mercoledì 29 gennaio 2020

Le aree protette

Wild Nahani




NB. Testo tratto dal libro "L'Uomo naturale"


L’istituzione di aree protette rappresenta un passo importante e decisivo per la salvaguardia di interi ecosistemi e per la protezione della flora e della fauna. Tuttavia tali aree non possono essere considerate sufficienti ad una vera conservazione del mondo naturale se non sono accompagnate da una visione unitaria, profonda ed ecocentrica di tutta la realtà biotica e abiotica. Fermarsi alla protezione superficiale di questa e quella area senza mutare radicalmente il pensiero antropocentrico, non solo non garantirà realmente alcun successo alla conservazione del mondo, ma vanificherà la stessa creazione delle specifiche aree “protette”.

L’istituzione di tali aree muove dalla necessità di assicurare una valida difesa degli spazi vitali ancora totalmente o parzialmente incontaminati, al solo scopo di proteggere la natura. Ma occorre purtroppo rilevare che nella realtà storica tale nobile intento è spesso prevaricato da motivazioni derivanti da interessi antropici di tipo turistico-ricreativo; non a caso il primo parco nazionale istituito nel mondo, quello di Yellowstone, nacque sotto il segno di una siffatta ambiguità originaria. Accade a volte che, aree nate col genuino intento di salvare la natura vedano successivamente stravolgere il loro “status” a causa “dell’esplosione” turistica che inevitabilmente apporta costruzione di strade, di punti di ricezione, di rifugi, di sentieri e di altre strutture, spesso sollecitate dagli interessi economici delle popolazioni che vivono in contiguità col parco. E' soltanto da sperare che una siffatta contaminazione di intenti non coinvolga col passare degli anni i grandi parchi che si estendono in zone disabitate come quelle del Canada e della Siberia, ma non si pecca di eccessivo pessimismo se si profetizza anche per quelle aree un futuro gravido di insidie. Per quanto attiene in particolare alle problematiche afferenti alle aree protette che si sviluppano in territorio italiano, occorre sconsolatamente osservare che l’alta densità demografica della penisola genera spesso situazioni conflittuali tra l’amministrazione dell’area e le popolazioni locali, da cui consegue un confronto dialettico che si conclude spesso con compromessi che vanno immancabilmente a scapito della natura (occorre “indennizzare” le popolazioni locali per evitare o ridurre lo sviluppo di attività non compatibili con l’ambiente o finanziare invece ogni iniziativa compatibile con la tutela del territorio). E' perciò auspicabile che nel futuro non vengano vanificati gli statuti dei parchi, né si verifichino cedimenti nei confronti di egoistiche pressioni di tipo economico. Ovviamente, occorre ricordare, le popolazioni locali non vengono affatto considerate quando si opera in località del terzo mondo o in ogni caso in località dove gli abitanti del luogo non hanno un “peso” politico e sociale. L’uomo occidentale distrugge l’ambiente e poi chiede ai “locali” i sacrifici. Perché spesso si parla di spostare interi villaggi da un luogo all’altro per determinati interessi (per esempio per la deviazione di un corso d’acqua o per la costruzione di una diga) ma stranamente quegli spostamenti non riguardano mai luoghi “altolocati” (proviamo a chiedere di spostare Manhattan!!!). Il “peso” che un’area protetta scarica sulle eventuali popolazioni locali deve essere assorbito da tutta la comunità che deve farsi carico delle operazioni nell’interesse collettivo. Mettere in condizioni di “far produrre” un’area protetta per favorire i locali, significa, sicuramente favorire i locali, ma significa anche distruggere l’obiettivo che si era posto per la conservazione reale di un territorio (leggasi in prima istanza “sviluppo turistico”). Quindi, come si esporrà più compiutamente poco oltre, occorre operare con la politica dell’indennizzo e del decentramento delle attività a forte impatto in luoghi a bassa valenza ambientale.  

E' importante notare che l’istituzione di aree protette può assolvere anche il compito di scongiurare l’estinzione di animali o di piante che soltanto con un’adeguata tutela possono sopravvivere. Un emblematico esempio di protezione di specie animali conseguente all’istituzione di un’area protetta è il salvataggio dell’orso bruno marsicano e del camoscio d’Abruzzo grazie alla creazione del Parco Nazionale d’Abruzzo. 

Da queste considerazioni appare chiaro che, attesa la estrema gravità del degrado ambientale, occorre intervenire radicalmente, senza compromessi, ponendo la salvaguardia dell’ambiente in posizione preminente rispetto a qualsiasi altro interesse; ciò può essere spesso conseguito, almeno in parte del territorio, attraverso l’istituzione di aree protette, nelle quali non solo è limitato o precluso l’intervento umano, ma a volte la presenza dell’uomo è tassativamente vietata (riserve di tipo integrale). E' da tenere inoltre presente che, ove una riserva voglia effettivamente esplicare la propria funzione protettiva, deve inglobare una vasta porzione di un territorio che si configuri come un’espressione completa, armonica ed omogenea sotto l’aspetto territoriale, fitologico e zoologico (un’area protetta deve essere più grande possibile, ma sempre in riferimento alla qualità ambientale e non alla “strumentalizzazione” del territorio per estendere fortemente la superficie del parco con chiari intenti “speculativi” economici). E' inoltre necessario che l’area protetta sia circoscritta entro una fascia di rispetto esterna che funga da ammortizzatore tra l’area protetta stessa e il restante territorio antropizzato. Purtroppo però aree realmente protette di tipo integrale, oltre che limitate numericamente, hanno quasi sempre un’estensione di scarso rilievo, il che deriva certamente dal fatto che questo tipo di protezione tutela realmente l'ambiente ma non indulge ad interessi di natura economica. Scrive Dorst (1988): “Agli occhi dei naturalisti, la prima e più importante misura da adottare è la costituzione di riserve naturali integrali poste sotto il controllo dell’amministrazione pubblica e in cui sia tassativamente proibita qualsiasi azione umana, tendente a modificare gli habitat o ad apportare perturbazioni di qualsivoglia genere ed entità alla fauna o alla flora. In queste riserve la natura deve essere lasciata a se stessa, come se - in teoria - l’uomo non esistesse”.  

Con quanto detto sinora non si vuole affatto affermare che tutte le aree protette debbano essere precluse alle persone, trascurando in tal modo l’importante funzione educativa e di ricreazione spirituale che a volte quelle possono svolgere per la sensibilizzazione delle masse alla protezione dell’ambiente. Ma, per fare ciò è necessario imporre severi vincoli poiché un’area protetta è un’oasi di natura, e non un giardino pubblico. Quindi si consideri pure l’apertura di parchi nazionali e di riserve naturali almeno nelle parti meno delicate, ma a condizione che la presenza umana, vuoi quella connessa ai visitatori occasionali, vuoi quella rappresentata dalle comunità locali, sia rigidamente controllata ed armonizzata al ritmo della natura.

Alcune volte appare utile l’istituzione di aree protette “orientate” nelle quali si mira a ripristinare le condizioni naturali compromesse dall’attività antropica; tale obiettivo si consegue a volte mediante la reintroduzione di specie faunistiche presenti in epoche anteriori e distrutte dall'uomo, altre volte attraverso l'eliminazione di opere umane come strade, dighe, costruzione di altri manufatti, ecc. Ovviamente questo tipo di intervento potrà essere attuato solamente in quelle aree che presentino condizioni abbastanza integre, che abbiano un minimo di capacità di ripresa e conservino la potenzialità necessaria ad accogliere le precedenti forme di vita. In altri termini se in un’area si vuole reintrodurre una specie faunistica che era presente in passato, non basta proteggere solamente tale area per procedere senz'altro alla reintroduzione della specie, ma è necessario accertarsi che in quelle località ci siano ancora le condizioni necessarie a che la specie animale reintrodotta possa affermarsi e prosperare nuovamente. Se la gestione reputasse utile dar corso ad una qualche forma di reintroduzione all'interno dell'area protetta, dovrebbe far precedere gli eventuali interventi da lunghi e meticolosi studi, come ad esempio: raccolta delle testimonianze storiche sulla passata presenza della specie, individuazione delle cause che hanno determinato la scomparsa della specie, rilievi sulle esistenti condizioni ecologiche dell’area al fine di appurarne la compatibilità con le specie da reintrodurre (se la specie reintrodotta ha un vasto areale di spostamento, occorre valutare anche le “reali” condizioni ambientali e protezionistiche dei territori circostanti al fine di garantire condizioni idonee alla specie reintrodotta anche se sconfina dalla Riserva/Parco). Gli interventi ritenuti scientificamente attuabili dovranno ridurre al minimo le manomissioni del territorio (se p.e. sarà necessario costruire recinti di acclimatazione, occorre ubicarli in luoghi a basso impatto ambientale, preoccupandosi altresì di costruirli con strutture poco appariscenti).

Sarebbe gravissimo errore procedere all'introduzione o reintroduzione di specie animali o vegetali storicamente assenti nella zona oppure reintrodurre specie animali che, pur non trovando nella Riserva le condizioni ecologiche necessarie per la loro sopravvivenza (p.e. le fonti alimentari), vengano mantenute esclusivamente con aiuti umani artificiali. Altrettanto grave errore sarebbe quello di reintrodurre/introdurre una specie per soli fini estetici (molti esempi ci vengono offerti dall’operato degli Anglosassoni come in Gran Bretagna, in Nuova Zelanda, in Australia).

La nascita di un’area protetta dovrebbe quindi essere motivata esclusivamente dall’esigenza di conservare il territorio fine a se stesso, ponendo da parte qualsiasi fine utilitaristico diretto. La realtà dei fatti però smentisce in molti casi questa considerazione perché, come già detto in premessa, ancora non si avverte la mutazione del pensiero umano, sempre rivolto ai propri egoistici e miopi interessi. E’ quanto mai opportuno ricordare le parole scritte in merito  da Franco Zunino che ci aiutano, senza altri approfondimenti, ad esporre chiaramente il nostro punto di vista (da Wilderness Documenti Anno IX n°2, 1994). “La protezione di un territorio naturale può certamente avere molti ruoli, molte finalità, ma credo che solo uno debba essere lo scopo per cui la si debba attuare: conservare il territorio fine a se stesso. E conservarlo vuol dire, o dovrebbe voler dire, far si che non venga alterato volutamente, vuol dire decidere di sottrarlo alla logica dello sviluppo (che è la logica del profitto) che è prettamente umana.

Decidere di conservare un luogo è decidere di tenere per quel luogo un comportamento ancestrale, animale, quale è la nostra origine, che è l’unico modo per poterci definire in equilibrio con l’ambiente: nessun cervo, nessun lupo, nessun orso ha mai potuto o preteso di “sviluppare” o “valorizzare” o “far produrre” il proprio habitat. Semplicemente da millenni lo utilizzano per quello che spontaneamente esso offre loro e lasciandolo immutato per altre generazioni. E’ solo l’uomo l’unica specie animale ad essere uscita da questo “cerchio della vita”.

Lo spirito che sta all’origine dell’istituzione delle aree protette non può essere stato che questo: decidere di non interferire con l’intelligenza nella logica delle cose naturali che succedono in un certo luogo. Almeno, questo è quello che si coglie leggendo più di una relazione, discorso od atto relativo alla nascita dei primi parchi nazionali del mondo sul finire del secolo scorso e all’inizio del nuovo. Ed è questo il significato vero, originario, che, solo, dovremmo dare al termine conservare: lasciare tutto come è!

E’ ovvio che sia poi stata la logica dello sviluppo a prendere comunque il sopravvento, a fare in modo che questo semplicissimo concetto venisse alterato, riportando le istituzioni che sono i parchi nella logica del profitto dalla quale idealmente le avevamo sottratte. John Muir alla fine del secolo scorso disse che “la battaglia per la conservazione della natura continuerà indefinitivamente, perché essa è parte dell’universale battaglia tra il giusto e l’errore”. Aveva ragione, perché da allora nulla è cambiato! Solo, per meglio comprenderlo, bisognerebbe sostituire i termini: giusto = conservazione, errore = sviluppo.

Ovviamente la decisione di voler conservare un certo luogo per sè e di per sè, se non altro come conseguenza o come scopo per questa scelta, può anche scaturire da disparate motivazioni: perché il luogo è insolito per bellezza, o perché è l’ultimo lembo di uno stato ambientale che a causa di un sovrasviluppo è sparito quasi ovunque, o perché ne siamo innamorati per la sua usualità nella nostra vita. Se questo principio, perché un principio ritengo che sia, fosse sempre stato tenuto presente quando si sono costituiti parchi e riserve, pur riconoscendo l’esistenza delle dette motivazioni come spunto per la sua applicazione, sono certo che sì, oggi avremmo un numero assai minore di “aree protette” ed “aree protette” più piccole, che potremmo realmente definire, considerare e presentare al mondo come tali!

Settant’anni dopo la nascita dei nostri parchi nazionali storici, Abruzzo e Gran Paradiso, anche la difesa, la conservazione dei loro angoli più belli, più di valore scientifico, più amati, è ancora in forse! Questa è la conseguenza della continua mancata osservanza di quel principio.

Ancora assistiamo quotidianamente alla battaglia interpretativa sul perché di quelle leggi istitutive e sul come vadano applicate per realizzare le finalità che premettevano e promettevano. Ancora ritorniamo a visitare questi parchi scoprendo sempre qualcosa di antropico in più là dove ricordavamo essere natura. Sempre meno natura e sempre più “umanità”, un processo ripetitivo propagatosi di parco in parco come una malattia inarrestabile. Ciò perché nel nostro Paese il principio di cui ho detto non è stato praticamente mai realmente posto come fondamento alla progettazione ed istituzione di un parco o di una riserva naturale.

Nella stragrande maggioranza dei casi i parchi nazionali, regionali ed altre aree protette, sono stati voluti, progettati ed istituiti con alla base un principio economicista piuttosto che conservativo. Si sono istituiti dei parchi come si sarebbe potuto creare delle strutture o “holding” turistiche. Si è tentato di dare o voler dare, con un parco, quelle stesse cose che hanno dato o si vorrebbe dare con certe iniziative di promozione turistica quali bacini sciistici, centri residenziali, porticcioli, eccetera. Ed è in ciò che sta l’errore di base perché, mentre nulla impedisce ad un centro turistico di adeguarsi sempre di più per soddisfare la richiesta di mercato, per un parco si finisce per creare attorno ai parchi o nei parchi stessi, tanti piccoli centri che producono economia, cosicché il parco divenga anch’esso una fonte di guadagno, di posti di lavoro, di soddisfazione turistico-ricreativa, eccetera; in buona fine, si viene a fare di un parco tutto l’opposto di quello che un parco dovrebbe divenire. Tutto ciò perché, si sono sempre confusi i due principi - quello conservativo e quello economico - mettendoli su un piano di parità, mentre il secondo dovrebbe essere solo subalterno. E, addirittura, per le forze politiche subalterno è finito per divenire il primo! E’ sufficiente leggere certi rapporti, articoli giornalistici, interviste a politici ed autorità, per comprendere come nella nascita di ogni nuovo parco la logica prima non è già di conservare un angolo di natura per motivazioni etiche, bensì di risolvere i problemi economici e occupazionali di una regione.

Ancora oggi questa logica domina in assoluto tra le forze politiche e tra quelle, ed è più grave, ambientaliste più politicizzate: parco uguale a risorsa economica per lo sviluppo di aree depresse. E’ un binomio consuetudinario. Ecco quindi parchi con territori enormi per tutelare aree di scarso valore; ecco quindi vincoli che non esistono o talmente “adattabili” da permettere ogni forma di intervento; ecco quindi che questo “male di non protezione” vengono a soffrire anche quelle parti centrali dei parchi che invece, uniche, meritavano il parco e la rigida tutela che un parco presuppone. Certo, inversamente facendo si sarebbe salvato, conservato, un territorio con vincoli severi su minore spazio: ma nella logica dei politici e politicanti non si sarebbero stanziati miliardi e miliardi per “valorizzare” il parco, per fare del parco un centro turistico e grande resa economica.

Parco come investimento, quindi, non già come garanzia di tutela di un qualcosa di bello, unico, o di valore scientifico a prescindere dal prezzo economico che potrebbe avere per la società o vi si potrebbe ricavare “valorizzandolo”............

Ci si continua a chiedere cosa debba rappresentare un’area protetta, quando questa domanda è quasi pleonastica tanto è semplice la risposta: ovvero, alla difesa di un luogo affinché non muti mai più nell’aspetto esteriore.

Si continua a legare strettamente la concezione di parco alla politica economica, i parchi come investimento, mentre i parchi sono e dovrebbero restare solo cultura e valori interiori in quanto dovrebbero sempre prescindere da quello che di economico potrebbero anche dare.

Ecco quindi e perché la logica del profitto legata ai parchi. I parchi che devono rendere. Così in questa logica, per farli rendere, si scende ai compromessi più deleteri se non per essi come istituzioni, almeno per i complessi ideologici che devono preservare, per la bellezza dei luoghi, per le aspettative dei visitatori più sensibili i quali vengono a perdere in qualità di sentimenti, di emotività, di gioia.

Una delle certezze degli ambientalisti è il non voler riconoscere che i parchi rappresentano dei sacrifici per chi li vive; che i parchi facciano paura agli abitanti locali per i vincoli che impongono. Ed è su questa certezza che poi viene basata la logica dei parchi legata al profitto. Ma è vero invece il contrario! E il problema va risolto non già istituendo dei parchi che non facciano paura (quello che si sta facendo da noi): perché sarebbero ( e sono) dei falsi parchi! Va risolto istituendo dei parchi coscienti del fatto che i parchi sono un lusso, se lo vogliamo dire con un brutto termine. Quindi è giusto che questo lusso lo paghi la società tutta facendo in modo che ciò non avvenga solo sulle spalle di chi li abita, di chi ne è “proprietario” per radici sociali.

Alla logica del profitto va opposta la logica che ovunque un parco arrechi un danno, un aggravio, questo danno e questo aggravio vanno pagati, indennizzati, operando quindi con una logica esattamente opposta a quella del profitto. Solo così i parchi potranno essere degli organismi democratici inseriti in un sistema democratico senza che perdano la loro funzione primaria.

Che un parco possa portare ricchezza a piccoli centri o a singoli individui od anche a nuclei famigliari è un dato assodato ed anche estremamente ovvio, ma non bisogna fare di questo fatto, o fatti, delle motivazioni con valori assoluti e ripetibili per giustificare l’istituzione di altri parchi, perché non potrà mai essere così per tutti i parchi, per tutti i centri dei parchi, per tutti gli abitanti dei parchi.

I parchi devono essere concepiti ed esistere come valori culturali, spirituali; se poi da tali valori ne sprigionano anche degli interessi tangibili, ma senza che li si debba prostituire a questo fine, allora ben vengano questi interessi: ma solo come si offre una mancia per un buon servizio, non per pagare il conto!

E’ illusorio ritenere che un parco possa “pagare il conto”, portare tanta ricchezza quanta ne porterebbe la stessa area lasciata allo sviluppo normale ed imprenditoriale del libero mercato. E’ questa la grande menzogna che accompagna la nascita dei nostri parchi; il male oscuro per cui si continua a lottare prima per istituire i parchi, poi per salvarli da questa logica della “valorizzazione”, del profitto, su cui vengono fondati.

Toccasana di questa logica è il turismo. Del turismo ebbe a dire lo scrittore francese Jean Mistler: “è quell’attività consistente nel trasportare persone che starebbero meglio a casa propria in luoghi che sarebbero migliori senza di loro”. C’è in questa frase la filosofia più profonda del perché di un parco che “rende” secondo la logica del profitto, finisce col non essere più quell’istituzione la cui finalità doveva essere la conservazione di un luogo, l’istaurazione di un qualcosa di per sé, divenendo invece solo un qualcosa al servizio del turismo e del sistema economico.

I parchi vanno invece prioritariamente istituiti per salvare, conservare un luogo.......”.

In alcune regioni italiane, paradossalmente, gli assessorati alle aree protette sono a volte associati al turismo e allo sport. Ciò la dice lunga! Inoltre, le regioni presentano le proprie aree protette non come realtà territoriali di vera e disinteressata conservazione della natura, ma piuttosto come aree destinate a “produrre” a “rendere” ad essere “utilizzate”. La “produttività dei parchi”, uno dei slogan che sta più a cuore degli amministratori, ma anche a buona parte degli ambientalisti, si realizza appieno con le guide regionali ai servizi e alla fruizione turistica. Le aree protette, infatti, vengono presentate secondo ciò che “offrono” di più umano possibile: aree attrezzate, centri visita, musei, sentieri autoguidati, percorsi ciclabili, percorsi ginnici, percorsi a cavallo, piste per sci di fondo, sentieri segnati, ecc. La logica è ancora una volta quella dell’ “uso” della natura, magari ricreativo, turistico, ma sempre dell’uso. Occorre però ricordare che la parola conservazione è sempre in contrasto con qualsiasi attività di massa dell’uomo. Un po’ di minimalismo non farebbe certo male alla società contemporanea. 

venerdì 27 dicembre 2019

La gestione delle aree protette

Wild Nahani




NB. Testo tratto dal libro "L'Uomo naturale".


“Per un controllo ed una supervisione morale a favore della natura sulle attività di gestione degli organismi che amministrano le aree protette; affinché i primari interessi della natura non debbano mai essere messi da parte o sminuiti per fare quelli dell’uomo” (punto 5 del Documento Programmatico dell’Associazione Italiana per la Wilderness).

Molti cittadini particolarmente sensibili alle sorti della natura traggono un respiro di sollievo quando apprendono che è stata istituita una nuova area protetta, in quanto pensano che nel futuro quell’area non correrà più alcun rischio. Questa convinzione è spesso smentita dai fatti, giacché accade purtroppo che aree divenute protette continuino a subire ferite e danni  ingenti. L’origine di questi danni non è sempre dovuta, come potrebbe pensarsi, a situazioni oggettive di varia natura, ma è a volte legata al modo stesso col quale le aree ancora selvagge sono gestite. Per questi motivi l’operato dei “manager” o degli enti governativi preposti alla gestione delle aree protette deve essere controllato alla stregua di qualsiasi attività che possa in qualche modo turbare l’ecosistema del territorio. I fatti che giustificano tali pessimistiche considerazioni si riferiscono a parchi nazionali gestiti  più in funzione del flusso turistico che in riferimento alle vere esigenze della protezione della natura; riserve ridotte a supporti di sperimentazioni biologiche; gravi alterazioni degli habitat di aree selvagge; ingiustificate costruzioni o ristrutturazioni di rifugi o di strutture analoghe; aree di picnic realizzate in zone di delicato valore naturalistico; apertura o ristrutturazione di strade di montagna motivate dal pretesto di realizzare in tal modo una migliore gestione o una più attiva sorveglianza; introduzione o reintroduzione forzata di animali non preceduta da preliminari approfondimenti tendenti ad appurare se la specie reintrodotta sia stata precedentemente presente in quell’habitat e per quali cause ne è poi scomparsa; taglio di boschi, passati per interventi di gestione naturalistica, e tagli  di gestione motivati da erronee ed empiriche consuetudini; insufficiente attività di sorveglianza da parte del personale preposto, ecc. Per non parlare poi dello spinoso problema delle strade montane e boschive che se ricadono nelle aree protette nella migliore delle ipotesi vengono chiuse da sbarre (con numerosi permessi di accesso), ma mai smantellate del tutto (leggasi ripristino ambientale). Infatti una pratica del genere non rientra nella logica dei “gestori” (nè tanto meno nella gente che ha una mentalità solo utilitaristica), e viene accanitamente avversata (ci sono ovviamente le dovute eccezioni). C’è sempre un motivo che ne giustifica la continuazione dell’esistenza. Chissà perché una strada montana, all’interno di un territorio protetto, non debba essere smantellata? Se si chiedono finanziamenti economici per ristrutturare o aggiungere qualcosa di umano in più nel territorio, in genere vengono sempre trovati, se invece, si volesse dar corso ad un’opera reale di ripristino ambientale, come potrebbe essere l’eliminazione di una strada, fondi e interessi scendono nell’oblio. Non accade mai che si dia vantaggio univoco al mondo naturale. Che dire allora di questi “gestori” della natura? Occorrerebbe anzitutto cambiare la loro “forma mentis” che non sa sottrarsi alla politica “del fare”, dell’introdurre, dell’avviare, del ristrutturare, del trasformare, tutto con una sorta di febbrile attivismo che non riesce a concepire che il “non fare”, e lasciare in molti casi che la natura si riequilibri anche da sé, come è avvenuto durante qualche milione di anni, è il miglior modo per salvare le aree selvagge di questo pianeta. Con ciò non si vuole asserire che tutti gli interventi siano errati, ma si intende comunque dire che la natura dell’intervento e la sua intensità debbono ispirarsi ad un reale principio di conservazione, rispettoso del ritmo e delle ragioni della natura (il ripristino ambientale in molti casi sarebbe estremamente utile per ridare un po’ di selvatichezza al mondo gravemente antropizzato). “Molti degli obiettivi della conservazione dell’habitat di altre specie, compatibili con l’uguaglianza biocentrica sono sintetizzati nell’espressione ‘Lascia vivere il fiume’, ove il ‘fiume’ è una più ampia definizione degli esseri viventi, e comprende non soltanto gli esseri umani o gli alberi che crescono lungo il fiume ma l’intero ecosistema dell’energia vivente. Un’altra possibilità in armonia con lo slogan di Naess ‘semplicità di mezzi, ricchezza di fini’ è ‘non fare’” (Devall & Sessions, 1989).

Il punto 5 del Documento Programmatico dell’Associazione Italiana per la Wilderness recita: "...... La gestione dei Parchi e delle aree protette in genere, è una cosa complessa. E’ noto come i motivi che portano e continuano a portare alla loro costituzione, non sono sempre stati, ed anzi, salvo in passato, si può dire quasi mai, quelli della protezione di valori naturali, ma piuttosto la cosiddetta “valorizzazione” di beni ambientali. Già questo termine ci dice quali e quante implicazioni di varia natura agiscono conseguentemente a danno proprio del valore ambientale che le aree dovrebbero tutelare, ed anche delle esigenze interiori dei visitatori più sensibili.

Le pressioni economiche e di sviluppo tecnologico ed urbano sono tali e tante che spesso le scelte degli amministratori, per comodità o per demagogia, tendono a mettere gli interessi della natura in secondo piano, proprio perché la natura non ha la possibilità di gridare le proprie esigenze, di farle prevalere, nè di protestare quando le si fa torto o la si lede nei suoi diritti.

La funzione di controlli morali su queste gestioni dovrebbe essere di tutte le associazioni protezionistiche, ma sappiamo bene come spesso questo controllo venga 'indirizzato' o addirittura evaso a seconda di chi gestisce le aree protette. Troppo spesso si è guardato e si guarda non al bene della natura ma al bene di chi la natura ha il compito di gestire, e appunto per questo motivo non si è sempre fatto l’interesse della natura......".

Secondo dettami logici la creazione di un’area protetta, parco o riserva che sia, dovrebbe essere motivata, come abbiamo appena visto, dalla conservazione reale di quel luogo e di tutta la vita che in esso prospera. Dopo aver rigidamente operato in tal senso, eventuali risvolti economici e sociali, che positivamente ricadono sulle comunità locali, interne o limitrofe all’area, possono essere accettati anche da una severa logica di tutela. Ma questo tipo di vantaggio deve essere un eventuale riflesso che la reale politica della conservazione porta con sé. Nella realtà invece, in tanti casi, si opera esattamente all’opposto: istituire un’area protetta significa in primo luogo “sviluppo”, “benessere”, “prosperità”, “turismo”, “produttività”, strutture e attività “ecocompatibili”, “immagine” e quanto altro. Poi, eventualmente, se ne rimangono le possibilità, si parlerà di tutela del territorio. Ma poiché questa tutela arriva alla fine, rimane ben poca cosa e, per la natura, i frutti da raccogliere quasi non ce ne sono. 

Ricordiamoci poi che soventemente le aree protette acquisicono cospicui finanziamenti per attuare serie di studi e di eventuali interventi di tutela sui loro territori (anche se, ad onor del vero, una buona parte dei cosiddetti studi sono solo dei paraventi per scoprire alla fine “l’acqua calda” perché i risultati finali utili ad una vera conservazione erano sempre stati già noti da tempo ma mai attuati, forse perché scomodi, o perché “necessitavano” di ulteriori studi per attingere a nuovi opulenti finanziamenti; evidentemente le “fonti” non erano mai sufficienti), ma, malgrado la “pioggia” di milioni, quasi mai, per fare un solo esempio, si è attuato un semplice quando efficace intervento: comprare, nel vero senso del termine, almeno ogni qual volta ciò sia possibile, territori da sottrarre ai vari danneggiamenti e porli sotto un rigido vincolo di conservazione che si ispiri ai dettami della wilderness dei luoghi (un esempio palese può essere quello per salvaguardare specie faunistiche a grave rischio di sopravvivenza o habiat peculiari che stanno per collassare).  

Dopo aver enumerato gli errori che molte volte emergono dalla gestione delle aree protette occorre porsi ora un interrogativo: a chi attribuire la paternità di tali errori? Certamente alla esasperata burocrazia, all’impreparazione, al disinteresse, alla malintesa concezione del prestigio, alla spasmodica applicazione della “scienza” al mondo naturale che spesso non arreca a quest’ultimo affatto beneficio perché dissipa energie, finanziamenti e tempo, o finanche all’estetismo ambientale ma, più che altro, all'accettazione pragmatistica delle ferree regole della politica economica e alla visione strettamente antropocentrica di tutto il mondo naturale. La gestione “umana” delle aree protette è infatti una conferma di quella visione “superficiale” di tutto l’atteggiamento mentale dell’uomo occidentale.

mercoledì 27 novembre 2019

Turismo e ambiente

Wild Nahani




NB. Testo tratto dal libro "L'Uomo naturale"


Un tempo era appannaggio di pochi intellettuali, di esploratori o di arditi avventurieri. Successivamente il fenomeno ha coinvolto, a partire dal Nord America, larghi strati della popolazione, contaminando pochi decenni dopo l’intero Occidente e finanche l’Oceania (Moretti, in Gamba & Martignitti, 1995).

L’avvento della piccola borghesia e l’aumento delle disponibilità finanziarie facilita la necessità di crearsi un periodo di svago anche grazie alle ferie retribuite. Divenendo fenomeno di massa crea subito un grave impatto ambientale (diretto e indiretto con la costruzione di seconde case, residence, ecc.). Se nella fase iniziale le località prese d’assalto erano relegate in zone non molto distanti da dove si viveva, successivamente, grazie al potenziamento dei mezzi di trasporto e all’organizzazione dei viaggi, un numero crescente di persone si sposta in ogni luogo del pianeta, attratti dai richiami, culturali, naturalistici, ricreativi (Moretti, in Gamba & Martignitti, 1995). Anche le zone del Terzo Mondo subiscono l’invasione e la conseguente costruzione irrazionale e selvaggia delle strutture di ricezione. Da un fenomeno locale e relativamente ristretto, si è passato ad uno ampio e di massa per approdare ancora oltre con il turismo internazionale.

Per contrapporsi al dilagare del turismo consumistico, nasce il cosiddetto “ecoturismo”: il viaggio a misura di natura (sic!). Regole di base sono: fine educativo, non alterazione degli habitat frequentati, introito economico per le popolazioni locali in alternativa ad attività di sfruttamento della natura. Ma l’ecoturismo ha in sé il germe della distruzione ambientale: la massa. Divenuto infatti fenomeno di massa, rappresenta paradossalmente un pericolo preoccupante per gli habitat naturali. Milioni di “ecoturisti” che solcano i sentieri delle Alpi, dei parchi nazionali e delle riserve o che setacciano le foreste tropicali, le vette nepalesi o le coste australiane. Il turismo “verde”, proprio per immergersi nei luoghi più belli, prende spesso a riferimento le aree protette causando in quei luoghi un impatto estremamente negativo. L’ecoturismo allora assume, come il turismo classico, una forma devastante e incontrollabile. Scrisse J. Muir (1995) con grande profondità di spirito: “Pare strano che i turisti in visita a Yosemite siano così poco commossi da tanta inusitata grandiosità, quasi avessero gli occhi bendati e le orecchie tappate. La maggior parte di quelli che ho incontrato ieri guardavano come chi è del tutto inconsapevole di ciò che gli accade intorno, mentre le rocce stesse nella loro sublime bellezza fremevano agli accenti della vita possente congregazione di acque sonanti che scendono dai monti e qui si raccolgono con musiche che potrebbero cavare gli angeli dal paradiso”.

Allo stato attuale delle cose, il turismo di massa rappresenta una delle forme a maggior impatto ambientale (si pensi, per esempio, alla pratica dello sci). E’ una pura illusione credere di poterlo contenere entro certi limiti. Il turismo una volta esploso è inarrestabile e si comporta come un cancro. Avviene dunque la prostituzione della natura “venduta” al turismo “ecocompatibile” con la scusa che ciò è il prezzo da pagare per “tutelare” un luogo (il mercato dell’ecologia). Ma ci chiediamo: da chi lo tuteliamo se lo vendiamo ad attività che essendo di massa compatibili non sono affatto? “Solamente l’andare da soli, nel silenzio, senza bagaglio, permette di entrare davvero nella natura selvaggia. Tutti gli altri viaggi non sono che polvere, hotel, valigie e chiacchiere” (J. Muir). Queste profonde e semplici parole di J. Muir ci ricordano quali potrebbero essere le qualità di un turismo e di un turista oculato: la discrezione, la spiritualità, la semplicità, il senso del luogo, la riflessione. Se a queste qualità individuali sommiamo il non addomesticamento dei luoghi  inevitabilmente si determinerà una bassissima densità di visitatori ed una altissima qualità del “viaggio”. Tra l’altro, occorre ricordare, ciò che non è espressamente attrezzato, favorito e pubblicizzato non causa fenomeni di massa.

Aldo Leopold  comprese subito il grande pericolo del turismo di massa e dello sviluppo tecnologico quando scrisse (1949-1997) che: “Lo svago divenne un problema preciso ai tempi del primo dei Roosvelt, quando le linee ferroviarie, che avevano escluso la campagna dalla città, cominciarono a trasportare masse di cittadini nelle campagne. Ci si accorse che più gente ci andava più piccola diventava la possibilità individuale di godere di pace, solitudine, natura e bei panorami, e sempre più lungo il tragitto necessario.

L’automobile ha esteso questa spiacevole situazione, in precedenza di lieve entità e a carattere locale, fino ai limiti estremi delle strade praticabili, rendendo scarso qualcosa che prima abbondava. Ma questo qualcosa si deve comunque trovare, e allora, come ioni proiettati dal sole, i turisti della domenica si irradiano da ogni città, generando calore e attrito ogni fine settimana. L’industria del turismo fornisce vitto e alloggio per attrarre sempre più ioni, sempre più in fretta e sempre più lontano..... Le imprese costruiscono strade nell’entroterra, quindi acquistano altre terre per assorbire il flusso vacanziero, accelerato dalle strade appena costruite. L’industria dell’accessorio spiana la strada verso la natura vergine; la conoscenza dei boschi diventa l’arte di usare tutti i vari arnesi disponibili........ per chi cerca qualcosa di più, questo genere di svago all’aria aperta è diventato un processo autodistruttivo, in cui si cerca senza mai veramente trovare alcunché: una delle grandi frustrazioni della società meccanizzata”.

martedì 29 ottobre 2019

La grave minaccia del turismo

Wild Nahani


Illustrazione di Elzbieta Mielczarek


NB. Testo tratto dal libro "L'Uomo naturale"


Sappiamo che le aggressioni patite dalla natura hanno avuto le più svariate origini, tra cui quelle legate alle attività industriali, alla cementificazione, al disboscamento, alla crescita demografica.

Ma a queste forze negative s’è aggiunta in questi ultimi anni, come abbiamo appena visto, l’azione distruttiva esplicata dal turismo di massa, sia tramite le sue infrastrutture dirette che per mezzo di quelle indotte. Si tratta di una invasione senza precedenti che non ha risparmiato nessuna parte del pianeta, con punte  che si concentrano ovviamente nelle località più accessibili e spesso in quelle più ricche di fascino paesaggistico. Ma, troviamo turisti dappertutto: nell’Artico per fotografare gli orsi bianchi standosene comodamente seduti in un pullman, nelle isole del Pacifico, in Alaska, nelle riserve, nei parchi nazionali. Le coste, specie quelle italiane, sono state cementificate e assalite per far posto ad alberghi, ville, spiagge attrezzate,  cancellando in tal modo ogni traccia di ambiente  incontaminato, com’è accaduto, ad esempio, in molte località della Sardegna. Poi è arrivato il turismo montano con l’esplosione dell’escursionismo che invade anche i punti più reconditi della montagna, privandola in tal modo della tranquillità che è il suo precipuo attributo. Oltre a frequentare i sentieri segnati che conducono un po’ dappertutto, le masse degli escursionisti perlustrano ogni luogo, spesso comportandosi in maniera incivile (schiamazzi, abbandono di rifiuti, accensione di fuochi, campeggio in luoghi non consentiti). In Italia il fenomeno è talmente diffuso da far temere della sorte degli equilibri della montagna, soprattutto per quanto concerne le Alpi; basti pensare che nei mesi di punta alcune ascensioni devono essere effettuate in fila indiana (occorre ricordare che le Alpi, nella loro interezza, vengono visitate ogni anno da oltre 100 milioni di turisti a fronte di una popolazione residente di 12 milioni). Gli escursionisti, questa vasta schiera di moderni trovatori che non insegue rime di poesie provenzali, ma sogna la conquista di cime appenniniche o alpestri che immortala poi in innumerevoli foto, veri cimeli da mostrare orgogliosamente agli amici. Infatti l’aver raggiunto una cima, o una remota valle, o un lago montano è impresa che l’escursionista celebra con accenti di vittoria, quando invece il suo animo rimane spesso quasi del tutto sordo al lirismo dei paesaggi che man mano si schiudono, nè riesce a percepire la bellezza delle tenui luci del sottobosco, o del sommesso mormorio dei torrenti, o del vellutato e misterioso canto del cuculo (vigono le dovute e corpose eccezioni). Per non parlare poi del disinteresse e della non percezione verso gli aspetti negativi inflitti dall’uomo sui territori che l’attivo escursionista sta attraversando (snaturamento dei luoghi, impatto delle strutture presenti in natura, rifugi, ecc.). Anzi, se un luogo non è ben “umanizzato” (p.e. con cartelli indicatori ben evidenti, sentieri chiari e battuti, ecc.) sente il dovere di lamentarsi e di definire quell’ambiente del tutto “abbandonato” o male “gestito”.  Che dire poi dell’alpinista tutto teso alla “conquista” di una parete rocciosa? In questo caso l’ambizione non si appaga di una foto ricordo, ma mira a cose molto più alte, come possono essere la risonanza nazionale o mondiale del “record”, o una fruttuosa sponsorizzazione, o anche i diritti di autore derivanti da un’improvvisa folgorazione letteraria. Si aggiunga poi che lo stesso alpinismo ha ormai perso quella dimensione genuina che lo distingueva negli anni passati, tanto da trasformarlo, come detto, in una sorta di competizione a suon di record e di ritorno di immagine. Nascono e si sviluppano così i rifugi di montagna (legati ovviamente anche all’escursionismo), vie ferrate, palestre di roccia, ecc. Scrive Malatesta (1997): “La sublimazione della montagna, processo inevitabile e che fa parte del suo fascino, esaltando la forza perenne e il potere ritenuto indomabile della natura, ha fatto dimenticare la fragilità del suo ecosistema e di come sia abbastanza facile annientare il ‘richiamo’, al di là di una retorica a volte insopportabile. Spiega bene Carlo Alberto Pinelli, orientalista, documentarista e coordinatore internazionale di Mountain Wilderness, che la cultura della montagna non precede, ma segue la cultura della società in cui è immersa. Gli alpinisti erano romantici in epoca romantica, nazionalisti nel più acceso periodo nazionalistico e ora sono diventati consumistici. Si commuovono davanti alla bellezza della natura incontaminata, ma in realtà sono legati al mondo da cui vogliono fuggire, trascinandosi dietro i suoi vizi peggiori: una competizione eccessiva e nevrotica, l’aggressività, l’uso della montagna come pretesto per dubbie ambizioni. E l’ambiente come nemico da conquistare”.

Per non parlare poi dello sci-alpinismo che arreca per parte sua un notevolissimo disturbo alla fauna durante il delicato periodo invernale e dello sci di discesa che, enormemente facilitato dagli impianti di risalita (in Italia oltre 3.000 chilometri di funivie), nonché da tutte le strutture annesse (alberghi, punti ristoro, ecc.) sta letteralmente devastando le montagne, tanto più se si pensa che in questi ultimi tempi si è arrivato a portare gli sciatori in quota con gli elicotteri (elisky)! Notevole disturbo arreca anche lo sci-escursionismo e lo sci di fondo perché sono divenuti fenomeni di massa che concentrano un gran numero di persone nelle montagne. Altri “devastatori” della montagna sono i ciclisti muniti delle mountain-bike, divenuti in pochi anni un vero flagello. Si pensi che negli Stati Uniti, dove queste biciclette sono nate, si è arrivato al punto di  proibirne il transito in molte località  di montagna. Negli ultimi anni si va sempre più diffondendo la pratica del volo a vela con gli alianti che spesso frequentano proprio i territori vitali dei rapaci o sorvolano a bassa quota aree protette apportando gravi disturbi alla fauna. Al volo a vela va aggiunto la pratica del deltaplano e del sempre più diffuso parapendio. Analoga manomissione registrano gli ambienti costieri e tutte le zone dei laghi mortificate da impietose colate di cemento e invase da fiumane di turisti e vacanzieri. Nelle coste così devastate dove potrà più trovare rifugio l’aquila di mare o il falco pescatore? Non dimentichiamo poi lo sfruttamento degli animali per fini turistici e pubblicitari. Animali sfruttati, ridotti a macchine per gli illusori vantaggi del momento. Animali “usati” e “ammaestrati” per il dubbio divertimento dell’uomo (che poi portano solo vantaggi economici a chi pratica tali attività. Si pensi agli acquari con delfini, orche ed altro, agli animali nei circhi, agli animali negli zoo-lager, ecc.). Infine è opportuno ricordare l’attività sempre più diffusa esplicata da fotografi e cineasti "naturalisti" che spesse volte è fonte di notevole turbamento per la vita degli animali selvatici soprattutto durante il periodo riproduttivo. Con gli esempi ci fermiamo qui.

Scrive F. Zunino (1995): “Non si gridi, quindi, allo scandalo o all’oppressione delle minoranze ogni qualvolta si prendono provvedimenti a difesa della Natura ledendo quelli che sono solo supposti diritti. Non si additi sempre il danneggiatore più “grosso”, da colpire prima di loro, ripetendosi di categoria in categoria, perché per ognuno sono sempre ‘gli altri’ il vero pericolo, quelli da colpire: come gli evasori fiscali!

In Italia è permesso scalare praticamente ovunque, andare in mountain bike praticamente ovunque, sciare su neve, pascoli e ghiaioni praticamente ovunque, discendere fiumi e risalire canaloni praticamente ovunque, scalare cascate di ghiaccio praticamente ovunque: tutte nuove ‘arti’ di uso della Natura: ma è sufficiente che si metta un solo divieto a queste attività perché tutti strillino alla lesa maestà delle loro categorie; non uno che si faccia un esame di coscienza. Invece non dovremmo mai dimenticare che l’uso ricreativo della natura resta comunque quello più avulso e falso nel contesto ambientale, che più nulla ha dell’antico sano rapporto d’equilibrio. Per assurdo, in fondo, il più giusto rapporto con la natura è quello di rinunciare a viverla! E proprio perché questo assurdo non debba finire per diventare l’unica regola per salvaguardarla, dobbiamo porci dei limiti e accettare delle regole”. (N.B. Lo scritto di Zunino è stato inserito in questo paragrafo per integrare meglio il discorso fatto sulla problematica turistica, ma il significato del testo può senz’altro essere valido per tutte le altre attività dell’uomo come quelle del lavoro, del cosiddetto “sviluppo” e in genere dello stile di vita di ognuno di noi).

“E’ chiaro, e non servono ulteriori spiegazioni, che l’utilizzo di massa diminuisce in maniera diretta le possibilità di solitudine e che quando si intendono i luoghi per campeggio, i sentieri e i gabinetti come altrettanti elementi di ‘sviluppo’ delle risorse inerenti alle attività di diporto, si afferma qualcosa di falso. Queste facilitazioni per le folle, infatti, non sono assolutamente un fattore di sviluppo, nel senso di arricchimento o crescita ma, al contrario, sono solo acqua aggiunta a una minestra già insapore” (A. Leopold, 1949-1997).

Per concludere osserviamo che sarebbe necessario sensibilizzare l’opinione pubblica in ordine agli effetti devastanti esercitati dal turismo di massa, affinché si pongano allo studio ipotesi di salvaguardia dell’ambiente naturale, ma occorre purtroppo convincersi che i grandi vantaggi economici apportati dal turismo di massa rappresentano un ostacolo insormontabile. “L’andar soli offre un doppio vantaggio: il primo di essere con se stessi, il secondo di non essere con gli altri” (A. Shopenhauer).

domenica 29 settembre 2019

Il mercato dell’ecologia

Wild Nahani


Ghiottone



NB. Testo tratto dal libro "L'Uomo naturale"


“Dedica mezz’ora al giorno a pensare al contrario di come stanno pensando i tuoi colleghi” (A. Einstein).

Oggi tutto è in vendita e tutto è venduto. Il mercato, parola sacra della civiltà occidentale è il pane quotidiano di tutte le forze governanti. La mercificazione della natura, al pari di quella sociale, sta di conseguenza raggiungendo livelli spaventosi. Le tematiche ambientali sono continuamente subordinate al mercato e questo non solo per il volere degli economisti, ma anche per buona parte del mondo ambientalista che si è ormai arreso palesemente alla combinata natura-sviluppo-mercato (la produttività dei parchi ne è il più chiaro esempio). E’ un atteggiamento estremamente negativo che solo le forze ambientali più radicali, profonde e scevre dalla politica stanno combattendo, mentre “gli ecologisti” di maniera, dell’opportunità della “poltrona”, vogliono ulteriormente sviluppare. La natura “immagine” o meglio la natura “spettacolo” viene venduta quotidianamente da una operazione sagacemente pianificata. In tal senso agiscono non più i singoli operatori di settore, ma riviste altamente accreditate, quotidiani, intere Regioni, associazioni ambientaliste, forze politiche, gestori di aree protette (i direttori dei parchi sembrano più dei “manager aziendali” che operatori di questioni naturalistiche), ecc. Se prima la natura veniva venduta per i suoi “prodotti”, ora, oltre che per questi, viene venduta anche per la sua immagine.

Dicono che ormai la natura si può tutelare solo se garantisce “sviluppo”, solo se il tornaconto sia economico e di immagine (l’ecoturismo di massa ormai lo conosciamo tutti). Per il resto, la vera conservazione di un orso, di un lupo o di un paesaggio, non importa quasi più, perché è ben altro ciò che “rende”. In ogni caso un’aquila vale per l’immagine che offre, non per il suo valore in sé. Il mercato dell’ecologia è il colpo di grazia ad una natura ormai da tempo agonizzante e morente. Se da certe forze ci si aspettava almeno un piccolo contributo, ciò è venuto meno e lo sconforto non può che assalire chi ancora crede nella purezza degli intenti e nel valore in sé delle cose. E’ giunto il momento di smascherare una situazione che, se agli economisti o agli arrivisti della società occidentale capitalistica sta molto bene, non può essere accettata da chi vuole ancora sperare in un futuro non dominato da un uomo tecnologico/economico che vede solo nei propri interessi personali o di gruppo l’unica realtà di questa terra. Il silenzio, sulla questione trattata, è ormai diffuso e quasi nessuno ha il coraggio di opporsi a questo strisciante modo di pensare e di fare. Ci sono però delle eccezioni, anche autorevoli, ed è piacevole, per chi ancora crede in una natura che ha un proprio valore, nel riportare il passo che segue, scritto da un convinto e profondo ambientalista. Eccone un breve quanto significativo stralcio: “Ormai stiamo arrivando al mercato dell’ecologia. E bisogna pure che qualcuno inizi a dirlo..... In pochi anni tutta la valenza ‘rivoluzionaria’ del valore-ambiente è stata perfettamente e tranquillamente inglobata dal valore-mercato attraverso il passaggio dello ‘sviluppo sostenibile’. In altri termini, questa nostra società mediatica, strutturata per formare consumatori (e consenso) in batteria, con una sapiente e veloce operazione sociale e politica, ha ridotto l’ambiente, da valore fondamentale, a sé stante e alternativo, a semplice e innocua patina con cui rafforzare i valori dell’economia di mercato. Ormai, l’ambiente non conta più di per sé ma solo se e in quanto crea occupazione, fa crescere i consumi (e il mercato), aumenta il dio PIL: così come si conviene quando c’è un governo di ‘risanamento economico’.

Il fatto più preoccupante è che questa operazione è stata, ed è, avallata anche da una parte del mondo ambientalista, la quale, per timore di diventare ‘marginale’ in una società incentrata sul valore-mercato, ha adottato la ‘tattica’ di ‘coniugare’ e ‘contaminare’ l’ambiente con i valori economici dominanti; fatto del tutto scontato nell’ambientalismo italiano, mai affetto da fondamentalismo, e da sempre attento al binomio economia-ecologia.......

Siamo passati, insomma, ‘dallo sviluppo sostenibile’ all’ecologia di mercato e stiamo rapidamente arrivando al mercato dell’ecologia......

Ed allora, per evitare equivoci, sarà meglio premettere con chiarezza, ogni volta, che noi difendiamo e continueremo a difendere l’ambiente di per sé, e non perché è funzionale ai ‘valori’ di mercato” (Amendola, 1997).

Per quanto attiene specificatamente alle aree protette occorre ricordare (considerazione più volte espressa in questo lavoro) che purtroppo i “manager” che gestiscono le aree protette o spesso gli enti regionali e governativi, non si curano affatto, salvo sporadiche eccezioni, di attuare realmente e concretamente una seria politica ambientale che tuteli in primis le esigenze della natura in generale. Oggi nelle aree protette di molti distretti europei si parla sempre più della loro resa economica (“la produttività economica dei parchi”), della loro immagine turistica (l’ecoturismo!), delle loro potenzialità di accogliere al meglio i visitatori, ma quasi mai, in senso reale e pratico, del loro status selvaggio e dei reali interessi della fauna. Questo modo di fare, per quanto attiene a specie a rischio, sta indirettamente e definitivamente compromettendo la loro esistenza. Se l’operato di un bracconiere viene giustamente additato come fatto gravissimo e negativo, il pernicioso e subdolo operato degli enti preposti al governo dei territori protetti, passa del tutto inosservato, anzi spesse volte l’opinione pubblica ignara delle reali situazioni, plaude loro inconsapevolmente. Conclude ironicamente Zunino in un suo articolo sulla “conservazione attiva” nella logica del parco produce: “..... Sembra che oggi la natura si possa salvare e proteggere anche in questo modo nuovo e moderno di fare conservazione, affinché possa in primo luogo produrre comunque danaro sonante!”. 

giovedì 29 agosto 2019

Il naturalista/biologo contemporaneo

Wild Nahani





NB. Testo tratto dal libro "L'uomo naturale"


“Che ti move, o omo, ad abbandonare le tue proprie abitazioni delle città, e a lasciare li parenti ed amici, ed andare in lochi campestri per monti e valli, se non la naturale bellezza del mondo ?...” (Leonardo da Vinci).

Il naturalista “spirituale” e “profondo” si volge ad osservare la natura con lo stupore che pervade chi si appresta ad ascoltare con umiltà di spirito e di intelletto il misterioso concerto col quale l’universo scandisce la propria dialettica. L’attenzione di quel ricercatore non si dirige ad uno specifico fenomeno naturale, ma si interessa della natura nella sua totalità, si arricchisce del suo fascino e ne ricava a volte intuizioni tali, da far compiere un salto di qualità alla ricerca scientifica.

Del tutto diversi sono gli interessi reali del naturalista superficiale che soggiace ad una sorta di esasperazione delle categorie aristoteliche, ossia ad una specializzazione portata alle sue estreme espressioni, in ciò assecondato dallo straordinario sviluppo tecnologico; accade così che egli si trasformi, in molti casi, in una specie di “computer” ambulante, che raramente si allontana dall’Università o da altri laboratori per effettuare l’osservazione sul campo e, quando vi si piega, non vede l’ora di ritornare tra le fidate mura dei gabinetti scientifici per “scaricare” nel computer i dati frettolosamente raccolti (vigono le dovute eccezioni). “La mente moderna divide, specializza, pensa per categorie....” (Adorno et. alii., 1991), oppure, citando Thomas Kuhn, “la scienza normale è un tentativo strenuo e determinato di costringere la natura nelle caselle concettuali fornite dall’istruzione professionale”.

Questo declassare la natura da categoria dell’universo a mero strumento di competizione utilitaristica, riguarda quindi la cosiddetta “ricerca” scientifica? Certo, qui la riflessione deve farsi più attenta e circospetta, giacché la ricerca è materia che incute un timore reverenziale, quasi che la sua carica esoterica sia pari a quella che circondava l’antica alchimia. È vero, si rimane ammirati innanzi al paziente metodo del botanico o dello zoologo, che tutto annotano, ordinano, sperimentano e - alla fine - catalogano con estremo rigore. E che dire dei mostri in camice bianco che “torturano” nei laboratori di tutto il mondo milioni di animali sia per ricerche medico-farmaceutiche che per studi etologici (p.e. le ricerche sul comportamento degli scimpazè in gabbia ridotti a vere e proprie macchine). Da questa attività i solerti “ricercatori” trarranno senza dubbio un accresciuto prestigio accademico e una grande notorietà all’interno dell’opinione pubblica, ma è tuttavia lecito chiedersi se, al di là della speranza di conseguire questi ambiti riconoscimenti, essi siano stati mossi anche dal rispetto per la natura, che è un rispetto del tutto indifferente alla fama e al prestigio. Rispetto per la natura significa anche “sentire” che l’esemplare di orso, poco prima osservato e catalogato, non è soltanto un’entità da racchiudere nell’elaborazione di dati statistici, ma è una creatura che deve essere riconosciuta ed ammirata per quello che essa è, e per quello che essa rappresenta all’interno del mirabile ordine/disordine universale.

Scrive Brian Martin (1993): “Gli esperti scientifici sono i nuovi santoni della società moderna. Sentenziano su qualunque argomento con la massima delle autorità, quella scientifica. Criticarne l’opinione è eresia.

Eppure si può fare. Anche gli esperti sono vulnerabili, in molti modi. I loro dati possono essere messi in discussione e anche le ipotesi su cui si basano. Si può contestare la loro credibilità e anche la loro competenza in quanto tale. I loro punti deboli possono essere svelati e sfruttati senza pietà........

Gli anarchici sono contrari ad ogni sistema in cui un ristretto numero di persone domina sugli altri. A loro modo di vedere, le decisioni andrebbero prese direttamente dalla gente, sulla base di un dialogo libero e aperto. Il sapere è importante, ma dovrebbe essere un sapere accessibile e utilizzabile da parte di tutti. Oggi, invece, la ‘competenza’ è tanto specialistica ed esoterica da essere utile soltanto agli esperti e ai loro datori di lavoro....... Una società egualitaria e partecipativa darebbe certo un alto valore alla conoscenza, ma la renderebbe disponibile a tutti e non esclusivo appannaggio delle elite..... Eppure è raro che il ruolo degli esperti venga messo in discussione in quanto tale...... E’ tempo invece di incoraggiare la gente a pensare con la propria testa invece di affidarsi continuamente a qualcun’altro”.

“L’esperto è colui che sa moltissimo su pochissimo” (N. M. Butler).

Giova qui ricordare il pensiero e la vita pratica di un biologo canadese, Sam Miller, che si occupava di ricerche sugli orsi e su altre specie animali il cui “habitat” ricadeva nello sterminato territorio del Canada. Giorno dopo giorno egli si rendeva conto che la sua “forma mentis” era sempre più “imbrigliata” dalla ricerca pura e astratta che lo costringeva a trascorrere la maggior parte del tempo dinanzi al computer per elaborare dati ed a riempire tabelle. Un giorno, all’improvviso, disse basta, lasciò tutto e si rifugiò nella tundra canadese, poco oltre le grandi foreste di conifere. Lì oggi vive in un piccolo chalet dove ospita, come una sorta di albergatore sui generis, quelli che vogliono trascorrere in quei luoghi giorni indimenticabili; in questo modo egli si guadagna da vivere e può girovagare in quella natura selvaggia munito del binocolo e di taccuino per gli appunti, alla stregua di un naturalista spensierato che, quasi con l’animo di un fanciullo, si entusiasma dinanzi ai meravigliosi scenari della natura (vedasi ad esempio John Muir o Sigurd Olson). 

Il naturalista che oggi indaga nella natura come fa Sam Miller è al di fuori della competizione scientifica, al di fuori delle carriere universitarie o dei riconoscimenti di prestigio, né può intervenire in convegni altolocati dove si discutono le relazioni dei “sapienti”, giacché un naturalista di tal genere è certamente “fuori mercato” ed è perciò irriso dalla confraternita dei ricercatori. “L’indiano che riesce perfettamente a trovare la sua strada nel bosco, è dotato di un’intelligenza di cui l’uomo bianco non dispone. Osservarla aumenta la mia capacità, e così pure la mia fede. Mi rallegro di scoprire che l’intelligenza scorre in canali diversi da quelli che conosco” (H. D. Thoreau - in AA. VV., 1995).

Si è voluto citare l’esperienza di Sam Miller poiché essa non proviene, come qualcuno potrebbe pensare, da un naturalista frustrato nelle sue ambizioni, e perciò critico del sistema, ma è un’indicazione, anzi è un merito che si leva ad alta voce da un naturalista che poteva primeggiare nel “sistema”, se lo avesse voluto. Col seguente pensiero di H. D. Thoreau sembra completarsi il ritratto di Sam Miller:”Lo studioso che ha solamente armi letterarie è incompleto. Deve essere un uomo spirituale. Deve essere preparato al cattivo tempo, alla povertà, all’offesa, alla stanchezza, alla dichiarazione di fallimento, a molte altre contrarietà. Dovrebbe avere tanti talenti quanti più può” (23 giugno 1845). Sempre facendo riferimento a Thoreau, Worster scrive (1994): “I fatti dovevano diventare esperienze per l’uomo nella sua interezza, non mere astrazioni in una mente scissa dal corpo, e il naturalista doveva immergersi completamente negli odori e nelle trame della realtà percepibile..... ‘Giri senza meta con un impermeabile, bagnato fino alle gambe, ti siedi sulle rocce coperte di muschio e sui ceppi ad ascoltare il verso delle rondini migratrici che volteggiano tra le querce.... a casa nonostante tu sia all’aperto, comodo nonostante tu sia bagnato, affondando ad ogni passo nella terra in disgelo’”.

Essere preparati al cattivo tempo, alla povertà, alla stanchezza dice il Thoreau, e - si potrebbe soggiungere - essere preparati ai pericoli e alla drammaticità della solitudine, come lo erano gli uomini primitivi che, col vivere secondo le leggi naturali, acquisivano la perfetta conoscenza del loro ambiente.

Scrive G. Celli a proposito del naturalista Bernd Heinrich (riferendosi alla sua opera “Corvi d’Inverno, 1992) ".... il buon Heinrich non è uno psicologo, proclive ai congegni tecnologici e al laboratorio, è un naturalista, e pensa che l'occhio, a presa diretta con il cervello, e quindi con il giudizio, resti ancora uno strumento organico insostituibile per cogliere le peculiarietà del comportamento animale........ un conto è osservare l'animale dal vivo, e un conto sul video. In questo secondo caso, mancano gli odori del bosco, il rumore del vento tra gli alberi, la meravigliosa liquidità del cielo d'inverno, quel paesaggio vivente che respira attorno all'animale nel bersaglio. Del cannocchiale, si capisce!...".

Su queste considerazioni dovrebbe meditare il naturalista di oggi, onde riappropriarsi delle ragioni della natura che sono ben lontane dalle ragioni del successo cattedratico, e ancor più lontane "dall'accanimento dell’indagine”, oggi di moda (radiocollari, catture continue per studi fisiologici, ecc.), che non solo disturba gli animali che ne sono oggetto, ma li danneggia ed invade per di più quella che potrebbe essere definita la “privacy fisiologica” dei poveri inquisiti, e tutto con il principale intento di fare uno “scoop” che abbia risonanza in una pubblicazione scientifica di prestigio. Il naturalista, invece, potrebbe svolgere un ruolo importante nella divulgazione del concetto del valore in sé della natura e quindi della sua reale conservazione. Scrisse Adolph Murie (in Heacox, 1991), studioso dei lupi dell’Alaska: “Ricordo la prima impronta di orso che vidi in vita mia...... Tutto ciò che vedemmo fu un’impronta in una pozzanghera di fango. Ma l’impronta era un simbolo, ancora più poetico che il vedere lo stesso orso - un approccio delicato e profondo allo spirito dell’Alaska selvaggia. In qualunque momento l’impronta di un orso può creare un’emozione più forte che il vedere l’orso stesso, perché viene chiamata in gioco l’immaginazione. Ti metti a osservare accuratamente il paesaggio, aspettando di vederlo comparire a ogni momento, mentre l’attenzione si affina e si rinvigorisce. L’orso è da qualche parte e può essere dovunque. La zona si è improvvisamente vivificata, ha acquisito una qualità nuova e più ricca”.

Ma come si è già notato, il ricercatore dei nostri giorni, fatte le dovute eccezioni, non ama eccessivamente le “uscite sul campo” ma predilige riferirsi più spesso alle esperienze maturate da altri, che a loro volta si abbeverano ad altre fonti, sì che sia gli uni che gli altri si giovano di una quantità di dati che, opportunamente elaborati, vanno a formare relazioni o pubblicazioni che si impongono alla generale attenzione per la loro voluminosità. Lo sviluppo della specializzazione scientifica ha portato ad una sorta di “sordità specialistica” (Boulding in Pignatti 1994), cioè all’incapacità di percepire i caratteri generali di un sistema a causa della concentrazione ossessiva dell’attenzione sui particolari (Pignatti, 1994). La nozione olistica di paesaggio tende invece a superare questa particolare “sordità” ricercando una rappresentazione globale del sistema (Pignatti, 1994). L’etnologo ed esploratore norvegese Thor Heyerdahl (Del Re, 1997) ci ricorda che “presto ci renderemo conto che per salvarci dovremo collaborare e cominciare a capire il mondo nel quale viviamo. Servirà un atteggiamento più interdisciplinare, quasi ecumenico. Servirà più coordinamento tra le varie discipline scientifiche, ma anche tra la biologia e la teologia, tra la fisica e la filosofia. Perché chi è un’autorità in un campo specifico di solito è il più ignorante al di fuori di quel campo”. Completa il discorso Rocco Guy  Jaconis (1992): “Quando era un laureando in biologia della selvaggina alla Cornell University, nella mia mente avevo organizzato il mondo naturale in tanti piccoli compartimenti. Trentacinque anni di esperienza nella natura e nell’insegnamento, mi hanno fatto invece comprendere che c’è una sottile, travolgente, comprensione la quale non è divisibile in compartimenti, e che è parte della conoscenza quotidiana delle genti primitive, in tutto il mondo”.

La natura, in tutte le sue manifestazioni, non è un laboratorio “scientifico”, tecnico, categorico ed asettico. Un membro di una comunità selvaggia non conosce l’ambiente circostante secondo un approccio “razionale e scientifico”, ma secondo un dettame istintivo e “mentale”. Ora noi, nel nostro pensiero contemporaneo, riduciamo i fenomeni naturali alla pura sfera scientifica, archiviandoli come concetti che hanno significato solo se analizzati e sezionati da questo punto di vista (leggasi razionalismo cartesiano). Occorre invece “sentire” diversamente le cose, e porsi nella natura con una visione spontanea, intuitiva ed olistica. La scienza naturale, invece, deve essere concepita esclusivamente come il “prodotto” successivo di una visione filosofica e spirituale della conoscenza. “Il primato del ‘razionale’ sull’’emotivo’ e sull’’intuitivo’ è solo un pregiudizio della cultura occidentale odierna” (Dalla Casa, 1996).

L’analisi ecologica che ne deriva deve muoversi in “profondità” senza fini “antropici” anche solamente sottintesi, e deve approdare ad una visione transpersonale e non egocentrica (leggasi ecologia profonda). Il naturalista “profondo” deve quindi riconoscere il valore intrinseco della natura e deve imparare a non definirla, poiché, come detto, “il Tao definito non è l’eterno Tao” (Lao Tse).

Worster (1994) evidenzia bene la visione “stretta” dello scienziato: “La delusione di Leopold per il paesaggio troppo artificiale influenzava anche la sua fede nella scienza; egli era giunto a pensare che la capacità di percezione dei ricercatori accademici fosse troppo limitata per cogliere la completezza della natura, fattore essenziale per realizzare una protezione ambientale a vasto raggio. Uno dei saggi di Sand County Almanac dal titolo Storia naturale - La scienza dimenticata, rappresenta un appello al ritorno all’educazione all’aperto, olistica, ad uno stile scientifico aperto ai dilettanti e agli amanti saggi della natura , più sensibile al ‘piacere di essere immerso in una natura selvaggia’. Nei laboratori e nelle università si insegnava che ‘la scienza è al servizio del progresso’; essa faceva lega con la mentalità tecnologica che regimentava il mondo inseguendo il progresso materiale e doveva quindi essere trasformata insieme alla tendenza manageriale”.

Scrive l’impeccabile penna di Della Casa (1996): “........ ricordiamo che Bateson chiama ‘follia riduzionista’ l’idea che si possa descrivere con pienezza ontologica la Natura, che è molto più ricca di significato di quanto non sia possibile rappresentare. La complessità fisico-spirituale del mondo naturale è infinita: solo con la percezione intuitiva se ne può avere una pallida idea.

Il paradigma della semplificazione si basa su quella che è stata chiamata la ‘schizofrenica dicotomia cartesiana’, il dualismo fra il cogito soggettivo e la rex exstensa oggettiva. La scienza occidentale è stata fondata (fino alla prima metà di questo secolo) sull’eliminazione del soggetto, nella convinzione illusoria che gli oggetti, esistendo indipendentemente dal soggetto, possano essere studiati in quanto tali”.

Quali conclusioni trarre dalle considerazioni sulle quali ci siamo finora intrattenuti? Una è certamente la più importante: è necessario che la mente del naturalista si volga esclusivamente all’osservazione della natura, liberandosi dall’acriticismo, dal dogmatismo scientifico e dall’idolatria degli archetipi accademici ed antropici che riducono la scienza a livello di vuoti rituali officiati da alcuni “grandi turiferari”. Ovviamente il naturalista contemporaneo non può essere visto solo in questa luce negativa che abbiamo appena tratteggiato. Ci sono le dovute eccezioni e ci sono “scienziati” che si discostano nettamente da quella visione dogmatica e antropocentrica. E’ certamente nutrita la lista di “operatori” del settore che si dedicano veramente alla conservazione e alla ricerca con una visione globale e profonda. Questo per onor di verità!

“Anche le piante mi interessavano, ma non scientificamente. Ero attratto da esse per un motivo che mi sfuggiva, e col sentimento che non dovessero essere estirpate e seccate: erano esseri viventi che avevano significato solo finché crescevano e fiorivano, un significato nascosto, segreto, uno dei pensieri di Dio. Dovevano essere considerate con reverenziale timore e contemplate con filosofica meraviglia. Ciò che poteva dire la biologia era interessante, ma non era l’essenziale” (Carl Gustav Jung).