venerdì 29 gennaio 2021

La sensibilità femminile e l’ecologia profonda

Wild Nahani

Illustrazione di Elzbieta Mielczarek



NB. Testo tratto dal libro "L'uomo naturale".


“Ogni cosa che dà la vita è femminile. Quando gli uomini cominceranno a capire la segreta armonia dell’universo, di cui le donne sono sempre state a conoscenza, il mondo cambierà in meglio“ (Lorraine Canoe, Mohawk - da AA. VV., 1995). Il lupo selvaggio ricorda alla donna il suo essere selvaggio e se anche le strutture sociali maschiliste le hanno imposto una maschera e un dominio assoluto, la forza dell’istinto selvaggio può tornare alla luce per ridare alla donna la sua vera essenza e per riaffermare la sua profonda visione ecologica ed unitaria della natura. “Non è azzardato affermare che lo scisma primario tra natura e umanità (uno scisma che forse ha avuto origine dalla subordinazione gerarchica della donna da parte dell’uomo) ha ingenerato enormi fratture nella vita quotidiana, oltre che nella nostra sensibilità teoretica” (M. Bookchin in AA.VV., 1987).


La sensibilità femminile è nettamente più incline a percepire quel superamento del dualismo tra mondo umano e mondo naturale e se l’uomo non le avesse imposto la sua arroganza e la sua dominanza, il mutuo rapporto tra l’essere vivente e l’universo non avrebbe subito la scissione che invece ci ha condotto verso il baratro ed ha portato la condizione femminile verso la perdita della propria dignità e del proprio respiro selvaggio. Ma l’ululato del lupo ricorda alla donna il suo essere profondo, scevro, nella sua intimità, dai meschini parametri di dominio che sono invece profondamente radicati nell’essere maschile. La donna, liberata dalle catene che l’hanno avvolta per secoli, può tornare a correre, libera ed unitaria con il mondo selvaggio che le riconosce invece, in uno spirito assoluto, il suo valore e la sua partecipazione al concerto multiforme della natura. Occorre che la sua ribellione prenda il sopravvento affinché annulli in un sol colpo, dalle fondamenta, quella gabbia in cui è stata reclusa alienandola dalla dialettica degli elementi unitari. L’ululato del lupo selvaggio ricorderà alla donna che può farcela, può gettare la maschera imposta, può liberarsi del giogo che la opprime e farle adornare il capo con il senso della profonda verità delle cose. Il lupo selvaggio ricorda alla donna che l’uomo, nella sua infinita tristezza ha incupito la sua stessa esistenza lacerando la sua compagna della vita, rinunciando a vivere in armonia con essa e rinunciando alle gioie del vivere unitario. Da qui ha infierito nella distruzione anche su se stesso, perché distruggendo la donna ha tolto da se quel saggio e profondo senso del selvaggio che lo ha condotto verso la sua misera ed angosciata esistenza. Con il dominio assoluto, l’uomo ha dimenticato e soppresso ciò che la donna aveva da insegnarli: la profonda uguaglianza tra uomini e donne e la profonda uguaglianza ed unità con tutti gli elementi dell’universo. “Rispondi. Alla voce del vento. All’invito della natura. Alle domande del cuore. Rispondi al richiamo” (N. Evans, 1998).

“L’ecofemminismo considera la dominanza patriarcale degli uomini sulle donne come il prototipo di ogni dominazione e di ogni sfruttamento nelle loro varie forme: gerarchie, militaristiche, capitalistiche, industriali. In particolare sottolinea che lo sfruttamento della Natura è andato di pari passo con quello delle donne, che in ogni epoca sono state identificate con essa. Questa antica comunione fra donna e Natura lega la storia della donna a quella dell’ambiente, ed è all’origine di una affinità ovvia tra femminismo ed ecologia. Di conseguenza, l’ecofemminismo considera la conoscenza empirica tipicamente femminile come uno dei principi fondamentaali per una visione ecologica della realtà” (Capra, 1997).

“In effetti, alcune femministe sostengono che l’ecologia profonda sia una formulazione intellettuale delle intuizioni che molte donne hanno da secoli.....

Le femministe ampliano il senso di meraviglia nella nostra vita e l’impegno per un ruolo nella società attivo, nonviolento e creativo, dal momento che ci invitano a curare le nostre relazioni personali e a esaminare più a fondo i modi di pensiero prevalenti che sono la causa dell’egoismo, della competitività, dell’astrazione e del dominio. Il femminismo, inoltre, ha svelato l’esistenza di una ‘voce per la natura’ in quanto tale, piuttosto che esclusivamente per gli esseri umani” (Devall & Sessions, 1989).

Nessun dominio dovrebbe esistere nel rapporto uomo-donna e quindi nel rapporto unitario con la natura, ma poiché un dominio è avvenuto (quello dell’uomo) nel paradosso sarebbe stato meglio che le parti si fossero invertite, che la donna avesse avuto il “sopravvento” poiché ora, anche se un atteggiamento del genere può essere ugualmente messo in discussione, non saremmo però ad una arida spiaggia senz’acqua in cui siamo invece approdati. Il rapporto unitario con la natura e il rapporto di interrelazione tra gli esseri umani sarebbe stato in ogni caso sicuramente migliore e sinceramente profondo!

Diamo spazio a Judith Plant che, nell’affrontare l’intimo rapporto tra ecofemminismo e bioregionalismo, evidenzia bene, tra l’altro, il dominio dell’uomo sulla donna (da AA. VV., 1994 pagg. 48-51): “L’ecologia è lo studio delle interdipendenze e dell’interconnessione di tutti i sistemi viventi.

E’ a partire dall’osservazione delle gravi conseguenze ambientali che ne derivano, che gli ecologisti sono obbligati a porsi in posizione critica rispetto agli attuali comportamenti sociali.

Visto che il mondo naturale è pensato come risorsa, viene sfruttato senza riguardi per il suo ruolo di supporto a tutte le specie viventi.

L’ecologia sociale cerca di opporsi a questo atteggiamento dominante, indicando nell’armonizzazione fra la natura ed i bisogni vitali, cui la società deve far fronte, la via maestra per una società giusta.....

Nella cultura umana, l’idea di gerarchia è stata usata per giustificare la pratica della dominazione sociale; è stata poi proiettata nella natura, portando alla concreta affermazione di un atteggiamento di dominio anche nei suoi confronti.

La consapevolezza che in natura non esistono reali gerarchie, il riconoscersi nel valore della diversità e in una visione non gerarchica delle cose, sono punti strettamente condivisi da ecologisti e femministe.....

Storicamente, non abbiamo mai avuto potere sociale, al di là dei confini domestici, nè ruolo nella vita intellettuale.

Se l’ecologia parla a favore dell’altro, inteso come Terra, il femminismo parla invece dell’altro nella relazione ineguale uomo-donna.

L’ecofemminismo, così, parlando per entrambi gli altri originari, cerca di comprendere le radici comuni ad ambedue i tipi di dominio e sopraffazione e di indicare i modi di resistenza e di cambiamento.

Il compito assuntosi dall’ecofemminismo è quello di sviluppare la capacità di immedesimazione nell’altro, quando ci si trovi a considerare le conseguenze delle proprie azioni, e la consapevolezza di essere ognuno parte dell’altro......

Prima che il mondo venisse meccanizzato e industrializzato, la metafora per spiegare il Sè, la Società ed il Cosmo era l’immagine dell’Organismo.

Questo in ragione del fatto che la maggior parte della gente era quotidianamente in contatto con la terra e viveva un’esistenza basata su di essa.

La terra era vista come una femmina sotto due aspetti: uno passivo, di madre nutrice; l’altro, selvaggio e incontrollabile.

Queste immagini avevano la funzione di archetipi culturali. La terra era viva, sensibile, e perciò era contrario all’etica usarle violenza.....

Nel momento in cui la società iniziò il suo mutamento (...) l’immagine di una terra passiva, gentile, svanì.

La collera, la furia della natura, sempre vista come donna, ne divennero i nuovi tratti-simbolo, da cui la ‘necessità’ del dominio. E grazie alle nuove tecnologie, l’uomo, si pensava, sarebbe stato in grado di sottometterla veramente. (...)

Le battaglie per la vita della natura ... diventano temi femministi, se posti all’interno della prospettiva che abbiamo assunto: partecipando a queste lotte contro coloro che si arrogano il diritto di dominare il mondo naturale, contribuiamo a creare una coscienza della dominazione in atto a tutti i livelli.

Ma l’ecofemminismo crea anche interessi comuni fra donne e uomini.

Noi siamo state, sì, paragonate alla natura, ma anche educate dalla società a pensare in maniera dualistica: così, esattamente come gli uomini, ci sentiamo alienate.

Il sistema sociale non è buono, né per noi né per i maschi.

E’ dunque necessario individuare un campo comune da cui muovere per creare una coscienza critica, che renda possibile influenzare le strutture profonde della relazione società/ambiente. Le forme di resistenza non violenta - come la disobbedienza civile - contro lo scempio ambientale, possono promuovere, sostenere e sviluppare una vita culturale, che esalti le molte diversità presenti in natura e ne tragga le conseguenze sul piano dei rapporti interpersonali.....

La donna e la natura, ma bisognerebbe dire l’umanità e la natura, hanno bisogno di essere viste sotto una nuova luce, in base alla quale sia possibile ricucire i legami smagliati fra gli individui, e fra questi e la Terra... “.


“Siamo pervase dalla nostalgia per l’antica natura selvaggia. Pochi sono gli antidoti autorizzati a questo struggimento. Ci hanno insegnato a vergognarci di un simile desiderio. Ci siamo lasciate crescere i capelli e li abbiamo usati per nascondere i sentimenti. Ma l’ombra della Donna selvaggia ancora si appiatta dietro di noi, nei nostri giorni, nelle nostre notti. Ovunque e sempre, l’ombra che ci trotterella dietro va indubbiamente a quattro zampe.....

La fauna selvaggia e la Donna Selvaggia sono specie a rischio.

Nel tempo, abbiamo visto saccheggiare, respingere, sovraccaricare la natura istintiva della donna. Per lunghi periodi è stata devastata, come la fauna e i territori selvaggi. Per alcune migliaia di anni, e basta guardarsi indietro perché la visione si rappresenti, resta relegata nel più misero territorio della psiche....

Non a caso le antiche lande selvagge del nostro pianeta scompaiono a mano a mano che svanisce la comprensione della nostra intima natura selvaggia.....

Dunque la parola selvaggio qui non è usata nel suo senso moderno peggiorativo, con il significato di incontrollato, ma nel suo senso originale, che significa vivere una vita naturale, in cui la creatura ha la sua integrità innata e sani confini.... “ (Pinkola Estés, 1993).

Occorre ricordare che non a caso in questo libro quando si cita la parola “uomo” ci si riferisce quasi sempre al significato letterale del termine escludendo quindi volutamente la donna. Il mondo umano anche nella terminologia è purtroppo essenzialmente volto al maschile! Facciamo un piccolo esempio al riguardo. Se si scrive un libro sul lupo e si intitola “La lupa” chiunque interpreterebbe l’argomento su una trattazione della vita della femmina del lupo anche se la pubblicazione intenderebbe approfondire la vita della specie nella sua interezza. Questo la dice fin troppo lunga. E’ palesemente evidente che anche nella semplice terminologia il mondo tende “razzisticamente” al maschile. Questa non è una supposizione ma un crudo fatto reale, assolutamente unilaterale, ma assolutamente ingiusto. Eppure la natura ci ha insegnato una ben altra universalità!!

Chi scrive si scusa se nella trattazione non ha ben evidenziato sin dal primo momento questa grave discrepanza.

martedì 29 dicembre 2020

Un piccolo omaggio ad un grande rivoluzionario e pensatore russo: Pëtr Kropotkin (1842-1921)

Wild Nahani





“....Essi mi insegnarono anche come pochi siano i reali bisogni dell’uomo, non appena egli sia uscito dal cerchio magico della civiltà convenzionale. Con qualche pagnotta e pochi grammi di tè in un sacchetto di cuoio, un pentolino, e un’accetta attaccata alla sella e, dietro la sella, una coperta da stendere al bivacco, sopra un letto di frasche tagliate di fresco, un uomo può sentirsi perfettamente indipendente anche in mezzo a montagne sconosciute, rivestite di fitte foreste o coperte di neve....”. (P. A. Kropotkin).

“Libertà è parola molto di moda. Non è da ora, ovviamente, ma da qualche tempo particolarmente - e per lo più abusivamente - di moda. Forse perché si presta a mille interpretazioni, anche le più deboli, anzi debolissime. Ma c’è anche una concezione forte, anzi fortissima della libertà. Un’idea ‘esagerata’. L’idea esagerata di libertà è, secondo Popper, l’anarchismo. Ma è una esagerazione della libertà o la sua espressione più compiuta e coerente? L’una cosa e l’altra, forse..... Così come merita un pensiero antidogmatico per eccellenza, perché nato sulla negazione del principio di autorità......

.... Parole di un ribelle, La conquista del pane, Campi fabbriche ed officine, Il mutuo appoggio, Memorie di un rivoluzionario, La grande rivoluzione, La scienza moderna e l’anarchia, L’etica...... Pur diversificate, queste opere (di Kropotkin - nota di chi scrive) rappresentano il tentativo unitario di dimostrare l’unilateralità dell’ipotesi darwiniana e, per contro, la naturale socialità dell’uomo quale fattore insostituibile della sua evoluzione sociale e civile. Viene così messa in luce l’effettiva possibilità di accordare il mondo della natura e quello della cultura, al fine di individuare quali forme di convivenza umana maggiormente in sintonia con le modalità del mondo naturale. Kropotkin deve essere considerato uno dei maggiori precursori del pensiero ecologico contemporaneo” (G. N. Berti, 1998).

Peter Kropotkin, come accenna Berti, è una figura anarchica che travalica il senso della settorialità per compenetrarsi unitariamente tra la natura e la socialità vera e pura dell’uomo. Nei suoi scritti appare costantemente questo desiderio di riconciliare la cultura umana con gli elementi della natura, ponendo alla base una stretta e nel contempo ampia visione anticipatamente biocentrica dei valori umani. Questo anche grazie al suo benevole e forte carattere: “Quello che è ancor vago nel ragazzo si precisa nell’uomo” (Pëtr Kropotkin). Ecco alcuni cenni della analisi di Berti (1998), integrata da alcuni scritti diretti dell’anarchico russo che ribadisce sempre questa sua sincera, nobile e comprensiva totalità dell’essere.

“Sotto questa spinta condizionante, l’anarchico russo concepisce una grande risposta di grande respiro teorico: dimostrare che l’anarchismo è in perfetta sintonia con la crescita e il fine della scienza. E, ancor più, dimostrare che le verità di questa scienza vanno in direzione opposta alla cultura del conflitto e del dominio, testimoniando invece una reale, oggettiva tendenza della vita animale ed umana verso la cooperazione e la solidarietà universali..... Evoluzionismo e positivismo, determinismo scientifico e creatività delle masse popolari sono le armi teoriche usate da Kropotkin per dimostrare il perfetto incontro tra anarchismo e scienza, tra rivoluzione sociale e disincanto intellettuale, tra verità morali e verità naturali.... Insomma, è il tentativo di giustisficare la libertà e l’uguaglianza attraverso spiegazioni di tipo naturalistico. L’accostamento appare antinomico e problematico perché mentre la giustificazione attiene al campo dell’etica, la spiegazione si risolve in quello della scienza. Ecco perché il teorema di Kropotkin: dare la giustificazione dell’etica attraverso la spiegazione della natura. Ma come risolvere la natura nella cultura, la scienza nei valori? Come formulare cioè una spiegazione che stia a fondamento della giustificazione quale espressione logica dell’equazione etica uguale autenticità naturale?

La risposta Kropotkiana si può riassumere in questa progressiva articolazione: la scienza evidenzia come necessità logica interna della natura, la cui valenza più matura però si dà a sua volta come spontaneità; ovvero, la spiegazione della necessità naturale si traduce nella giustificazione della sua spontaneità. A sua volta l’immediata valenza della spontaneità non può che essere colta sotto il significato della libertà. Natura, spontaneità, libertà: questi i termini della sequenza progressiva insiti nella risposta dell’anarchico russo”.

Kropotkin scrive (1913): “l’anarchia è una concezione dell’universo, basata sulla interpretazione meccanica dei fenomeni, che abbraccia tutta la natura, non esclusa la vita della società. Il suo metodo è quello delle scienze naturali; e, secondo questo metodo, ogni conclusione scientifica deve essere verificata. La sua tendenza è di fondere una filosofia sintetica, che si estenda a tutti i fatti della natura, compresa la vita delle società umane e i loro problemi economici, politici e morali”. Continua Berti (1998): “Addirittura l’anarchia si delinea come strumento generale di comprensione scientifica in grado di ‘elaborare la filosofia sintetica, ossia la comprensione dell’universo nel suo insieme”. Integra indirettamente Kropotkin (1913): “..poiché l’uomo è una parte della natura, poiché la sua vita personale e sociale è pure un fenomeno della natura - alla stregua della crescita di un fiore, o della vita nelle società delle formiche e delle api - non vi è nessuna ragione perché, passando dal fiore all’uomo, da un villaggio di castori ad una città umana, noi dobbiamo abbandonare il metodo che ci aveva servito così bene fino allora, per cercarne un altro nell’arsenale della metafisica”.

Ecco ora per concludere un brano tratto da un’opera importante di Kropotkin, “Il mutuo appoggio. Un fattore dell’evoluzione” (da AA. VV. 1994 pag. 27): “Fortunatamente, la competizione non è una regola, nè nel mondo animale, nè in quello umano.

Fra gli animali, è limitata a periodi eccezionali e la selezione naturale, per attuarsi, trova migliori strategie d’azione.

Le condizioni migliori per l’evoluzione sono create dall’eliminazione della competizione, tramite l’aiuto ed il sostegno reciproci.

Nella grande lotta per la vita - per la maggiore pienezza e la maggiore intensità di vita possibili, con il minore spreco di energia - la selezione naturale cerca costantemente i modi per evitare al massimo la competizione.

Le formiche si organizzano in nidi e in nazioni; producono il proprio cibo, allevano il proprio “bestiame” - ciò evita la competizione e le sue conseguenze dannose.

La selezione naturale premia, fra le formiche, quelle varietà che meglio sanno collaborare.

La maggior parte dei nostri uccelli si sposta lentamente verso sud e ritorna poi in inverno.

Questi uccelli viaggiano in grandi stormi e questo contribuisce ad evitare la competizione.

Molti roditori cadono addormentati nel periodo in cui potrebbe essere necessario competere per la sopravvivenza; mentre altri immagazzinano il cibo per l’inverno e lo fanno riuniti in grandi comunità, per avere la necessaria protezione durante il lavoro.

Le renne, quando nelle zone interne i licheni seccano, migrano verso il mare.

I bufali attraversano un immenso continente per avere cibo a sufficienza. E quando i castori divengono troppo numerosi nello stesso fiume, si dividono in due gruppi e vanno, i più anziani, verso la foce e i più giovani verso la fonte. Questo evita la competizione.

Quando gli animali non possono cadere in letargo, nè migrare, nè immagazzinare, nè crescere essi stessi il proprio cibo, come le formiche, allora fanno come la cincia....: ricorrono a un nuovo cibo! E anche questo evita di competere.

‘Non competere! La competizione è sempre negativa per la specie e ci sono molti modi per evitarla!’, questa è la tendenza indicata dalla natura, non sempre pienamente realizzata, ma comunque sempre presente.

Questo è il messaggio che ci viene dalla foresta, dalla macchia, dal fiume e dall’oceano.

Perciò, unitevi e praticate l’aiuto reciproco! Questo è il modo migliore per dare a tutti e a ciascuno la più grande soddisfazione, la migliore garanzia di esistenza e di progresso, materiale, intellettuale e morale”.


“Le istituzioni di reciproco aiuto hanno qualcosa in più del loro valore funzionale. Sono una misura e un indicatore della salute di ogni società” (C. Ward). 

venerdì 27 novembre 2020

Guerra e ambiente

Wild Nahani




Questo argomento (guerra e ambiente) potrebbe avere un exscursus storico e un decorso descrittivo praticamente infinito, perché la tematica si connatura radicalmente nei rapporti o meglio negli attriti che l’uomo ha sempre innescato con i propri simili (o almeno da qualche migliaio di anni). Ma, in questa sede, non possiamo sviluppare anche una semplice casistica che riassuma i continui eventi che si sono protratti nel corso dei millenni senza soluzione di continuità, altrimenti ci vorrebbero decine di volumi al riguardo pur mantenendo un rigoroso schema di sintesi. Ci limiteremo a sottolineare ciò che le guerre portano al mondo naturale e che tutti si sono ben guardati dall’evidenziare sia per malafede e sia perché non ne vedono affatto il problema. E anche qui, come sempre, il mondo naturale può solo subire passivamente gli eventi. Questo non significa, si badi bene, che si vuole ignorare e tacere sugli immani genocidi che i popoli e le singole persone hanno vissuto e pagato sulla propria pelle, ma, per affrontare i risvolti ambientali di una tale spinosa tematica, è stato doveroso impostare un taglio diverso. Le miserie, le apocalittiche sofferenze, le più atroci privazioni, i fiumi di sangue sparsi rimarranno per sempre incisi su quella parte abominevole (che rappresenta la maggioranza) della storia dell’umanità.

Ogni conflitto ha un costo ambientale inquantificabile, con distruzioni a volte integrali di interi territori, di immense foreste, di specie animali, di paesaggi che a volte cangiano addirittura radicalmente i loro connotati. E si badi bene, se durante un conflitto si vuole minimamente sottolineare questa immane catastrofe, subito si levano voci che “scomunicano” la riflessione perché ci si è permesso di non parlare dei morti e delle distruzioni che l’uomo subisce e determina; ma su questo punto si spera di esserci già chiariti all’inizio del paragrafo.

Ora, nell’ambito bellico occorre fare una duplice distinzione: l’impatto sull’ambiente in tempo di pace per le preventive preparazioni militari e l’impatto sull’ambiente in tempo di guerra (sia a carattere locale che su larga scala). Nel primo caso gli effetti sugli ecosistemi sono più impattanti di quando si pensi perché l’industria bellica si mobilita su un ampio fronte di azione per mettere a “punto” i suoi sistemi, per sviluppare armi sempre più sofisticate ed “intelligenti”, per mettere in azione continue prove pratiche, per produrre armi sempre più devastanti, per impiegare ingenti somme finanziarie “necessarie” alle ulteriori ricerche onde poter verificare gli effetti delle svariate armi offensive. Si ricordano gli esperimenti delle armi nucleari, i laboratori per la produzione di sostanze batteriologiche, gli addestramenti degli eserciti, ecc. La lista non potrebbe terminare mai. Il tutto pagato dall’ambiente con un pesante utilizzo energetico, di materie prime, di territorio e di altri elementi strettamente connessi.

Quando poi si passa alla parte operativa allora tutta la macchina bellica sviluppa sul campo la sua forza distruttrice sia essa grandiosa, come accade nei grandi conflitti, sia meno appariscente per le guerre più localistiche ma sempre fortemente deleteria per l’ambiente. E poi, molte strutture umane comunemente utilizzate in tempo di pace (p.e. dighe, centrali elettriche, pozzi petroliferi, ecc.), diventano bersaglio e potenziali detonatori di una reazione distruttiva a catena. A volte le azioni belliche toccano luoghi della terra che agli occhi dei più paiono del tutto insignificanti come deserti, immensi valloni montani pietrosi, distese di pianura “desolate”, ecc., ma anche lì il danno ambientale è devastante perché in quelle condizioni estreme vive ben organizzata ed adattata tutta una serie di forme viventi, animali e vegetali, che subiscono di conseguenza le azioni rovinose dell’uomo. Non viene risparmiato proprio nulla e, soprattutto quando ci si muove in luoghi dove per esempio sono presenti specie animali sull’orlo dell’estinzione, anche conflitti locali di natura etnica o religiosa possono determinare una vera e propria catastrofe. Si veda per tutti il crollo forse decisivo della popolazione dei gorilla di montagna - già insidiati dall’alterazione dell’habitat e dal bracconaggio - dopo le sanguinose guerre tra i popoli di quei luoghi. E che dire quando vengono impiegate armi biologiche o addirittura nucleari che portano sul campo distruzione ed alterazione per decenni se non per centinaia di anni? (si ricordano per esempio le deflagrazioni atomiche della seconda guerra mondiale sul Giappone o i numerosi test nucleari durante la guerra fredda); oppure le deleterie azioni nella guerra del Vietnam quando furono defogliati con il napalm migliaia di ettari di foreste per “stanare” sotto di esse il nemico. O ancora i devastanti incendi appiccati volontariamente alle grandi distese boschive o come conseguenza di bombardamenti o attentati. E che dire delle milioni di mine anti-uomo sparse nel terreno che oltre a mutilare od uccidere nel tempo un numero incalcolabile di esseri umani causano lo stesso effetto per il restante mondo animale? Gli esempi potrebbero continuare all’infinito, ma l’elencazione, sia pure estremamente allarmante, pare non sortire nessun effetto limitativo sulle coscienze di tutti gli uomini della terra perché rimangono sempre troppo facilmente belligeranti. Occorre però porre in evidenza il un fatto che ad ogni evento di guerra è facile constatare di persona. Provate a notare, anche con estrema attenzione, se tutte le riviste, i quotidiani, i giornalisti inviati sul campo o gli scrittori che successivamente analizzano con sagacia e “intellettualità” le cause di una guerra, spendono mai anche una piccola riflessione su ciò che il mondo naturale sta subendo in quei terribili momenti. Si può ovviamente accettare che al primo posto sia evidenziata la situazione degli eserciti o della popolazione inerme, d’altronde è l’uomo che fa la guerra e ci tiene a parlare di se stesso, è anche giustificabile, ma sull’ambiente nemmeno in seconda e finanche ultima battuta è spesa una singola parola o un solo rigo di un articolo. Sicuramente ci saranno le dovute eccezioni o la faccenda sarà affrontata da ecologi esperti del settore, ma in un quadro generale il silenzio è totale perché, come si diceva in precedenza, l’argomento non è per nulla visto. Quando si parla di distruzione è sempre argomentata da un punto di vista strettamente umano, con i conseguenti svantaggi e nulla più. Anche su un argomento così delicato, atroce, devastante, il pensiero umano si è voluto imbrattare per l’ennesima volta di due macchie di sangue (anche se in fondo è la medesima cosa): il sangue degli uomini e il sangue della natura. Ma nel corso dei secoli i libri di storia parleranno solamente del sangue umano (e probabilmente nemmeno in forma corretta e giusta). Della natura non ci sarà alcuna traccia anche perché sin dall’inizio non erano mai stati solcati i pur minimi elementi dell’argomento. E qui, come abbiamo premesso, non entriamo nel merito sulla diffusa malafede del senso di giustizia e di verità quando scoppia una guerra, locale o globale che sia. 

Valga in tale circostanza l’arguta riflessione fatta da Byron: “Ecco la morale di tutte le storie umane; non è che la stessa prova del passato; prima la Libertà e la Gloria - quando ciò viene a mancare Ricchezza, Vizio, Corruzione - Barbarie infine - e la Storia con tutti i suoi volumi non ha che un’unica pagina”.

Ecco, ora, per concludere un brano tratto da un’opera importante di Kropotkin, “Il mutuo appoggio. Un fattore dell’evoluzione” (da AA. VV. 1994 pag. 27): “Fortunatamente, la competizione non è una regola, né nel mondo animale, né in quello umano.

Fra gli animali, è limitata a periodi eccezionali e la selezione naturale, per attuarsi, trova migliori strategie d’azione.

Le condizioni migliori per l’evoluzione sono create dall’eliminazione della competizione, tramite l’aiuto ed il sostegno reciproci.

Nella grande lotta per la vita - per la maggiore pienezza e la maggiore intensità di vita possibili, con il minore spreco di energia - la selezione naturale cerca costantemente i modi per evitare al massimo la competizione.

Le formiche si organizzano in nidi e in nazioni; producono il proprio cibo, allevano il proprio “bestiame” - ciò evita la competizione e le sue conseguenze dannose.

La selezione naturale premia, fra le formiche, quelle varietà che meglio sanno collaborare.

La maggior parte dei nostri uccelli si sposta lentamente verso sud e ritorna poi in inverno.

Questi uccelli viaggiano in grandi stormi e questo contribuisce ad evitare la competizione.

Molti roditori cadono addormentati nel periodo in cui potrebbe essere necessario competere per la sopravvivenza; mentre altri immagazzinano il cibo per l’inverno e lo fanno riuniti in grandi comunità, per avere la necessaria protezione durante il lavoro.

Le renne, quando nelle zone interne i licheni seccano, migrano verso il mare.

I bufali attraversano un immenso continente per avere cibo a sufficienza. E quando i castori divengono troppo numerosi nello stesso fiume, si dividono in due gruppi e vanno, i più anziani, verso la foce e i più giovani verso la fonte. Questo evita la competizione.

Quando gli animali non possono cadere in letargo, nè migrare, nè immagazzinare, nè crescere essi stessi il proprio cibo, come le formiche, allora fanno come la cincia....: ricorrono a un nuovo cibo! E anche questo evita di competere.

‘Non competere! La competizione è sempre negativa per la specie e ci sono molti modi per evitarla!’, questa è la tendenza indicata dalla natura, non sempre pienamente realizzata, ma comunque sempre presente.

Questo è il messaggio che ci viene dalla foresta, dalla macchia, dal fiume e dall’oceano.

Perciò, unitevi e praticate l’aiuto reciproco! Questo è il modo migliore per dare a tutti e a ciascuno la più grande soddisfazione, la migliore garanzia di esistenza e di progresso, materiale, intellettuale e morale”.


“Le istituzioni di reciproco aiuto hanno qualcosa in più del loro valore funzionale. Sono una misura e un indicatore della salute di ogni società” (C. Ward).

giovedì 29 ottobre 2020

L’uomo contemporaneo nella società contemporanea

Wild Nahani



Illustrazione di Elzbieta Mielczarek

“Libertà significa essere in grado di controllare tutti gli aspetti relativi alla propria vita-morte..... Libertà significa avere il potere; non il potere di controllare altre persone ma il potere di controllare le circostanze della propria vita” (Kaczynskj, 1997). La borghesia, uscita trionfante dalla rivoluzione del 1789, s’innalzò sulle rovine fumanti del feudalesimo per porre mano alla costruzione di una nuova società. Compito arduo e immane! Ma essa fu all’altezza del compito che la storia umana le assegnava e, appropriatasi delle conquiste scientifiche che spaziavano dal campo della matematica a quelli della fisica, della chimica e della biologia, sembrò dominare gli elementi per piegarli alla propria volontà. Fu una grande rivoluzione che non incise soltanto sulle cose, ma fu anche un sconvolgimento che lacerò e distrusse un tessuto sociale ancor prima che se sorgesse un altro. Tutto fu posto a servizio di inesorabili leggi economiche che ignoravano l’uomo e la sua centralità (rispetto a se stesso, si intende), sì che l’umanesimo apparve come un’era felice non più ripetibile. Questo fu il prezzo che l’uomo sociale dovette pagare allo spietato avanzare della rivoluzione industriale. Poco diversa è la condizione umana nella società odierna. Poco diversa, e non meno travagliata da una dialettica storicistica che ripropone ogni giorno la dissacrazione delle mete appena conseguite. Tuttavia ogni cittadino ha acquisito la consapevolezza del proprio destino, ha analizzato le forze che esercitano spinte contrastanti nel tessuto sociale, ed è divenuto - entro certi limiti - protagonista della storia (almeno nelle forme apparenti). I nuovi mezzi di informazione e di comunicazione riescono ormai a raggiungere finanche la coscienza di un qualsiasi povero ‘Ntoni che, attraverso i multiformi aspetti della vita associata, è in grado di udire la propria voce e le proprie speranze (ma non le proprie certezze). La democrazia apparente, creatura degli “immortali” principi del1789, è penetrata in ogni aspetto formale della società moderna che, tuttavia travagliata da contraddizioni interne e dalle logiche di potere, è alla perenne ricerca di nuovi traguardi e di nuovi perfezionamenti di conquiste. Gli odierni sistemi di produzione, frutto delle nuove tecnologie, hanno legato l’uomo alla falsa necessità di beni inutili e alla catena di montaggio, dalla quale si è generata un’alienazione diversa ma più drammatica di quella delle epoche passate (oggi quasi tutte le attività lavorative “inventate” dagli uomini possono essere assoggettate a vere e proprie “catene di montaggio”). Ma occorre ricordare che gli aspetti traumatici della “civiltà” umana contemporanea colpiscono anche, e direi soprattutto, gli equilibri ecologici della terra ponendo in serio pericolo le prospettive future della biosfera. E’ impossibile sottrarsi all’alienazione della disperazione sociale ed ecologica, perché la coscienza dell’uomo moderno è ormai intrisa di una fede apocalittica: la certezza che non può più sorgere una nuova stagione, in cui l’uomo riconnesso nella natura torni ad essere protagonista di una storia sublime quanto affascinante. 

Capra citando la filosofia di vita buddhista scrive (1997): “A causa dell’ignoranza noi dividiamo il mondo delle percezioni in oggetti separati che consideriamo transitori e continuamente mutevoli. Cercando di rimanere aggrappati alle nostre categorie rigide invece di cogliere la fluidità della vita, siamo destinati a sperimentare una frustrazione dopo l’altra”. 

domenica 27 settembre 2020

Il concetto del consumo

Wild Nahani


Illustrazione di Elzbieta Mielczarek


Nei tempi trascorsi le esigenze umane erano molto limitate ed erano concentrate alla semplice sussistenza. Con il progredire degli anni la società è diventata sempre più sofisticata, contraendo una sorta di febbrile crescita non solo della popolazione ma anche dei consumi e dei beni “necessari” al mutato tenore di vita. Incalzati dalla logica del profitto e dal consumismo sfrenato, ecco che, ciò che una volta era bastevole alla sopravvivenza quotidiana e quindi all’intera esistenza, oggi diviene un nulla perché, al contrario, occorre possedere una quantità enorme di “cose”. Poniamo un semplice esempio. Se una volta su un terreno agricolo una famiglia poteva ricavare il necessario per vivere, oggi su quello stesso terreno non è possibile ricavare nemmeno il denaro per pagarsi l’assicurazione dell’auto. Il punto è: il terreno è diventato improduttivo o sono mutate le richieste di chi lo lavorava?

Se prima bastava dieci, oggi occorre diecimila ed allora non ci sarà terreno che renda. Non è possibile discutere la salvaguardia dell’intero pianeta terra se non riduciamo drasticamente i consumi ed eliminiamo le false necessità che ci siamo create. Ma il sistema è altamente perverso in quanto l’arresto del consumo dei beni, assicurato da una frugale condotta di vita, metterebbe in crisi tutto l’ordine sociale contemporaneo poiché diverrebbe superflua la produzione di enormi quantità di prodotti. Molte categorie di persone si troverebbero disoccupate, gli Stati andrebbero sempre più in affanno, e il crollo, dal punto di vista sociale, sarebbe totale. Quindi, se si risparmia, se si vive secondo dettami di semplicità e di essenzialità, cade il sistema sociale capitalistico; se si spreca, se si richiede sempre più il superfluo (spacciato per necessario), se si usa e getta quanto più possibile, allora la società capitalistica e consumistica andrà apparentemente avanti. Ma la parabola non sarà sempre ascendente perché i limiti del saccheggio alla natura imporranno la fine delle risorse e la fine della stessa vita umana. Allora l’autodistruzione prenderà il sopravvento. Dal 1950 ai nostri giorni la popolazione del mondo ha consumato tanti beni e servizi quanti ne hanno consumati tutte le precedenti generazioni (Nebbia & Gente, in Gamba & Martignitti, 1995). Una famiglia del Sud del mondo spende quasi il 100% del proprio reddito per la sopravvivenza di base, mentre, una analoga famiglia americana, ne spende meno del 10%! Il mondo naturale e il genere umano non hanno avvenire!

Ormai lo sviluppo della specie umana non è più sostenibile per l’ambiente ed occorre dire che il limite consentito è stato da tempo superato. Oggi tutto è mercificato finanche l’acqua (un diritto di tutti, ma sempre più in mano a pochi) e non occorrerà molto tempo che sarà venduta anche “l’aria”! La folle corsa del capitalismo/liberismo/globalizzazione sta infrangendosi contro un muro molto più forte della loro sostanza, un muro che si credeva che non si sarebbe mai incontrato. 


“Il successo, l’assillante corsa al potere e alle prosperità materiali possono essere l’amara ricompensa di una sconfitta, mentre la vita in solitudine e in oscurità può offrire doni preziosi e insospettati” (Meli, 1989).

giovedì 27 agosto 2020

Ecologia della disoccupazione e l’economia in stato stazionario

Wild Nahani

Illustrazione di Elbieta Mielczarek



La nascita dello Stato sociale, tipica costruzione politica del XX° secolo, è collegata a tre eventi: la seconda rivoluzione industriale, la crisi del ‘29 e i cambiamenti sociali conseguenti al secondo conflitto mondiale. Lo Stato lasciatoci in eredità dal XIX° secolo, quello che si suole definire Stato gendarme, trovava la propria motivazione in una società estremamente semplificata nelle sue componenti, mentre la società contemporanea, è invece fortemente articolata, complessa, contraddittoria, in cui le spinte, le sollecitazioni, i conflitti, si incontrano e si scontrano in una incessante dialettica. Una siffatta articolazione, ancor più accentuata dall’eccezionale sviluppo del terziario avanzato, fa emergere problemi ancor più complessi e urgenti.

Di fronte ad una simile mutazione del tessuto sociale, lo Stato moderno è costretto a rivedere le proprie scelte per qualità e ampiezza. A tal proposito occorre ricordare che il New-Deal roosveltiano è la prima rilevante testimonianza di una politica economica che sposta la propria attenzione dalla micro-economia alla macro-economia e, non v’è dubbio che le teorie del Keynes e del suo famoso moltiplicatore furono determinanti per il superamento della recessione del ‘29.

I gravi problemi che affliggono attualmente le economie mondiali (salvo momentanee eccezioni) emergono con particolare evidenza dal progressivo aumento del tasso di disoccupazione della forza lavoro. Non v’è dubbio che il problema si segnala con accentuata urgenza anche perché l’incidenza della componente giovanile assume, al suo interno, significati di particolare valore sociale.

E’ opinione generale che le cause da cui discende la crisi occupazionale siano di tipo strutturale e congiunturale e, tra quelle strutturali, si annovera - in primo luogo - l’effetto derivante dall’avvento della terza rivoluzione industriale che, portando in fabbrica l’automazione e la robottizzazione, elimina una notevole aliquota di mano d’opera. E’ pur vero, d’altra parte, che il terziario, specie quello avanzato, assorbe nuove forze di lavoro ma, com’é noto, il settore abbisogna di personale altamente specializzato, mentre le unità lavorative liberate dall’industria non sempre sono in grado di soddisfare le specifiche richieste del mercato.

Per quanto attiene ai rimedi che da più parti si invocano per portare a soluzione la questione occupazionale è da sottolineare che essi sono spesso contraddittori perché riflettono angolazioni di opposti interessi. Tra le teorie economiche suggerite si citano le seguenti:

a) “legge” di Pigou, detta “legge” del pieno impiego, che - ipotizzando una generalizzata riduzione del salario reale - tende a conseguire la piena occupazione, fermo restando il fondo salari;

b) riduzione dell’orario di lavoro (“lavorare meno, e lavorare tutti”);

c) maggiore mobilità e incentivazione del “part-time”;

d) manovra di Bilancio tendente a ridurre la spesa corrente a beneficio di quella destinata agli investimenti, onde conseguire l’effetto derivante dal moltiplicatore del Keynes.

Quelle di cui si è fatto appena cenno sono le tesi più dibattute ma, è ovvio, che nessuna di esse si pone come variabile indipendente perché qualsiasi intervento di politica economica genera, quasi sempre, reazioni a catena dovute alla interdipendenza dei complessi problemi economici.

Il problema occupazione presenta grandi difficoltà di analisi e di soluzioni e, a giudizio dei più, non potrà essere risolto mediante politiche frammentarie e occasionali, ma necessita invece di interventi che, tramite un’attenta programmazione, ne affrontino globalmente le cause onde rimuovere un quadro economico incerto e carico di gravi tensioni.

Ma l’errore di fondo di tutte le politiche economiche capitalistiche è la pretesa di programmare l’economia sempre in chiave di sviluppo ascendente continuo, con l’illusione che il sistema possa perdurare nel tempo. Occorre invece riferirsi ad una economia in stato stazionario così definita dal Daly (1981 in Gamba & Martignitti, 1995):” ...stock costanti di popolazioni e di manufatti, mantenuti al livello ritenuto sufficiente con tassi di prelievo di materia ed energia a bassa entropia e di rigetto di rifiuti ed emissioni il più possibile bassi”. In sostanza acquisire una visione economica che tenga conto con preminenza delle leggi dell’ecologia e della termodinamica. La produttività deve tendere alla stabilità con un andamento sinusoidale e deve far decrescere la produzione dei beni inutili sino a farli scomparire (occorreranno decenni), in concomitanza ad una rigida riduzione della popolazione mondiale. La mano d’opera che viene a liberarsi, verrà assorbita dai lavori socialmente ed ecologicamente utili. La società del XXI° secolo deve obbligatoriamente contemplare anche questa categoria di lavoratori. Le politiche economiche degli Stati, uniformate e universalizzate, si dovranno dunque assestare su parametri di produttività stazionaria ed essenziale, rinunciando alla logica del profitto, del consumo e dello spreco. Una società essenziale oltre a garantirsi una reale esistenza nel tempo, sarà “ricca” di qualità e di armonia. D’altronde la necessità di una economia ecologica bioregionale (ciò il mutuo rapporto con l’ambiente circostante alla propria comunità) sarà un obbligo delle società del del’’immediato futuro a meno che l’uomo, prigioniero e schiavo della propria opulenza, non voglia precipitare nel baratro che egli stesso si è scavato. Scrive saggiamente A. Solgenitsin “Il progresso non deve essere più considerato la caratteristica auspicabile della società, la perpetuità del progresso è un mito assurdo. Occorre realizzare non una economia di sviluppo continuo, ma una economia di livello costante, stabile. La crescita economica non solo non è necessaria ma è perniciosa”.

Annota Naess (1994): “Recentemente, indipendentemente dal movimento ecologista, gli stessi economisti hanno iniziato a criticare in maniera vigorosa la crescita economica e il modo in cui vengono fissati gli ‘obiettivi nazionali’ come indicatori della crescita del benessere nei paesi industriali. Ma la parola chiave ‘crescita economica’ continua ad avere in politica un’importanza fondamentale, nonostante sia sempre più evidente che influisce in modo negativo sulla qualità della vita delle nazioni industriali ricche. Inoltre mette seriamente in pericolo le possibilità di sopravvivenza per le generazioni future.

Sarebbe in grave errore per il movimento ecologista non utilizzare le critiche mosse dagli stessi economisti alla propaganda per la crescita economica. Ogni giorno, ogni settimana, i giornali e la televisione citano continuamente la crescita economica misurata in termini di PNL (Prodotto Nazionale Lordo) come se fosse un elemento decisivo del successo della politica economica. E’ raro che gli ecologisti mettano in dubbio questo legame.......”.

Tuttavia, per aggiungere una ennesima ma reale nota di pessimismo, occorre ricordare Passmore (1974 in Hargrove, 1990) quando asserisce che ci saranno sempre condizioni economiche che prevarranno sulla preservazione di qualsiasi cosa. La miope visione dell’immediato accompagnerà sempre le scelte dell’uomo contemporaneo!

Ci si preoccupa dell’economia più di qualsiasi altro interesse umano (il Prodotto Nazionale Lordo è considerato l’unico indicatore di sviluppo), e non si pratica una politica ambientale responsabile, capillare, efficace, fondamentalmente bioregionale, ignorando o fingendo di ignorare che senza il mantenimento degli equilibri naturali anche l’economia cessa di esistere per l’irresponsabile prosciugamento della fonte del suo nutrimento. “Solo riducendo al minimo l’impiego di risorse non rinnovabili e utilizzando risorse rinnovabili con lo stesso ritmo con cui possono essere ripristinate, senza provocare danni gravi al ciclo ecologico, è possibile ridurre al minimo il disavanzo tra consumo della società e produzione in natura” (Rifkin, 1982).

Ci è capitato di sfogliare un depliants pubblicitario a tematica economica che rispecchia purtroppo il pensiero della società capitalistica contemporanea e che racchiude in se il germe della distruzione. Ne riportiamo un breve quanto eloquente stralcio.

“Le principali tendenze di sviluppo e i cambiamenti dei prossimi anni provocheranno un aumento e una crescita della domanda in molti settori a livello mondiale:


Trend: Aumento della popolazione mondiale

Effetti: Crescita della domanda dei beni di consumo


Trend: Diffusione della comunicazione e dell’informazione

Effetti: Aumento esponenziale della domanda di tecnologia informatica


Trend: Globalizzazione dei mercati

Effetti: Crescita della domanda dei prodotti di marca


Trend: Progressiva industrializzazione mondiale

Effetti: Crescita della domanda di risorse energetiche


Noi aggiungiamo:Rousseau


Trend: invasione totale del pianeta terra (sia in senso fisico che nel senso degli agenti inquinanti)

Effetti: fine del pianeta Terra!

Forse a quel punto la nostra economia di “sviluppo” non sarà più utile!


Scrive Hosle (1992): “Ma non sappiamo se la ragione farà in tempo a introdursi nel locomotore del treno che sfreccia verso l’abisso e nel quale noi tutti viaggiamo, né se riuscirà a fermarlo in tempo (tanto più che lo spazio di frenatura non è minimo). Ma qual è il locomotore del mondo moderno? E’ certamente l’economia. Il suo principio propulsivo, la sua molla sono però i valori e le categorie, ormai popolarizzati, della filosofia moderna: il mito della fattibilità, l’aspirazione a superare ogni limite quantitativo, la mancanza di scrupoli nei confronti della natura. E quindi una filosofia per la quale la responsabilità non sia un concetto vuoto dovrà cercare in primo luogo di creare valori nuovi e in secondo luogo di trasmetterli alla società e agli esponenti di punta del mondo economico, e dovrà cercarlo di farlo il più rapidamente possibile. Perché il tempo stringe”.

Kirkpatrik Sale, un profondo cultore del bioregionalismo, ci indica bene la via da seguire (in AA. VV., 1994 pagg. 31-32): “L’economia di una bioregione deriva le sue caratteristiche dalle condizioni e dalle leggi della natura.

La nostra ignoranza è certo immensa, ma dopo tanti secoli di vita ‘sul’ suolo, possiamo rifarci a quello che Goldsmith ha definito il complesso delle leggi dell’ecodinamica, distinto dal complesso delle leggi della termodinamica.

La prima di queste leggi è che conservazione/preservazione/mantenimento sono l’obiettivo principe del mondo naturale: da qui la sua intrinseca resistenza a cambiamenti strutturali su larga scala.

La seconda legge dice che, ben lungi dall’essere entropica, la natura è invece intrinsecamente stabile e tende sempre e comunque verso quello stato che l’ecologia definisce climax, ossia un bilanciato, armonico ed integrato stato di maturità che, una volta raggiunto, si mantiene per lunghi periodi.

Per questo motivo un’economia bioregionale cerca di mantenere, piuttosto che sfruttare, il mondo naturale e di adattarsi all’ambiente piuttosto che resistergli.

Tenterà di creare le condizioni climax, in un equilibrio che alcuni economisti definiscono oggi come stato stazionario, invece di una condizione di perpetuo cambiamento e continua ‘crescita’, al servizio del ‘progresso’, divinità illusoria e falsa.

L’economia bioregionalista, in termini pratici, riduce al minimo l’uso delle risorse, enfatizza la conservazione e il riciclaggio, evita l’inquinamento e lo spreco; adatta i suoi sistemi produttivi alle risorse locali, utilizzando ad esempio l’energia del vento, se è possibile, o il legno, dove ciò sia appropriato, o, per quel che riguarda il cibo, si rivolge a ciò che la regione stessa, particolarmente nel suo stato preagricolo, è in grado di produrre. Questo a partire dal più elegante ed elementare fra i principi della natura: quello dell’autosufficienza.

La natura, che non prevede il ‘commercio’, non crea elaborate reti di interdipendenza su scala continentale; perciò la bioregione deve trovare tutte le risorse di cui necessita per energia, cibo, abitazioni, vestiario, utensili, manufatti e via dicendo, entro i propri confini.

Ben lungi da rappresentare un impoverimento, questo significherebbe un guadagno, per la salute economica della bioregione, sotto ogni aspetto.

Sarebbe un’economia più stabile, libera dai cicli di boom e recessione, lontana dall’influenza delle crisi politiche. In essa sarebbe possibile pianificare e redistribuire le risorse, per ottenere lo sviluppo dei settori deficitari, al ritmo più appropriato e nella maniera più ecologica.......

Una delle intuizioni più valide di Schumacher è questa: l’economia di mercato del capitalismo del XX secolo è fondamentalmente sbagliata perché prescinde continuamente dalla natura.

Schumacher avverte anche che ‘è insito nella metodologia della scienza economica ignorare la dipendenza dell’uomo dal mondo naturale. Il mercato però rappresenta solo la superficie della società, ed il suo significato è relativo alla situazione momentanea, per come esiste qui ed ora’.

La sienza economica moderna ‘non studia in profondità le cose, i fatti naturali e sociali che si trovano dietro di esse’.

Ecco perchè, come egli sottolinea, si è persa la distinzione fra beni primari ‘che l’uomo deve conquistare in natura’ e beni secondari, fabbricati dall’uomo stesso; o tra risorse rinnovabili e risorse esauribili.

Inoltre, normalmente, l’economista non considera i costi sociali dello sviluppo competitivo.

Un’economia bioregionale si basa invece proprio su queste distinzioni vitali”.