mercoledì 27 novembre 2019

Turismo e ambiente

Wild Nahani




NB. Testo tratto dal libro "L'Uomo naturale"


Un tempo era appannaggio di pochi intellettuali, di esploratori o di arditi avventurieri. Successivamente il fenomeno ha coinvolto, a partire dal Nord America, larghi strati della popolazione, contaminando pochi decenni dopo l’intero Occidente e finanche l’Oceania (Moretti, in Gamba & Martignitti, 1995).

L’avvento della piccola borghesia e l’aumento delle disponibilità finanziarie facilita la necessità di crearsi un periodo di svago anche grazie alle ferie retribuite. Divenendo fenomeno di massa crea subito un grave impatto ambientale (diretto e indiretto con la costruzione di seconde case, residence, ecc.). Se nella fase iniziale le località prese d’assalto erano relegate in zone non molto distanti da dove si viveva, successivamente, grazie al potenziamento dei mezzi di trasporto e all’organizzazione dei viaggi, un numero crescente di persone si sposta in ogni luogo del pianeta, attratti dai richiami, culturali, naturalistici, ricreativi (Moretti, in Gamba & Martignitti, 1995). Anche le zone del Terzo Mondo subiscono l’invasione e la conseguente costruzione irrazionale e selvaggia delle strutture di ricezione. Da un fenomeno locale e relativamente ristretto, si è passato ad uno ampio e di massa per approdare ancora oltre con il turismo internazionale.

Per contrapporsi al dilagare del turismo consumistico, nasce il cosiddetto “ecoturismo”: il viaggio a misura di natura (sic!). Regole di base sono: fine educativo, non alterazione degli habitat frequentati, introito economico per le popolazioni locali in alternativa ad attività di sfruttamento della natura. Ma l’ecoturismo ha in sé il germe della distruzione ambientale: la massa. Divenuto infatti fenomeno di massa, rappresenta paradossalmente un pericolo preoccupante per gli habitat naturali. Milioni di “ecoturisti” che solcano i sentieri delle Alpi, dei parchi nazionali e delle riserve o che setacciano le foreste tropicali, le vette nepalesi o le coste australiane. Il turismo “verde”, proprio per immergersi nei luoghi più belli, prende spesso a riferimento le aree protette causando in quei luoghi un impatto estremamente negativo. L’ecoturismo allora assume, come il turismo classico, una forma devastante e incontrollabile. Scrisse J. Muir (1995) con grande profondità di spirito: “Pare strano che i turisti in visita a Yosemite siano così poco commossi da tanta inusitata grandiosità, quasi avessero gli occhi bendati e le orecchie tappate. La maggior parte di quelli che ho incontrato ieri guardavano come chi è del tutto inconsapevole di ciò che gli accade intorno, mentre le rocce stesse nella loro sublime bellezza fremevano agli accenti della vita possente congregazione di acque sonanti che scendono dai monti e qui si raccolgono con musiche che potrebbero cavare gli angeli dal paradiso”.

Allo stato attuale delle cose, il turismo di massa rappresenta una delle forme a maggior impatto ambientale (si pensi, per esempio, alla pratica dello sci). E’ una pura illusione credere di poterlo contenere entro certi limiti. Il turismo una volta esploso è inarrestabile e si comporta come un cancro. Avviene dunque la prostituzione della natura “venduta” al turismo “ecocompatibile” con la scusa che ciò è il prezzo da pagare per “tutelare” un luogo (il mercato dell’ecologia). Ma ci chiediamo: da chi lo tuteliamo se lo vendiamo ad attività che essendo di massa compatibili non sono affatto? “Solamente l’andare da soli, nel silenzio, senza bagaglio, permette di entrare davvero nella natura selvaggia. Tutti gli altri viaggi non sono che polvere, hotel, valigie e chiacchiere” (J. Muir). Queste profonde e semplici parole di J. Muir ci ricordano quali potrebbero essere le qualità di un turismo e di un turista oculato: la discrezione, la spiritualità, la semplicità, il senso del luogo, la riflessione. Se a queste qualità individuali sommiamo il non addomesticamento dei luoghi  inevitabilmente si determinerà una bassissima densità di visitatori ed una altissima qualità del “viaggio”. Tra l’altro, occorre ricordare, ciò che non è espressamente attrezzato, favorito e pubblicizzato non causa fenomeni di massa.

Aldo Leopold  comprese subito il grande pericolo del turismo di massa e dello sviluppo tecnologico quando scrisse (1949-1997) che: “Lo svago divenne un problema preciso ai tempi del primo dei Roosvelt, quando le linee ferroviarie, che avevano escluso la campagna dalla città, cominciarono a trasportare masse di cittadini nelle campagne. Ci si accorse che più gente ci andava più piccola diventava la possibilità individuale di godere di pace, solitudine, natura e bei panorami, e sempre più lungo il tragitto necessario.

L’automobile ha esteso questa spiacevole situazione, in precedenza di lieve entità e a carattere locale, fino ai limiti estremi delle strade praticabili, rendendo scarso qualcosa che prima abbondava. Ma questo qualcosa si deve comunque trovare, e allora, come ioni proiettati dal sole, i turisti della domenica si irradiano da ogni città, generando calore e attrito ogni fine settimana. L’industria del turismo fornisce vitto e alloggio per attrarre sempre più ioni, sempre più in fretta e sempre più lontano..... Le imprese costruiscono strade nell’entroterra, quindi acquistano altre terre per assorbire il flusso vacanziero, accelerato dalle strade appena costruite. L’industria dell’accessorio spiana la strada verso la natura vergine; la conoscenza dei boschi diventa l’arte di usare tutti i vari arnesi disponibili........ per chi cerca qualcosa di più, questo genere di svago all’aria aperta è diventato un processo autodistruttivo, in cui si cerca senza mai veramente trovare alcunché: una delle grandi frustrazioni della società meccanizzata”.

martedì 29 ottobre 2019

La grave minaccia del turismo

Wild Nahani


Illustrazione di Elzbieta Mielczarek


NB. Testo tratto dal libro "L'Uomo naturale"


Sappiamo che le aggressioni patite dalla natura hanno avuto le più svariate origini, tra cui quelle legate alle attività industriali, alla cementificazione, al disboscamento, alla crescita demografica.

Ma a queste forze negative s’è aggiunta in questi ultimi anni, come abbiamo appena visto, l’azione distruttiva esplicata dal turismo di massa, sia tramite le sue infrastrutture dirette che per mezzo di quelle indotte. Si tratta di una invasione senza precedenti che non ha risparmiato nessuna parte del pianeta, con punte  che si concentrano ovviamente nelle località più accessibili e spesso in quelle più ricche di fascino paesaggistico. Ma, troviamo turisti dappertutto: nell’Artico per fotografare gli orsi bianchi standosene comodamente seduti in un pullman, nelle isole del Pacifico, in Alaska, nelle riserve, nei parchi nazionali. Le coste, specie quelle italiane, sono state cementificate e assalite per far posto ad alberghi, ville, spiagge attrezzate,  cancellando in tal modo ogni traccia di ambiente  incontaminato, com’è accaduto, ad esempio, in molte località della Sardegna. Poi è arrivato il turismo montano con l’esplosione dell’escursionismo che invade anche i punti più reconditi della montagna, privandola in tal modo della tranquillità che è il suo precipuo attributo. Oltre a frequentare i sentieri segnati che conducono un po’ dappertutto, le masse degli escursionisti perlustrano ogni luogo, spesso comportandosi in maniera incivile (schiamazzi, abbandono di rifiuti, accensione di fuochi, campeggio in luoghi non consentiti). In Italia il fenomeno è talmente diffuso da far temere della sorte degli equilibri della montagna, soprattutto per quanto concerne le Alpi; basti pensare che nei mesi di punta alcune ascensioni devono essere effettuate in fila indiana (occorre ricordare che le Alpi, nella loro interezza, vengono visitate ogni anno da oltre 100 milioni di turisti a fronte di una popolazione residente di 12 milioni). Gli escursionisti, questa vasta schiera di moderni trovatori che non insegue rime di poesie provenzali, ma sogna la conquista di cime appenniniche o alpestri che immortala poi in innumerevoli foto, veri cimeli da mostrare orgogliosamente agli amici. Infatti l’aver raggiunto una cima, o una remota valle, o un lago montano è impresa che l’escursionista celebra con accenti di vittoria, quando invece il suo animo rimane spesso quasi del tutto sordo al lirismo dei paesaggi che man mano si schiudono, nè riesce a percepire la bellezza delle tenui luci del sottobosco, o del sommesso mormorio dei torrenti, o del vellutato e misterioso canto del cuculo (vigono le dovute e corpose eccezioni). Per non parlare poi del disinteresse e della non percezione verso gli aspetti negativi inflitti dall’uomo sui territori che l’attivo escursionista sta attraversando (snaturamento dei luoghi, impatto delle strutture presenti in natura, rifugi, ecc.). Anzi, se un luogo non è ben “umanizzato” (p.e. con cartelli indicatori ben evidenti, sentieri chiari e battuti, ecc.) sente il dovere di lamentarsi e di definire quell’ambiente del tutto “abbandonato” o male “gestito”.  Che dire poi dell’alpinista tutto teso alla “conquista” di una parete rocciosa? In questo caso l’ambizione non si appaga di una foto ricordo, ma mira a cose molto più alte, come possono essere la risonanza nazionale o mondiale del “record”, o una fruttuosa sponsorizzazione, o anche i diritti di autore derivanti da un’improvvisa folgorazione letteraria. Si aggiunga poi che lo stesso alpinismo ha ormai perso quella dimensione genuina che lo distingueva negli anni passati, tanto da trasformarlo, come detto, in una sorta di competizione a suon di record e di ritorno di immagine. Nascono e si sviluppano così i rifugi di montagna (legati ovviamente anche all’escursionismo), vie ferrate, palestre di roccia, ecc. Scrive Malatesta (1997): “La sublimazione della montagna, processo inevitabile e che fa parte del suo fascino, esaltando la forza perenne e il potere ritenuto indomabile della natura, ha fatto dimenticare la fragilità del suo ecosistema e di come sia abbastanza facile annientare il ‘richiamo’, al di là di una retorica a volte insopportabile. Spiega bene Carlo Alberto Pinelli, orientalista, documentarista e coordinatore internazionale di Mountain Wilderness, che la cultura della montagna non precede, ma segue la cultura della società in cui è immersa. Gli alpinisti erano romantici in epoca romantica, nazionalisti nel più acceso periodo nazionalistico e ora sono diventati consumistici. Si commuovono davanti alla bellezza della natura incontaminata, ma in realtà sono legati al mondo da cui vogliono fuggire, trascinandosi dietro i suoi vizi peggiori: una competizione eccessiva e nevrotica, l’aggressività, l’uso della montagna come pretesto per dubbie ambizioni. E l’ambiente come nemico da conquistare”.

Per non parlare poi dello sci-alpinismo che arreca per parte sua un notevolissimo disturbo alla fauna durante il delicato periodo invernale e dello sci di discesa che, enormemente facilitato dagli impianti di risalita (in Italia oltre 3.000 chilometri di funivie), nonché da tutte le strutture annesse (alberghi, punti ristoro, ecc.) sta letteralmente devastando le montagne, tanto più se si pensa che in questi ultimi tempi si è arrivato a portare gli sciatori in quota con gli elicotteri (elisky)! Notevole disturbo arreca anche lo sci-escursionismo e lo sci di fondo perché sono divenuti fenomeni di massa che concentrano un gran numero di persone nelle montagne. Altri “devastatori” della montagna sono i ciclisti muniti delle mountain-bike, divenuti in pochi anni un vero flagello. Si pensi che negli Stati Uniti, dove queste biciclette sono nate, si è arrivato al punto di  proibirne il transito in molte località  di montagna. Negli ultimi anni si va sempre più diffondendo la pratica del volo a vela con gli alianti che spesso frequentano proprio i territori vitali dei rapaci o sorvolano a bassa quota aree protette apportando gravi disturbi alla fauna. Al volo a vela va aggiunto la pratica del deltaplano e del sempre più diffuso parapendio. Analoga manomissione registrano gli ambienti costieri e tutte le zone dei laghi mortificate da impietose colate di cemento e invase da fiumane di turisti e vacanzieri. Nelle coste così devastate dove potrà più trovare rifugio l’aquila di mare o il falco pescatore? Non dimentichiamo poi lo sfruttamento degli animali per fini turistici e pubblicitari. Animali sfruttati, ridotti a macchine per gli illusori vantaggi del momento. Animali “usati” e “ammaestrati” per il dubbio divertimento dell’uomo (che poi portano solo vantaggi economici a chi pratica tali attività. Si pensi agli acquari con delfini, orche ed altro, agli animali nei circhi, agli animali negli zoo-lager, ecc.). Infine è opportuno ricordare l’attività sempre più diffusa esplicata da fotografi e cineasti "naturalisti" che spesse volte è fonte di notevole turbamento per la vita degli animali selvatici soprattutto durante il periodo riproduttivo. Con gli esempi ci fermiamo qui.

Scrive F. Zunino (1995): “Non si gridi, quindi, allo scandalo o all’oppressione delle minoranze ogni qualvolta si prendono provvedimenti a difesa della Natura ledendo quelli che sono solo supposti diritti. Non si additi sempre il danneggiatore più “grosso”, da colpire prima di loro, ripetendosi di categoria in categoria, perché per ognuno sono sempre ‘gli altri’ il vero pericolo, quelli da colpire: come gli evasori fiscali!

In Italia è permesso scalare praticamente ovunque, andare in mountain bike praticamente ovunque, sciare su neve, pascoli e ghiaioni praticamente ovunque, discendere fiumi e risalire canaloni praticamente ovunque, scalare cascate di ghiaccio praticamente ovunque: tutte nuove ‘arti’ di uso della Natura: ma è sufficiente che si metta un solo divieto a queste attività perché tutti strillino alla lesa maestà delle loro categorie; non uno che si faccia un esame di coscienza. Invece non dovremmo mai dimenticare che l’uso ricreativo della natura resta comunque quello più avulso e falso nel contesto ambientale, che più nulla ha dell’antico sano rapporto d’equilibrio. Per assurdo, in fondo, il più giusto rapporto con la natura è quello di rinunciare a viverla! E proprio perché questo assurdo non debba finire per diventare l’unica regola per salvaguardarla, dobbiamo porci dei limiti e accettare delle regole”. (N.B. Lo scritto di Zunino è stato inserito in questo paragrafo per integrare meglio il discorso fatto sulla problematica turistica, ma il significato del testo può senz’altro essere valido per tutte le altre attività dell’uomo come quelle del lavoro, del cosiddetto “sviluppo” e in genere dello stile di vita di ognuno di noi).

“E’ chiaro, e non servono ulteriori spiegazioni, che l’utilizzo di massa diminuisce in maniera diretta le possibilità di solitudine e che quando si intendono i luoghi per campeggio, i sentieri e i gabinetti come altrettanti elementi di ‘sviluppo’ delle risorse inerenti alle attività di diporto, si afferma qualcosa di falso. Queste facilitazioni per le folle, infatti, non sono assolutamente un fattore di sviluppo, nel senso di arricchimento o crescita ma, al contrario, sono solo acqua aggiunta a una minestra già insapore” (A. Leopold, 1949-1997).

Per concludere osserviamo che sarebbe necessario sensibilizzare l’opinione pubblica in ordine agli effetti devastanti esercitati dal turismo di massa, affinché si pongano allo studio ipotesi di salvaguardia dell’ambiente naturale, ma occorre purtroppo convincersi che i grandi vantaggi economici apportati dal turismo di massa rappresentano un ostacolo insormontabile. “L’andar soli offre un doppio vantaggio: il primo di essere con se stessi, il secondo di non essere con gli altri” (A. Shopenhauer).

domenica 29 settembre 2019

Il mercato dell’ecologia

Wild Nahani


Ghiottone



NB. Testo tratto dal libro "L'Uomo naturale"


“Dedica mezz’ora al giorno a pensare al contrario di come stanno pensando i tuoi colleghi” (A. Einstein).

Oggi tutto è in vendita e tutto è venduto. Il mercato, parola sacra della civiltà occidentale è il pane quotidiano di tutte le forze governanti. La mercificazione della natura, al pari di quella sociale, sta di conseguenza raggiungendo livelli spaventosi. Le tematiche ambientali sono continuamente subordinate al mercato e questo non solo per il volere degli economisti, ma anche per buona parte del mondo ambientalista che si è ormai arreso palesemente alla combinata natura-sviluppo-mercato (la produttività dei parchi ne è il più chiaro esempio). E’ un atteggiamento estremamente negativo che solo le forze ambientali più radicali, profonde e scevre dalla politica stanno combattendo, mentre “gli ecologisti” di maniera, dell’opportunità della “poltrona”, vogliono ulteriormente sviluppare. La natura “immagine” o meglio la natura “spettacolo” viene venduta quotidianamente da una operazione sagacemente pianificata. In tal senso agiscono non più i singoli operatori di settore, ma riviste altamente accreditate, quotidiani, intere Regioni, associazioni ambientaliste, forze politiche, gestori di aree protette (i direttori dei parchi sembrano più dei “manager aziendali” che operatori di questioni naturalistiche), ecc. Se prima la natura veniva venduta per i suoi “prodotti”, ora, oltre che per questi, viene venduta anche per la sua immagine.

Dicono che ormai la natura si può tutelare solo se garantisce “sviluppo”, solo se il tornaconto sia economico e di immagine (l’ecoturismo di massa ormai lo conosciamo tutti). Per il resto, la vera conservazione di un orso, di un lupo o di un paesaggio, non importa quasi più, perché è ben altro ciò che “rende”. In ogni caso un’aquila vale per l’immagine che offre, non per il suo valore in sé. Il mercato dell’ecologia è il colpo di grazia ad una natura ormai da tempo agonizzante e morente. Se da certe forze ci si aspettava almeno un piccolo contributo, ciò è venuto meno e lo sconforto non può che assalire chi ancora crede nella purezza degli intenti e nel valore in sé delle cose. E’ giunto il momento di smascherare una situazione che, se agli economisti o agli arrivisti della società occidentale capitalistica sta molto bene, non può essere accettata da chi vuole ancora sperare in un futuro non dominato da un uomo tecnologico/economico che vede solo nei propri interessi personali o di gruppo l’unica realtà di questa terra. Il silenzio, sulla questione trattata, è ormai diffuso e quasi nessuno ha il coraggio di opporsi a questo strisciante modo di pensare e di fare. Ci sono però delle eccezioni, anche autorevoli, ed è piacevole, per chi ancora crede in una natura che ha un proprio valore, nel riportare il passo che segue, scritto da un convinto e profondo ambientalista. Eccone un breve quanto significativo stralcio: “Ormai stiamo arrivando al mercato dell’ecologia. E bisogna pure che qualcuno inizi a dirlo..... In pochi anni tutta la valenza ‘rivoluzionaria’ del valore-ambiente è stata perfettamente e tranquillamente inglobata dal valore-mercato attraverso il passaggio dello ‘sviluppo sostenibile’. In altri termini, questa nostra società mediatica, strutturata per formare consumatori (e consenso) in batteria, con una sapiente e veloce operazione sociale e politica, ha ridotto l’ambiente, da valore fondamentale, a sé stante e alternativo, a semplice e innocua patina con cui rafforzare i valori dell’economia di mercato. Ormai, l’ambiente non conta più di per sé ma solo se e in quanto crea occupazione, fa crescere i consumi (e il mercato), aumenta il dio PIL: così come si conviene quando c’è un governo di ‘risanamento economico’.

Il fatto più preoccupante è che questa operazione è stata, ed è, avallata anche da una parte del mondo ambientalista, la quale, per timore di diventare ‘marginale’ in una società incentrata sul valore-mercato, ha adottato la ‘tattica’ di ‘coniugare’ e ‘contaminare’ l’ambiente con i valori economici dominanti; fatto del tutto scontato nell’ambientalismo italiano, mai affetto da fondamentalismo, e da sempre attento al binomio economia-ecologia.......

Siamo passati, insomma, ‘dallo sviluppo sostenibile’ all’ecologia di mercato e stiamo rapidamente arrivando al mercato dell’ecologia......

Ed allora, per evitare equivoci, sarà meglio premettere con chiarezza, ogni volta, che noi difendiamo e continueremo a difendere l’ambiente di per sé, e non perché è funzionale ai ‘valori’ di mercato” (Amendola, 1997).

Per quanto attiene specificatamente alle aree protette occorre ricordare (considerazione più volte espressa in questo lavoro) che purtroppo i “manager” che gestiscono le aree protette o spesso gli enti regionali e governativi, non si curano affatto, salvo sporadiche eccezioni, di attuare realmente e concretamente una seria politica ambientale che tuteli in primis le esigenze della natura in generale. Oggi nelle aree protette di molti distretti europei si parla sempre più della loro resa economica (“la produttività economica dei parchi”), della loro immagine turistica (l’ecoturismo!), delle loro potenzialità di accogliere al meglio i visitatori, ma quasi mai, in senso reale e pratico, del loro status selvaggio e dei reali interessi della fauna. Questo modo di fare, per quanto attiene a specie a rischio, sta indirettamente e definitivamente compromettendo la loro esistenza. Se l’operato di un bracconiere viene giustamente additato come fatto gravissimo e negativo, il pernicioso e subdolo operato degli enti preposti al governo dei territori protetti, passa del tutto inosservato, anzi spesse volte l’opinione pubblica ignara delle reali situazioni, plaude loro inconsapevolmente. Conclude ironicamente Zunino in un suo articolo sulla “conservazione attiva” nella logica del parco produce: “..... Sembra che oggi la natura si possa salvare e proteggere anche in questo modo nuovo e moderno di fare conservazione, affinché possa in primo luogo produrre comunque danaro sonante!”. 

giovedì 29 agosto 2019

Il naturalista/biologo contemporaneo

Wild Nahani





NB. Testo tratto dal libro "L'uomo naturale"


“Che ti move, o omo, ad abbandonare le tue proprie abitazioni delle città, e a lasciare li parenti ed amici, ed andare in lochi campestri per monti e valli, se non la naturale bellezza del mondo ?...” (Leonardo da Vinci).

Il naturalista “spirituale” e “profondo” si volge ad osservare la natura con lo stupore che pervade chi si appresta ad ascoltare con umiltà di spirito e di intelletto il misterioso concerto col quale l’universo scandisce la propria dialettica. L’attenzione di quel ricercatore non si dirige ad uno specifico fenomeno naturale, ma si interessa della natura nella sua totalità, si arricchisce del suo fascino e ne ricava a volte intuizioni tali, da far compiere un salto di qualità alla ricerca scientifica.

Del tutto diversi sono gli interessi reali del naturalista superficiale che soggiace ad una sorta di esasperazione delle categorie aristoteliche, ossia ad una specializzazione portata alle sue estreme espressioni, in ciò assecondato dallo straordinario sviluppo tecnologico; accade così che egli si trasformi, in molti casi, in una specie di “computer” ambulante, che raramente si allontana dall’Università o da altri laboratori per effettuare l’osservazione sul campo e, quando vi si piega, non vede l’ora di ritornare tra le fidate mura dei gabinetti scientifici per “scaricare” nel computer i dati frettolosamente raccolti (vigono le dovute eccezioni). “La mente moderna divide, specializza, pensa per categorie....” (Adorno et. alii., 1991), oppure, citando Thomas Kuhn, “la scienza normale è un tentativo strenuo e determinato di costringere la natura nelle caselle concettuali fornite dall’istruzione professionale”.

Questo declassare la natura da categoria dell’universo a mero strumento di competizione utilitaristica, riguarda quindi la cosiddetta “ricerca” scientifica? Certo, qui la riflessione deve farsi più attenta e circospetta, giacché la ricerca è materia che incute un timore reverenziale, quasi che la sua carica esoterica sia pari a quella che circondava l’antica alchimia. È vero, si rimane ammirati innanzi al paziente metodo del botanico o dello zoologo, che tutto annotano, ordinano, sperimentano e - alla fine - catalogano con estremo rigore. E che dire dei mostri in camice bianco che “torturano” nei laboratori di tutto il mondo milioni di animali sia per ricerche medico-farmaceutiche che per studi etologici (p.e. le ricerche sul comportamento degli scimpazè in gabbia ridotti a vere e proprie macchine). Da questa attività i solerti “ricercatori” trarranno senza dubbio un accresciuto prestigio accademico e una grande notorietà all’interno dell’opinione pubblica, ma è tuttavia lecito chiedersi se, al di là della speranza di conseguire questi ambiti riconoscimenti, essi siano stati mossi anche dal rispetto per la natura, che è un rispetto del tutto indifferente alla fama e al prestigio. Rispetto per la natura significa anche “sentire” che l’esemplare di orso, poco prima osservato e catalogato, non è soltanto un’entità da racchiudere nell’elaborazione di dati statistici, ma è una creatura che deve essere riconosciuta ed ammirata per quello che essa è, e per quello che essa rappresenta all’interno del mirabile ordine/disordine universale.

Scrive Brian Martin (1993): “Gli esperti scientifici sono i nuovi santoni della società moderna. Sentenziano su qualunque argomento con la massima delle autorità, quella scientifica. Criticarne l’opinione è eresia.

Eppure si può fare. Anche gli esperti sono vulnerabili, in molti modi. I loro dati possono essere messi in discussione e anche le ipotesi su cui si basano. Si può contestare la loro credibilità e anche la loro competenza in quanto tale. I loro punti deboli possono essere svelati e sfruttati senza pietà........

Gli anarchici sono contrari ad ogni sistema in cui un ristretto numero di persone domina sugli altri. A loro modo di vedere, le decisioni andrebbero prese direttamente dalla gente, sulla base di un dialogo libero e aperto. Il sapere è importante, ma dovrebbe essere un sapere accessibile e utilizzabile da parte di tutti. Oggi, invece, la ‘competenza’ è tanto specialistica ed esoterica da essere utile soltanto agli esperti e ai loro datori di lavoro....... Una società egualitaria e partecipativa darebbe certo un alto valore alla conoscenza, ma la renderebbe disponibile a tutti e non esclusivo appannaggio delle elite..... Eppure è raro che il ruolo degli esperti venga messo in discussione in quanto tale...... E’ tempo invece di incoraggiare la gente a pensare con la propria testa invece di affidarsi continuamente a qualcun’altro”.

“L’esperto è colui che sa moltissimo su pochissimo” (N. M. Butler).

Giova qui ricordare il pensiero e la vita pratica di un biologo canadese, Sam Miller, che si occupava di ricerche sugli orsi e su altre specie animali il cui “habitat” ricadeva nello sterminato territorio del Canada. Giorno dopo giorno egli si rendeva conto che la sua “forma mentis” era sempre più “imbrigliata” dalla ricerca pura e astratta che lo costringeva a trascorrere la maggior parte del tempo dinanzi al computer per elaborare dati ed a riempire tabelle. Un giorno, all’improvviso, disse basta, lasciò tutto e si rifugiò nella tundra canadese, poco oltre le grandi foreste di conifere. Lì oggi vive in un piccolo chalet dove ospita, come una sorta di albergatore sui generis, quelli che vogliono trascorrere in quei luoghi giorni indimenticabili; in questo modo egli si guadagna da vivere e può girovagare in quella natura selvaggia munito del binocolo e di taccuino per gli appunti, alla stregua di un naturalista spensierato che, quasi con l’animo di un fanciullo, si entusiasma dinanzi ai meravigliosi scenari della natura (vedasi ad esempio John Muir o Sigurd Olson). 

Il naturalista che oggi indaga nella natura come fa Sam Miller è al di fuori della competizione scientifica, al di fuori delle carriere universitarie o dei riconoscimenti di prestigio, né può intervenire in convegni altolocati dove si discutono le relazioni dei “sapienti”, giacché un naturalista di tal genere è certamente “fuori mercato” ed è perciò irriso dalla confraternita dei ricercatori. “L’indiano che riesce perfettamente a trovare la sua strada nel bosco, è dotato di un’intelligenza di cui l’uomo bianco non dispone. Osservarla aumenta la mia capacità, e così pure la mia fede. Mi rallegro di scoprire che l’intelligenza scorre in canali diversi da quelli che conosco” (H. D. Thoreau - in AA. VV., 1995).

Si è voluto citare l’esperienza di Sam Miller poiché essa non proviene, come qualcuno potrebbe pensare, da un naturalista frustrato nelle sue ambizioni, e perciò critico del sistema, ma è un’indicazione, anzi è un merito che si leva ad alta voce da un naturalista che poteva primeggiare nel “sistema”, se lo avesse voluto. Col seguente pensiero di H. D. Thoreau sembra completarsi il ritratto di Sam Miller:”Lo studioso che ha solamente armi letterarie è incompleto. Deve essere un uomo spirituale. Deve essere preparato al cattivo tempo, alla povertà, all’offesa, alla stanchezza, alla dichiarazione di fallimento, a molte altre contrarietà. Dovrebbe avere tanti talenti quanti più può” (23 giugno 1845). Sempre facendo riferimento a Thoreau, Worster scrive (1994): “I fatti dovevano diventare esperienze per l’uomo nella sua interezza, non mere astrazioni in una mente scissa dal corpo, e il naturalista doveva immergersi completamente negli odori e nelle trame della realtà percepibile..... ‘Giri senza meta con un impermeabile, bagnato fino alle gambe, ti siedi sulle rocce coperte di muschio e sui ceppi ad ascoltare il verso delle rondini migratrici che volteggiano tra le querce.... a casa nonostante tu sia all’aperto, comodo nonostante tu sia bagnato, affondando ad ogni passo nella terra in disgelo’”.

Essere preparati al cattivo tempo, alla povertà, alla stanchezza dice il Thoreau, e - si potrebbe soggiungere - essere preparati ai pericoli e alla drammaticità della solitudine, come lo erano gli uomini primitivi che, col vivere secondo le leggi naturali, acquisivano la perfetta conoscenza del loro ambiente.

Scrive G. Celli a proposito del naturalista Bernd Heinrich (riferendosi alla sua opera “Corvi d’Inverno, 1992) ".... il buon Heinrich non è uno psicologo, proclive ai congegni tecnologici e al laboratorio, è un naturalista, e pensa che l'occhio, a presa diretta con il cervello, e quindi con il giudizio, resti ancora uno strumento organico insostituibile per cogliere le peculiarietà del comportamento animale........ un conto è osservare l'animale dal vivo, e un conto sul video. In questo secondo caso, mancano gli odori del bosco, il rumore del vento tra gli alberi, la meravigliosa liquidità del cielo d'inverno, quel paesaggio vivente che respira attorno all'animale nel bersaglio. Del cannocchiale, si capisce!...".

Su queste considerazioni dovrebbe meditare il naturalista di oggi, onde riappropriarsi delle ragioni della natura che sono ben lontane dalle ragioni del successo cattedratico, e ancor più lontane "dall'accanimento dell’indagine”, oggi di moda (radiocollari, catture continue per studi fisiologici, ecc.), che non solo disturba gli animali che ne sono oggetto, ma li danneggia ed invade per di più quella che potrebbe essere definita la “privacy fisiologica” dei poveri inquisiti, e tutto con il principale intento di fare uno “scoop” che abbia risonanza in una pubblicazione scientifica di prestigio. Il naturalista, invece, potrebbe svolgere un ruolo importante nella divulgazione del concetto del valore in sé della natura e quindi della sua reale conservazione. Scrisse Adolph Murie (in Heacox, 1991), studioso dei lupi dell’Alaska: “Ricordo la prima impronta di orso che vidi in vita mia...... Tutto ciò che vedemmo fu un’impronta in una pozzanghera di fango. Ma l’impronta era un simbolo, ancora più poetico che il vedere lo stesso orso - un approccio delicato e profondo allo spirito dell’Alaska selvaggia. In qualunque momento l’impronta di un orso può creare un’emozione più forte che il vedere l’orso stesso, perché viene chiamata in gioco l’immaginazione. Ti metti a osservare accuratamente il paesaggio, aspettando di vederlo comparire a ogni momento, mentre l’attenzione si affina e si rinvigorisce. L’orso è da qualche parte e può essere dovunque. La zona si è improvvisamente vivificata, ha acquisito una qualità nuova e più ricca”.

Ma come si è già notato, il ricercatore dei nostri giorni, fatte le dovute eccezioni, non ama eccessivamente le “uscite sul campo” ma predilige riferirsi più spesso alle esperienze maturate da altri, che a loro volta si abbeverano ad altre fonti, sì che sia gli uni che gli altri si giovano di una quantità di dati che, opportunamente elaborati, vanno a formare relazioni o pubblicazioni che si impongono alla generale attenzione per la loro voluminosità. Lo sviluppo della specializzazione scientifica ha portato ad una sorta di “sordità specialistica” (Boulding in Pignatti 1994), cioè all’incapacità di percepire i caratteri generali di un sistema a causa della concentrazione ossessiva dell’attenzione sui particolari (Pignatti, 1994). La nozione olistica di paesaggio tende invece a superare questa particolare “sordità” ricercando una rappresentazione globale del sistema (Pignatti, 1994). L’etnologo ed esploratore norvegese Thor Heyerdahl (Del Re, 1997) ci ricorda che “presto ci renderemo conto che per salvarci dovremo collaborare e cominciare a capire il mondo nel quale viviamo. Servirà un atteggiamento più interdisciplinare, quasi ecumenico. Servirà più coordinamento tra le varie discipline scientifiche, ma anche tra la biologia e la teologia, tra la fisica e la filosofia. Perché chi è un’autorità in un campo specifico di solito è il più ignorante al di fuori di quel campo”. Completa il discorso Rocco Guy  Jaconis (1992): “Quando era un laureando in biologia della selvaggina alla Cornell University, nella mia mente avevo organizzato il mondo naturale in tanti piccoli compartimenti. Trentacinque anni di esperienza nella natura e nell’insegnamento, mi hanno fatto invece comprendere che c’è una sottile, travolgente, comprensione la quale non è divisibile in compartimenti, e che è parte della conoscenza quotidiana delle genti primitive, in tutto il mondo”.

La natura, in tutte le sue manifestazioni, non è un laboratorio “scientifico”, tecnico, categorico ed asettico. Un membro di una comunità selvaggia non conosce l’ambiente circostante secondo un approccio “razionale e scientifico”, ma secondo un dettame istintivo e “mentale”. Ora noi, nel nostro pensiero contemporaneo, riduciamo i fenomeni naturali alla pura sfera scientifica, archiviandoli come concetti che hanno significato solo se analizzati e sezionati da questo punto di vista (leggasi razionalismo cartesiano). Occorre invece “sentire” diversamente le cose, e porsi nella natura con una visione spontanea, intuitiva ed olistica. La scienza naturale, invece, deve essere concepita esclusivamente come il “prodotto” successivo di una visione filosofica e spirituale della conoscenza. “Il primato del ‘razionale’ sull’’emotivo’ e sull’’intuitivo’ è solo un pregiudizio della cultura occidentale odierna” (Dalla Casa, 1996).

L’analisi ecologica che ne deriva deve muoversi in “profondità” senza fini “antropici” anche solamente sottintesi, e deve approdare ad una visione transpersonale e non egocentrica (leggasi ecologia profonda). Il naturalista “profondo” deve quindi riconoscere il valore intrinseco della natura e deve imparare a non definirla, poiché, come detto, “il Tao definito non è l’eterno Tao” (Lao Tse).

Worster (1994) evidenzia bene la visione “stretta” dello scienziato: “La delusione di Leopold per il paesaggio troppo artificiale influenzava anche la sua fede nella scienza; egli era giunto a pensare che la capacità di percezione dei ricercatori accademici fosse troppo limitata per cogliere la completezza della natura, fattore essenziale per realizzare una protezione ambientale a vasto raggio. Uno dei saggi di Sand County Almanac dal titolo Storia naturale - La scienza dimenticata, rappresenta un appello al ritorno all’educazione all’aperto, olistica, ad uno stile scientifico aperto ai dilettanti e agli amanti saggi della natura , più sensibile al ‘piacere di essere immerso in una natura selvaggia’. Nei laboratori e nelle università si insegnava che ‘la scienza è al servizio del progresso’; essa faceva lega con la mentalità tecnologica che regimentava il mondo inseguendo il progresso materiale e doveva quindi essere trasformata insieme alla tendenza manageriale”.

Scrive l’impeccabile penna di Della Casa (1996): “........ ricordiamo che Bateson chiama ‘follia riduzionista’ l’idea che si possa descrivere con pienezza ontologica la Natura, che è molto più ricca di significato di quanto non sia possibile rappresentare. La complessità fisico-spirituale del mondo naturale è infinita: solo con la percezione intuitiva se ne può avere una pallida idea.

Il paradigma della semplificazione si basa su quella che è stata chiamata la ‘schizofrenica dicotomia cartesiana’, il dualismo fra il cogito soggettivo e la rex exstensa oggettiva. La scienza occidentale è stata fondata (fino alla prima metà di questo secolo) sull’eliminazione del soggetto, nella convinzione illusoria che gli oggetti, esistendo indipendentemente dal soggetto, possano essere studiati in quanto tali”.

Quali conclusioni trarre dalle considerazioni sulle quali ci siamo finora intrattenuti? Una è certamente la più importante: è necessario che la mente del naturalista si volga esclusivamente all’osservazione della natura, liberandosi dall’acriticismo, dal dogmatismo scientifico e dall’idolatria degli archetipi accademici ed antropici che riducono la scienza a livello di vuoti rituali officiati da alcuni “grandi turiferari”. Ovviamente il naturalista contemporaneo non può essere visto solo in questa luce negativa che abbiamo appena tratteggiato. Ci sono le dovute eccezioni e ci sono “scienziati” che si discostano nettamente da quella visione dogmatica e antropocentrica. E’ certamente nutrita la lista di “operatori” del settore che si dedicano veramente alla conservazione e alla ricerca con una visione globale e profonda. Questo per onor di verità!

“Anche le piante mi interessavano, ma non scientificamente. Ero attratto da esse per un motivo che mi sfuggiva, e col sentimento che non dovessero essere estirpate e seccate: erano esseri viventi che avevano significato solo finché crescevano e fiorivano, un significato nascosto, segreto, uno dei pensieri di Dio. Dovevano essere considerate con reverenziale timore e contemplate con filosofica meraviglia. Ciò che poteva dire la biologia era interessante, ma non era l’essenziale” (Carl Gustav Jung).

lunedì 29 luglio 2019

L’uomo da cacciatore/raccoglitore a uomo tecnologico

Wild Nahani





NB. Testo tratto del libro "L'Uomo naturale


“Nelle comunità di cacciatori-raccoglitori del primo mondo - il mondo degli abitanti dell’ecosistema - l’uomo ‘proiettava un’immagine amichevole sugli animali: questi parlavano fra di loro e pensavano razionalmente come gli uomini; avevano un’anima (...) (L’uomo era ancora) dentro quel mondo, non lo aveva ancora trasformato in uno strumento o in una mera fonte di risorse’.

Il secondo mondo - quello della cultura - è una creazione dell’uomo. Secondo l’analisi di Eiseley, è il risultato di forme più progredite di rappresentazione simbolica, del fenomeno linguistico, della dislocazione affettiva, dell’invenzione del tempo storico. L’uomo si è separato dal resto della natura, è diventato abitante della città e si è allontanato dagli ‘spiriti presenti in ogni albero e in ogni ruscello. I suoi compagni animali si allontanarono da lui furtivamente come randagi senza anima. Non parlarono più’. Il potere di Pan era perduto. Da quel momento la vita dell’umanità è considerata ‘irreale e sterile’.....” (Devall & Sessions, 1989 paragrafo su Loren Eiseley).

L’uomo primitivo viveva essenzialmente di raccolta (radici, frutti, ecc.) e occasionalmente di caccia e pesca. In quello stadio era perfettamente armonizzato con l’ambiente circostante tanto che non determinava nessun tipo di danno. Successivamente incominciò ad addomesticare gli animali e si trasformò in pastore. Nella fase seguente approdò all’agricoltura. Lasciatosi alle spalle la caccia e la raccolta, con la pastorizia prima e con l’agricoltura poi, comincia a disarmonizzarsi dall’ambiente circostante ed attiva gravi modifiche al mondo naturale. L’ultima fase poi, quella industriale e tecnologica, darà il colpo di grazia alla stabilità della natura, universalizzando gli interventi e amplificando le distruzioni. Si attua il definitivo declino della natura e l’apparente dominio della razza umana.

Se all’origine, con la pratica della pastorizia e dell’agricoltura, si infliggevano già gravi danni all’ambiente (disboscamenti, modifiche degli habitat, incendi estesi e dolosi, distruzione dei predatori che “insidiavano” il bestiame, ecc.), questi danni erano però localizzati in pochi punti della terra ed avevano effetti devastanti su piccola scala. Al contrario, con il progressivo aumento della popolazione e soprattutto con l’avvento della tecnologia (industria, chimica, ecc.), gli effetti negativi della varie pratiche (agricoltura chimica, allevamento intensivo, industrie leggere e pesanti, ulteriore distruzione dei predatori e alterazione massiccia degli habitat per la pastorizia, ecc.), hanno via via assunto carattere mondiale non risparmiando alcun angolo della terra e finanche parte dello spazio (oggigiorno l’attività agricolo/pastorale è distruttiva per l’ambiente come l’industria. Scrisse infatti Lovelock “che l’agricoltura praticata dalla popolazione umana sempre più numerosa rappresentava la minaccia più grave per la terra” - Worster, 1994). Ciò in connessione, come detto, con un brusco aumento della popolazione umana. Scrive Dorst (1988): “All’inizio l’uomo visse della semplice raccolta (frutti e radici vegetali) e di animali la cui cattura era agevole. Poi egli inventò varie armi che gli permisero di dedicarsi alla caccia e alla pesca: di esercitare, cioè, attività predatrici. In questo stadio (raggiunto nel Paleolitico inferiore), l’uomo è ancora parte integrante dell’ambiente naturale da cui esclusivamente dipende. Le modificazioni dell’ambiente che determinano la disponibilità di alimento, hanno una profonda influenza sull’uomo e lo costringono a dover cercare altrove gli elementi indispensabili alla sopravvivenza. Gli uomini di quell’epoca, che vivevano di caccia e di raccolta, modificarono nel complesso molto superficialmente il loro habitat”. Il tramonto della specie umana e, conseguentemente della natura, inizia gradualmente e localmente sin dal Neolitico, per divenire drastico, brutale ed universale ai giorni nostri. Infatti Paul Shepard asseriva che la crisi ecologica è in corso da diecimila anni: “Quando l’agricoltura si sostituì all’economia di caccia e raccolta, si verificarono mutamenti radicali nel mondo degli uomini di vedere e reagire alla natura circostante. Le centinaia di forme locali di organizzazione agricola che si sono sviluppate via via (....) miravano tutte a dare un volto completamente umano alla superficie terrestre, sostituendo il selvaggio con il domestico e creando paesaggi dall’habitat”(Shepard, 1973, in Devall & Sessions,1989). Integra bene J. Dorst (1988): “In fondo la storia dell’umanità può essere considerata come la lotta della nostra specie contro il proprio ambiente e il progressivo affrancamento dalla natura e da alcune leggi, e come l’asservimento del mondo intero - suolo, piante, animali - all’uomo e ai ritrovati del suo genio. Certo, l’uomo primitivo non aveva neppure lontanamente l’energia meccanica sufficiente perché la sua collisione con la natura superasse certi limiti esattamente circoscritti. Ma la differenza, tra il coltivatore neolitico intento a disboscare una radura e a dissodare il terreno, e l’uomo del 2000 che ha base di esplosioni atomiche smuoverà le montagne e modificherà il corso dei fiumi costringendoli ad irrigare i deserti, è solo una differenza di metodo. Il fattore umano deve essere preso in considerazione nell’equilibrio biologico del mondo partendo dagli albori dell’umanità, e se l’urto è divenuto sempre più profondo non bisogna però ingannarsi sulla sua antichità”. Ne fanno tuttavia eccezione i numerosi popoli che non sono approdati alla pastorizia e all’agricoltura (per esempio parte degli indiani nordamericani) e che pertanto rimasero in armonia con il proprio ambiente  (alcuni ancora lo sono) fin quando non sopraggiunsero i “bianchi” portatori della “civiltà occidentale” (Dorst, 1988). Ancora Devall & Sessions (1989) a proposito delle considerazioni di Shepard scrivono: “Non solo l’agricoltura stessa è un danno ecologico, ma, per Shepard, il contadino tradizionale ha condotto ‘la vita più ottusa che l’uomo possa mai vivere’. Mentre le prime fattorie che praticavano un’agricoltura di autosufficienza erano in armonia con l’ambiente, gli agricoltori delle odierne monoculture devono fare affidamento su una vasta e continua rete di rapporti socieconomici. La vita delle campagne è senza speranza nella organizzazione agricola industriale moderna. Le piante e gli animali domestici sono disastri biologici, continua Shepard, sono ‘schiocchezze genetiche’. Shepard concorda con Brownell quando afferma che gli uomini hanno bisogno degli animali selvatici nel loro ambiente naturale per poterli prendere da esempio e diventare pienamente uomini; i cuccioli addomesticati e gli animali da fattoria sono surrogati inadeguati e patetici. Per Shepard, un futuro ecologicamente sano vuole la scomparsa di quasi tutte le forme di organizzazione agricola, di piante e animali alterati geneticamente. Un altro elemento indispensabile per il futuro è il pieno riconoscimento che gli uomini sono geneticamente cacciatori-raccoglitori”.

Gian Luigi Mainardi (1973) riassume con estrema sintesi e limpida chiarezza l’ascesa e lo sviluppo dell’Homo sapiens sul pianeta terra. Ne riportiamo un breve, eloquente stralcio: “Circa 50.000 anni or sono, dopo una strenua, vittoriosa lotta con altri tipi di ominidi, una nuova specie, l’abile Homo sapiens, si accinse a intraprendere un cammino che in breve (geologicamente parlando) lo doveva condurre ad una posizione di assoluta preminenza. Dapprima la marcia fu lenta e vide il passaggio graduale dal chiuso habitat della foresta all’aperta pianura, la trasformazione della dieta da vegetariana a carnivora, con conseguente partecipazione al giuoco della preda e del predatore, lo sviluppo di tecniche di caccia in gruppo, l’impiego di rozze armi e utensili, la costruzione di rifugi sicuri. Per tutto questo lungo periodo l’ambiente rimase pressoché incontaminato, grazie alla relativa disorganizzazione, all’inconsistenza numerica e alla dispersione dell’unico abitatore che avrebbe potuto inquinarlo. La tregua non doveva però durare a lungo. La scoperta del fuoco come mezzo per conquistare nuovi spazi e favorire la crescita di piante da pascolo e da foraggio, insieme all’addomesticamento di varie specie animali, ebbero un effetto sconvolgente sugli ecosistemi.

Rapidamente la specie umana si moltiplicò, si andarono costituendo raggruppamenti sempre più numerosi, si evolsero strutture stabili via via più organizzate, e inevitabilmente prese consistenza il problema dell’accumulo dei rifiuti della comunità, la diffusione dell’inquinamento, delle malattie, dell’’erosione’ della natura. Da allora la marcia si è tramutata in corsa veloce e l’uomo ha vestito sempre più i panni del più catastrofico agente antiecologico che mai sia comparso sulla Terra, capace di interferire sconsideratamente con l’ambiente in mille modi, diretti ed indiretti...........

Finora la natura ha sopportato le ferite che le abbiamo inflitto, ma è chiaro che ci stiamo avvicinando ai limiti di tollerabilità. Non dimentichiamoci che in definitiva anche il grande Homo sapiens per sopravvivere ha bisogno della natura, ha necessità di acqua, di suolo, di ossigeno, di piante, di animali. Se dimenticherà questa verità elementare, egli in un futuro più o meno prossimo distruggerà se stesso”.

Devall & Sessions (1989) a proposito dell’impatto sulla natura da parte dell’uomo tecnologico contemporaneo ci ricordano che “l’eccessivo intervento umano nei processi naturali ha condotto altre specie sull’orlo dell’estinzione. Secondo gli ecologi profondi l’ago della bilancia pende da lungo tempo a favore degli uomini, ora dobbiamo riequilibrarlo per proteggere le specie minacciate: la tutela dei diversi tipi di natura selvaggia è un imperativo. Mentre i popoli nativi sono vissuti in comunità sostenibili per decine di migliaia di anni senza intaccare la vitalità degli ecosistemi, la moderna società industrial-tecnocratica minaccia ogni ecosistema sulla Terra e può anche apportare drastici mutamenti dei modelli climatici nella biosfera”.

venerdì 28 giugno 2019

La tecnologia e la pressione demografica

Wild Nahani





“La tecnologia ha illuso l’uomo che con essa egli possa migliorare la sua vita e le sue difficoltà. Ma in effetti l’uomo tecnologico è diventato ancor più schiavo e vincolato di reali catene che gli cingono i polsi e le caviglie: è diventato totalmente dipendente delle sue ‘creazioni’ tanto che la sua stessa esistenza viene meno senza quella campana di  vetro che si è costruita. O peggio: ha perduto per sempre la sua essenza e, paradossalmente, la sua libertà. E’ divenuto lui stesso, in altri termini, una macchina e una prigione di cui ne è stato il volontario creatore!”.  Lo sviluppo tecnologico è legato a volte alla ricerca pura, ma è più spesso sollecitato dall’esigenza di aumentare i mezzi di sostentamento della crescente popolazione del pianeta. Per ottenere tale scopo non si esita ad esercitare una distruttiva violenza sull’assetto naturale dell’ambiente, tagliando intere foreste, impiantando immensi complessi industriali, scaricando nei corsi d’acqua sostanze altamente inquinanti, cementificando ed asfaltando grandi superfici del territorio, prosciugando le paludi, sbarrando i fiumi e installando faraonici allevamenti di bestiame che producono enormi quantità di rifiuti organici. E' intuitivo, se non ovvio, che una così ampia manomissione del territorio e dei connessi ecosistemi si traduca nell’estinzione di molte specie di uccelli e di mammiferi, evento che si è purtroppo frequentemente verificato nell’arco di tempo che ci separa dall’inizio della rivoluzione industriale. E' necessario notare che l’aggressione esercitata ai danni della natura non sempre avviene in territorio contiguo a quello in cui si verifica l’accentuata pressione demografica, ma - grazie allo straordinario sviluppo dei mezzi di trasporto - le risorse ricavate dall’opera di manomissione vengono spesso convogliate anche a grande distanza, ove esse effettivamente occorrono, in prevalenza verso la fascia nord-atlantica che, a fronte di una popolazione che è pari a circa il 15% di quella mondiale, consuma quasi il 75% delle risorse planetarie. Uno squilibrio tanto accentuato non è dovuto soltanto ad uno “ standard” di vita adeguato alla domanda di una società “civile”, ma è causato anche da sprechi sconsiderati, come avviene ad esempio nel riscaldamento domestico, nell’illuminazione, nell’alimentazione, nell’uso di motori elettrici, nella produzione di beni inutili, nell’abuso degli antiparassitari chimici, ecc. ecc.

A questo punto domandiamoci se vi è la possibilità di comporre pragmaticamente il dissidio che oppone l'uomo alla natura; si, forse ciò è possibile se si riconsidera il problema nella sua globalità, che significa individuare un nuovo modello di sviluppo, e applicarlo nella sua interezza. Nuovo modello di sviluppo significa valutare le riserve di energia disponibili a livello planetario, programmarle e ripartirle in proporzione alla pressione demografica di ogni singola zona. Ma significa anche influire drasticamente sul comportamento del singolo uomo nei confronti della natura; quest’ultimo è un punto essenziale del problema.

Scrive saggiamente Dalla Casa (1996): “....Alla luce di tale andamento esponenziale del fenomeno ‘civiltà industriale’, appare perfettamente logico che per un paio di secoli non si sia notata la vera natura distruttrice di tale civiltà. Infatti i suoi effetti reali sulla Vita non possono evidenziarsi se non pochissimo tempo prima della sua fine.....

Quindi la persistenza del modello attuale per due secoli, fatto su cui poggia l’idea di continuazione della civiltà industriale sempre-crescente, costituisce invece un’ulteriore prova della sua fine imminente: come si è visto, il modello può esistere senza manifestare la sua vera natura per un tempo quasi uguale a quello della sua esistenza complessiva......

..continuiamo con la più grande incoscienza ad eliminare una specie dopo l’altra, ed apparentemente non succede nulla nell’ecosistema globale. Ma ad un certo punto salterà tutto “.

giovedì 30 maggio 2019

La longevità “apparente” e la sovrappopolazione

Wild Nahani





“La crescita perpetua è il credo della cellula cancerosa” (E. Abbey). Nella società contemporanea corre l’idea che l’uomo viva più a lungo e che le malattie siano sotto controllo. Nulla di più falso. Se, statistiche alla mano, constatiamo che oggi siamo più longevi rispetto al passato, dimentichiamo di considerare, nel contempo, alcuni parametri fondamentali. Una volta la vita reale che si svolgeva era “netta”, cioè si sviluppava per un certo numero di anni senza “aiuti” e “protezioni” esterne. Si viveva, in sostanza, secondo l’influenza dell’ambiente e secondo la propria costituzione fisica. Le malattie poi, sin quando l’uomo era legato alla selezione naturale, erano contrastate dalle proprie difese biologiche, mentre l’atto della riproduzione era assicurato solo dai soggetti più in salute, in grado di tramandare geni “salubri” e “selezionati”.

Con il trascorrere delle generazioni, la selezione naturale è andata via via scemando per far posto ad una barriera artificiale (progressi medici, scientifici e sociali), che ha completamente isolato l’uomo dalle insidie ambientali. Scomparsa la selezione, la riproduzione di massa oltre a causare un notevole incremento della popolazione globale, consente la trasmissione dei geni difettosi, causando, così, un progressivo indebolimento della specie. L’uomo, dunque, è sicuramente riuscito ad allungare la media dell’esistenza in vita, ma ad una precisa condizione: che viva sotto una campana di vetro artificiale, seguendo rigide regole igienico-sanitarie ed intervenendo prontamente ad ogni più piccolo ostacolo. L’analisi critica di un quadro del genere, ci fa comprendere che in realtà l’uomo è molto più debole di una volta, è soggetto alle insidie di un numero maggiore di malattie ed è in netta decadenza nella psiche e nella materia. Proviamo, per ipotesi, a far nascere un bambino, figlio del retaggio genico della civiltà moderna, in un ambiente selvaggio, e lasciamolo sviluppare nel tempo secondo i dettami selettivi dell’ambiente. Se, alla fine, contiamo gli anni che sopravvive, ci accorgeremo che avrà avuto una vita più breve di uno stesso umano vissuto in analoga situazione ma figlio di una popolazione genica “selvatica”. Dunque, l’uomo tecnologico contemporaneo, è in apparenza più longevo, ma è in realtà più gracile, addomesticato, debole e senza carattere. Con grossi artifici (terapeutici, chirurgici, igienici, ecc.), si tutela artificialmente e conta in genere un numero maggiore di anni, ma non ha più la robustezza e l’energia di una volta. L’ingentilimento e la sedentarietà della vita quotidiana che la “civiltà” impone lo indeboliscono drammaticamente. Le statistiche, poi, confermano che le malattie sono sempre più numerose e variate. La sovrappopolazione nonché i continui e rapidi interscambi, favoriscono ulteriormente la nascita e la propagazione delle alterazioni patologiche (oggi in poche ore con un aereo è possibile diffondere un’infezione da un capo all’altro del mondo). Scrive Dorst (1988): “Il costante aumento delle malattie mentali e nervose di ogni tipo -’malattie di civilizzazione’- costituisce la prova più documentata della profonda mancanza di armonia oggi in atto tra l’uomo e il suo ambiente. Le attività umane portate al parossismo, spinte fino all’assurdo, pare che rechino in se stesse i germi della distruzione della nostra specie.

Questo fenomeno ricorda la politelia osservata nel corso dell’evoluzione di certi tipi di animali; un carattere comparso in una linea è in seguito capace di svilupparsi, e di svilupparsi esageratamente, fino a divenire nocivo e contrario agli interessi della specie stessa e senza avere, da quel momento, il minimo valore come mutazione di adattamento. Molte linee si sono estinte così nel corso dei tempi geologici, in seguito allo sviluppo esagerato di una caratteristica divenuta mostruosa. Ci si può chiedere se non sta accadendo lo stesso all’uomo e alla civiltà tecnica da lui creata, che gli ha permesso, all’inizio, di raggiungere un alto livello di vita ma il cui eccesso rischia di divenirgli fatale”. Anche numerose razze e popolazioni umane si sono estinte nel corso dei millenni proprio a causa di un loro eccessivo sviluppo divenuto “mostruoso” (Dorst, 1988).

Occorre prontamente ricordare come l’uomo, nello stato di cacciatore-raccoglitore, era rappresentato da popolazioni basse numericamente, il che sfavoriva lo sviluppo di numerose patologie infettive; tra l’altro, gli interscambi tra le varie popolazioni, erano minimi e localizzati. Per la loro sussistenza giornaliera si spostavano periodicamente allontanandosi così dalle proprie deiezioni ed immondizie (Goldsmith, 1992). Il tempo trascorso nella caccia e nella raccolta era una minima parte del totale lasciando così spazio al riposo e alla “riflessione” (Goldsmith, 1992).

Con la rivoluzione agricola, l’uomo comincia a sterminare parte della biocenosi che ostacola il proprio cammino determinando l’estinzione di moltissime specie animali e vegetali. Con la rivoluzione tecnologica ed industriale poi, ultimo stadio dell’invadenza, il numero delle specie estinte o portate sull’orlo dell’estinzione si moltiplica enormemente.

Se, per raggiungere i 3 miliardi di persone la razza umana ha impiegato all’incirca 600.000 anni, per raddoppiare sono stati sufficienti meno di 40 anni! Il problema della sovrappopolazione umana è forse uno degli elementi più preoccupanti e devastanti che si presentano alla società contemporanea e al mondo naturale. Eliminata la selezione naturale e i freni che imponeva l’ambiente, l’uomo ha dato corso ad una proliferazione estremamente esagerata saccheggiando le risorse ambientali e proteggendosi, nel contempo, con la tecnologia, la medicina e altro. Ma la sovrappopolazione porta ad un continuo stress, facilita la diffusione delle malattie, determina gravi squilibri fisiologici, innesca tensioni sociali,  e prelude, alla fine, alla decadenza della specie. Il problema non è da sottovalutare ed è da incoscienti propagandare politiche sociali in nome della proliferazione demografica. Occorre intervenire nell’immediato e drasticamente. Ma la miopia delle popolazioni, favorita anche dall’illusione religiosa e dalle politiche di profitto degli Stati, non consente di osservare, almeno in lontananza, i bagliori della speranza e forse non si pecca di eccessivo pessimismo se si immagina il futuro dei prossimi millenni come una sorta di deserto popolato, tra le forme più appariscenti, solo da qualche specie di insetto sopravvissuta al passaggio dell’uomo ormai autodistrutto.

Occorre, sia salvare la natura che l’uomo da se stesso (Dorst, 1988)! Nessuna politica di conservazione può prescindere dal problema della sovrappopolazione: “...la premessa assoluta è il blocco dell’espansione della popolazione umana” (Simonetta, 1976).  Scrive Kaczynskj (1997): “E’ accertato che la sovrappopolazione aumenta lo stress e l’aggressività. Il grado di affollamento che esiste oggi e l’isolamento dell’uomo dalla natura sono conseguenze del progresso tecnologico. Tutte le società preindustriali erano in prevalenza rurali. La rivoluzione industriale ha aumentato a dismisura l’estensione delle città e la proporzione della popolazione che vi vive, e la tecnologia moderna industriale hanno reso possibile alla Terra di sostenere una popolazione sempre più densa... “ “ Per le società primitive il mondo naturale (che, in genere, muta lentamente) forniva una struttura stabile e quindi un senso di sicurezza. Nel mondo moderno è la società umana che domina la natura, piuttosto che il contrario, e la società moderna cambia molto rapidamente a causa dei mutamenti tecnologici. Così non vi è una struttura stabile”.

Ebbe a dire Edward O. Wilson: “La responsabilità della crisi della biodiversità ha una sola grande ragione: il successo demografico della specie umana”.