domenica 29 settembre 2019

Il mercato dell’ecologia

Wild Nahani


Ghiottone



NB. Testo tratto dal libro "L'Uomo naturale"


“Dedica mezz’ora al giorno a pensare al contrario di come stanno pensando i tuoi colleghi” (A. Einstein).

Oggi tutto è in vendita e tutto è venduto. Il mercato, parola sacra della civiltà occidentale è il pane quotidiano di tutte le forze governanti. La mercificazione della natura, al pari di quella sociale, sta di conseguenza raggiungendo livelli spaventosi. Le tematiche ambientali sono continuamente subordinate al mercato e questo non solo per il volere degli economisti, ma anche per buona parte del mondo ambientalista che si è ormai arreso palesemente alla combinata natura-sviluppo-mercato (la produttività dei parchi ne è il più chiaro esempio). E’ un atteggiamento estremamente negativo che solo le forze ambientali più radicali, profonde e scevre dalla politica stanno combattendo, mentre “gli ecologisti” di maniera, dell’opportunità della “poltrona”, vogliono ulteriormente sviluppare. La natura “immagine” o meglio la natura “spettacolo” viene venduta quotidianamente da una operazione sagacemente pianificata. In tal senso agiscono non più i singoli operatori di settore, ma riviste altamente accreditate, quotidiani, intere Regioni, associazioni ambientaliste, forze politiche, gestori di aree protette (i direttori dei parchi sembrano più dei “manager aziendali” che operatori di questioni naturalistiche), ecc. Se prima la natura veniva venduta per i suoi “prodotti”, ora, oltre che per questi, viene venduta anche per la sua immagine.

Dicono che ormai la natura si può tutelare solo se garantisce “sviluppo”, solo se il tornaconto sia economico e di immagine (l’ecoturismo di massa ormai lo conosciamo tutti). Per il resto, la vera conservazione di un orso, di un lupo o di un paesaggio, non importa quasi più, perché è ben altro ciò che “rende”. In ogni caso un’aquila vale per l’immagine che offre, non per il suo valore in sé. Il mercato dell’ecologia è il colpo di grazia ad una natura ormai da tempo agonizzante e morente. Se da certe forze ci si aspettava almeno un piccolo contributo, ciò è venuto meno e lo sconforto non può che assalire chi ancora crede nella purezza degli intenti e nel valore in sé delle cose. E’ giunto il momento di smascherare una situazione che, se agli economisti o agli arrivisti della società occidentale capitalistica sta molto bene, non può essere accettata da chi vuole ancora sperare in un futuro non dominato da un uomo tecnologico/economico che vede solo nei propri interessi personali o di gruppo l’unica realtà di questa terra. Il silenzio, sulla questione trattata, è ormai diffuso e quasi nessuno ha il coraggio di opporsi a questo strisciante modo di pensare e di fare. Ci sono però delle eccezioni, anche autorevoli, ed è piacevole, per chi ancora crede in una natura che ha un proprio valore, nel riportare il passo che segue, scritto da un convinto e profondo ambientalista. Eccone un breve quanto significativo stralcio: “Ormai stiamo arrivando al mercato dell’ecologia. E bisogna pure che qualcuno inizi a dirlo..... In pochi anni tutta la valenza ‘rivoluzionaria’ del valore-ambiente è stata perfettamente e tranquillamente inglobata dal valore-mercato attraverso il passaggio dello ‘sviluppo sostenibile’. In altri termini, questa nostra società mediatica, strutturata per formare consumatori (e consenso) in batteria, con una sapiente e veloce operazione sociale e politica, ha ridotto l’ambiente, da valore fondamentale, a sé stante e alternativo, a semplice e innocua patina con cui rafforzare i valori dell’economia di mercato. Ormai, l’ambiente non conta più di per sé ma solo se e in quanto crea occupazione, fa crescere i consumi (e il mercato), aumenta il dio PIL: così come si conviene quando c’è un governo di ‘risanamento economico’.

Il fatto più preoccupante è che questa operazione è stata, ed è, avallata anche da una parte del mondo ambientalista, la quale, per timore di diventare ‘marginale’ in una società incentrata sul valore-mercato, ha adottato la ‘tattica’ di ‘coniugare’ e ‘contaminare’ l’ambiente con i valori economici dominanti; fatto del tutto scontato nell’ambientalismo italiano, mai affetto da fondamentalismo, e da sempre attento al binomio economia-ecologia.......

Siamo passati, insomma, ‘dallo sviluppo sostenibile’ all’ecologia di mercato e stiamo rapidamente arrivando al mercato dell’ecologia......

Ed allora, per evitare equivoci, sarà meglio premettere con chiarezza, ogni volta, che noi difendiamo e continueremo a difendere l’ambiente di per sé, e non perché è funzionale ai ‘valori’ di mercato” (Amendola, 1997).

Per quanto attiene specificatamente alle aree protette occorre ricordare (considerazione più volte espressa in questo lavoro) che purtroppo i “manager” che gestiscono le aree protette o spesso gli enti regionali e governativi, non si curano affatto, salvo sporadiche eccezioni, di attuare realmente e concretamente una seria politica ambientale che tuteli in primis le esigenze della natura in generale. Oggi nelle aree protette di molti distretti europei si parla sempre più della loro resa economica (“la produttività economica dei parchi”), della loro immagine turistica (l’ecoturismo!), delle loro potenzialità di accogliere al meglio i visitatori, ma quasi mai, in senso reale e pratico, del loro status selvaggio e dei reali interessi della fauna. Questo modo di fare, per quanto attiene a specie a rischio, sta indirettamente e definitivamente compromettendo la loro esistenza. Se l’operato di un bracconiere viene giustamente additato come fatto gravissimo e negativo, il pernicioso e subdolo operato degli enti preposti al governo dei territori protetti, passa del tutto inosservato, anzi spesse volte l’opinione pubblica ignara delle reali situazioni, plaude loro inconsapevolmente. Conclude ironicamente Zunino in un suo articolo sulla “conservazione attiva” nella logica del parco produce: “..... Sembra che oggi la natura si possa salvare e proteggere anche in questo modo nuovo e moderno di fare conservazione, affinché possa in primo luogo produrre comunque danaro sonante!”. 

giovedì 29 agosto 2019

Il naturalista/biologo contemporaneo

Wild Nahani





NB. Testo tratto dal libro "L'uomo naturale"


“Che ti move, o omo, ad abbandonare le tue proprie abitazioni delle città, e a lasciare li parenti ed amici, ed andare in lochi campestri per monti e valli, se non la naturale bellezza del mondo ?...” (Leonardo da Vinci).

Il naturalista “spirituale” e “profondo” si volge ad osservare la natura con lo stupore che pervade chi si appresta ad ascoltare con umiltà di spirito e di intelletto il misterioso concerto col quale l’universo scandisce la propria dialettica. L’attenzione di quel ricercatore non si dirige ad uno specifico fenomeno naturale, ma si interessa della natura nella sua totalità, si arricchisce del suo fascino e ne ricava a volte intuizioni tali, da far compiere un salto di qualità alla ricerca scientifica.

Del tutto diversi sono gli interessi reali del naturalista superficiale che soggiace ad una sorta di esasperazione delle categorie aristoteliche, ossia ad una specializzazione portata alle sue estreme espressioni, in ciò assecondato dallo straordinario sviluppo tecnologico; accade così che egli si trasformi, in molti casi, in una specie di “computer” ambulante, che raramente si allontana dall’Università o da altri laboratori per effettuare l’osservazione sul campo e, quando vi si piega, non vede l’ora di ritornare tra le fidate mura dei gabinetti scientifici per “scaricare” nel computer i dati frettolosamente raccolti (vigono le dovute eccezioni). “La mente moderna divide, specializza, pensa per categorie....” (Adorno et. alii., 1991), oppure, citando Thomas Kuhn, “la scienza normale è un tentativo strenuo e determinato di costringere la natura nelle caselle concettuali fornite dall’istruzione professionale”.

Questo declassare la natura da categoria dell’universo a mero strumento di competizione utilitaristica, riguarda quindi la cosiddetta “ricerca” scientifica? Certo, qui la riflessione deve farsi più attenta e circospetta, giacché la ricerca è materia che incute un timore reverenziale, quasi che la sua carica esoterica sia pari a quella che circondava l’antica alchimia. È vero, si rimane ammirati innanzi al paziente metodo del botanico o dello zoologo, che tutto annotano, ordinano, sperimentano e - alla fine - catalogano con estremo rigore. E che dire dei mostri in camice bianco che “torturano” nei laboratori di tutto il mondo milioni di animali sia per ricerche medico-farmaceutiche che per studi etologici (p.e. le ricerche sul comportamento degli scimpazè in gabbia ridotti a vere e proprie macchine). Da questa attività i solerti “ricercatori” trarranno senza dubbio un accresciuto prestigio accademico e una grande notorietà all’interno dell’opinione pubblica, ma è tuttavia lecito chiedersi se, al di là della speranza di conseguire questi ambiti riconoscimenti, essi siano stati mossi anche dal rispetto per la natura, che è un rispetto del tutto indifferente alla fama e al prestigio. Rispetto per la natura significa anche “sentire” che l’esemplare di orso, poco prima osservato e catalogato, non è soltanto un’entità da racchiudere nell’elaborazione di dati statistici, ma è una creatura che deve essere riconosciuta ed ammirata per quello che essa è, e per quello che essa rappresenta all’interno del mirabile ordine/disordine universale.

Scrive Brian Martin (1993): “Gli esperti scientifici sono i nuovi santoni della società moderna. Sentenziano su qualunque argomento con la massima delle autorità, quella scientifica. Criticarne l’opinione è eresia.

Eppure si può fare. Anche gli esperti sono vulnerabili, in molti modi. I loro dati possono essere messi in discussione e anche le ipotesi su cui si basano. Si può contestare la loro credibilità e anche la loro competenza in quanto tale. I loro punti deboli possono essere svelati e sfruttati senza pietà........

Gli anarchici sono contrari ad ogni sistema in cui un ristretto numero di persone domina sugli altri. A loro modo di vedere, le decisioni andrebbero prese direttamente dalla gente, sulla base di un dialogo libero e aperto. Il sapere è importante, ma dovrebbe essere un sapere accessibile e utilizzabile da parte di tutti. Oggi, invece, la ‘competenza’ è tanto specialistica ed esoterica da essere utile soltanto agli esperti e ai loro datori di lavoro....... Una società egualitaria e partecipativa darebbe certo un alto valore alla conoscenza, ma la renderebbe disponibile a tutti e non esclusivo appannaggio delle elite..... Eppure è raro che il ruolo degli esperti venga messo in discussione in quanto tale...... E’ tempo invece di incoraggiare la gente a pensare con la propria testa invece di affidarsi continuamente a qualcun’altro”.

“L’esperto è colui che sa moltissimo su pochissimo” (N. M. Butler).

Giova qui ricordare il pensiero e la vita pratica di un biologo canadese, Sam Miller, che si occupava di ricerche sugli orsi e su altre specie animali il cui “habitat” ricadeva nello sterminato territorio del Canada. Giorno dopo giorno egli si rendeva conto che la sua “forma mentis” era sempre più “imbrigliata” dalla ricerca pura e astratta che lo costringeva a trascorrere la maggior parte del tempo dinanzi al computer per elaborare dati ed a riempire tabelle. Un giorno, all’improvviso, disse basta, lasciò tutto e si rifugiò nella tundra canadese, poco oltre le grandi foreste di conifere. Lì oggi vive in un piccolo chalet dove ospita, come una sorta di albergatore sui generis, quelli che vogliono trascorrere in quei luoghi giorni indimenticabili; in questo modo egli si guadagna da vivere e può girovagare in quella natura selvaggia munito del binocolo e di taccuino per gli appunti, alla stregua di un naturalista spensierato che, quasi con l’animo di un fanciullo, si entusiasma dinanzi ai meravigliosi scenari della natura (vedasi ad esempio John Muir o Sigurd Olson). 

Il naturalista che oggi indaga nella natura come fa Sam Miller è al di fuori della competizione scientifica, al di fuori delle carriere universitarie o dei riconoscimenti di prestigio, né può intervenire in convegni altolocati dove si discutono le relazioni dei “sapienti”, giacché un naturalista di tal genere è certamente “fuori mercato” ed è perciò irriso dalla confraternita dei ricercatori. “L’indiano che riesce perfettamente a trovare la sua strada nel bosco, è dotato di un’intelligenza di cui l’uomo bianco non dispone. Osservarla aumenta la mia capacità, e così pure la mia fede. Mi rallegro di scoprire che l’intelligenza scorre in canali diversi da quelli che conosco” (H. D. Thoreau - in AA. VV., 1995).

Si è voluto citare l’esperienza di Sam Miller poiché essa non proviene, come qualcuno potrebbe pensare, da un naturalista frustrato nelle sue ambizioni, e perciò critico del sistema, ma è un’indicazione, anzi è un merito che si leva ad alta voce da un naturalista che poteva primeggiare nel “sistema”, se lo avesse voluto. Col seguente pensiero di H. D. Thoreau sembra completarsi il ritratto di Sam Miller:”Lo studioso che ha solamente armi letterarie è incompleto. Deve essere un uomo spirituale. Deve essere preparato al cattivo tempo, alla povertà, all’offesa, alla stanchezza, alla dichiarazione di fallimento, a molte altre contrarietà. Dovrebbe avere tanti talenti quanti più può” (23 giugno 1845). Sempre facendo riferimento a Thoreau, Worster scrive (1994): “I fatti dovevano diventare esperienze per l’uomo nella sua interezza, non mere astrazioni in una mente scissa dal corpo, e il naturalista doveva immergersi completamente negli odori e nelle trame della realtà percepibile..... ‘Giri senza meta con un impermeabile, bagnato fino alle gambe, ti siedi sulle rocce coperte di muschio e sui ceppi ad ascoltare il verso delle rondini migratrici che volteggiano tra le querce.... a casa nonostante tu sia all’aperto, comodo nonostante tu sia bagnato, affondando ad ogni passo nella terra in disgelo’”.

Essere preparati al cattivo tempo, alla povertà, alla stanchezza dice il Thoreau, e - si potrebbe soggiungere - essere preparati ai pericoli e alla drammaticità della solitudine, come lo erano gli uomini primitivi che, col vivere secondo le leggi naturali, acquisivano la perfetta conoscenza del loro ambiente.

Scrive G. Celli a proposito del naturalista Bernd Heinrich (riferendosi alla sua opera “Corvi d’Inverno, 1992) ".... il buon Heinrich non è uno psicologo, proclive ai congegni tecnologici e al laboratorio, è un naturalista, e pensa che l'occhio, a presa diretta con il cervello, e quindi con il giudizio, resti ancora uno strumento organico insostituibile per cogliere le peculiarietà del comportamento animale........ un conto è osservare l'animale dal vivo, e un conto sul video. In questo secondo caso, mancano gli odori del bosco, il rumore del vento tra gli alberi, la meravigliosa liquidità del cielo d'inverno, quel paesaggio vivente che respira attorno all'animale nel bersaglio. Del cannocchiale, si capisce!...".

Su queste considerazioni dovrebbe meditare il naturalista di oggi, onde riappropriarsi delle ragioni della natura che sono ben lontane dalle ragioni del successo cattedratico, e ancor più lontane "dall'accanimento dell’indagine”, oggi di moda (radiocollari, catture continue per studi fisiologici, ecc.), che non solo disturba gli animali che ne sono oggetto, ma li danneggia ed invade per di più quella che potrebbe essere definita la “privacy fisiologica” dei poveri inquisiti, e tutto con il principale intento di fare uno “scoop” che abbia risonanza in una pubblicazione scientifica di prestigio. Il naturalista, invece, potrebbe svolgere un ruolo importante nella divulgazione del concetto del valore in sé della natura e quindi della sua reale conservazione. Scrisse Adolph Murie (in Heacox, 1991), studioso dei lupi dell’Alaska: “Ricordo la prima impronta di orso che vidi in vita mia...... Tutto ciò che vedemmo fu un’impronta in una pozzanghera di fango. Ma l’impronta era un simbolo, ancora più poetico che il vedere lo stesso orso - un approccio delicato e profondo allo spirito dell’Alaska selvaggia. In qualunque momento l’impronta di un orso può creare un’emozione più forte che il vedere l’orso stesso, perché viene chiamata in gioco l’immaginazione. Ti metti a osservare accuratamente il paesaggio, aspettando di vederlo comparire a ogni momento, mentre l’attenzione si affina e si rinvigorisce. L’orso è da qualche parte e può essere dovunque. La zona si è improvvisamente vivificata, ha acquisito una qualità nuova e più ricca”.

Ma come si è già notato, il ricercatore dei nostri giorni, fatte le dovute eccezioni, non ama eccessivamente le “uscite sul campo” ma predilige riferirsi più spesso alle esperienze maturate da altri, che a loro volta si abbeverano ad altre fonti, sì che sia gli uni che gli altri si giovano di una quantità di dati che, opportunamente elaborati, vanno a formare relazioni o pubblicazioni che si impongono alla generale attenzione per la loro voluminosità. Lo sviluppo della specializzazione scientifica ha portato ad una sorta di “sordità specialistica” (Boulding in Pignatti 1994), cioè all’incapacità di percepire i caratteri generali di un sistema a causa della concentrazione ossessiva dell’attenzione sui particolari (Pignatti, 1994). La nozione olistica di paesaggio tende invece a superare questa particolare “sordità” ricercando una rappresentazione globale del sistema (Pignatti, 1994). L’etnologo ed esploratore norvegese Thor Heyerdahl (Del Re, 1997) ci ricorda che “presto ci renderemo conto che per salvarci dovremo collaborare e cominciare a capire il mondo nel quale viviamo. Servirà un atteggiamento più interdisciplinare, quasi ecumenico. Servirà più coordinamento tra le varie discipline scientifiche, ma anche tra la biologia e la teologia, tra la fisica e la filosofia. Perché chi è un’autorità in un campo specifico di solito è il più ignorante al di fuori di quel campo”. Completa il discorso Rocco Guy  Jaconis (1992): “Quando era un laureando in biologia della selvaggina alla Cornell University, nella mia mente avevo organizzato il mondo naturale in tanti piccoli compartimenti. Trentacinque anni di esperienza nella natura e nell’insegnamento, mi hanno fatto invece comprendere che c’è una sottile, travolgente, comprensione la quale non è divisibile in compartimenti, e che è parte della conoscenza quotidiana delle genti primitive, in tutto il mondo”.

La natura, in tutte le sue manifestazioni, non è un laboratorio “scientifico”, tecnico, categorico ed asettico. Un membro di una comunità selvaggia non conosce l’ambiente circostante secondo un approccio “razionale e scientifico”, ma secondo un dettame istintivo e “mentale”. Ora noi, nel nostro pensiero contemporaneo, riduciamo i fenomeni naturali alla pura sfera scientifica, archiviandoli come concetti che hanno significato solo se analizzati e sezionati da questo punto di vista (leggasi razionalismo cartesiano). Occorre invece “sentire” diversamente le cose, e porsi nella natura con una visione spontanea, intuitiva ed olistica. La scienza naturale, invece, deve essere concepita esclusivamente come il “prodotto” successivo di una visione filosofica e spirituale della conoscenza. “Il primato del ‘razionale’ sull’’emotivo’ e sull’’intuitivo’ è solo un pregiudizio della cultura occidentale odierna” (Dalla Casa, 1996).

L’analisi ecologica che ne deriva deve muoversi in “profondità” senza fini “antropici” anche solamente sottintesi, e deve approdare ad una visione transpersonale e non egocentrica (leggasi ecologia profonda). Il naturalista “profondo” deve quindi riconoscere il valore intrinseco della natura e deve imparare a non definirla, poiché, come detto, “il Tao definito non è l’eterno Tao” (Lao Tse).

Worster (1994) evidenzia bene la visione “stretta” dello scienziato: “La delusione di Leopold per il paesaggio troppo artificiale influenzava anche la sua fede nella scienza; egli era giunto a pensare che la capacità di percezione dei ricercatori accademici fosse troppo limitata per cogliere la completezza della natura, fattore essenziale per realizzare una protezione ambientale a vasto raggio. Uno dei saggi di Sand County Almanac dal titolo Storia naturale - La scienza dimenticata, rappresenta un appello al ritorno all’educazione all’aperto, olistica, ad uno stile scientifico aperto ai dilettanti e agli amanti saggi della natura , più sensibile al ‘piacere di essere immerso in una natura selvaggia’. Nei laboratori e nelle università si insegnava che ‘la scienza è al servizio del progresso’; essa faceva lega con la mentalità tecnologica che regimentava il mondo inseguendo il progresso materiale e doveva quindi essere trasformata insieme alla tendenza manageriale”.

Scrive l’impeccabile penna di Della Casa (1996): “........ ricordiamo che Bateson chiama ‘follia riduzionista’ l’idea che si possa descrivere con pienezza ontologica la Natura, che è molto più ricca di significato di quanto non sia possibile rappresentare. La complessità fisico-spirituale del mondo naturale è infinita: solo con la percezione intuitiva se ne può avere una pallida idea.

Il paradigma della semplificazione si basa su quella che è stata chiamata la ‘schizofrenica dicotomia cartesiana’, il dualismo fra il cogito soggettivo e la rex exstensa oggettiva. La scienza occidentale è stata fondata (fino alla prima metà di questo secolo) sull’eliminazione del soggetto, nella convinzione illusoria che gli oggetti, esistendo indipendentemente dal soggetto, possano essere studiati in quanto tali”.

Quali conclusioni trarre dalle considerazioni sulle quali ci siamo finora intrattenuti? Una è certamente la più importante: è necessario che la mente del naturalista si volga esclusivamente all’osservazione della natura, liberandosi dall’acriticismo, dal dogmatismo scientifico e dall’idolatria degli archetipi accademici ed antropici che riducono la scienza a livello di vuoti rituali officiati da alcuni “grandi turiferari”. Ovviamente il naturalista contemporaneo non può essere visto solo in questa luce negativa che abbiamo appena tratteggiato. Ci sono le dovute eccezioni e ci sono “scienziati” che si discostano nettamente da quella visione dogmatica e antropocentrica. E’ certamente nutrita la lista di “operatori” del settore che si dedicano veramente alla conservazione e alla ricerca con una visione globale e profonda. Questo per onor di verità!

“Anche le piante mi interessavano, ma non scientificamente. Ero attratto da esse per un motivo che mi sfuggiva, e col sentimento che non dovessero essere estirpate e seccate: erano esseri viventi che avevano significato solo finché crescevano e fiorivano, un significato nascosto, segreto, uno dei pensieri di Dio. Dovevano essere considerate con reverenziale timore e contemplate con filosofica meraviglia. Ciò che poteva dire la biologia era interessante, ma non era l’essenziale” (Carl Gustav Jung).

lunedì 29 luglio 2019

L’uomo da cacciatore/raccoglitore a uomo tecnologico

Wild Nahani





NB. Testo tratto del libro "L'Uomo naturale


“Nelle comunità di cacciatori-raccoglitori del primo mondo - il mondo degli abitanti dell’ecosistema - l’uomo ‘proiettava un’immagine amichevole sugli animali: questi parlavano fra di loro e pensavano razionalmente come gli uomini; avevano un’anima (...) (L’uomo era ancora) dentro quel mondo, non lo aveva ancora trasformato in uno strumento o in una mera fonte di risorse’.

Il secondo mondo - quello della cultura - è una creazione dell’uomo. Secondo l’analisi di Eiseley, è il risultato di forme più progredite di rappresentazione simbolica, del fenomeno linguistico, della dislocazione affettiva, dell’invenzione del tempo storico. L’uomo si è separato dal resto della natura, è diventato abitante della città e si è allontanato dagli ‘spiriti presenti in ogni albero e in ogni ruscello. I suoi compagni animali si allontanarono da lui furtivamente come randagi senza anima. Non parlarono più’. Il potere di Pan era perduto. Da quel momento la vita dell’umanità è considerata ‘irreale e sterile’.....” (Devall & Sessions, 1989 paragrafo su Loren Eiseley).

L’uomo primitivo viveva essenzialmente di raccolta (radici, frutti, ecc.) e occasionalmente di caccia e pesca. In quello stadio era perfettamente armonizzato con l’ambiente circostante tanto che non determinava nessun tipo di danno. Successivamente incominciò ad addomesticare gli animali e si trasformò in pastore. Nella fase seguente approdò all’agricoltura. Lasciatosi alle spalle la caccia e la raccolta, con la pastorizia prima e con l’agricoltura poi, comincia a disarmonizzarsi dall’ambiente circostante ed attiva gravi modifiche al mondo naturale. L’ultima fase poi, quella industriale e tecnologica, darà il colpo di grazia alla stabilità della natura, universalizzando gli interventi e amplificando le distruzioni. Si attua il definitivo declino della natura e l’apparente dominio della razza umana.

Se all’origine, con la pratica della pastorizia e dell’agricoltura, si infliggevano già gravi danni all’ambiente (disboscamenti, modifiche degli habitat, incendi estesi e dolosi, distruzione dei predatori che “insidiavano” il bestiame, ecc.), questi danni erano però localizzati in pochi punti della terra ed avevano effetti devastanti su piccola scala. Al contrario, con il progressivo aumento della popolazione e soprattutto con l’avvento della tecnologia (industria, chimica, ecc.), gli effetti negativi della varie pratiche (agricoltura chimica, allevamento intensivo, industrie leggere e pesanti, ulteriore distruzione dei predatori e alterazione massiccia degli habitat per la pastorizia, ecc.), hanno via via assunto carattere mondiale non risparmiando alcun angolo della terra e finanche parte dello spazio (oggigiorno l’attività agricolo/pastorale è distruttiva per l’ambiente come l’industria. Scrisse infatti Lovelock “che l’agricoltura praticata dalla popolazione umana sempre più numerosa rappresentava la minaccia più grave per la terra” - Worster, 1994). Ciò in connessione, come detto, con un brusco aumento della popolazione umana. Scrive Dorst (1988): “All’inizio l’uomo visse della semplice raccolta (frutti e radici vegetali) e di animali la cui cattura era agevole. Poi egli inventò varie armi che gli permisero di dedicarsi alla caccia e alla pesca: di esercitare, cioè, attività predatrici. In questo stadio (raggiunto nel Paleolitico inferiore), l’uomo è ancora parte integrante dell’ambiente naturale da cui esclusivamente dipende. Le modificazioni dell’ambiente che determinano la disponibilità di alimento, hanno una profonda influenza sull’uomo e lo costringono a dover cercare altrove gli elementi indispensabili alla sopravvivenza. Gli uomini di quell’epoca, che vivevano di caccia e di raccolta, modificarono nel complesso molto superficialmente il loro habitat”. Il tramonto della specie umana e, conseguentemente della natura, inizia gradualmente e localmente sin dal Neolitico, per divenire drastico, brutale ed universale ai giorni nostri. Infatti Paul Shepard asseriva che la crisi ecologica è in corso da diecimila anni: “Quando l’agricoltura si sostituì all’economia di caccia e raccolta, si verificarono mutamenti radicali nel mondo degli uomini di vedere e reagire alla natura circostante. Le centinaia di forme locali di organizzazione agricola che si sono sviluppate via via (....) miravano tutte a dare un volto completamente umano alla superficie terrestre, sostituendo il selvaggio con il domestico e creando paesaggi dall’habitat”(Shepard, 1973, in Devall & Sessions,1989). Integra bene J. Dorst (1988): “In fondo la storia dell’umanità può essere considerata come la lotta della nostra specie contro il proprio ambiente e il progressivo affrancamento dalla natura e da alcune leggi, e come l’asservimento del mondo intero - suolo, piante, animali - all’uomo e ai ritrovati del suo genio. Certo, l’uomo primitivo non aveva neppure lontanamente l’energia meccanica sufficiente perché la sua collisione con la natura superasse certi limiti esattamente circoscritti. Ma la differenza, tra il coltivatore neolitico intento a disboscare una radura e a dissodare il terreno, e l’uomo del 2000 che ha base di esplosioni atomiche smuoverà le montagne e modificherà il corso dei fiumi costringendoli ad irrigare i deserti, è solo una differenza di metodo. Il fattore umano deve essere preso in considerazione nell’equilibrio biologico del mondo partendo dagli albori dell’umanità, e se l’urto è divenuto sempre più profondo non bisogna però ingannarsi sulla sua antichità”. Ne fanno tuttavia eccezione i numerosi popoli che non sono approdati alla pastorizia e all’agricoltura (per esempio parte degli indiani nordamericani) e che pertanto rimasero in armonia con il proprio ambiente  (alcuni ancora lo sono) fin quando non sopraggiunsero i “bianchi” portatori della “civiltà occidentale” (Dorst, 1988). Ancora Devall & Sessions (1989) a proposito delle considerazioni di Shepard scrivono: “Non solo l’agricoltura stessa è un danno ecologico, ma, per Shepard, il contadino tradizionale ha condotto ‘la vita più ottusa che l’uomo possa mai vivere’. Mentre le prime fattorie che praticavano un’agricoltura di autosufficienza erano in armonia con l’ambiente, gli agricoltori delle odierne monoculture devono fare affidamento su una vasta e continua rete di rapporti socieconomici. La vita delle campagne è senza speranza nella organizzazione agricola industriale moderna. Le piante e gli animali domestici sono disastri biologici, continua Shepard, sono ‘schiocchezze genetiche’. Shepard concorda con Brownell quando afferma che gli uomini hanno bisogno degli animali selvatici nel loro ambiente naturale per poterli prendere da esempio e diventare pienamente uomini; i cuccioli addomesticati e gli animali da fattoria sono surrogati inadeguati e patetici. Per Shepard, un futuro ecologicamente sano vuole la scomparsa di quasi tutte le forme di organizzazione agricola, di piante e animali alterati geneticamente. Un altro elemento indispensabile per il futuro è il pieno riconoscimento che gli uomini sono geneticamente cacciatori-raccoglitori”.

Gian Luigi Mainardi (1973) riassume con estrema sintesi e limpida chiarezza l’ascesa e lo sviluppo dell’Homo sapiens sul pianeta terra. Ne riportiamo un breve, eloquente stralcio: “Circa 50.000 anni or sono, dopo una strenua, vittoriosa lotta con altri tipi di ominidi, una nuova specie, l’abile Homo sapiens, si accinse a intraprendere un cammino che in breve (geologicamente parlando) lo doveva condurre ad una posizione di assoluta preminenza. Dapprima la marcia fu lenta e vide il passaggio graduale dal chiuso habitat della foresta all’aperta pianura, la trasformazione della dieta da vegetariana a carnivora, con conseguente partecipazione al giuoco della preda e del predatore, lo sviluppo di tecniche di caccia in gruppo, l’impiego di rozze armi e utensili, la costruzione di rifugi sicuri. Per tutto questo lungo periodo l’ambiente rimase pressoché incontaminato, grazie alla relativa disorganizzazione, all’inconsistenza numerica e alla dispersione dell’unico abitatore che avrebbe potuto inquinarlo. La tregua non doveva però durare a lungo. La scoperta del fuoco come mezzo per conquistare nuovi spazi e favorire la crescita di piante da pascolo e da foraggio, insieme all’addomesticamento di varie specie animali, ebbero un effetto sconvolgente sugli ecosistemi.

Rapidamente la specie umana si moltiplicò, si andarono costituendo raggruppamenti sempre più numerosi, si evolsero strutture stabili via via più organizzate, e inevitabilmente prese consistenza il problema dell’accumulo dei rifiuti della comunità, la diffusione dell’inquinamento, delle malattie, dell’’erosione’ della natura. Da allora la marcia si è tramutata in corsa veloce e l’uomo ha vestito sempre più i panni del più catastrofico agente antiecologico che mai sia comparso sulla Terra, capace di interferire sconsideratamente con l’ambiente in mille modi, diretti ed indiretti...........

Finora la natura ha sopportato le ferite che le abbiamo inflitto, ma è chiaro che ci stiamo avvicinando ai limiti di tollerabilità. Non dimentichiamoci che in definitiva anche il grande Homo sapiens per sopravvivere ha bisogno della natura, ha necessità di acqua, di suolo, di ossigeno, di piante, di animali. Se dimenticherà questa verità elementare, egli in un futuro più o meno prossimo distruggerà se stesso”.

Devall & Sessions (1989) a proposito dell’impatto sulla natura da parte dell’uomo tecnologico contemporaneo ci ricordano che “l’eccessivo intervento umano nei processi naturali ha condotto altre specie sull’orlo dell’estinzione. Secondo gli ecologi profondi l’ago della bilancia pende da lungo tempo a favore degli uomini, ora dobbiamo riequilibrarlo per proteggere le specie minacciate: la tutela dei diversi tipi di natura selvaggia è un imperativo. Mentre i popoli nativi sono vissuti in comunità sostenibili per decine di migliaia di anni senza intaccare la vitalità degli ecosistemi, la moderna società industrial-tecnocratica minaccia ogni ecosistema sulla Terra e può anche apportare drastici mutamenti dei modelli climatici nella biosfera”.

venerdì 28 giugno 2019

La tecnologia e la pressione demografica

Wild Nahani





“La tecnologia ha illuso l’uomo che con essa egli possa migliorare la sua vita e le sue difficoltà. Ma in effetti l’uomo tecnologico è diventato ancor più schiavo e vincolato di reali catene che gli cingono i polsi e le caviglie: è diventato totalmente dipendente delle sue ‘creazioni’ tanto che la sua stessa esistenza viene meno senza quella campana di  vetro che si è costruita. O peggio: ha perduto per sempre la sua essenza e, paradossalmente, la sua libertà. E’ divenuto lui stesso, in altri termini, una macchina e una prigione di cui ne è stato il volontario creatore!”.  Lo sviluppo tecnologico è legato a volte alla ricerca pura, ma è più spesso sollecitato dall’esigenza di aumentare i mezzi di sostentamento della crescente popolazione del pianeta. Per ottenere tale scopo non si esita ad esercitare una distruttiva violenza sull’assetto naturale dell’ambiente, tagliando intere foreste, impiantando immensi complessi industriali, scaricando nei corsi d’acqua sostanze altamente inquinanti, cementificando ed asfaltando grandi superfici del territorio, prosciugando le paludi, sbarrando i fiumi e installando faraonici allevamenti di bestiame che producono enormi quantità di rifiuti organici. E' intuitivo, se non ovvio, che una così ampia manomissione del territorio e dei connessi ecosistemi si traduca nell’estinzione di molte specie di uccelli e di mammiferi, evento che si è purtroppo frequentemente verificato nell’arco di tempo che ci separa dall’inizio della rivoluzione industriale. E' necessario notare che l’aggressione esercitata ai danni della natura non sempre avviene in territorio contiguo a quello in cui si verifica l’accentuata pressione demografica, ma - grazie allo straordinario sviluppo dei mezzi di trasporto - le risorse ricavate dall’opera di manomissione vengono spesso convogliate anche a grande distanza, ove esse effettivamente occorrono, in prevalenza verso la fascia nord-atlantica che, a fronte di una popolazione che è pari a circa il 15% di quella mondiale, consuma quasi il 75% delle risorse planetarie. Uno squilibrio tanto accentuato non è dovuto soltanto ad uno “ standard” di vita adeguato alla domanda di una società “civile”, ma è causato anche da sprechi sconsiderati, come avviene ad esempio nel riscaldamento domestico, nell’illuminazione, nell’alimentazione, nell’uso di motori elettrici, nella produzione di beni inutili, nell’abuso degli antiparassitari chimici, ecc. ecc.

A questo punto domandiamoci se vi è la possibilità di comporre pragmaticamente il dissidio che oppone l'uomo alla natura; si, forse ciò è possibile se si riconsidera il problema nella sua globalità, che significa individuare un nuovo modello di sviluppo, e applicarlo nella sua interezza. Nuovo modello di sviluppo significa valutare le riserve di energia disponibili a livello planetario, programmarle e ripartirle in proporzione alla pressione demografica di ogni singola zona. Ma significa anche influire drasticamente sul comportamento del singolo uomo nei confronti della natura; quest’ultimo è un punto essenziale del problema.

Scrive saggiamente Dalla Casa (1996): “....Alla luce di tale andamento esponenziale del fenomeno ‘civiltà industriale’, appare perfettamente logico che per un paio di secoli non si sia notata la vera natura distruttrice di tale civiltà. Infatti i suoi effetti reali sulla Vita non possono evidenziarsi se non pochissimo tempo prima della sua fine.....

Quindi la persistenza del modello attuale per due secoli, fatto su cui poggia l’idea di continuazione della civiltà industriale sempre-crescente, costituisce invece un’ulteriore prova della sua fine imminente: come si è visto, il modello può esistere senza manifestare la sua vera natura per un tempo quasi uguale a quello della sua esistenza complessiva......

..continuiamo con la più grande incoscienza ad eliminare una specie dopo l’altra, ed apparentemente non succede nulla nell’ecosistema globale. Ma ad un certo punto salterà tutto “.

giovedì 30 maggio 2019

La longevità “apparente” e la sovrappopolazione

Wild Nahani





“La crescita perpetua è il credo della cellula cancerosa” (E. Abbey). Nella società contemporanea corre l’idea che l’uomo viva più a lungo e che le malattie siano sotto controllo. Nulla di più falso. Se, statistiche alla mano, constatiamo che oggi siamo più longevi rispetto al passato, dimentichiamo di considerare, nel contempo, alcuni parametri fondamentali. Una volta la vita reale che si svolgeva era “netta”, cioè si sviluppava per un certo numero di anni senza “aiuti” e “protezioni” esterne. Si viveva, in sostanza, secondo l’influenza dell’ambiente e secondo la propria costituzione fisica. Le malattie poi, sin quando l’uomo era legato alla selezione naturale, erano contrastate dalle proprie difese biologiche, mentre l’atto della riproduzione era assicurato solo dai soggetti più in salute, in grado di tramandare geni “salubri” e “selezionati”.

Con il trascorrere delle generazioni, la selezione naturale è andata via via scemando per far posto ad una barriera artificiale (progressi medici, scientifici e sociali), che ha completamente isolato l’uomo dalle insidie ambientali. Scomparsa la selezione, la riproduzione di massa oltre a causare un notevole incremento della popolazione globale, consente la trasmissione dei geni difettosi, causando, così, un progressivo indebolimento della specie. L’uomo, dunque, è sicuramente riuscito ad allungare la media dell’esistenza in vita, ma ad una precisa condizione: che viva sotto una campana di vetro artificiale, seguendo rigide regole igienico-sanitarie ed intervenendo prontamente ad ogni più piccolo ostacolo. L’analisi critica di un quadro del genere, ci fa comprendere che in realtà l’uomo è molto più debole di una volta, è soggetto alle insidie di un numero maggiore di malattie ed è in netta decadenza nella psiche e nella materia. Proviamo, per ipotesi, a far nascere un bambino, figlio del retaggio genico della civiltà moderna, in un ambiente selvaggio, e lasciamolo sviluppare nel tempo secondo i dettami selettivi dell’ambiente. Se, alla fine, contiamo gli anni che sopravvive, ci accorgeremo che avrà avuto una vita più breve di uno stesso umano vissuto in analoga situazione ma figlio di una popolazione genica “selvatica”. Dunque, l’uomo tecnologico contemporaneo, è in apparenza più longevo, ma è in realtà più gracile, addomesticato, debole e senza carattere. Con grossi artifici (terapeutici, chirurgici, igienici, ecc.), si tutela artificialmente e conta in genere un numero maggiore di anni, ma non ha più la robustezza e l’energia di una volta. L’ingentilimento e la sedentarietà della vita quotidiana che la “civiltà” impone lo indeboliscono drammaticamente. Le statistiche, poi, confermano che le malattie sono sempre più numerose e variate. La sovrappopolazione nonché i continui e rapidi interscambi, favoriscono ulteriormente la nascita e la propagazione delle alterazioni patologiche (oggi in poche ore con un aereo è possibile diffondere un’infezione da un capo all’altro del mondo). Scrive Dorst (1988): “Il costante aumento delle malattie mentali e nervose di ogni tipo -’malattie di civilizzazione’- costituisce la prova più documentata della profonda mancanza di armonia oggi in atto tra l’uomo e il suo ambiente. Le attività umane portate al parossismo, spinte fino all’assurdo, pare che rechino in se stesse i germi della distruzione della nostra specie.

Questo fenomeno ricorda la politelia osservata nel corso dell’evoluzione di certi tipi di animali; un carattere comparso in una linea è in seguito capace di svilupparsi, e di svilupparsi esageratamente, fino a divenire nocivo e contrario agli interessi della specie stessa e senza avere, da quel momento, il minimo valore come mutazione di adattamento. Molte linee si sono estinte così nel corso dei tempi geologici, in seguito allo sviluppo esagerato di una caratteristica divenuta mostruosa. Ci si può chiedere se non sta accadendo lo stesso all’uomo e alla civiltà tecnica da lui creata, che gli ha permesso, all’inizio, di raggiungere un alto livello di vita ma il cui eccesso rischia di divenirgli fatale”. Anche numerose razze e popolazioni umane si sono estinte nel corso dei millenni proprio a causa di un loro eccessivo sviluppo divenuto “mostruoso” (Dorst, 1988).

Occorre prontamente ricordare come l’uomo, nello stato di cacciatore-raccoglitore, era rappresentato da popolazioni basse numericamente, il che sfavoriva lo sviluppo di numerose patologie infettive; tra l’altro, gli interscambi tra le varie popolazioni, erano minimi e localizzati. Per la loro sussistenza giornaliera si spostavano periodicamente allontanandosi così dalle proprie deiezioni ed immondizie (Goldsmith, 1992). Il tempo trascorso nella caccia e nella raccolta era una minima parte del totale lasciando così spazio al riposo e alla “riflessione” (Goldsmith, 1992).

Con la rivoluzione agricola, l’uomo comincia a sterminare parte della biocenosi che ostacola il proprio cammino determinando l’estinzione di moltissime specie animali e vegetali. Con la rivoluzione tecnologica ed industriale poi, ultimo stadio dell’invadenza, il numero delle specie estinte o portate sull’orlo dell’estinzione si moltiplica enormemente.

Se, per raggiungere i 3 miliardi di persone la razza umana ha impiegato all’incirca 600.000 anni, per raddoppiare sono stati sufficienti meno di 40 anni! Il problema della sovrappopolazione umana è forse uno degli elementi più preoccupanti e devastanti che si presentano alla società contemporanea e al mondo naturale. Eliminata la selezione naturale e i freni che imponeva l’ambiente, l’uomo ha dato corso ad una proliferazione estremamente esagerata saccheggiando le risorse ambientali e proteggendosi, nel contempo, con la tecnologia, la medicina e altro. Ma la sovrappopolazione porta ad un continuo stress, facilita la diffusione delle malattie, determina gravi squilibri fisiologici, innesca tensioni sociali,  e prelude, alla fine, alla decadenza della specie. Il problema non è da sottovalutare ed è da incoscienti propagandare politiche sociali in nome della proliferazione demografica. Occorre intervenire nell’immediato e drasticamente. Ma la miopia delle popolazioni, favorita anche dall’illusione religiosa e dalle politiche di profitto degli Stati, non consente di osservare, almeno in lontananza, i bagliori della speranza e forse non si pecca di eccessivo pessimismo se si immagina il futuro dei prossimi millenni come una sorta di deserto popolato, tra le forme più appariscenti, solo da qualche specie di insetto sopravvissuta al passaggio dell’uomo ormai autodistrutto.

Occorre, sia salvare la natura che l’uomo da se stesso (Dorst, 1988)! Nessuna politica di conservazione può prescindere dal problema della sovrappopolazione: “...la premessa assoluta è il blocco dell’espansione della popolazione umana” (Simonetta, 1976).  Scrive Kaczynskj (1997): “E’ accertato che la sovrappopolazione aumenta lo stress e l’aggressività. Il grado di affollamento che esiste oggi e l’isolamento dell’uomo dalla natura sono conseguenze del progresso tecnologico. Tutte le società preindustriali erano in prevalenza rurali. La rivoluzione industriale ha aumentato a dismisura l’estensione delle città e la proporzione della popolazione che vi vive, e la tecnologia moderna industriale hanno reso possibile alla Terra di sostenere una popolazione sempre più densa... “ “ Per le società primitive il mondo naturale (che, in genere, muta lentamente) forniva una struttura stabile e quindi un senso di sicurezza. Nel mondo moderno è la società umana che domina la natura, piuttosto che il contrario, e la società moderna cambia molto rapidamente a causa dei mutamenti tecnologici. Così non vi è una struttura stabile”.

Ebbe a dire Edward O. Wilson: “La responsabilità della crisi della biodiversità ha una sola grande ragione: il successo demografico della specie umana”. 

domenica 28 aprile 2019

La filosofia cinica

Wild Nahani




Il cinismo fu un movimento filosofico che ebbe la propria origine in Atene, avviato da Antistene nel IV sec. a. C. e protrattosi sino al IV sec. dopo Cristo. L'etimologia del nome cinico deriva da "cane", epiteto dato al più famoso rappresentante della corrente, Diogene di Sinope, e da lui accettato, come simbolo dello stile della propria vita.

In questa sede vogliamo brevemente ricordare il pensiero cinico, fortemente distorto nel suo significato originale, per affermare una saggia visione della vita estremamente attuale in antitesi al consumistico e superficiale pensiero contemporaneo.

"La natura, secondo i Cinici, ha creato le condizioni più adatte per la vita e il benessere di tutti i viventi; alterare artificialmente quelle condizioni significa introdurre un perturbamento nel piano della natura e indebolire l'uomo, rendendone più penosa l'esistenza: di qui la condanna della civiltà con tutte le sue conquiste (famiglia, stato, leggi, progresso scientifico, arti, ecc.) e l'aspirazione a un ideale di esistenza senza bisogni, di vita secondo natura, simile a quella degli animali e dei popoli primitivi. Così i Cinici ostentavano un'assoluta indifferenza (adiaforia), non solo per i beni, ma anche per i mali più temuti e aborriti, indifferenza che per loro era frutto della liberazione da tutto ciò che essi chiamavano falsa opinione, fumo o illusione. Tale liberazione interiore era possibile attraverso l'esercizio della virtù, da essi intesa come autosufficienza dello spirito (autarchia), e la vittoria sulle passioni.............Ma se il cinico proclama la propria indifferenza di fronte ai valori correnti, positivi e negativi, indifferenti non gli sono però le condizioni esteriori di vita, in quanto possono favorire od ostacolare quell'affrancamento totale in cui consiste la felicità (eudemonia), da lui inteso come concetto negativo: poiché alla liberazione interiore giunge più facilmente il mendìco che non il re. Così il cinico opera una vera e propria inversione dei valori, disprezzando ciò che è da tutti ambìto e desiderando ciò che tutti aborriscono; è così che lo vediamo errare coperto di un ruvido mantello, unico indumento per tutte le stagioni, barba e capelli incolti, incurante del disprezzo e degli oltraggi di chi è colpito dalle parole amare, ora argute, ora volgari, con cui egli bolla le debolezze e le iniquità umane, ................ I Cinici esaltavano la libertà personale, proclamavano l'uguaglianza di tutti gli uomini e volevano veder abolite tutte le differenze di ceto e di nazionalità, i privilegi del sesso e della nascita..............."  (Merlo, 1958).


“Oh grande spirito

concedimi la serenità

di accettare le cose

che non posso cambiare,

il coraggio di cambiare le cose

che posso cambiare

e la saggezza

di capirne la differenza”.

(preghiera indiana Cherokee)

martedì 26 febbraio 2019

Messaggio delle sei nazioni Irochesi confederate al mondo occidentale. “Spiritualismo: la più alta forma di coscienza politica”

 Wild Nahani



“L’Houdenosaunee - Confederazione delle Sei Nazioni Irochesi - esiste su questa terra da tempo immemorabile.

La nostra è una fra le culture più antiche ancora viventi nel mondo intero.

All’inizio, ci venne insegnato a prenderci cura l’uno dell’altro e a mostrare rispetto per tutti gli Esseri della Terra.

Ci venne mostrato che la nostra vita può esistere solo grazie alla vita degli alberi, che il nostro benessere dipende dal benessere del mondo vegetale e che siamo strettamente legati agli esseri a quattro zampe.

Per questo, nella nostra cultura, la coscienza spirituale è la più alta forma di politica. (...)

Gli insegnamenti originali dicono che chi cammina sulla terra deve esprimere grande affetto, rispetto e gratitudine verso tutti gli spiriti che creano e sostengono la vita.

Dobbiamo gratitudine e ringraziamento a chi ci aiuta: al grano, ai fagioli, alle zucche, al vento e al sole...

Quando l’uomo cessa di rispettare e di essere grato a tutto ciò, allora la vita è distrutta, la vita umana si avvia verso la fine. (...)

Il nostro messaggio al mondo è essenzialmente un’esortazione al risveglio della coscienza.

La distruzione delle culture e dei popoli nativi è parte di un processo, che contemporaneamente attacca la vita animale e quella delle piante, la vita del pianeta tutto.

Questo processo consiste nell’affermazione di un sistema sociale e delle sue tecnologie: è, precisamente, la civilizzazione occidentale. (...)

L’attacco alla cultura irochese, col sistema delle riserve, è solo un piccolo aspetto dell’azione colonialista e imperialista, che si esercita sul mondo intero.

A partire dal tempo di Marco Polo, l’Occidente ha messo a punto un sistema di mistificazione nei confronti di tutti i popoli della Terra.

La maggior parte di questi non trova le sue radici nella cultura e nella tradizione occidentale.

Le trova nel mondo naturale, e sono proprio le tradizioni legate al mondo naturale che devono prevalere perchè si sviluppino società veramente libere ed egualitarie.

E’ necessario, a questo punto, cominciare un lavoro di analisi critica dei processi storici occidentali, per svelare la natura profonda delle condizioni di sfruttamento ed oppressione cui l’umanità è sottoposta.

Nello stesso momento in cui cominciamo a conoscerla, dobbiamo reinterpretare la storia dei popoli del mondo.

D’altra parte, è un fatto che la gente più oppressa e sfruttata è proprio la gente dell’Occidente.

E’ stata caricata del peso di secoli di razzismo, di ignoranza, fino a diventare insensibile alla vera natura della propria vita. Dobbiamo, con la massima coscienziosità e continuità sfidare ogni modello, ogni programma, ogni processo, che l’Occidente cerchi di imporci.

Paulo Friere scrisse, in Pedagogia dell’oppresso, che nella natura dell’oppresso c’è l’imitazione dell’oppressore e che, attraverso tale atteggiamento, esso cerca di riscattarsi psicologicamente dalle condizioni in cui si trova.

Dobbiamo imparare a resistere a questo tipo di trappola. La gente che vive su questo pianeta ha bisogno di rompere con l’angusto concetto di liberazione umana, e deve cominciare a vedere la liberazione come qualcosa da estendere all’intero mondo naturale.

E’ necessaria una liberazione di tutto quel che sostiene la vita: il sacro intreccio della vita.

Noi sentiamo che i Popoli Nativi dell’emisfero Ovest possono continuare a contribuire alla possibilità di sopravvivenza della specie umana.

La maggior parte della nostra gente vive in accordo con la tradizione, tradizione che trova le proprie radici nella Madre Terra.

Ma i popoli nativi hanno bisogno di un forum, dal quale far udire la propria voce.

Abbiamo bisogno dell’alleanza con gli altri popoli del mondo, nella lotta per la riconquista ed il mantenimento delle nostre terre ancestrali e per la possibilità di vivere come vogliamo.

Sappiamo che non è facile.

La protezione e la liberazione dei popoli e delle culture legati al mondo naturale sono, nella nostra concezione, elementi che devono entrare a far parte della strategia politica di chi si batte per restituire dignità all’uomo; questo, ovviamente, dà fastidio a molti stati nazionali. (...)

I Popoli Nativi Tradizionali sono la chiave per rovesciare il processo di civilizzazione occidentale, che minaccia un futuro di inimmaginabili sofferenze e distruzioni.

Lo Spiritualismo è la più alta forma di coscienza politica.

Noi, i Popoli Nativi dell’emisfero Occidentale, siamo, fra quelli sopravvissuti, in possesso di questo tipo di coscienza.

Siamo qui per comunicarvi il messaggio”.


(tratto da: AA.VV., 1994 pagg. 26-27 per contribuire alla diffusione della voce dei popoli nativi).