venerdì 29 gennaio 2021

La sensibilità femminile e l’ecologia profonda

Wild Nahani

Illustrazione di Elzbieta Mielczarek



NB. Testo tratto dal libro "L'uomo naturale".


“Ogni cosa che dà la vita è femminile. Quando gli uomini cominceranno a capire la segreta armonia dell’universo, di cui le donne sono sempre state a conoscenza, il mondo cambierà in meglio“ (Lorraine Canoe, Mohawk - da AA. VV., 1995). Il lupo selvaggio ricorda alla donna il suo essere selvaggio e se anche le strutture sociali maschiliste le hanno imposto una maschera e un dominio assoluto, la forza dell’istinto selvaggio può tornare alla luce per ridare alla donna la sua vera essenza e per riaffermare la sua profonda visione ecologica ed unitaria della natura. “Non è azzardato affermare che lo scisma primario tra natura e umanità (uno scisma che forse ha avuto origine dalla subordinazione gerarchica della donna da parte dell’uomo) ha ingenerato enormi fratture nella vita quotidiana, oltre che nella nostra sensibilità teoretica” (M. Bookchin in AA.VV., 1987).


La sensibilità femminile è nettamente più incline a percepire quel superamento del dualismo tra mondo umano e mondo naturale e se l’uomo non le avesse imposto la sua arroganza e la sua dominanza, il mutuo rapporto tra l’essere vivente e l’universo non avrebbe subito la scissione che invece ci ha condotto verso il baratro ed ha portato la condizione femminile verso la perdita della propria dignità e del proprio respiro selvaggio. Ma l’ululato del lupo ricorda alla donna il suo essere profondo, scevro, nella sua intimità, dai meschini parametri di dominio che sono invece profondamente radicati nell’essere maschile. La donna, liberata dalle catene che l’hanno avvolta per secoli, può tornare a correre, libera ed unitaria con il mondo selvaggio che le riconosce invece, in uno spirito assoluto, il suo valore e la sua partecipazione al concerto multiforme della natura. Occorre che la sua ribellione prenda il sopravvento affinché annulli in un sol colpo, dalle fondamenta, quella gabbia in cui è stata reclusa alienandola dalla dialettica degli elementi unitari. L’ululato del lupo selvaggio ricorderà alla donna che può farcela, può gettare la maschera imposta, può liberarsi del giogo che la opprime e farle adornare il capo con il senso della profonda verità delle cose. Il lupo selvaggio ricorda alla donna che l’uomo, nella sua infinita tristezza ha incupito la sua stessa esistenza lacerando la sua compagna della vita, rinunciando a vivere in armonia con essa e rinunciando alle gioie del vivere unitario. Da qui ha infierito nella distruzione anche su se stesso, perché distruggendo la donna ha tolto da se quel saggio e profondo senso del selvaggio che lo ha condotto verso la sua misera ed angosciata esistenza. Con il dominio assoluto, l’uomo ha dimenticato e soppresso ciò che la donna aveva da insegnarli: la profonda uguaglianza tra uomini e donne e la profonda uguaglianza ed unità con tutti gli elementi dell’universo. “Rispondi. Alla voce del vento. All’invito della natura. Alle domande del cuore. Rispondi al richiamo” (N. Evans, 1998).

“L’ecofemminismo considera la dominanza patriarcale degli uomini sulle donne come il prototipo di ogni dominazione e di ogni sfruttamento nelle loro varie forme: gerarchie, militaristiche, capitalistiche, industriali. In particolare sottolinea che lo sfruttamento della Natura è andato di pari passo con quello delle donne, che in ogni epoca sono state identificate con essa. Questa antica comunione fra donna e Natura lega la storia della donna a quella dell’ambiente, ed è all’origine di una affinità ovvia tra femminismo ed ecologia. Di conseguenza, l’ecofemminismo considera la conoscenza empirica tipicamente femminile come uno dei principi fondamentaali per una visione ecologica della realtà” (Capra, 1997).

“In effetti, alcune femministe sostengono che l’ecologia profonda sia una formulazione intellettuale delle intuizioni che molte donne hanno da secoli.....

Le femministe ampliano il senso di meraviglia nella nostra vita e l’impegno per un ruolo nella società attivo, nonviolento e creativo, dal momento che ci invitano a curare le nostre relazioni personali e a esaminare più a fondo i modi di pensiero prevalenti che sono la causa dell’egoismo, della competitività, dell’astrazione e del dominio. Il femminismo, inoltre, ha svelato l’esistenza di una ‘voce per la natura’ in quanto tale, piuttosto che esclusivamente per gli esseri umani” (Devall & Sessions, 1989).

Nessun dominio dovrebbe esistere nel rapporto uomo-donna e quindi nel rapporto unitario con la natura, ma poiché un dominio è avvenuto (quello dell’uomo) nel paradosso sarebbe stato meglio che le parti si fossero invertite, che la donna avesse avuto il “sopravvento” poiché ora, anche se un atteggiamento del genere può essere ugualmente messo in discussione, non saremmo però ad una arida spiaggia senz’acqua in cui siamo invece approdati. Il rapporto unitario con la natura e il rapporto di interrelazione tra gli esseri umani sarebbe stato in ogni caso sicuramente migliore e sinceramente profondo!

Diamo spazio a Judith Plant che, nell’affrontare l’intimo rapporto tra ecofemminismo e bioregionalismo, evidenzia bene, tra l’altro, il dominio dell’uomo sulla donna (da AA. VV., 1994 pagg. 48-51): “L’ecologia è lo studio delle interdipendenze e dell’interconnessione di tutti i sistemi viventi.

E’ a partire dall’osservazione delle gravi conseguenze ambientali che ne derivano, che gli ecologisti sono obbligati a porsi in posizione critica rispetto agli attuali comportamenti sociali.

Visto che il mondo naturale è pensato come risorsa, viene sfruttato senza riguardi per il suo ruolo di supporto a tutte le specie viventi.

L’ecologia sociale cerca di opporsi a questo atteggiamento dominante, indicando nell’armonizzazione fra la natura ed i bisogni vitali, cui la società deve far fronte, la via maestra per una società giusta.....

Nella cultura umana, l’idea di gerarchia è stata usata per giustificare la pratica della dominazione sociale; è stata poi proiettata nella natura, portando alla concreta affermazione di un atteggiamento di dominio anche nei suoi confronti.

La consapevolezza che in natura non esistono reali gerarchie, il riconoscersi nel valore della diversità e in una visione non gerarchica delle cose, sono punti strettamente condivisi da ecologisti e femministe.....

Storicamente, non abbiamo mai avuto potere sociale, al di là dei confini domestici, nè ruolo nella vita intellettuale.

Se l’ecologia parla a favore dell’altro, inteso come Terra, il femminismo parla invece dell’altro nella relazione ineguale uomo-donna.

L’ecofemminismo, così, parlando per entrambi gli altri originari, cerca di comprendere le radici comuni ad ambedue i tipi di dominio e sopraffazione e di indicare i modi di resistenza e di cambiamento.

Il compito assuntosi dall’ecofemminismo è quello di sviluppare la capacità di immedesimazione nell’altro, quando ci si trovi a considerare le conseguenze delle proprie azioni, e la consapevolezza di essere ognuno parte dell’altro......

Prima che il mondo venisse meccanizzato e industrializzato, la metafora per spiegare il Sè, la Società ed il Cosmo era l’immagine dell’Organismo.

Questo in ragione del fatto che la maggior parte della gente era quotidianamente in contatto con la terra e viveva un’esistenza basata su di essa.

La terra era vista come una femmina sotto due aspetti: uno passivo, di madre nutrice; l’altro, selvaggio e incontrollabile.

Queste immagini avevano la funzione di archetipi culturali. La terra era viva, sensibile, e perciò era contrario all’etica usarle violenza.....

Nel momento in cui la società iniziò il suo mutamento (...) l’immagine di una terra passiva, gentile, svanì.

La collera, la furia della natura, sempre vista come donna, ne divennero i nuovi tratti-simbolo, da cui la ‘necessità’ del dominio. E grazie alle nuove tecnologie, l’uomo, si pensava, sarebbe stato in grado di sottometterla veramente. (...)

Le battaglie per la vita della natura ... diventano temi femministi, se posti all’interno della prospettiva che abbiamo assunto: partecipando a queste lotte contro coloro che si arrogano il diritto di dominare il mondo naturale, contribuiamo a creare una coscienza della dominazione in atto a tutti i livelli.

Ma l’ecofemminismo crea anche interessi comuni fra donne e uomini.

Noi siamo state, sì, paragonate alla natura, ma anche educate dalla società a pensare in maniera dualistica: così, esattamente come gli uomini, ci sentiamo alienate.

Il sistema sociale non è buono, né per noi né per i maschi.

E’ dunque necessario individuare un campo comune da cui muovere per creare una coscienza critica, che renda possibile influenzare le strutture profonde della relazione società/ambiente. Le forme di resistenza non violenta - come la disobbedienza civile - contro lo scempio ambientale, possono promuovere, sostenere e sviluppare una vita culturale, che esalti le molte diversità presenti in natura e ne tragga le conseguenze sul piano dei rapporti interpersonali.....

La donna e la natura, ma bisognerebbe dire l’umanità e la natura, hanno bisogno di essere viste sotto una nuova luce, in base alla quale sia possibile ricucire i legami smagliati fra gli individui, e fra questi e la Terra... “.


“Siamo pervase dalla nostalgia per l’antica natura selvaggia. Pochi sono gli antidoti autorizzati a questo struggimento. Ci hanno insegnato a vergognarci di un simile desiderio. Ci siamo lasciate crescere i capelli e li abbiamo usati per nascondere i sentimenti. Ma l’ombra della Donna selvaggia ancora si appiatta dietro di noi, nei nostri giorni, nelle nostre notti. Ovunque e sempre, l’ombra che ci trotterella dietro va indubbiamente a quattro zampe.....

La fauna selvaggia e la Donna Selvaggia sono specie a rischio.

Nel tempo, abbiamo visto saccheggiare, respingere, sovraccaricare la natura istintiva della donna. Per lunghi periodi è stata devastata, come la fauna e i territori selvaggi. Per alcune migliaia di anni, e basta guardarsi indietro perché la visione si rappresenti, resta relegata nel più misero territorio della psiche....

Non a caso le antiche lande selvagge del nostro pianeta scompaiono a mano a mano che svanisce la comprensione della nostra intima natura selvaggia.....

Dunque la parola selvaggio qui non è usata nel suo senso moderno peggiorativo, con il significato di incontrollato, ma nel suo senso originale, che significa vivere una vita naturale, in cui la creatura ha la sua integrità innata e sani confini.... “ (Pinkola Estés, 1993).

Occorre ricordare che non a caso in questo libro quando si cita la parola “uomo” ci si riferisce quasi sempre al significato letterale del termine escludendo quindi volutamente la donna. Il mondo umano anche nella terminologia è purtroppo essenzialmente volto al maschile! Facciamo un piccolo esempio al riguardo. Se si scrive un libro sul lupo e si intitola “La lupa” chiunque interpreterebbe l’argomento su una trattazione della vita della femmina del lupo anche se la pubblicazione intenderebbe approfondire la vita della specie nella sua interezza. Questo la dice fin troppo lunga. E’ palesemente evidente che anche nella semplice terminologia il mondo tende “razzisticamente” al maschile. Questa non è una supposizione ma un crudo fatto reale, assolutamente unilaterale, ma assolutamente ingiusto. Eppure la natura ci ha insegnato una ben altra universalità!!

Chi scrive si scusa se nella trattazione non ha ben evidenziato sin dal primo momento questa grave discrepanza.

martedì 29 dicembre 2020

Un piccolo omaggio ad un grande rivoluzionario e pensatore russo: Pëtr Kropotkin (1842-1921)

Wild Nahani





“....Essi mi insegnarono anche come pochi siano i reali bisogni dell’uomo, non appena egli sia uscito dal cerchio magico della civiltà convenzionale. Con qualche pagnotta e pochi grammi di tè in un sacchetto di cuoio, un pentolino, e un’accetta attaccata alla sella e, dietro la sella, una coperta da stendere al bivacco, sopra un letto di frasche tagliate di fresco, un uomo può sentirsi perfettamente indipendente anche in mezzo a montagne sconosciute, rivestite di fitte foreste o coperte di neve....”. (P. A. Kropotkin).

“Libertà è parola molto di moda. Non è da ora, ovviamente, ma da qualche tempo particolarmente - e per lo più abusivamente - di moda. Forse perché si presta a mille interpretazioni, anche le più deboli, anzi debolissime. Ma c’è anche una concezione forte, anzi fortissima della libertà. Un’idea ‘esagerata’. L’idea esagerata di libertà è, secondo Popper, l’anarchismo. Ma è una esagerazione della libertà o la sua espressione più compiuta e coerente? L’una cosa e l’altra, forse..... Così come merita un pensiero antidogmatico per eccellenza, perché nato sulla negazione del principio di autorità......

.... Parole di un ribelle, La conquista del pane, Campi fabbriche ed officine, Il mutuo appoggio, Memorie di un rivoluzionario, La grande rivoluzione, La scienza moderna e l’anarchia, L’etica...... Pur diversificate, queste opere (di Kropotkin - nota di chi scrive) rappresentano il tentativo unitario di dimostrare l’unilateralità dell’ipotesi darwiniana e, per contro, la naturale socialità dell’uomo quale fattore insostituibile della sua evoluzione sociale e civile. Viene così messa in luce l’effettiva possibilità di accordare il mondo della natura e quello della cultura, al fine di individuare quali forme di convivenza umana maggiormente in sintonia con le modalità del mondo naturale. Kropotkin deve essere considerato uno dei maggiori precursori del pensiero ecologico contemporaneo” (G. N. Berti, 1998).

Peter Kropotkin, come accenna Berti, è una figura anarchica che travalica il senso della settorialità per compenetrarsi unitariamente tra la natura e la socialità vera e pura dell’uomo. Nei suoi scritti appare costantemente questo desiderio di riconciliare la cultura umana con gli elementi della natura, ponendo alla base una stretta e nel contempo ampia visione anticipatamente biocentrica dei valori umani. Questo anche grazie al suo benevole e forte carattere: “Quello che è ancor vago nel ragazzo si precisa nell’uomo” (Pëtr Kropotkin). Ecco alcuni cenni della analisi di Berti (1998), integrata da alcuni scritti diretti dell’anarchico russo che ribadisce sempre questa sua sincera, nobile e comprensiva totalità dell’essere.

“Sotto questa spinta condizionante, l’anarchico russo concepisce una grande risposta di grande respiro teorico: dimostrare che l’anarchismo è in perfetta sintonia con la crescita e il fine della scienza. E, ancor più, dimostrare che le verità di questa scienza vanno in direzione opposta alla cultura del conflitto e del dominio, testimoniando invece una reale, oggettiva tendenza della vita animale ed umana verso la cooperazione e la solidarietà universali..... Evoluzionismo e positivismo, determinismo scientifico e creatività delle masse popolari sono le armi teoriche usate da Kropotkin per dimostrare il perfetto incontro tra anarchismo e scienza, tra rivoluzione sociale e disincanto intellettuale, tra verità morali e verità naturali.... Insomma, è il tentativo di giustisficare la libertà e l’uguaglianza attraverso spiegazioni di tipo naturalistico. L’accostamento appare antinomico e problematico perché mentre la giustificazione attiene al campo dell’etica, la spiegazione si risolve in quello della scienza. Ecco perché il teorema di Kropotkin: dare la giustificazione dell’etica attraverso la spiegazione della natura. Ma come risolvere la natura nella cultura, la scienza nei valori? Come formulare cioè una spiegazione che stia a fondamento della giustificazione quale espressione logica dell’equazione etica uguale autenticità naturale?

La risposta Kropotkiana si può riassumere in questa progressiva articolazione: la scienza evidenzia come necessità logica interna della natura, la cui valenza più matura però si dà a sua volta come spontaneità; ovvero, la spiegazione della necessità naturale si traduce nella giustificazione della sua spontaneità. A sua volta l’immediata valenza della spontaneità non può che essere colta sotto il significato della libertà. Natura, spontaneità, libertà: questi i termini della sequenza progressiva insiti nella risposta dell’anarchico russo”.

Kropotkin scrive (1913): “l’anarchia è una concezione dell’universo, basata sulla interpretazione meccanica dei fenomeni, che abbraccia tutta la natura, non esclusa la vita della società. Il suo metodo è quello delle scienze naturali; e, secondo questo metodo, ogni conclusione scientifica deve essere verificata. La sua tendenza è di fondere una filosofia sintetica, che si estenda a tutti i fatti della natura, compresa la vita delle società umane e i loro problemi economici, politici e morali”. Continua Berti (1998): “Addirittura l’anarchia si delinea come strumento generale di comprensione scientifica in grado di ‘elaborare la filosofia sintetica, ossia la comprensione dell’universo nel suo insieme”. Integra indirettamente Kropotkin (1913): “..poiché l’uomo è una parte della natura, poiché la sua vita personale e sociale è pure un fenomeno della natura - alla stregua della crescita di un fiore, o della vita nelle società delle formiche e delle api - non vi è nessuna ragione perché, passando dal fiore all’uomo, da un villaggio di castori ad una città umana, noi dobbiamo abbandonare il metodo che ci aveva servito così bene fino allora, per cercarne un altro nell’arsenale della metafisica”.

Ecco ora per concludere un brano tratto da un’opera importante di Kropotkin, “Il mutuo appoggio. Un fattore dell’evoluzione” (da AA. VV. 1994 pag. 27): “Fortunatamente, la competizione non è una regola, nè nel mondo animale, nè in quello umano.

Fra gli animali, è limitata a periodi eccezionali e la selezione naturale, per attuarsi, trova migliori strategie d’azione.

Le condizioni migliori per l’evoluzione sono create dall’eliminazione della competizione, tramite l’aiuto ed il sostegno reciproci.

Nella grande lotta per la vita - per la maggiore pienezza e la maggiore intensità di vita possibili, con il minore spreco di energia - la selezione naturale cerca costantemente i modi per evitare al massimo la competizione.

Le formiche si organizzano in nidi e in nazioni; producono il proprio cibo, allevano il proprio “bestiame” - ciò evita la competizione e le sue conseguenze dannose.

La selezione naturale premia, fra le formiche, quelle varietà che meglio sanno collaborare.

La maggior parte dei nostri uccelli si sposta lentamente verso sud e ritorna poi in inverno.

Questi uccelli viaggiano in grandi stormi e questo contribuisce ad evitare la competizione.

Molti roditori cadono addormentati nel periodo in cui potrebbe essere necessario competere per la sopravvivenza; mentre altri immagazzinano il cibo per l’inverno e lo fanno riuniti in grandi comunità, per avere la necessaria protezione durante il lavoro.

Le renne, quando nelle zone interne i licheni seccano, migrano verso il mare.

I bufali attraversano un immenso continente per avere cibo a sufficienza. E quando i castori divengono troppo numerosi nello stesso fiume, si dividono in due gruppi e vanno, i più anziani, verso la foce e i più giovani verso la fonte. Questo evita la competizione.

Quando gli animali non possono cadere in letargo, nè migrare, nè immagazzinare, nè crescere essi stessi il proprio cibo, come le formiche, allora fanno come la cincia....: ricorrono a un nuovo cibo! E anche questo evita di competere.

‘Non competere! La competizione è sempre negativa per la specie e ci sono molti modi per evitarla!’, questa è la tendenza indicata dalla natura, non sempre pienamente realizzata, ma comunque sempre presente.

Questo è il messaggio che ci viene dalla foresta, dalla macchia, dal fiume e dall’oceano.

Perciò, unitevi e praticate l’aiuto reciproco! Questo è il modo migliore per dare a tutti e a ciascuno la più grande soddisfazione, la migliore garanzia di esistenza e di progresso, materiale, intellettuale e morale”.


“Le istituzioni di reciproco aiuto hanno qualcosa in più del loro valore funzionale. Sono una misura e un indicatore della salute di ogni società” (C. Ward). 

venerdì 27 novembre 2020

Guerra e ambiente

Wild Nahani




Questo argomento (guerra e ambiente) potrebbe avere un exscursus storico e un decorso descrittivo praticamente infinito, perché la tematica si connatura radicalmente nei rapporti o meglio negli attriti che l’uomo ha sempre innescato con i propri simili (o almeno da qualche migliaio di anni). Ma, in questa sede, non possiamo sviluppare anche una semplice casistica che riassuma i continui eventi che si sono protratti nel corso dei millenni senza soluzione di continuità, altrimenti ci vorrebbero decine di volumi al riguardo pur mantenendo un rigoroso schema di sintesi. Ci limiteremo a sottolineare ciò che le guerre portano al mondo naturale e che tutti si sono ben guardati dall’evidenziare sia per malafede e sia perché non ne vedono affatto il problema. E anche qui, come sempre, il mondo naturale può solo subire passivamente gli eventi. Questo non significa, si badi bene, che si vuole ignorare e tacere sugli immani genocidi che i popoli e le singole persone hanno vissuto e pagato sulla propria pelle, ma, per affrontare i risvolti ambientali di una tale spinosa tematica, è stato doveroso impostare un taglio diverso. Le miserie, le apocalittiche sofferenze, le più atroci privazioni, i fiumi di sangue sparsi rimarranno per sempre incisi su quella parte abominevole (che rappresenta la maggioranza) della storia dell’umanità.

Ogni conflitto ha un costo ambientale inquantificabile, con distruzioni a volte integrali di interi territori, di immense foreste, di specie animali, di paesaggi che a volte cangiano addirittura radicalmente i loro connotati. E si badi bene, se durante un conflitto si vuole minimamente sottolineare questa immane catastrofe, subito si levano voci che “scomunicano” la riflessione perché ci si è permesso di non parlare dei morti e delle distruzioni che l’uomo subisce e determina; ma su questo punto si spera di esserci già chiariti all’inizio del paragrafo.

Ora, nell’ambito bellico occorre fare una duplice distinzione: l’impatto sull’ambiente in tempo di pace per le preventive preparazioni militari e l’impatto sull’ambiente in tempo di guerra (sia a carattere locale che su larga scala). Nel primo caso gli effetti sugli ecosistemi sono più impattanti di quando si pensi perché l’industria bellica si mobilita su un ampio fronte di azione per mettere a “punto” i suoi sistemi, per sviluppare armi sempre più sofisticate ed “intelligenti”, per mettere in azione continue prove pratiche, per produrre armi sempre più devastanti, per impiegare ingenti somme finanziarie “necessarie” alle ulteriori ricerche onde poter verificare gli effetti delle svariate armi offensive. Si ricordano gli esperimenti delle armi nucleari, i laboratori per la produzione di sostanze batteriologiche, gli addestramenti degli eserciti, ecc. La lista non potrebbe terminare mai. Il tutto pagato dall’ambiente con un pesante utilizzo energetico, di materie prime, di territorio e di altri elementi strettamente connessi.

Quando poi si passa alla parte operativa allora tutta la macchina bellica sviluppa sul campo la sua forza distruttrice sia essa grandiosa, come accade nei grandi conflitti, sia meno appariscente per le guerre più localistiche ma sempre fortemente deleteria per l’ambiente. E poi, molte strutture umane comunemente utilizzate in tempo di pace (p.e. dighe, centrali elettriche, pozzi petroliferi, ecc.), diventano bersaglio e potenziali detonatori di una reazione distruttiva a catena. A volte le azioni belliche toccano luoghi della terra che agli occhi dei più paiono del tutto insignificanti come deserti, immensi valloni montani pietrosi, distese di pianura “desolate”, ecc., ma anche lì il danno ambientale è devastante perché in quelle condizioni estreme vive ben organizzata ed adattata tutta una serie di forme viventi, animali e vegetali, che subiscono di conseguenza le azioni rovinose dell’uomo. Non viene risparmiato proprio nulla e, soprattutto quando ci si muove in luoghi dove per esempio sono presenti specie animali sull’orlo dell’estinzione, anche conflitti locali di natura etnica o religiosa possono determinare una vera e propria catastrofe. Si veda per tutti il crollo forse decisivo della popolazione dei gorilla di montagna - già insidiati dall’alterazione dell’habitat e dal bracconaggio - dopo le sanguinose guerre tra i popoli di quei luoghi. E che dire quando vengono impiegate armi biologiche o addirittura nucleari che portano sul campo distruzione ed alterazione per decenni se non per centinaia di anni? (si ricordano per esempio le deflagrazioni atomiche della seconda guerra mondiale sul Giappone o i numerosi test nucleari durante la guerra fredda); oppure le deleterie azioni nella guerra del Vietnam quando furono defogliati con il napalm migliaia di ettari di foreste per “stanare” sotto di esse il nemico. O ancora i devastanti incendi appiccati volontariamente alle grandi distese boschive o come conseguenza di bombardamenti o attentati. E che dire delle milioni di mine anti-uomo sparse nel terreno che oltre a mutilare od uccidere nel tempo un numero incalcolabile di esseri umani causano lo stesso effetto per il restante mondo animale? Gli esempi potrebbero continuare all’infinito, ma l’elencazione, sia pure estremamente allarmante, pare non sortire nessun effetto limitativo sulle coscienze di tutti gli uomini della terra perché rimangono sempre troppo facilmente belligeranti. Occorre però porre in evidenza il un fatto che ad ogni evento di guerra è facile constatare di persona. Provate a notare, anche con estrema attenzione, se tutte le riviste, i quotidiani, i giornalisti inviati sul campo o gli scrittori che successivamente analizzano con sagacia e “intellettualità” le cause di una guerra, spendono mai anche una piccola riflessione su ciò che il mondo naturale sta subendo in quei terribili momenti. Si può ovviamente accettare che al primo posto sia evidenziata la situazione degli eserciti o della popolazione inerme, d’altronde è l’uomo che fa la guerra e ci tiene a parlare di se stesso, è anche giustificabile, ma sull’ambiente nemmeno in seconda e finanche ultima battuta è spesa una singola parola o un solo rigo di un articolo. Sicuramente ci saranno le dovute eccezioni o la faccenda sarà affrontata da ecologi esperti del settore, ma in un quadro generale il silenzio è totale perché, come si diceva in precedenza, l’argomento non è per nulla visto. Quando si parla di distruzione è sempre argomentata da un punto di vista strettamente umano, con i conseguenti svantaggi e nulla più. Anche su un argomento così delicato, atroce, devastante, il pensiero umano si è voluto imbrattare per l’ennesima volta di due macchie di sangue (anche se in fondo è la medesima cosa): il sangue degli uomini e il sangue della natura. Ma nel corso dei secoli i libri di storia parleranno solamente del sangue umano (e probabilmente nemmeno in forma corretta e giusta). Della natura non ci sarà alcuna traccia anche perché sin dall’inizio non erano mai stati solcati i pur minimi elementi dell’argomento. E qui, come abbiamo premesso, non entriamo nel merito sulla diffusa malafede del senso di giustizia e di verità quando scoppia una guerra, locale o globale che sia. 

Valga in tale circostanza l’arguta riflessione fatta da Byron: “Ecco la morale di tutte le storie umane; non è che la stessa prova del passato; prima la Libertà e la Gloria - quando ciò viene a mancare Ricchezza, Vizio, Corruzione - Barbarie infine - e la Storia con tutti i suoi volumi non ha che un’unica pagina”.

Ecco, ora, per concludere un brano tratto da un’opera importante di Kropotkin, “Il mutuo appoggio. Un fattore dell’evoluzione” (da AA. VV. 1994 pag. 27): “Fortunatamente, la competizione non è una regola, né nel mondo animale, né in quello umano.

Fra gli animali, è limitata a periodi eccezionali e la selezione naturale, per attuarsi, trova migliori strategie d’azione.

Le condizioni migliori per l’evoluzione sono create dall’eliminazione della competizione, tramite l’aiuto ed il sostegno reciproci.

Nella grande lotta per la vita - per la maggiore pienezza e la maggiore intensità di vita possibili, con il minore spreco di energia - la selezione naturale cerca costantemente i modi per evitare al massimo la competizione.

Le formiche si organizzano in nidi e in nazioni; producono il proprio cibo, allevano il proprio “bestiame” - ciò evita la competizione e le sue conseguenze dannose.

La selezione naturale premia, fra le formiche, quelle varietà che meglio sanno collaborare.

La maggior parte dei nostri uccelli si sposta lentamente verso sud e ritorna poi in inverno.

Questi uccelli viaggiano in grandi stormi e questo contribuisce ad evitare la competizione.

Molti roditori cadono addormentati nel periodo in cui potrebbe essere necessario competere per la sopravvivenza; mentre altri immagazzinano il cibo per l’inverno e lo fanno riuniti in grandi comunità, per avere la necessaria protezione durante il lavoro.

Le renne, quando nelle zone interne i licheni seccano, migrano verso il mare.

I bufali attraversano un immenso continente per avere cibo a sufficienza. E quando i castori divengono troppo numerosi nello stesso fiume, si dividono in due gruppi e vanno, i più anziani, verso la foce e i più giovani verso la fonte. Questo evita la competizione.

Quando gli animali non possono cadere in letargo, nè migrare, nè immagazzinare, nè crescere essi stessi il proprio cibo, come le formiche, allora fanno come la cincia....: ricorrono a un nuovo cibo! E anche questo evita di competere.

‘Non competere! La competizione è sempre negativa per la specie e ci sono molti modi per evitarla!’, questa è la tendenza indicata dalla natura, non sempre pienamente realizzata, ma comunque sempre presente.

Questo è il messaggio che ci viene dalla foresta, dalla macchia, dal fiume e dall’oceano.

Perciò, unitevi e praticate l’aiuto reciproco! Questo è il modo migliore per dare a tutti e a ciascuno la più grande soddisfazione, la migliore garanzia di esistenza e di progresso, materiale, intellettuale e morale”.


“Le istituzioni di reciproco aiuto hanno qualcosa in più del loro valore funzionale. Sono una misura e un indicatore della salute di ogni società” (C. Ward).

martedì 17 novembre 2020

Il bioregionalismo - Il senso del luogo

 


Wild Nahani



“Quando trovi il tuo posto lì dove sei, la pratica avviene” (Dogen).

La nostra frenesia quotidiana e il nostro stile di vita asettico e materialistico ci porta sempre più ad ignorare la conoscenza del posto in cui viviamo, alienando dalla mente ogni manifestazione naturale e bramando sempre uno status in continuo mutamento ma mai dinamico e creativo. Vivere in armonia con il luogo secondo un’esistenza equilibrata, armonica, profonda. Non è necessario tornare alle “caverne” ma semplicemente ad uno stile di vita consapevole dello spirito del proprio luogo. J. Muir“per vivere la natura selvaggia ed una vera vita” dava molta importanza allo sviluppo del senso del luogo.

La bioregione può essere giustamente definita come la migliore organizzazione naturale nel rapporto tra gli individui che cooperano tra di loro e lo spazio intimamente integrato ed unitario che li circonda. Scrivono Devall & Sessions (1989): “In un’epoca nella quale organismi governativi ed economisti discutono del ‘sistema mondiale dell’economia’ e degli usi militari dello spazio extratmosferico, volgere l’attenzione alle nostre bioregioni è un atto profondamente legato alla tradizione. La bioregione è il luogo migliore in cui cominciare ad acquisire consapevolezza ecologica.

La nozione di bioregione non è affatto nuova. Per Jim Dodge, ..... ‘è stata il princpio culturale che ha animato  al novantanove per cento la storia dell’umanità ed è vecchia almeno quanto la coscienza’.

Un secondo elemento della bioregione è l’autoregolamentazione. Come dice Dodge ‘anarchia non significa essere fuori da ogni controllo, bensì non  essere soggetto al controllo di altri’. Le comunità locali ispirate ad un interesse comune per la bioregione, per la crescita libera delle piante e degli animali del luogo, possono prendere decisioni riguardo ad azioni individuali e collettive nel rispetto dell’integrità dei processi naturali presenti. Aver cura di un luogo significa evitare lo sfruttamento.

‘Un terzo elemento che compone la nozione di bioregione è lo spirito’, spiega Dodge. Non esiste una pratica religiosa unica per questo significato di spirito bioregionale...... basata su intuizioni ecologiche profonde può essere espressa in svariati modi”.

Nel Nord America la visione della bioregione è molto sviluppata tanto che sono nati numerosi movimenti ambientalisti volti all’affermazione del “senso del luogo”. Tra questi merita un particolare cenno la fondazione Planet Drum, fondata nel 1973 da Peter Berg con sede in San Francisco. Pubblica regolarmente un giornale (Raise the Stakes) per la diffusione e l’approfondimento della filosofia bioregionalista. Ecco un breve stralcio (Welcome home!) del documento di apertura del I° Congresso Bioregionale del Nordamerica del 1984 (tratto da AA. VV., 1994): “Sempre crescente consenso sta ricevendo l’idea che, per assicurare la bontà dell’aria, dell’acqua e del cibo che ci permettono di sopravvivere, dobbiamo diventare i custodi del luogo in cui viviamo.

Si comincia ad avvertire quanto impoverisca il non conoscere i propri vicini, né la natura che più ci è prossima. Si scopre che il modo migliore di pensare a se stessi è quello di far attenzione a ciò che ci riguarda, di proteggere e, assieme, recuperare la nostra regione.

Il bioregionalismo riconosce, nutre, sostiene e celebra i legami locali: terra, piante e animali, fonti, fiumi, laghi, acque sotterranee, oceani, aria, famiglia, amici, vicini, comunità, tradizioni native, sistemi indigeni di produzione e commercio.

Il bioregionalismo afferma che è venuto il tempo di conoscere le potenzialità del luogo.

Di prestare piena attenzione alla sua natura ed alla sua storia, e di mettere in comune le aspirazioni per assicurare un futuro sostenibile.

Di sostenerci, cioè, facendo ricorso a fonti rinnovabili di cibo e di energia.....

Il bioregionalismo assicura la soddisfazione dei bisogni primari attraverso le risorse locali.

Locali devono essere l’educazione, la cura della salute ed in genere tutto ciò che può essere materia di autogoverno.

La prospettiva bioregionale ricrea un sentimento di partecipazione all’identità locale, fondata su una rinnovata coscienza critica e sul rispetto per l’integrità delle nostre comunità ecologiche.......

La sicurezza della vita comincia con l’assunzione delle responsabilità a livello locale.... “.

Si affida ora alla penna di Giuseppe Moretti (1991) - profondo conoscitore e sincero cultore del bioregionalismo - il compito di completare e presentare i concetti base di questa visione filosofica della realtà locale. “Oggigiorno sembra che l’uomo moderno abbia riscoperto la natura; il bisogno di contatto con essa è in continuo aumento; i Parchi Nazionali e le aree protette vedono aumentare il numero dei visitatori anno dopo anno.

La gravità dei problemi ambientali ha messo in moto una frenesia a sostegno di una tesi che vorrebbe ognuno di noi amante e rispettoso della natura, in tutti i settori; economico, sociale, ambientale.

Di colpo, attività, prodotti, mansioni sono diventate ecologiche.

Certo, esistono persone sincere ed iniziative lodevoli, ma decisamente chi ha a cuore le sorti dell’ecosistema Terra ha più di una ragione di sconcerto.

La protezione della natura e le pratiche cosiddette ‘ecologiche’ nel nostro sistema economico/sociale sembrano più un eco business che un reale tentativo di porre nella giusta dimensione il rapporto fra l’uomo e l’ambiente in cui vive.

I luminari della cultura tecnologica/industriale sembrano agitarsi a vuoto nelle sabbie mobili delle proprie convinzioni filosofiche; i politici, perennemente prigionieri dell’andamento del “prodotto interno lordo”.

La natura viene convenientemente definita in modo utilitaristico, dando valore e diritto all’esistenza a tutto ciò che è utile per l’uomo; manca completamente l’umiltà che contraddistingue le culture primarie, native, aborigine, per le quali la natura, e tutti gli esseri viventi che dimorano nell’ecosistema, hanno valore in sè.

Certo, non siamo nè Hopi, nè Sioux o Kayapo, nè Dayak.

Quindi, per quanto incoerente questo ravvicinamento alla natura possa sembrare, è saggio non essere negativamente pessimisti, ma piuttosto semplicemente ed umilmente dare il proprio contributo affinché il lavoro da fare trovi il giusto sentiero. Il lavoro da fare è molto più profondo e completo di quanto si possa immaginare. Quanto segue è modestissimo contributo al ri-connettere noi stessi con la NATURA. Alla base di questo concetto dimora la convinzione che non ci può essere reale, effettiva, duratura ri-connessione senza il risveglio del selvatico dentro.

Non si tratta di un lavoro effimero, platonico ma dinamico, che arricchisca l’uomo di una nuova visione di vita.

Non è cosa che si può apprendere leggendo un libro, anche se molto utili e stimolanti sono le esperienze di quanto ne hanno scritto, da David H. Thoreau e John Muir, da Aldo Leopold fino al contemporaneo Gary Snyder.

Il teatro di questa ricerca è il luogo in cui si vive, non importa quanto naturale sia rimasto; avere una situazione Wilderness dietro casa è un privilegio per pochi ormai, il vantaggio di questi non deve scoraggiare, è comprensibile pensare a posti lontani dove i processi della vita si possono capire meglio, come nella Wilderness appunto, ma si può imparare altrettanto nel proprio posto concentrandosi con quanto ci sta attorno; certo, in molti casi è un mondo nascosto dove dell’equilibrio naturale rimangono solo frammenti.

Si tratta di capire noi stessi in relazione alla comunità naturale di cui si è intrinsicamente parte.

Risintonizzarsi con il selvatico dentro non può avvenire separatamente dalla comprensione e dall’apprezzamento dello Spirito del posto, il quale non è niente di fantasioso o misterioso: ‘è nient’altro che il verso del Picchio o del Coyote, o della Ghiandaia o del vento che muove le fronde di un albero o una ghianda che casca sul tetto del garage’, come ha scritto Gary Snyder in Good Wild Sacred.

Non ci si unisce allo spirito del posto standosene davanti alla TV o ad oziare al bar; bisogna vivere il posto e viverci abbastanza a lungo, passare da mero visitatore ad occupante e pertecipante.

Entrando in contatto con il mondo selvatico si impara a guardarsi attorno prestando attenzione alla complessità delle relazioni del paesaggio, dai corsi d’acqua alle piante, dal clima ai venti dominanti, dove il Pendolino ha il suo nido o la Faina la propria tana.

Non è un esercizio meramente scientifico, un elencare quante specie di uccelli sono presenti o quante e quali specie di piante o di fiori, quanto cm. di pioggia cade nel mese di marzo ecc.....

Si tratta di un’attenzione, di un grado di attenzione più profondo, più intimo, in relazione, a volte, a una pianta o ad un animale, ad un fiume o ad una roccia in particolare.

La Terra e le sue creature ci parlano se sappiamo ascoltare.

‘L’ecosistema locale ci parla, se sai ascoltare, ma devi prima imparare ad ascoltare bene in un posto, poi puoi andare in altri posti e la Terra cointinuerà a parlarti; la Terra non ti parlerà mai veramente se non hai imparato ad ascoltare bene in un posto in particolare’ (Gary Snyder, citato in Earth Festival di Dolores LaChapelle).

Questo tipo di relazione conduce ad una identificazione morale basata sull’uso responsabile delle forme di vita necessarie per il nostro sostentamento.

‘Procurandoci il nostro cibo direttamente dalla terra abbiamo in regalo il sapere da dove esso viene, pulendolo e preparandolo sappiamo pure com’è venuto a noi, attraverso il lavoro delle nostre mani e del nostro corpo, sappiamo che cura e rispetto vanno mostrate verso gli animali che ci nutrono.

C’è un piacere speciale nel prendersi questa responsabilità per il nostro sostentamento e accettare il legame di familiarità con gli animali che ci danno la vita’ (Richard Nelson in The Island Within).

Ritrovare la propria identità, il sè profondo, il selvatico dentro pone l’uomo decisamente fuori da considerare la Natura in termini utilitaristici, di fatturato, di capitale. Ciò produce un’ampliamento della propria consapevolezza, cominciando ad imparare direttamente dalla Madre Terra.

A pensare in termini di armonia piuttosto che di prevaricazione, di conservazione piuttosto che di sfruttamento, di stabilità piuttosto che di miope progresso, di diversità piuttosto che di monocultura; comportandoci di conseguenza in relazione al posto in cui si vive, alla propria Bioregione e in relazione alle altre Bioregioni.’In Wilderness is the preservation of the world’ (H. D. Thoreau)”.

Un nitido esempio di perdita totale del senso del luogo, ci viene offerto dal turista, che, frettolosamente e disarmonicamente, si sposta da un luogo all’altro senza percepire veramente “il luogo” e senza viverlo. Immergersi in un ambiente, capirlo, viverlo fino in fondo, apprezzarne il “respiro”, sono tutte sensazioni che solo il tempo, la calma e la riflessione ci offre. I nativi nordamericani rappresentano, al contrario dei turisti, uno dei migliori esempi del bioregionalismo. La perdita del senso del luogo è forse una delle più gravi mancanze dell’uomo contemporaneo. Nessun essere distrugge integralmente e consapevolmente la fonte del proprio nutrimento!

Molto bella la riflessione di Gussow (1971, da Devall & Sessions 1989): “Oggi si fa un gran parlare di salvaguardia dell’ambiente. E’ diventato un dovere, perché è proprio l’ambiente a darci i mezzi di sussitenza. Ma, in quanto uomini, abbiamo bisogno anche di nutrimento spirituale e alcuni luoghi assolvono proprio questa funzione. Sperimentare un incontro diretto e profondo con la natura è l’evento catalizzatore che converte un appezzamento di terreno qualsiasi - un ambiente, se volete - in un luogo. Il luogo è una parte dell’intero sistema ambientale che è stata rivendicata dai sentimenti. Considerata come un semplice sistema di supporto alla vita, come una risorsa a vantaggio dell’uomo, la terra è invece un ambiente, un insieme di luoghi. E’ indicativo il fatto che, ad esempio, non parliamo di un ambiente che abbiamo conosciuto, ma ricordiamo posti e luoghi. Abbiamo nostalgia dei luoghi, li conserviamo nella memoria, e sono ancora i suoni, gli odori e le immagini dei luoghi che ci incalzano e che spesso confrontiamo con il nostro presente”. O quella di Vincent Vycinas (in Devall e Sessions, 1989): “Il significato originario di abitare non è risiedere ma creare e prendersi cura dello spazio in cui qualcosa prende possesso di ciò che gli spetta e si sviluppa. Abitare significa fondamentalmente salvare, nel senso più antico di dare la libertà a qualcosa, di diventare se stessa, di diventare ciò che è essenzialmente (...). Abitare è prestare attenzione alle cose così che se ne rilevi l’essenza (...)”.


“Com’è difficile staccarsi dai luoghi. Per quanta attenzione facciamo, ci trattengono. E lasciamo pezzetti di noi stessi sui paletti delle staccionate, piccoli stracci e brandelli della nostra vita” (Katherine Mansfield).