bottino; si hanno così la danza a zig-zag effettuata per indicare distanze che si aggirano sui 2/4 metri, e la danza della falce che indica distanze intorno ai 10 metri.

Non possiamo concludere il discorso sulla “danza” dell’ape senza far cenno dei cosiddetti “dialetti” e dei “dialoghi”. Accade dunque che, come l’uomo può esprimersi con parole ed espressioni diverse a seconda del dialetto che usa, anche l’ape dia a volte informazioni “dialettali”, nel senso che il significato della danza non è univoco, ma cambia notevolmente da una razza all’altra. Così è stato notato che la danza circolare, se effettuata da una razza vuole indicare che il bottino è a circa 40 metri, se effettuata da un’altra è a circa 70 metri e, da un’altra ancora a circa 90 metri.

I cosiddetti “dialoghi”, o “presunti dialoghi” come li chiama qualche autore, sono stati oggetto di osservazione durante la sciamatura. Come noteremo nel prossimo capitolo, accade che lo sciame, appena abbandonata l’arnia, si posi in un luogo, situato anche a breve distanza da essa, ma soltanto provvisoriamente, in attesa di individuare un posto nel quale possa adeguatamente e definitivamente nidificare. Per raggiungere l’intento partono numerose esploratrici che ritornano poi con informazioni discordanti, come accade nel consorzio umano quando la soluzione di un problema è affidato ad una commissione di studio. Per fortuna le esploratrici pervengono quasi sempre ad un “accordo” e lo sciame parte in direzione del ricovero individuato  ma, se sciaguratamente le divergenze delle informazioni delle esploratrici non approdano ad una composizione, lo sciame può anche immobilizzarsi nella posizione provvisoria, fino a perire.


11.2 - Altri tipi di danze


A questo punto è necessario sottolineare che le danze eseguite dall’ape non si limitano soltanto a quelle finora considerate, tutte tendenti a fornire messaggi inerenti alla distanza del bottino, ma vi sono altre forme di danze che si propongono di dare informazioni di altro tipo, come quelle appresso elencate:


Danza d’allarme, tendente a chiamare a raccolta le guardiane e, se necessario, l’intera famiglia, per approntare la difesa dell’alveare.

Danza della pulizia, effettuata da un’operaia quando avverte la necessità di essere pulita mercé l’intervento di una compagna.

Danza di gioia,  indica che le condizioni dell’alveare sono ottimali.

Danza del massaggio, effettuata dalle operaie che corrono in soccorso di compagne afflitte da specifici problemi (intirizzimento, paralisi, ecc.).

Danza del ronzio, legata al fenomeno della sciamatura, coinvolge inizialmente solo un piccolo nucleo di api, ma questo aumenta poi gradualmente sino a comprendere la quasi totalità della colonia; la sua articolazione è la seguente entro l’alveare poco prima che si produca lo sciame, forse con l’intento di provocarlo;durante la partenza dello sciame e durante il volo dello stesso sino al punto dove si ferma provvisoriamente; all’interno della nuova dimora durante le fasi di sistemazione.


12 - LA SCIAMATURA


12.1 - La sciamatura


Tramite la sciamatura la famiglia d’api perpetua non solo la propria sopravvivenza, ma dando luogo a due, o più nuove famiglie, accresce da due a tre volte la deposizione delle uova, poiché moltiplica le regine; inoltre, allontanandosi dal territorio su cui insisteva il primitivo alveare, ha modo di ampliare le fonti della nutrizione. Altra motivazione della sciamatura è che non sarebbe ipotizzabile uno sviluppo della covata basata sulla presenza di due figliatrici fertili, in quanto l’alveare non tollera in alcun modo la presenza di due regine, non fosse altro che per la incompatibilità che in tal caso verrebbe a determinarsi tra i due feromoni reali.

Vediamo ora come si articola la sciamatura, osservando cronologicamente la successione delle sue fasi. Allorché l’economia dell’alveare avverte la necessità di dar luogo alla sciamatura, ha inizio l’allevamento di una nuova regina; si preparano per motivo di sicurezza molte celle reali, pur essendo una sola quella destinata ad accogliere la nuova regina. A causa della incompatibilità di cui abbiamo fatto poc’anzi cenno, accade che - appena da una delle celle reali sta per sfarfallare una nuova regina - la vecchia regina abbandona per sempre l’alveare quando la giornata è soleggiata e calda, facendosi seguire da qualche fuco e da circa la metà delle operaie che, nel frattempo, si sono rifornite di abbondanti quantità di miele, accumulato nell’apposita borsa melaria. E’ questo il cosiddetto sciame primario che, in attesa che le esploratrici individuino un’adeguata dimora definitiva, va a posarsi nei pressi del nido appena abbandonato, sul ramo di un albero, o su una siepe, o su una roccia e qualche volta anche sul terreno. Qui rimane 2-3 giorni, ma non è da escludere che possa partire dopo qualche ora.

Ma chi provvede a coordinare una migrazione di tanto rilievo? Si sa che, nell’ambito delle arti militari, lo spostamento di un esercito, dando luogo a quello che si chiama la crisi di movimento, necessita di comandi energici e adeguati alle mutevoli circostanze. Ebbene, le api durante la fase della sciamatura non hanno bisogno di condottieri, nè di uno stato maggiore, perché esse dispongono di un mezzo che opera come un sofisticato sistema di radiocomunicazioni affidato all’emissione di speciali feromoni emessi dalle ghiandole mandibolari della regina e dalla ghiandola di Nasanoff delle operaie, ed è un sistema  di comunicazione che non si limita a pervenire ad una sola stazione fissa ricevente, ma è recepito invece da decine di migliaia di api che fungono da ricettori mobili. Nel frattempo, che sta accadendo all’interno del nido originario? E’ nata la nuova regina che, come prima cosa, effettua quello che potrebbe chiamarsi un delitto di stato, sopprimendo le altre regine ancora rinchiuse nelle celle reali. Ma v’è un caso in cui la soppressione violenta non avviene, ed è quello in cui la famiglia decide di suddividersi ulteriormente, allora la regina scampata alla morte abbandona il nido, accompagnata come al solito da uno stuolo di api e da qualche fuco, dando luogo al cosiddetto sciame secondario che è ovviamente costituito da un minor numero di api rispetto al primario, ma è guidato in compenso da una regina giovane, vergine e dinamica. Si possono verificare anche altri sciami dopo quello secondario fino a quando non si raggiunge una dimensione di equilibrio della colonia. E’ interessante notare che, nei momenti che precedono la sciamatura, la vecchia regina emette un suono caratteristico (tui-ti-ti) fino a che non riceve la medesima risposta dalla nuova; solo dopo aver ricevuto la risposta, la vecchia regina abbandona l’alveare, certa che la sopravvivenza della famiglia è ormai assicurata dalla presenza della nuova regina. 


12.2 - Le cause della sciamatura


Ma ora ci domandiamo: quali sono le cause che determinano la sciamatura? Tra le diverse ipotesi, spesso concatenate tra loro, notiamo che la sciamatura può essere connessa a:


inadeguata diffusione del feromone reale spesso legata all’eccesso di popolazione (causa prevalente);

carenza dello spazio del nido;

eccedenza della scorta di miele rispetto alle necessità della famiglia;

fattori genetici.


Le prime due ipotesi sono le più accreditate; rimangono tuttavia non poche perplessità sulla effettiva causa della sciamatura e rimane altresì inspiegabile il criterio cui si attiene la famiglia nel determinare il numero di operaie che debbono sciamare. 




Per concludere occorre fare tre considerazioni:


1. La sciamatura non deve essere confusa con la migrazione; questa si ha quando l’intera famiglia abbandona un luogo che non ritiene più appropriato, senza che la circostanza provochi l’allevamento di altre regine; tale fenomeno è raro nelle nostre zone, forse addirittura assente, mentre è frequente in famiglie di api tropicali.


2. Non sempre l’allevamento di una nuova regina è correlata alla formazione dello sciame o è causato dallo stato di orfanità della famiglia, ma deriva a volte dalla necessità di sostituire una regina vecchia e carente nell’emissione del feromone reale; in tale circostanza la nuova regina uccide la vecchia e, una volta fecondata, inizia la deposizione delle uova.


3. Non sempre una regina vergine riesce ad essere fecondata; in tal caso siamo di fronte ad una regina “arrenotoca” che deporrà soltanto uova aploidi che, generando esclusivamente maschi, causerà in breve tempo l’estinzione della famiglia; una regina rimasta priva del liquido seminale a causa della vecchiaia, si chiama “fucaiola”.

 




13 - L’IMPOLLINAZIONE E LA FECONDAZIONE DEI FIORI



13.1 - L’impollinazione dei fiori


L’ape mellifera intrattiene un rapporto mutualistico esclusivo con i fiori dai quali è attirata grazie alla stupenda tavolozza multicolore che questi compongono nei campi. Un siffatto, peculiare rapporto è noto a tutti, ma meno nota - se non del tutta ignota - è la preziosa opera che l’ape svolge per provocare l’impollinazione dei fiori; comunque, prima di vedere come questa avviene, è necessario richiamare alla memoria alcune nozioni di botanica.

Impollinazione è chiamato il fenomeno che consiste nel trasferimento del polline maschile all’ovulo femminile, quando si tratta di piante gimnosperme, o allo stimma del pistillo, nel caso delle angiosperme. L’atto dell’impollinazione può avvenire solo con l’aiuto di agenti esterni, in quanto i granuli pollinici non posseggono un movimento proprio per attuarlo. I modi in cui si esplica il fenomeno sono molteplici e ne diamo qui di seguito una breve descrizione.


Impollinazione ad opera del vento (anemofila): è la più diffusa; le specie vegetali interessate, con fioriture di solito poco appariscenti, pendule e sensibili al minimo soffio di vento, sono fornite di un elevato numero di stami con antere oscillanti, nonché di un ovario munito di papille adesive e pelose. Il polline della specie ha struttura adeguata presentandosi leggero, secco e abbondante.

Impollinazione ad opera degli insetti (entomofila): i vegetali della specie, avendo la necessità di attrarre l’attenzione degli insetti, conseguono lo scopo in due modi:

con l’odore penetrante dei fiori unito alla loro intensa colorazione;

con la forte seduzione esercitata dallo zucchero del nettario, prediletto dagli insetti pronubi.


La modalità dell’impollinazione è la seguente: nel suggere il nettare, gli insetti si ricoprono il corpo con appiccicosi granuli pollinici che vanno poi a depositare inconsapevolmente nel pistillo di un altro fiore.

Impollinazione ad opera di altri animali: abbiamo diversi casi come l’impollinazione dovuta alle chiocciole e lumache (imp. malacofila), a certi uccelli e a pipistrelli (imp. ornitofila e chirotterofila).

Impollinazione ad opera dell’acqua (idrofila): l’acqua funge da veicolo, per cui le piante che si servono di questo tipo di intermediazione sono generalmente acquatiche. L’impollinazione può avvenire in superficie, e in tal caso i fiori hanno una struttura adatta al galleggiamento, o può addirittura avvenire sott’acqua : in entrambi i casi i granuli pollinici sono protetti da membrane resistenti all’azione dell’acqua.


13.2 - La fecondazione dei fiori


Passiamo ora ad osservare la successiva fase della fecondazione, che consiste nella fusione del nucleo spermatico con l’oosfera, che è la cellula riproduttiva femminile delle piante. Le principali forme di fecondazione sono due: la diretta (o autofecondazione o autogamia) e l’incrociata (o eterogamia) che è quella che eccelle per  quantità e qualità dei frutti e semi prodotti; la prima è attuata tra fiori della stessa pianta, la seconda avviene tra fiori di piante diverse, ma sempre appartenenti alla stessa specie. Quest’ultimo tipo di fecondazione è quello attuato dall’ape che, secondo il suo costume, bottina sempre la stessa specie vegetale, fin quando dura la sua fioritura. Occorre notare che l’autofecondazione, a differenza di quella incrociata, produce a lungo termine un indebolimento delle piante e una scarsa resistenza alle malattie. Per quanto attiene all’impollinazione delle colture agricole è vero che anche altri insetti al di fuori delle api la determinano, ma è pur vero che il 60/70% delle impollinazioni è da riferirsi proprio all’attività delle api; queste occupano una posizione preminente anche nella fecondazione delle piante fanerogame spontanee effettuata per il 50/60% da insetti pronubi.


13.3 - Le api e la frutticoltura


Grandi sono dunque i meriti dell’ape, ma essi - come spesso accade - non bastano a metterla al riparo dalla calunnia. E’ vero che attorno alla vita delle api v’è una fioritura di letteratura apologetica, come quella del Maeterlinck che si innalza a suggestivo lirismo, ma è altrettanto vero che esiste un’assurda campagna diffamatoria secondo cui l’ape sarebbe responsabile di danni arrecati alla frutta, in generale, e all’uva in particolare. Nulla di più falso! Si confonde l’ape che sugge con la ligula, con altri insetti, come la vespa, che sono forniti di un apparato mandibolare preposto ad una vera e propria funzione masticatoria. La denigratoria confusione è ancora più ingiusta se si considera che l’ape interviene a volte a riparare i danni provocati da altri, come fa quando, suggendo il succo dell’uva attaccata dalle vespe o danneggiata dalla grandine, evita che quello sgoccioli su altri tralci della vite, condannati altrimenti ad ammuffire. Qui si ferma la nostra arringa in difesa dell’ape, ma vorremmo soltanto aggiungere una considerazione: l’accusa rivolta alle api quali danneggiatrici della frutta non viene soltanto dalla “parte civile” rappresentata dagli agricoltori, ma viene suffragata addirittura da alcuni apicoltori, ai quali la mirabile vita delle api non ha insegnato proprio nulla.




14 - LE API E L’AMBIENTE


14.1 - Le api nei rapporti con l’ambiente 


Come si è osservato, sia nell’introduzione, che nei capitoli seguenti, la vita naturale delle api presenta una particolarità forse unica nel mondo degli insetti; vogliamo dire l’estensione del suo habitat, che dall’equatore si sviluppa fino all’estremo nord e all’estremo sud, moltiplicando in tal modo i problemi connessi al rapporto con l’ambiente. Infatti, vivendo in un’area geografica che copre quasi interamente il pianeta, l’ape è soggetta ad ogni tipo di sollecitazione ambientale e, ad ognuna di esse, deve dare una risposta appropriata mediante le sue difese naturali. Fra queste ha fondamentale rilievo il microclima, che è una sorta di scudo protettivo che l’ape pone tra sé stessa e il clima esterno all’alveare; occorre soggiungere in proposito che la resistenza opposta dall’ape alle sollecitazioni dell’ambiente, non è la conseguenza di una selezione manipolata dall’uomo, com’è accaduto, ad esempio, per gli animali domestici, ma è il risultato di una selezione naturale in cui gli strumenti di difesa si sono via via adeguati alle condizioni ambientali. Se alle cennate caratteristiche aggiungiamo quella che consente alle api di immagazzinare nell’alveare abbondanti scorte alimentari, come il miele e il polline, si comprende come una colonia possa sopravvivere in svariatissime condizioni ambientali ed anche a temperature invernali di -40° C. Microclima, selezione naturale e immagazzinamento del cibo sono, dunque, fattori  di grande rilievo nella vita dell’alveare, senza dubbio sufficienti ad assicurare una tranquilla esistenza, se l’ape nell’approvvigionarsi di nettare, di polline, di propoli e d’acqua, non venisse a contatto con un ambiente gravemente alterato dall’attività umana.

Di particolare incidenza l’esiziale inquinamento connesso a certa dissennata pratica agricola che, nel fare uso di diserbanti ed anticrittogamici particolarmente tossici, attenta subdolamente all’integrità e alla vita stessa delle api. Si pensi ai rischi che corrono queste ultime quando, nell’effettuare l’impollinazione incrociata, si imbattono in inflorescenze trattate con quei potenti veleni e si pensi pure al danno che consegue all’agricoltura se si tiene conto che la fecondazione dei fiori è assicurata per il 60-70% dall’attività delle api. Che dire poi delle piogge acide e dell’inquinamento delle acque alle quali le api attingono? E la ricaduta delle radiazioni atomiche (fall-out)? Non v’è dubbio che l’insieme delle alterazioni chimiche e nucleari provocate dall’ uomo con estrema incoscienza, viene pericolosamente recepito dalla struttura anatomica dell’ape che, armonizzata com’è alle leggi della natura, risente di qualunque turbativa dell’equilibrio naturale.


14.2 - L’ape insetto test dell’inquinamento ambientale 


Le api, mediante l’impollinazione delle piante entomofile, svolgono un ruolo di grande rilievo a favore della produzione agricola, ma una siffatta funzione implica purtroppo gravi rischi per le famiglie d’api a causa del generale inquinamento atmosferico e dell’uso dei pesticidi agricoli, impiegati in dosi pericolosissime per l’uomo e per gli animali. A causa di ciò, le api diventano involontarie indicatori biologici del grado di inquinamento chimico dei campi, perché esse, una volta venute a contatto con i predetti veleni, attestano con la loro morte la pericolosità di quelle sostanze. Nel caso poi, che la morte non sopravvenga repentinamente, si produce una situazione ancor più pericolosa perché l’ape, già intossicata, trasferisce all’intero alveare gli effetti letali dei veleni assorbiti. Tale preoccupante circostanza è oggetto di studi tendenti a definire, mediante l’esame di campioni contaminati di api adulte, di larve, di miele e di polline, vere e proprie mappe di territori divisi in zone di alta, media e bassa pericolosità da inquinamento chimico o radioattivo. Sull’effetto sulla api dell’impollinazione di prodotti OGM al momento non vi è a conoscenza in merito. 


14.3 - Le api e le radiazioni sull’ambiente


Come si è appena detto l’ape è un ottimo indicatore biologico per cui dall’ analisi dei suoi prodotti (principalmente miele e polline), nonché dall’ape stessa, si risale alla presenza di una contaminazione radioattiva nell’ambiente considerato. La predetta analisi, che prima veniva presa in considerazione soltanto ai fini della radioecologia, è oggi praticata soprattutto per la radioprotezione. Infatti, lo scopo principale cui tende oggi l’indagine sull’incidenza radioattiva è quello di porre in evidenza il rapporto che intercorre tra la radioattività ambientale e i prodotti dell’alveare, per verificare che il miele e il polline non siano contaminati da una quantità di radionuclidi superiore alla gamma consentita. È bene evidenziare che la radioattività del miele è generalmente inferiore a quella che si riscontra  nelle api o nel polline; e da considerare inoltre che il miele, essendo un prodotto non facilmente deteriorabile, può essere conservato per un lungo periodo di tempo, durante il quale alcuni elementi radioattivi subiscono il loro decadimento naturale.

La contaminazione della sfera vegetale, e quindi del miele stesso, può avvenire in due maniere: la prima si verifica allorché i radionuclidi (p.e. il cesio 137) presenti nel suolo si trasferiscono nel miele tramite una catena particolarmente complessa (suolo-vegetale-ape-miele); la seconda si produce allorché la sfera vegetale direttamente per via aerea (coincidenza della fioritura con eventuali rilasci ambientali di radiazioni); in questa evenienza la radioattività dell’apparato floreale risulterà maggiore di quanto sarebbe se assumesse i radionuclidi tramite l’apparato radicale (il ciclo è più breve: fiore-ape-miele) e da ciò consegue che i relativi prodotti, il miele e il polline, avranno una maggiore radioattività, rispetto al primo caso.

È da tener presente che l’incidenza radioattiva sui prodotti dell’alveare è  inoltre in stretta relazione con il periodo temporale che intercorre tra i rilasci radioattivi e il prelievo dai fiori, nonché con le caratteristiche del suolo e dell’ambiente, con le condizioni atmosferiche (fallout radioattivo con tempo ventoso e piovoso) e con la distanza dalla zona di origine dell’inquinamento.

Occorre, considerare altresì che la soglia di rischio radioattivo del miele è, a parità di contaminazione, notevolmente inferiore a quella di altri prodotti, p.e. il latte, se si considera che la quantità di miele consumata mediamente nel corso di una giornata è di pochi decine di grammi, mentre quella del latte può aggirarsi anche tra 500 e mille grammi. Alla luce di quanto detto si appaleserebbe utile approntare una scala di rischio correlata alla quantità di miele consumata mediamente dall’uomo nei vari periodi temporali, correlandola ad altri prodotti alimentari di uso comune.

Nell’ambito della contaminazione radioattiva delle api, occorre sottolineare infine che, la presenza di radionuclidi si appalesa non solo nel miele e nel polline, ma anche all’interno dell’alveare.


14.4 - Influenza esercitata sulle api dalle cariche elettromagnetiche presenti nell’ambiente.


È noto che il comportamento animale è influenzato dall’ambiente circostante, per cui le api, come ogni essere vivente, subiscono l’effetto esercitato dalle variazioni o dalle pertubazioni ambientali. Tale interdipendenza è stata ampiamente studiata, ma non sono ancora sufficientemente sviluppati gli studi tendenti a scoprire l’influenza esercitata sulle api dalle cariche elettromagnetiche presenti nell’ambiente, sia sotto forma di pertubazioni atmosferiche (temporali con fulmini), sia sotto forma di elettricità propagata dai tralicci dell’alta tensione e delle antenne radio/telefoniche.

Sembra tuttavia che i campi a bassa frequenza accrescano il metabolismo delle api, mentre i campi ad alta frequenza abbiano effetti negativi tanto da indurre le api alla fuga. Molti apicoltori avranno certamente notato che le api hanno la capacità di prevedere l’approssimarsi di un temporale, al punto che, quando l’ambiente circostante incomincia a caricarsi di elettricità per l’approssimarsi di un imminente temporale e già in lontananza si ode il fragore dei tuoni, il loro comportamento manifesta alcune anomalie che non compaiono nelle ore precedenti. Ecco una sintetica descrizione degli effetti determinati dai campi elettromagnetici:

1. accentuata irrequietezza della famiglia e parziale disarmonia delle attività interne;

2. drastica riduzione della partenza delle bottinatrici per i campi, forte accentuazione dei rientri;

3. anomala protrazione della fase di “scarico” di polline;

4. irregolarità nella deposizione delle uova della regina.


Le famiglie d’api collocate sotto i tralicci dell’alta tensione danno luogo ai cennati comportamenti anomali e manifestano altresì un’aggressività alquanto spiccata.




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