lunedì 27 settembre 2021

La filosofia della conservazione della natura

Wild Nahani


Illustrazione di Elzbieta Mielczarek


"Quando avrete inquinato l'ultimo fiume, catturato l'ultimo pesce, tagliato l'ultimo albero, capirete, solo allora, che non potrete mangiare il vostro denaro" (profezia degli indiani Cree). 

La materia che concerne la conservazione della natura può essere definita una vera e propria scienza filosofica che ha stretti  legami con l’ecologia. Occorre però avvertire che, quantunque un siffatto legame appaia intrinseco, sarebbe erroneo considerare la conservazione della natura un’esigenza che si esaurisce nella pura sfera scientifica, poiché essa ha una connotazione ben più ampia che spazia dalle implicazioni etiche a quelle sociali e politiche. D’altra parte una tale puntualizzazione giova anche all’ecologia in sé stessa, che, operando già in una sfera tanto vasta, non può sopportare altre sovrapposizioni. 

La scienza ecologica offre senza dubbio le basi alla conservazione dell’ambiente, ma questa dovrà poi percorrere una propria strada che è irta di ostacoli spesso difficilmente superabili. Infatti, la protezione della natura, entrando inevitabilmente in conflitto con le attività umane che turbano l’equilibrio dell’ecosistema, trova spesso una opposizione totalizzante e tenace, come sa esserlo solo quella connessa a interessi economici.

Il degrado ambientale è arrivato a sì alto livello che a volte l’animo del naturalista ne rimane sopraffatto al punto da non essere più in grado di appellarsi al rigore mentale, senza il quale non può impostare le direttive per la soluzione dei problemi. Accade invece altre volte che il naturalista abbia la ventura di portare i propri passi in zone, sempre più rare, non ancora ferite dal degrado, e allora l’incessante dialogare della natura lo affascina, ora con l’apparire delle tenui luci del sottobosco, ora con il bagliore di grandi distese di ghiaccio, ora col nitido stagliarsi di vette immacolate, ora col rosseggiare della faggeta in autunno.

“Una foresta ininterrotta si stende da tutte le parti della capanna in cui scrivo, fluisce innanzi, in un cupo fiotto ondeggiante, verso settentrione, fino all’Oceano Artico. Nessuna ferrovia la traversa, per bruciare e distruggere, nessun colonizzatore la rovina col fuoco e con l’ascia. Da ogni eminenza, si possono contemplare leghe innumerevoli di Foresta, che non nutrirà mai le fauci affamate del commercio.

Questo è un posto differente, è un’altra giornata.

In nessun luogo qui la vista delle ceppaie e delle nobili vette abbattute offende l’occhio o rattrista lo spirito; né la bellezza strana, selvaggia, inimmaginabile di questi tramonti nordici è sfigurata da filari e filari di alberi scheletrici ed orrendi......... Ritorno alle origini? Forse sì; ma ci hanno portato fortuna.

Tutti i sogni sono diventati veri, e anche più. Scomparsa è la paura assillante di una mano vandalica. La vita selvatica in tutte le sue numerose varietà, animali ritenuti timidi ed elusivi ci passano ora quasi a portata di mano, e a volte si fermano presso la capanna, ed osservano. Ed uccelli, e bestie minute e grosse, e creature piccole e grandi, si sono raccolti qui intorno, e frequentano il posto, e volano e nuotano o camminano corrono secondo la loro natura.

Piomba la Morte, come deve pure talvolta, e sorge la Vita al suo posto. La natura vive e procede e fluisce tutto intorno nel suo assetto armonioso e metodico.

Le cicatrici degli antichi incendi pian piano scompaiono; gli alti alberi diventano ancora più grandi. Si riaffollano le città dei castori. Il ciclo continua.... “. WA-SHA-QUON-ASIN (Grey Owl, 1940)

A questo punto un interrogativo si fa pressante: la civiltà potrà avere un avvenire? La risposta parrebbe essere negativa, perché l’uomo è ormai prigioniero di un modello di sviluppo che comporta irreparabili squilibri ambientali ed è, per di più, protagonista di una paurosa esplosione demografica che gli ha fatto quasi raggiungere il potenziale biotico  massimo che può essere attinto alla natura dalla specie umana. A ciò si aggiunge che una gran parte della popolazione del pianeta conduce un tenore di vita che comporta l’uso di una quantità enorme di energia nonché il consumo di preziosi metalli che si avviano al totale esaurimento.

In verità, gli interventi umani sul territorio sono devastanti e non risparmiano nessun elemento dell’ambiente naturale: l’acqua, l’aria, la flora, la fauna, l’assetto della cosiddetta materia inerte, ecc. L’uomo sfrutta la natura in mille modi, quasi sempre per il volgare ed inutile accumulo delle ricchezze e del potere. Ciò che una volta, nel piccolo e nell’episodico, poteva essere sostenibile (p.e. la caccia sportiva, il prelievo di risorse non rinnovabili, la pesca, l’emissione di sostanze relativamente inquinanti, ecc.), anche perché molte attività venivano adeguatamente filtrate e degradate dai sistemi naturali (per esempio l’autodepurazione dei fiumi o dei piccoli mari),  ora, con i mezzi tecnologici, con l’eccessivo uso delle “cose” e con il dramma della sovrappopolazione, molte attività umane non lo sono più e ciascuna di esse esercita un forte impatto sull’economia della natura. Se una o due persone persone raccolgono un fiore in un prato, il prato non ne risente affatto, ma se quella operazione viene svolta da migliaia di persone il prato perderà tutti i fiori che possiede. Questo deve far riflettere sulle continue pretese che l’uomo contemporaneo accampa continuamente anche in riferimento ad attività dei tempi andati. Si ricorda inoltre che anche nel passato, fenomeni sistematici e capillari, anche se esercitati con mezzi ridotti e da una popolazione meno esigente, hanno prodotto risultati deleteri per la natura (si pensi al massiccio disboscamento della Gran Bretagna, all’estinzione del lupo nell’arco alpino, alla scomparsa della popolazione Maia o a quella dll’isola di Pasqua). Un altro esempio ci viene offerto dal fenomeno del turismo di massa. Favorire al giorno di oggi la frequentazione turistica di luoghi naturali, vuol significare alterare completamente quei territori. Per esempio, gli ultimi luoghi abitati dall’orso bruno in territorio italiano (Abruzzo e Trentino), dovrebbero essere gelosamente tutelati dalla perniciosa presenza massiva delle persone, altrimenti nel volgere di un brevissimo tempo il plantigrado resterà un lontano ricordo della fauna autoctona.   

Dinanzi ad un siffatto degrado la difesa dell’ambiente deve divenire un obiettivo primario e globale. “La visione dell’uomo ‘signore del creato’, in pieno diritto di distruggere o alterare tutto, è dura a morire. Certe culture, più di altre, hanno manifestato addirittura una profonda ostilità verso qualsiasi cosa naturale: questo spiega perché in alcuni paesi industrializzati la degradazione e l’alterazione dell’ambiente siano maggiori che in altri” (Storer et al., 1984).

Ma occorre comunque considerare che i problemi ambientali sono a tal punto complessi che ipotizzare una loro soluzione all’interno di un solo Paese significa consumarsi in uno sforzo velleitario, giacché il degrado è, per così dire, ecumenico e non s’arresta davvero innanzi alle barriere doganali. Infatti è necessario osservare che il degrado non è uniformemente distribuito sul pianeta, in quanto esso presenta una distribuzione che potremmo definire a “macchia di leopardo”; sarebbe comunque una fallace speranza quella che intendesse ricostituire l’equilibrio ecologico generale mediante provvedimenti che curino le “macchie” caso per caso, poiché occorre al contrario che l’influenza negativa esercitata dalle attività umane sull’equilibrio ambientale venga drasticamente ridotta dappertutto. “Gli uomini devono trovare la soluzione ai problemi attuali in un contesto universale” (Dorst, 1990).

Occorre poi sgombrare il campo degli studi naturalistici o del pensiero comune da una pregiudiziale che è di un tale rilievo da assumere il valore di una contraddizione in termini, poiché tale è appunto la pretesa di chi si ostina a considerare il problema ambientale esclusivamente in funzione dell’uomo. L’uomo è una parte, un tassello dell’ecosistema, non è l’ombelico della natura, perciò cade in un grave errore chi subordina la salvaguardia dell’ambiente al primato dell’uomo, cade in grave errore chi dice, ad esempio, “ se continua la distruzione delle foreste il danno si ripercuoterà sull’uomo”...” se si continua ad avvelenare i campi anche l’uomo ne resterà avvelenato”. C’è insomma il rischio che nei nostri discorsi si ripresenti ognora il nostro inveterato antropocentrismo, tutto e sempre per l’uomo. Occorre ribaltare una siffatta concezione per porre al centro di tutto gli interessi globali della vita e non, sulla Terra (ecocentrismo). La regola deve tendere a salvare un bosco secolare non per l’uomo, ma per il bosco stesso; alla fine anche l’uomo se ne avvantaggerà, ma sarà un riflesso, non lo scopo di quel salvataggio. Dobbiamo invertire il pensiero di salvaguardare una “valle selvaggia” per poter poi provare emozioni e profonde sensazioni dinanzi a quello scenario naturale incontaminato. La “valle selvaggia” va mantenuta tale per se stessa, per il suo essere libero, poi se il nostro spirito ne troverà giovamento sarà solo una eventuale positiva conseguenza e non la molla che ci ha spinto ad operare per il mantenimento di quello status incontaminato. Sono andato alla fine della terra, sono andato alla fine delle acque, sono andato alla fine del cielo, sono andato alla fine delle montagne, non ho trovato nessuno che non fosse mio amico. (Canto per il Dio della Piccola Guerra, Navajo - in AA. VV., 1995). Il valore in sé delle cose indipendentemente da noi e da tutto è il pensiero più elevato che la mente umana possa concepire. E’ anche possibile giustificare l’antropocentrismo come “istinto” della specie umana per una efficace autoconservazione. In fondo ogni specie è un po’ “egocentrica” verso se stessa per sopravvivere nella natura. Ma negli altri esseri viventi l’egocentrismo porta in genere ad un indubbio vantaggio per la specie e un ancor più grande vantaggio per la natura tutta. L’egocentrismo umano invece porta distruzione e morte sia nell’uomo stesso che in tutto il mondo naturale. Tra l’altro gli atteggiamenti degli altri viventi non sono affatto premeditati e consapevoli delle conseguenze, mentre l’uomo è pienamente cosciente dei propri abusi, della propria superbia e delle proprie distruzioni e prevaricazioni. Una bella differenza dunque tra le due forme di egocentrismo! Scrive Santayana (1944): “Un californiano che ho recentemente avuto il piacere di conoscere mi diceva che se i filosofi vivessero tra i suoi monti, i loro sistemi sarebbero diversi da quello che sono i sistemi che la tradizione europea della buona creanza ci ha tramandati dai tempi di Socrate, perché questi sistemi erano egoistici; direttamente o indirettamente erano antropocentrici, e ispirati dalla fatua nozione che l’uomo o l’umana ragione, o l’umana distinzione tra il bene e il male, siano il centro e il perno dell’universo. Questo è ciò che i monti e le foreste dovrebbero farvi vergognare d’asserire”. Santayana con questo suo discorso presentato nel 1911 a Berkeley è stato uno dei pochi filosofi occidentali a sferrare un significativo attacco all’antropocentrismo e alla visione egocentroca del cristianesimo. Infatti “rappresentò una svolta storica nello sviluppo dell’indagine contemporanea su una visione del mondo alternativa e un’etica ambientale non soggettivistiche, antropocentriche ed essenzialmente materialiste.

Nel suo discorso Santayana affermava che acquisire consapevolezza ecologica per mezzo di un contatto profondo con la natura ci avrebbe aiutato ad abbandonare la zavorra del nostro sciovinismo umano” (Devall & Sessions, 1989). Gli aspetti di una siffatta esiziale commistione di ruoli sono focalizzati con grande chiarezza da Franco Zunino (fondatore dell'Associazione Italiana per la Wilderness) quando dice che ".... L'uomo deve rispettare la natura per il suo valore in sè, e deve sapersi tirare indietro non appena la sua presenza vi incide negativamente, non trovare cavilli e rimedi provvisori per giustificare la necessità o, peggio, il 'diritto' della sua presenza". Scrive poi Pavan (1988): “...stiamo traversando una fase di confusione dell’uomo, dei suoi valori morali, dei suoi diritti e doveri, del suo ruolo e delle prospettive; siamo in una fase di scoperta degli errori che abbiamo fatto e stiamo facendo, ma abbiamo ancora la facoltà di corregerci.” 

Occorre domandarci: siamo realmente in grado di corregerci ? I dubbi sono tanti, troppi. Le nostre azioni distruttive sono molteplici e quasi mai si comprendono appieno le implicazioni connesse agli interventi che turbano l’equilibrio naturale: se, ad esempio, l’uccisione di un orso da parte di un bracconiere costituisce una drammatica ferita all’ambiente, una turbativa ancora maggiore è insita in quegli atti che, nel modificare l’ambiente in sé stesso, determina, col tempo, la scomparsa di tutti gli orsi nel territorio. Scrive Thoreau “Se vogliamo proteggere gli animali selvatici dobbiamo garantire loro una foresta in cui possano vivere e a cui possano far ricorso”.

Queste considerazioni sull’orso bruno ci portano a riflettere ancora sull’interconnessione dei problemi ambientali. In natura non esistono fenomeni vitali che esauriscono in sé stessi la ragione di essere; tutti i fenomeni sono concatenati tra loro, un po’ come accade per le singole scansioni musicali di una sinfonia. Tenuto fermo tale principio, è del tutto intuitivo che in un siffatto concerto naturale l’assetto territoriale eserciti un’incidenza che sovrasta gli altri fattori, a simiglianza di quanto accade col “leit-motiv” di un testo musicale. L’esempio sul quale ci siamo poc’anzi intrattenuti, ipotizzando la scomparsa dell’orso bruno in seguito al sovvertimento del suo “habitat”, trova un riscontro, portando a paragone un altro esempio, nella scomparsa dell’Aquila di mare da alcune zone del suo areale anche in seguito alla distruzione del proprio “habitat” rappresentato dalle coste marine che l’attività antropica ha profondamente modificato ed inquinato. Occorre tra l’altro puntualizzare che la conservazione di un territorio (valle, grotta, costa marina, ecc.) deve essere sempre paritetica alla conservazione di una specie animale o vegetale anche se un dato ambiente è di minime dimensioni (distruggere un territorio perché piccolo è come uccidere gli ultimi orsi del trentino ritenendo inutile la loro sopravvivenza in quanto ormai troppo pochi). Anzi, spesso, la salvaguardia dei “luoghi” è un atto ancora più importante. Le ultime aree selvagge hanno una grande importanza in quanto complessi integri o unitari e rari come tali; conservandoli salvaguarderemo anche i loro “capitali” di specie animali e vegetali salvaguarderemo il paesaggio, l’ambiente, l’intera struttura: tutto questo in un unico atto di azione. Animali e piante infatti sono solo una parte di un territorio, sia pur saliente ed inalienabile. “Un fiore senza giardino è condannato a morte anche se trova sopravvivenza nel limitato spazio di un vaso grazie alla seminazione artificiale” (F. Zunino).

Scrive ancora Pavan (1967): “ La natura è costituita da innumerevoli fattori legati fra di loro da fini, azioni e reazioni che costituiscono un equilibrio dinamico in continuo spostamento: l’uomo si getta a capofitto in azioni di disturbo, di alterazioni, e provoca profonde modificazioni e rotture di equilibri di cui raramente si preoccupa di prevedere l’evoluzione e il destino........Lo sviluppo storico dell’umanità, presa nel suo insieme, è avvenuto in modo molto disarmonico e così procede tuttora, mantenendo molti squilibri, talora aggravandoli e creandone nuovi.”

In natura ogni specie svolge la propria parte all’interno di un processo dialettico che tende al conseguimento di uno stato di equilibrio; questo non è ovviamente perenne, ed ha in sé stesso la capacità di assestarsi sui parametri che via via si presenteranno. E' da notare che ogni singola specificità biologica, allorché entra nel processo dialettico che determinerà poi il punto di equilibrio dell’ecosistema, assume un proprio assetto unitario. In teoria anche l’uomo dovrebbe partecipare al processo dialettico a parità di diritto con le altre specie, sia animali che vegetali, ma ciò in realtà non accade perché l’uomo, a causa del suo sviluppo intellettivo è, tra l’altro, in grado di modificare e stravolgere l’assetto della cosiddetta materia inerte mediante opere gigantesche, come - ad esempio - le dighe che sbarrano i fiumi, le autostrade lunghe migliaia di chilometri, il prosciugamento dei laghi, la costruzione di nuove città; a ciò si aggiunga che, forte della sua sofisticata tecnologia, l’uomo ha la possibilità di sterminare, nel volgere di un breve arco di tempo, qualsiasi altra forma vivente. Su tali problemi si intrattengono Galiano & Marchino (1990), che annotano “...il grande ‘peccato’ dell’uomo occidentale è di essersi staccato dalla natura, dal suo ambiente. Per lui il sole, la luna, le stelle, i fiori, le piante, gli animali, non sono più né ‘sorelle’ né ‘fratelli’. Dal cosmocentrismo è passato al teocentrismo ed è finito nell’antropocentrismo. La conseguenza ‘perversa’ è stata chiara: se l’uomo è centro di tutto, egli allora diventa despota, può imporre senza remora le sue leggi, può esercitare violenza sulla natura e oppressione sui fratelli. Ma la natura espropriata e manipolata manifesta tutti gli effetti boomerang di un tale intervento”. Con queste considerazioni G. Galiano e M. Marchino focalizzano icasticamente la dimensione dell’uomo di oggi che sembra drammaticamente vocato all’autodistruzione.

Il progresso rappresenta, secondo il Rousseau, qualcosa di esteriore rispetto all’uomo, qualcosa che non tocca ciò che v’è di più intimo nel nostro essere, cioè l’istinto naturale (Geymonat, 1971). Se poi il pensatore ginevrino sembra cadere nel paradosso quando proclama la superiorità della vita primitiva rispetto a quella realizzata dai popoli cosiddetti “civili”, è pur vero che uno degli aspetti più significativi della crisi dell’uomo moderno è proprio il suo distacco dalla natura. Ed è stato un distacco particolarmente cruento quello verificatosi negli anni che segnano l’inizio della rivoluzione industriale, quando il saccheggio dell’ambiente assunse una capacità distruttiva fino ad allora inimmaginabile. “L’umanità è un cancro nell’universo della vita” (David Foreman). L’uomo occidentale è infatti un vero e proprio “cancro” nell’organismo natura e, a similitudine delle cellule maligne, porta solo morte e distruzione.“La conservazione dell’ambiente manca il suo obiettivo perché è incompatibile con il concetto di terra che ci è stato tramandato dai tempi di Abramo: noi violentiamo la terra perché la consideriamo un articolo che ci appartiene. Solo quando la vediamo come una casa comune, a cui apparteniamo, possiamo cominciare a servircene con amore e rispetto” (Leopold, 1949-1997).

La necessità di trattare la questione ambientale prevalentemente dal punto di vista etico/filosofico, è mossa dalla constatazione che nell’occidente tutta la speculazione filosofica è stata praticamente priva, dalle origini ai giorni nostri, di argomentazioni sostanziali sulla materia (gli esempi sono pochi: J. Muir, A. Leopold, H.D. Thoreau, ecc.). Scrive infatti Hargrove (1990): “Nonostante i molti risultati monumentali della filosofia, essa non è mai riuscita, in tutto l’Occidente, a fornire una base per il pensiero ambientale. Questo insuccesso coinvolge tutte le branche maggiori: metafisica, epistemologia, etica, filosofia sociale e politica, filosofia della scienza e, naturalmente, estetica......

L’etica ambientale rappresenta per la filosofia l’occasione per correggere il suo maggiore errore, il rifiuto del mondo naturale qual è sperimentato concretamente nella vita reale......

Ci auguriamo che i preservazionisti e i conservazionisti della natura dell’inizio del prossimo secolo dispongano di teorie filosofiche migliori fra cui operare una scelta.....”. 

La mancanza di questa base filosofica ha senz’altro determinato tutti i sostanziali atteggiamenti negativi che l’uomo ha sviluppato nella sua visione del mondo (andropocentrismo, dualismo, ecc.). Ne sono testimonianza le ottuse speculazioni religiose scissionistiche e prevaricatrici proprie dell’Occidente o il rigido meccanicismo del razionalismo cartesiano. Scrisse A. Leopold (1949-1997): “Non esiste tuttora un’etica che consideri il rapporto dell’uomo con la terra, e con gli animali e le piante che crescono su di essa. Proprio come le schiave di Ulisse, la terra è considerata ancora una proprietà. Il rapporto con la terra è tuttora strettamente economico e prevede diritti ma non doveri.....

In breve, un’etica terrestre modifica il ruolo dell’Homo sapiens da conquistatore della terra a semplice membro e cittadino della sua comunità. Implica rispetto per gli altri membri e per la stessa comunità, in quanto tale”. 

Integra molto bene il discorso Capra quando scrive (1997): “Tutti gli esseri viventi sono membri di comunità ecologiche legate l’una all’altra in una rete di rapporti di interdipendenza. Quando questa percezione ecologica profonda diventa parte della nostra consapevolezza di ogni giorno, emerge un sistema etico radicalmente nuovo.

Oggi la necessità di una tale etica ecologica profonda è urgente, soprattutto nella scienza, dato che gran parte di ciò che fanno gli scienziati non serve a promuovere la vita né a preservarla, ma a distruggerla. Con i fisici che progettano sistemi di armamenti che minacciano di cancellare la vita sul pianeta, con i chimici che contaminano l’ambiente mondiale, con i biologi che mettono in circolazione tipi nuovi e sconosciuti di microrganismi senza poter prevederne le conseguenze, con gli psicologici e altri scienziati che torturano animali nel nome del progresso scientifico, con tutte queste attività che continuano, appare urgentissimo introdurre nella scienza delle norme di ‘eco-etica’”.

Vittorio Hosle nella sua interessante opera “Filosofia della crisi ecologica” (1992) evidenzia l’importanza che assume il pensiero etico/filosofico per una nuova responsabilità collettiva verso la natura. “Le catastrofi ecologiche sono la sciagura che incombe su di noi in un futuro non più lontano; nonostante tutti gli sforzi collettivi per rimuovere tale prospettiva, nonostante tutte le strategie sviluppate per rassicurarci e tranquillizzarci, nel frattempo questa convinzione si è consolidata nelle coscienze della maggior parte delle persone e costituisce il cupo sottofondo del senso della vita per la giovane generazione dei paesi sviluppati. Da un lato la prassi di coltivare questo sentimento ha in sé qualcosa di ripugnante, in quanto è fin troppo facile che essa porti alla rassegnazione e all’apatia, o addirittura, cosa ancor peggiore, che induca le masse a un edonismo frenetico e gli intellettuali a un cinismo morboso che si rassegna a ciò che sembra inevitabile e che desidera soltanto sorbire le ultime gocce dal calice del mondo, prima di mandarlo in frantumi. D’altro canto però questo pericolo non può servire a giustificare la rimozione e quindi l’imperterrita, folle corsa suicida verso l’abisso: ciò vale per ognuno di noi, e innanzitutto per la filosofia. Questa infatti mal si concilia con le rimozioni perché la filosofia si occupa della verità, e precisamente non di questo o quel singolo momento di essa, ma della verità che concerna la totalità dell’essere...... La filosofia non può restare indifferente di fronte al suo destino. Nessuno dei grandi filosofi si è sottratto alle emergenze del proprio tempo......; quindi nel momento in cui è in gioco non solo il destino del proprio popolo, ma anche quello dell’umanità e di gran parte della natura inanimata, essere indifferente significa tradire la causa della filosofia......

Come è arrivato l’uomo a minacciare il proprio pianeta nel modo che oggi stiamo sperimentando? E di fronte a questa situazione ha ancora senso  l’idea del progresso? .........  Non è sufficiente riconoscere il pericolo in cui ci si trova quando, nel mezzo di un lago gelato, il ghiaccio scricchiola sotto i nostri piedi; bisogna cercare delle scappatoie per sfuggire al pericolo. E anche se tutt’intorno siamo avvolti dalla nebbia, la filosofia può comunque sperare di scorgere la spiaggia di salvezza grazie alla luce che irradia; può forse indicare la direzione nella quale è necessario procedere..... “.

Kaiser (1992) mette bene a fuoco gli aspetti estremamente negativi della visione dualistica della vita in quattro relazioni fondamentali (Io-Sé; Io-Tu; Io-mondo; Io-Dio). Scrive infatti: “(Io-Sé) Il dualismo divide l’uomo dalla natura, separandolo così da se stesso, in quanto anch’egli è natura. Frutto di questa scissione l’esperienza di una profonda contraddizione, di una lacerazione interiore, è la sensazione di non essere uno con se stesso, di non vivere in armonia con la propria persona - (Io-Tu) Una concezione dualistica della relazione dell’uomo con il suo prossimo implica che l’individuo si senta innanzi tutto separato dall’altro, contrapposto a lui. Ne sono un eloquente esempio le tendenze polarizzatrici nella vita politica e sociale - (Io-mondo) Il pensiero dualistico divisore vede l’uomo come opposto alla natura, in quanto sostanzialmente diverso da essa. Anche qui solo un passo ci separa dalle conseguenze dell’imperialismo, per cui l’uomo sarebbe chiamato a dominare sulla natura, sottomettendola al proprio volere - (Io-Dio) Nella relazione dell’uomo con il divino, il dualismo porta al concetto di un Dio personale e trascendente (e pertanto teistico), separato nettamente dall’uomo e dal mondo. Dio è ‘totalmente altro’, non confrontabile con alcuna cosa terrena. Conseguenza di questa concezione dualistica di Dio è la dissacrazione del mondo.... che sta alla base dell’imperialismo cosmico...”.

Scrive G. Snyder (1992): “La società americana (come tutte le società) ha un proprio sistema di assunti sulla realtà che vengono dati per scontati. Continua a nutrire una fede in gran parte acritica nel concetto di progresso. E’ attaccata all’idea che possa esservi un’immacolata obiettività scientifica. E, ancora più importante, funziona in base all’illusione che ciascuno di noi sia come una specie di ‘conoscitore solitario’, una pura intelligenza sradicata, senza numerosi strati di contesti locali: l’illusione che ci sia un ‘sé’ e il ‘mondo’”.

Una filosofia della conservazione deve dunque ispirarsi ad una profonda visione unitaria della vita, dove i particolarismi divisori lascino il posto all’universalità e all’impersonale: “L’esame delle parti non porta mai alla comprensione del tutto” (Fukuoka, 2001). Solo così il valore in sé delle cose potrà essere acquisito gradatamente dal pensiero collettivo facendo leva, nella fase iniziale, sulle persone più sensibili e profonde che avendo compreso tale idea si impegnino a diffonderla.

“C’è solo una speranza di respingere la tirannica ambizione della civiltà di conquistare ogni luogo della terra. Questa speranza è l’organizzazione delle genti più sensibili ai valori dello spirito, affinché combattano per la libera continuità della natura selvaggia” (Robert Marshall).

“Non facendo nulla, non c’è nulla che non venga fatto” (Lao-Tze).


domenica 29 agosto 2021

L'Ecologia

Wild Nahani


Illustrazione di Elzbieta Mielczarek

NB. Testo tratto dal libo "L'uomo naturale"


“Siamo diventati una specie che non è più in equilibrio coevoluto con il proprio ambiente” (Chapman & Reiss, 1994). I gravi squilibri ambientali connessi allo straordinario sviluppo demografico del  nostro pianeta hanno posto in primo piano lo studio dell’ecologia, una scienza che si occupa appunto della relazione intercorrente tra l’ambiente e la somma degli organismi viventi, sia sotto specie animale che vegetale. Si sa che la natura, quando non viene turbata, provvede da sé stessa a mantenere in equilibrio il rapporto tra essere viventi e ambiente circostante (ecosistema), un equilibrio in continuo mutamento che si basa essenzialmente sulla catena alimentare che vede le piante al primo livello, gli erbivori al secondo, i carnivori al terzo; il passaggio dal primo al terzo livello può essere descritto graficamente come una “piramide” energetica. E’ da notare altresì che le spoglie vegetali e animali vengono decomposte dai degradatori, o microconsumatori (batteri, funghi) in sostanze inorganiche, e  rimesse in circolo.

“Stupisce che la stessa ecologia, una delle discipline contemporanee più organiche, abbia un modo di pensare così poco organico. Mi riferisco al bisogno di derivare dall’interno le differenze, una cosa dall’altra: ciò che è maturo da ciò che è in embrione, le cose più complesse da quelle più semplici. Insomma, mi riferisco a un modo di pensare biologicamente, non deducendo semplicemente le conclusioni dalle ipotesi, come si usa in matematica, o limitandosi a registrare e classificare dei fatti. Ecologisti o ragionieri, poco importa: tutti tendiamo a condividere il modo di ragionare che oggi prevale, e che è soprattutto analitico e classificatorio, piuttosto che processuale , evolutivo. I modi di ragionare analitici, classificatori e deduttivi funzionano perfettamente, quando si deve smontare o rimontare il motore di un’auto, o costruire una casa, ma sono del tutto inadeguati, se si vogliono individuare le fasi che costituiscono un processo, ciascuna concepita nella sua integrità, ma anche come parte di un continuum in perenne evoluzione.... “. (M. Bookchin, in AA.VV., 1987).

Appare perciò evidente che il nostro pianeta è governato dal principio dell’equilibrio dinamico evolutivo (meccanismi a volte non lineari, a volte caotici oppure stazionari o ciclici - R. May, in Bologna 1997) per cui qualsiasi turbamento arrecato a quella naturale “relativa armonia” è apportatore di gravi, spesso irreparabili conseguenze. Muovendo da una siffatta constatazione è facile comprendere quale può essere l’ampiezza della devastazione causata dall’attività dell’uomo che a ragione è stato definito “il più catastrofico agente antiecologico che mai sia comparso sulla Terra” (Mainardi, 1973). Infatti l’uomo interferisce in mille modi sull’ambiente, alterandolo sia direttamente, come accade quando distrugge un bosco o saccheggia il letto di un fiume, sia indirettamente, come avviene quando libera nell’atmosfera enormi quantità di sostanze chimiche, quali vapori di mercurio e di piombo, idrocarburi, amianto, co2, DDT, sostanze solforose e azotate, o quando scarica nei fiumi tonnellate di detergenti, di rifiuti di ogni tipo, o di prodotti tossici che defluendo in mare modificano o distruggono la flora e la fauna marina. “.....Costruiamo dighe ed oleodotti ostacolando il libero spostamento degli animali; pavimentiamo la terra e costruiamo bacini, alterando l’equilibrio idrico....; diboschiamo inconsultamente favorendo le inondazioni e l’impoverimento degli ecosistemi; rischiamo di modificare in modo irreversibile i cicli naturali......; invadiamo l’ambiente con i contaminanti radioattivi......” (Mainardi, 1973).

Si può dunque ben dire che il pianeta è alle soglie di una vera e propria mutazione ambientale, quasi che l’umanità non valutasse con la dovuta attenzione il pericolo di autodistruzione. Non ci sembra che ceda ad un gratuito catastrofismo chi  prevede che un futuro carico di incognite si presenterà innanzi alle generazioni venture ove non vengano adottate a livello mondiale nuove regole di stile di vita e di economia basate su un equilibrio stazionario ed armonico anche se in continuo mutamento. Quando la dominanza assoluta di un’unica specie sul pianeta Terra non viene controbilanciata da una serie di forze “uguali e contrarie”, si determina inevitabilmente  lo strapotere e l’arroganza del dominatore (l’Homo sapiens appunto) che in breve conduce se stesso e la natura tutta verso la totale annientazione. L’uomo in fondo è una sorta di “mostro” che, preso il sopravvento sull’intero pianeta, ne determina la totale sottomissione e distruzione. Nietzsche (in Hosle 1992) ricorda che: “gli esseri razionali che commettono l’errore di interpretare se stessi come soggettività sovrane devono necessariamente autodistruggersi”.

Scrivono Chapman & Reiss (1994): “La constatazione che con il nostro comportamento irresponsabile stiamo distruggendo le specie, gli habitat e forse persino il sistema di sostentamento della vita del pianeta è un pensiero deprimente. Però, abbiamo le conoscenze necessarie per renderci conto di ciò che stiamo facendo e per capire ciò che dovremmo fare per arrestare il declino e porre rimedio alla situazione. Ecco dove l’ecologia entra nel quadro”.

A proposito delle basi di una educazione ecologica annota Capra (1997): “Ricongiungersi alla trama della vita significa edificare e mantenere comunità sostenibili, in cui possiamo soddisfare i nostri bisogni e le nostre aspirazioni senza ridurre le opportunità per le generazioni future. A questo scopo possiamo apprendere lezioni preziose dallo studio degli ecosistemi, che sono società sostenibili di piante, animali e microrganismi. Per capire queste lezioni, dobbiamo apprendere i principi di base dell’ecologia. Dobbiamo diventare, per così dire, ecologiocamente istruiti. Essere ecologicamente istruiti, o “ecocompetenti”, significa comprendere i principi di organizzazione delle comunità ecologiche (ecosistemi) e usare quei principi per creare comunità umane sostenibili. Dobbiamo dare nuovo vigore alle nostre comunità - comprese le comunità educative, economiche e politiche - così che i principi dell’ecologia si manifestino in esse come principi di educazione, amministrazione e politica ......

Mentre il nostro secolo sta ormai per concludersi e andiamo verso l’inizio di un nuovo millennio, la sopravvivenza dell’umanità dipenderà dal nostro grado di competenza ecologica, dalla nostra capacità di comprendere i principi dell’ecologia e di vivere in conformità con essi”.

Purtroppo il nostro distacco dalla natura, venuto progressivamente alla luce forse anche a causa dello sviluppo del pensiero astratto, del linguaggio, della “cultura”, ci ha indotto ad operare in maniera del tutto irresponsabile, creando una struttura sociale e vitale completamente disgiunta dalla realtà naturale (dualismo) che è il contenuto del nostro esistere. Di qui la necessità, proprio utilizzando quel pensiero che ci ha portato al “baratro”, di riapprendere intellettivamente i principi della vita e degli ecosistemi. Principi che erano spontaneamente nostri quando vivevamo coevoluti con il respiro della natura, principi che le “semplici” piante o i tanto “sottosviluppati” e vituperati animali hanno nel loro essere vitale. Noi ora, con sforzo e forse con paradosso, dobbiamo metterci a “studiare” per riconquistare ciò che abbiamo perduto, nella speranza di rendere sostenibile una realtà sociale che non ha nulla di sostenibile con la natura e quindi con il futuro. Il principio di questo studio è valido, ma avrà un vero e reale riscontro nella realtà? Il distacco dalla natura delle categorie politiche, religiose ed economiche è ancora troppo grande, e l’alienazione dell’antropocentrismo non fa certamente parte del pensiero quotidiano. Forse gli ecosistemi naturali non sono in grado di attendere i nostri “passi di comprensione”, la fine del tutto avverrà purtroppo molto tempo prima!

Aldo Leopold  sul finire degli anni quaranta poco prima di morire “aveva terminato il suo famoso saggio The Land Ethic che, più di qualsiasi altro saggio, segnò l’inizio dell’Era ecologica e che veniva considerato come la descrizione più concisa della nuova filosofia ambientale; esso univa un approccio scientifico alla natura, un alto livello di raffinatezza ecologica e un’etica comunitaria biocentrica che sfidava l’atteggiamento economico dominante nei confronti dello sfruttamento del territorio” (Worster, 1994). Sempre Worster (1994), a proposito di Leopold scrive che “Uno dei saggi di Sand Conty Almanc dal titolo Storia naturale - La scienza dimenticata, rappresenta un appello al ritorno all’educazione all’aperto, olistica, ad uno stile scientifico aperto ai dilettanti e agli amanti saggi della natura, più sensibile al ‘piacere di essere immerso in una natura selvaggia’. Nei laboratori e nelle università si insegnava che ‘la scienza è al servizio del progresso’; essa faceva lega con la mentalità tecnologica che regimentava il mondo inseguendo il progresso materiale e doveva quindi essere trasformata insieme alla tendenza manageriale........ Nella prefazione del Sand County Almanac aveva scritto: ‘La conservazione ambientale non sta approdando da nessuna parte poiché è incompatibile con il nostro concetto abramico della terra. Sfruttiamo la terra perché la consideriamo come un bene di consumo che ci appartiene. Quando la considereremo come una comunità alla quale apparteniamo inizieremo a sfruttarla con amore e rispetto’ ”.

Malgrado l’impegno non è possibile, citando il grande E. Goldsmith (1997), concludere con una nota positiva: “L’uomo moderno sta rapidamente distruggendo il mondo naturale dal quale dipende la sua sopravvivenza. Ovunque, nel nostro pianeta, il quadro è lo stesso: foreste che vengono tagliate, paludi prosciugate, barriere coralline estirpate, terreni agricoli erosi, salinizzati, desertificati, o semplicemente coperti di cemento o d’asfalto. L’inquinamento è ora generalizzato: ne sono colpite le falde acquifere, i torrenti, i fiumi, gli estuari, i mari e gli oceani, l’aria che respiriamo, il cibo che mangiamo......

Distruggendo in tal modo il mondo naturale, stiamo progressivamente rendendo meno abitabile il nostro pianeta. Se le tendenze attuali persisteranno, può darsi che in non più di pochi decenni esso non sarà più capace di sostenere forme complesse di vita. Questo può suonare esagerato; purtroppo, è fin troppo realistico”. 

giovedì 29 luglio 2021

L’estetica ambientale

Wild Nahani

Illustrazione di Elzbieta Mielczarek


NB. Testo tratto dal libo "L'uomo naturale"


“Inquinamento, contaminazione, desolazione, sono parole che non sarebbero mai state create se l’uomo fosse vissuto secondo natura. Uccelli, insetti, orsi muoiono e si disfano in modo pulito e bello. (...) I boschi sono pieni di alberi morti e morenti, eppure la loro bellezza era necessaria per completare la bellezza della vita. (...) Ogni morte è bella!” (J. Muir, John of the Mountains, 1938 - tratto da Devall & Sessions, 1989). Mentre in passato le bellezze naturali erano viste solo come fenomeni estetici privi di contenuto, le concezioni della moderna estetica ambientale, oltre a valutare e riconoscere i vari aspetti della bellezza, premono preminentemente sulla protezione e conservazione della natura (D’Angelo, in Gamba & Martignitti, 1995). Ciò che viene maggiormente sentito è dunque il corretto rapporto tra uomo e ambiente e la vera tutela della natura. Al limite, le bellezze naturali vengono utilizzate per riaffermare argomenti a favore della loro conservazione (D’Angelo, in Gamba & Martignitti, 1995). E anche in questo caso possiamo sviluppare questo concetto sia in chiave egocentrica, cioè bellezze naturali valevoli solo se legate alla percezione sensoriale dell’uomo, e sia in chiave ecocentrica ovvero bellezze naturali dal proprio valore intrinseco. Hargrove (1990) scrive in proposito: “La bellezza è un carattere intrinseco e oggettivo dell’ente naturale (il quale quindi è bello per il solo fatto di esistere), dunque essa è svincolata dalla percezione da parte di un soggetto”.

La natura è considerata, a detta della scienza, come una specie di contenitore nel quale razionalmente è possibile discernere i vari elementi quantificandoli e ordinandoli secondo rigidi principi matematici e mentali (leggasi razionalismo cartesiano). Ne esce fuori una natura parcellizzata, controllata, asettica, dove ogni cosa è come deve essere. “La natura è un perpetuo caleidoscopio di mutamenti fecondi che si rifiuta ad ogni categorizzazione rigida. La mente può cogliere l’essenza di questo movimento, ma mai tutti i suoi dettagli” (Bookchin, 1995). 

Una visione olistica del mondo invece ci fa capire che la natura non è la somma di tutti i singoli elementi che la compongono né la somma delle relazioni tra i membri, ma certamente qualcosa di più. Theodore Roszak dice infatti che occorre essere consapevoli che il tutto è maggiore della somma delle parti. Il mondo naturale, allora, potrà essere visto con altrettanta validità e sicuramente con superiore spirito, anche attraverso le sensazioni, i profumi, le emozioni. Ne consegue che l’estetica ambientale invita ad un comportamento alternativo alla rigidità “professionale” della moderna scienza naturale. Un essere selvaggio conosce molto bene il proprio ambiente e riceve continue emozioni nel rapporto con esso: questa è la conoscenza naturale delle cose. Sviluppare dunque questo aspetto, cioè una conoscenza pratica fatta di esperienze e di sensazioni, è il migliore rapporto che possa istaurarsi per riconnettersi con la natura. Sentire il profumo del sottobosco dopo la pioggia, individuare la pista di un animale, osservare la dinamica dei processi geologici, saper pregustare l’imminenza di un temporale, saper accendere un fuoco con semplici mezzi o sapersela cavare in un ambiente selvaggio: questa è la principale conoscenza della storia naturale. Un lupo vive spontaneamente in unità profonda con il suo ambiente, ne conosce i “segreti”, e da esso percepisce continue sensazioni semplici. Probabilmente saranno diverse dalle nostre, come lo saranno da quelle di un orso o di un’aquila, ma in comune ci sono gli stessi due elementi: la conoscenza diretta e pratica del territorio e le sensazioni (paura, dolore, odore, smarrimento, gioia, ecc.).

La moderna scienza, prodotta dal pensiero umano, ha invece assunto un atteggiamento invadente, dominatore e aggressivo nei confronti della natura, riducendo quest’ultima a puro laboratorio esterno di asservimento e di distruzione (D’Angelo, in Gamba & Martignitti, 1995). Si riafferma il concetto dualistico (uomo, centro del mondo - natura, esterna e subordinata) e si postulano principi e corollari prevaricatori. A tale concezione si contrappone l’esperienza estetica. Scrive D’Angelo (in Gamba & Martignitti, 1995): “Di contro a questi atteggiamenti prevaricatori, l’esperienza estetica della natura offre un modello del rapporto non semplificatore e non invasivo, sia perché ci insegna a tenere conto di tutta la complessità della nostra interazione con l’ambiente, rivalutando la componente sensoriale della nostra esperienza, sia perché l’atteggiamento contemplativo proprio dell’esperienza estetica rappresenta l’antitesi della sottomissione violenta della natura compiuta dalla tecnica”.

Dinanzi all’attuale distruzione e invasione della natura, è impensabile proporre un’etica ambientale ricca di considerazioni utilitaristiche per l’uomo. Occorre invece definire un’etica che lo responsabilizzi e lo conduca verso una visione monistica e globale della vita per consentirgli la riconnessione con l’uno naturale. Per poter riconoscere i limiti e le dimensioni ridotte dell’uomo, essere paritario agli altri elementi del mondo naturale, è però necessario rinegoziare il valore delle cose. Ma, ad essere sinceri, un’etica così incisa di elementi non utilitaristici, troverà non pochi antagonisti nel corso della sua proposizione. Hargrove nella sua opera Fondamenti di etica ambientale (1990) annota: “Passiamo ora al problema finale, cioè all’affermazione che il bello naturale è inferiore al bello artistico, in quanto troppo estraneo per conformarsi ai criteri e ai gusti estetici dell’uomo. Questa posizione è stata sostenuta in ‘La nostra responsabilità per la natura’, dove Passmore afferma che la natura addomesticata è preferibile alla natura selvaggia, alla selvaticità, perché, dal punto di vista dell’uomo, è più gradevole e più intellegibile. L’uomo capisce la natura addomesticata perché ‘ha contribuito a crearla’. Per contro, continua Passmore, ‘l’uomo è in qualche modo alienato dalla natura selvaggia; essa è qualcosa di esterno a lui’.....

Questa concezione della natura ha elementi comuni, ad esempio, con la teoria di Locke della proprietà, per la quale la natura viene valorizzata dal lavoro dell’uomo. La natura così trasformata diventa proprietà, in quanto qualcosa di umano, il lavoro, è entrato a far parte della natura grezza e si è permanentemente unito a essa. Questa concezione della natura come qualcosa di incompleto e pressoché senza valore, che attende che l’uomo vi riversi struttura, ordine e valore, affiora anche negli scritti filosofici di Hegel, quando egli afferma che, poiché la natura non ha volontà propria, l’uomo ha diritto di usare la sua volontà d’impadronirsi di ogni e tutti gli oggetti naturali, facendoli suoi”. Ogni commento a queste disarmoniche argomentazioni sarebbe superfluo. Hargrove infatti nel paragrafo successivo ricorda che: “Dato che i nostri criteri estetici derivano dalla natura, è assurdo affermare che i criteri della natura sono troppo estranei per essere accettabili e intellegibili dall’uomo”. Integra il discorso Leopold (1949-1997): “Il turista a caccia di trofei ‘naturali’ ha delle peculiarità che contribuiscono in modo sottile al suo comportamento. Per soddisfarsi deve possedere, invadere, appropriarsi. Di conseguenza, i luoghi selvaggi che non può vedere personalmente non hanno per lui alcun valore. Da ciò deriva l’opinione comune che una terra inutilizzata non renda alcun servizio alla società. Per chi è privo di immaginazione un vuoto sulla carta geografica è un inutile spreco, per altri è la parte più preziosa”.

E poi ancora Hargrove (1990): “Secondo l’estetica positiva, la natura, nella misura in cui è naturale (cioè, non alterata dall’uomo), è bella e non ha qualità estetiche negative. Tale concezione ha trovato la sua espressione più famosa nella frase, continuamente citata nel diciannovesimo secolo, di John Constable, che affermò, ‘Non ho mai visto una cosa brutta in vita mia’. Secondo tale concezione, chiunque trovi il brutto in natura semplicemente non l’ha saputa percepire in modo giusto, non ha saputo trovare criteri appropriati in base ai quali giudicarla e apprezzarla esteticamente. L’estetica positiva è strettamente associata a un tipo specifico di argomento preservazionista, che sostiene il diritto della natura di esistere. Secondo quest’argomento, che generalmente è espresso in modo affatto inadeguato, tutto ciò che esiste ha diritto d’esistere semplicemente perché esiste…..”.

Scrive infine Franco Zunino (1980): “La natura selvaggia è un bisogno spirituale che ognuno di noi si porta dentro e che va dal semplice amore per il bello al preponderante bisogno di solitudine che sentono alcuni. E’ il senso di fastidio che proviamo in natura di fronte all’opera dell’uomo, anche quando quest’opera è minima o ha fini di conservazione o di studio. La natura selvaggia è acqua libera di scorrere, di erodere, di gonfiarsi e straripare; è la libertà di volare e di correre degli animali; sono gli orizzonti intatti di montagne o di piatte paludi; è l’immensità del cielo su un panorama d’erba; è il silenzio della natura e lo scrosciare d’acque nelle valli montane; l’urlo del temporale nella foresta; il sibilo della bufera e il boato pauroso della valanga; il lento volo dell’aquila che annulla lo spazio tra le montagne; è il gioco delle onde sulle scogliera. La natura selvaggia è girare attorno lo sguardo e non vedere segno d’uomo; è ascoltare e non udire rumori d’uomo”. 

martedì 29 giugno 2021

Lo “sviluppo” tecnologico e scientifico. Un mondo in antitesi alla natura.

 Wild Nahani


Illustrazione di Elzbieta Mielzarek

NB. Testo tratto dal libo "L'uomo naturale"


“Come i venti e i tramonti, la vita selvaggia era considerata sicura finché il cosiddetto progresso non ha cominciato a portarla via. Ora ci troviamo di fronte al problema se un ancora più alto livello di vita valga il suo spaventoso costo in tutto ciò che è naturale, libero e selvaggio” (A. Leopold).

Nell’era dei personal computer, e del tutto elettronico, appare quasi anacronistico scrivere una lettera a mano, o leggere un libro di sera, senza guardare la televisione. La vita tecnologica condiziona ormai il modo di vivere e, quel che più preoccupa, la condizionerà maggiormente nell'avvenire, fino a trasformare l’uomo in una sorta di robot, non più mosso dai sentimenti ma soltanto da impulsi elettrici. Alcuni scienziati e sociologi affermano con convinzione che proprio la tecnologia consentirà di salvare il pianeta terra dall’autodistruzione, giacché l’affinamento della ricerca si tradurrà nella realizzazione di macchine poco inquinanti, di basso consumo e più efficienti. Ora, è inutile sottolineare l’inattendibilità di un’affermazione del genere, poiché se può essere vero che l’avanzare della tecnologia porta al miglioramento della qualità, è pur vero che, sotto la spinta della pressione demografica, è inevitabile che non si tenga conto del grado di pericolosità delle nuove scoperte, non osteggiate dall'autorità politica a causa delle rilevanti implicazioni sociali che il problema comporta. Anche la scoperta dell’energia nucleare sembrava  immune da effetti nocivi, invece poi - come sappiamo - quella innocua scoperta ha partorito la bomba atomica e il disastroso “effetto Chernobyl”. Alla stessa stregua si asseriva che le ricerche genetiche non avrebbero dato luogo a degenerazioni di sorta, poi da quelle sperimentazioni sono nati mostri che gli apprendisti stregoni non sanno esorcizzare. Qualche cosa di simile accadde nel XVIIIº e XIXº secolo, quando dalle ricerche condotte per puro spirito di conoscenza da Lavoisier, Gay Lussac, Boyle, Mariotte e Avogadro, si arrivò man mano alle applicazioni dei nostri giorni, quando l'abnorme crescita dei consumi collettivi, ha prodotto un grado di inquinamento chimico che, in modo diretto, o mediato, rischia di estinguere la vita sul pianeta terra. E. Goldsmith (1997) ci ricorda che “il progresso è antievolutivo e anti-Via che serve a sconvolgere l’ordine cruciale dell’ecosfera e a ridurne la stabilità”, mentre T. Roszak asserisce che “noi non siamo caduti tra le braccia di Gog e Magog: vi siamo progrediti”. J. Dorst (1990) a proposito dello sviluppo della scienza ci ricorda che “Di questa immensa e ingenua fiducia si è crudelmente abusato. La scienza non ha impedito le guerre, le violenze, le ingiustizie: le ha anzi rese più acute. I vantaggi da essa procurati sembrano controbilanciati dagli inconvenienti. Ogni progresso sembra farsi ripagare, talvolta dispendiosamente, con svantaggi ancora maggiori. La fisica delle particelle ci ha istruito sulla struttura della materia: noi ne abbiamo approfittato per creare l’arma nucleare. La chimica ha permesso di sintetizzare sostanze fino ad allora sconosciute e di proteggere le coltivazioni dagli attacchi dei predatori: ma noi abbiamo inquinato le terre, i mari e i fiumi riversando prodotti indistruttibili, generatori di problemi....”. Basta fare un’altra semplice riflessione: la grande foresta nordica, la Taiga, una volta al riparo dell’azione distruttrice dell’uomo grazie al suo isolamento geografico e ai rigori del suo clima, sta incominciando a vedere la caduta massiccia al suolo dei suoi giganti, al pari di quelli dell’Amazzonia, giacché la dilagante tecnologia produce macchine capaci di lavorare in quelle zone, con quel clima. Esordisce Kaczynskj nel suo manifesto (1997): “La rivoluzione industriale e le sue conseguenze sono state un disastro per la razza umana. Esse hanno incrementato a dismisura l’aspettativa della vita di coloro che vivono in paesi ‘sviluppati’ ma hanno destabilizzato la società, reso la vita insignificante, assoggettato gli esseri umani a trattamenti indegni, diffuso sofferenze psicologiche, inflitto danni notevoli al mondo naturale..... “. Scrive Dalla Casa (1996): “Il concetto di progresso è invenzione dell’Occidente per distruggere le altre culture umane e restare l’unica cultura del Pianeta: ha senso solo se si prende a riferimento una particolare scala di valori, che è sempre relativa ed arbitraria.

Il termine ‘sviluppo’ significa in realtà il grado di sopraffazione della nostra specie sulle altre specie e della civiltà industriale sulle altre culture umane”. Incalza Charles Russel (in Devall & Sessions, 1989): “Un pionere è un uomo che giunge in una terra vergine, cattura con le trappole tutte le bestie da pellicccia, uccide tutta la selvaggina, estirpa le radici (...). Un pioniere distrugge le cose e chiama questo civiltà”.

Konrad Lorenz (1984) asseriva che l’evoluzione non è di necessità finalizzata a un concetto di “meglio”, i meccanismi di adattamento non si identificano nelle idealizzazioni dell’uomo. L’attuale spinta evolutiva verso la tecnocrazia è una corsa verso il declino. “La società tecnologica estrania gli uomini non solo dal resto della natura, ma anche da se stessi e dagli altri; genera necessariamente finalità e valori distruttivi capaci spesso di compromettere l’interazione fra collettività salde e vitali e il mondo naturale.

La visione tecnologica del mondo ha come immagine ultima la totale conquista e il dominio della natura e dei processi naturali spontanei - l’immagine di un ‘ambiente totalmente artificiale’ rimodellato in base a norme umane e gestito dall’uomo per l’uomo” (Devall & Sessions, 1989).

E’ bene riflettere su quanto scrive Dalla Casa (1996): ” Il quadro concettuale dominante nella cultura europea fino al Seicento aveva tutte le premesse per iniziare una sistematica distruzione della Natura, ma mancava ancora qualcosa: il potere tecnico.

La spinta decisiva per entrare in possesso di tale potere è venuta dalla diffusione del pensiero di Cartesio, Bacone, Locke ed alcuni altri e dalla sistemazione delle scienze fisiche ad opera di Newton. La causa principale sono state le idee di Cartesio.

Quando le concezioni del pensatore francese, forse anche sull’onda di alcune felici intuizioni matematiche, si sono fatte strada nelle menti dell’Occidente, ecco formarsi il più espansivo e distruttivo modello culturale mai apparso sul Pianeta: la civiltà industriale.

E con essa è scoppiato il dramma ecologico”.

L’aberrante visione antropocentrica di Cartesio prende le mosse dalla sua netta distinzione tra “spirito” e “materia”. Solo l’uomo ha “il possesso” dello spirito, quindi tutto il resto, materia inerte, è a sua completa disposizione, forte anche dell’idea biblica “di separazione fra la nostra specie, protagonista, e il mondo, palcoscenico fatto per noi” (Dalla Casa, 1996). Tutto il mondo naturale vivente o non vivente è una sorta di grande macchina che si muove solamente sotto impulsi meccanici e metodici (gli animali per esempio sono solo degli automi che non provano alcuna sensazione o dolore). Al pensiero di Cartesio si associa quello di Locke, proteso, senza alcun rimorso, alla manipolazione, al controllo ed alla distruzione del mondo naturale. Completa il quadro Bacone che vede nel dominio della natura l’unica vera “missione” dell’uomo. Altri autori di rilievo ebbero invece una visione ben diversa delle cose (p. e. Leibniz), ma le loro filosofie non riuscirono ad imporsi come quella di Cartesio che invece divenne la colonna portante di tutto “lo sviluppo” occidentale (Dalla Casa, 1996). Sulla neutralità della scienza dinanzi alle concezioni metafisiche annota con acutezza Dalla Casa (1996): “La scienza ufficiale ricorre spesso a vere acrobazie intellettuali pur di non uscire dal paradigma cartesiano, che considera ‘ovvio’ ed ‘acquisito’. Così si trova in vie senza uscita, ed a volte è costretta a negare o a non considerare i fatti non inquadrabili in quello schema concettuale, pur di non mettere in discussione le premesse: e allora deve far sparire intere categorie di fenomeni di interferenza mascroscopica, o non-distinguibilità, fra spirito e materia, con la scusa che non sarebbero ‘ripetibili’”.

Scrive ancora Della Casa (1996): “Così l’umanità, la sola ad essere anche spirito, poteva fare ciò che voleva della natura, che sarebbe stata materia: questa idea ha aggravato il preesistente ‘diritto divino’. Con il materialismo, ultimo figlio dell’Occidente, cambia ben poco: materia contro materia, vince il più forte, che a suo piacimento può conservare pezzi di ‘natura originaria’ per allietarsi la vita: questa è l’ecologia di superficie”.

A proposito dell’intervento della tecnologia per il superamento dei problemi ambientali scrivono Devall & Sessions (1989): “Chi pratica la resistenza ecologica non accetta che esistano solo soluzioni puramente tecniche a problemi sociali in modo riduttivo (come l’inquinamento atmosferico). Questi problemi non sono altro che sintomi di questioni più ampie. Le soluzioni tecnocratiche presentano tre grandi pericoli. Il primo sta nel credere che far ricorso all’ideologia dominante e alla tecnologia sia l’unica soluzione accettabile. Il secondo pericolo è l’impressione che si stia facendo qualcosa mentre di fatto il problema reale continua a sussistere: aggiustare alla meglio distoglie dal ‘vero lavoro’. Infine c’è il pericolo di credere che nuovi esperti - come gli ecologi professionisti - possano trovare la soluzione al problema, mentre c’è il rischio che diventino gli addetti alle pubbliche relazioni di imprese ed enti con l’unico obiettivo di ottenere potere e profitto”.

Integra il discorso R. Galli (in Gamba & Martignitti, 1995): “Tra i prodotti dell’intelligenza e dell’attività umana la tecnologia è sicuramente quello che più di ogni altro è considerato responsabile del progressivo deterioramento del rapporto tra uomo e ambiente. All’impiego diffuso e persuasivo della tecnologia si attribuiscono infatti, in primo luogo,  i grandi mutamenti che l’uomo ha prodotto nel mondo naturale; non a caso per indicare il nuovo ambiente che ne è risultato è stato coniato il termine di tecnosfera. La storia della costruzione della tecnosfera si confonde con la storia dello sviluppo tecnologico ed entrambe con quella dell’emergere della questione ambientale......”.

La società contemporanea non è impostata sulla sobrietà e sull’equilibrio stazionario, ma sul consumo e sullo spreco delle risorse, in netta antitesi con la dinamica degli elementi naturali. Anche l’ex presidente degli Stati Uniti d’America (Clinton), simbolo dell’opulenza, dell’occidentalismo e del consumismo (gli americani sono il 5% della popolazione mondiale e consumano come il 35% - Storer et al., 1984), il 27 giugno 1997 in una dichiarazione alle Nazioni Unite ha asserito che la terra è in allarme rosso, sull’orlo di una crisi ambientale irreversibile. Ma poiché le questioni ambientali sono solo “formali” e non sostanziali, da simili discorsi non segue mai nulla di concreto e di esecutivo ma solo promesse di cambiamenti, parametri ipotetici da rispettare e così via (si veda anche la totale apatia e disattenzione verso i vari protocolli volti a ridurre l’impatto inquinante dell’uomo). Nessun intervento radicale e rivoluzionario viene sostenuto anche se siamo in allarme rosso: “l’Occidente è una nave che sta colando a picco, la cui falla è ignorata da tutti. Ma tutti si danno da fare per rendere il viaggio più confortevole” (E. Severino). Gary Snyder (1992) ci ricorda che “Se cercassimo davvero di insegnare loro i valori della civiltà occidentale.....non faremmo che vendere l’ideologia dell’individualismo, dell’unicità umana, della speciale dignità umana, dell’illimitato potenziale dell’Uomo, della gloria che arride al successo...... Dopo il protestantesimo, il capitalismo e la conquista del mondo, tutto sommato è forse questo il punto di arrivo della cultura occidentale”. Doug Peacock (da Snyder, 1992) riassume la cultura occidentale con tre assunti “Introversione ebraica, narcisismo greco, dominio cristiano”. Kaczynskj nel suo manifesto ci ricorda (1997): “Solo con la rivoluzione industriale l’effetto della società umana sulla natura divenne veramente devastante. Per alleviare la pressione sulla natura non è necessario creare un tipo particolare di sistema sociale; occorre solo liberarsi della società industriale. Ma anche quando questo principio fosse accettato esso non risolverebbe tutti i problemi. La società industriale ha recato inoltre un tremendo danno alla natura e passerà molto tempo prima di poterne curare le ferite. Persino le società preindustriali possono arrecare danni significativi alla natura. Nondimeno, liberarsi della società industriale realizzerà un grande progetto. Alleggerirà, nei suoi aspetti più devastanti, la pressione sulla natura così da poter rimarginare le sue ferite. Toglierà alle società organizzate la capacità di aumentare il loro controllo sulla natura (inclusa quella umana). Qualunque tipo di società possa esistere dopo il decesso del sistema industriale è certo che la maggior parte delle persone vivrà vicino alla natura, perché in assenza di tecnologia avanzata non vi è altro modo in cui la gente possa sopravvivere. Per alimentarsi dovranno tornare a essere contadini, pastori, pescatori, cacciatori, ecc. E, in generale, l’autonomia locale dovrà tornare a svolgere un ruolo significativo perché la mancanza di una tecnologia avanzata e di comunicazioni rapide limiteranno la capacità dei governi o delle altre grandi organizzazioni di controllare le comunità locali”.

Anche J. Dorst che è certamente un uomo di scienza e uno strenue difensore della ricerca scientifica sente la necessità di allarmare il mondo, attraverso le sue opere, per il profondo impatto ecologico che l’uomo riversa sull’intero pianeta. Scrive infatti (1990): “La civiltà industriale, spinta fino all’assurdo, sembra così portare in sé i germi della propria distruzione. La sua accelerazione prodigiosa fino al parossismo costituisce un esempio tipico di un fenomeno ben conosciuto dai biologi che studiano l’evoluzione delle stirpi animali. Una caratteristica apparsa con modestia si sviluppa progressivamente favorendo sempre più l’animale; la sua ulteriore esagerazione le fa presto superare i limiti della nocività: essa diventa allora contraria agli interessi stessi della specie, non avendo più alcun valore di adattamento. Molte specie sono sparite, nel corso delle ere geologiche, in seguito allo sviluppo mostruoso di una dello loro caratteristiche. Ciò che è vero per un animale lo è altrettanto per civiltà che hanno creduto per un momento che la loro crescita irragionevole fosse sinonimo di potenza e che sono sparite bruscamente, vittime del loro gigantismo........ Non si pensi dunque con distacco  alle culture che sono crollate con il passare dei secoli: la salute della nostra civiltà, così complessa e per questo stesso motivo così fragile, è una pura apparenza. I sintomi, il cui elenco si allunga continuamente, ce lo ripetono con insistenza”.

E’ fuori dubbio che alcune scoperte della scienza ci hanno portato dei vantaggi e del “benessere”, almeno per lo stile di vita contemporaneo (si pensi al campo medico, farmacologico, meccanico o ingegneristico), nè si può obiettare alcunché alla lunga lista di  “utilità” che, almeno in apparenza, la scienza ci offre (almeno per coloro che ci credono!). Questo però non dà la licenza ad una fede cieca ed acritica nei riguardi della ricerca scientifica e dell’operato degli addetti ai lavori. Non può certamente farsi di tutta un’erba un fascio ma occorre uscire fuori dagli schemi della mente contemporanea che par muoversi solo sotto gli impulsi del razionalismo e del meccanicismo. Scrive Bates (1970): “Mi sembra inutile, arrivati a questo punto, tentare di compilare una lista dei vantaggi specifici venuti alla civiltà da queste applicazioni della scienza, dato che i vantaggi, la “utilità della scienza” sono stati adeguatamente messi in risalto da tutti coloro che si sono presi il compito di “divulgare” la scienza..........

I vantaggi sono reali, ma mi domando se sono così grandi come i nostri divulgatori ci vorrebbero far credere....... L’intero concetto di progresso è qualche cosa che si è insinuato nella nostra mente con l’avvento e lo sviluppo della scienza, cosicché diviene difficile per gli scienziati sfuggire completamente al compito e alla responsabilità di determinarne la direzione e la velocità......

Soprattutto negli ultimi secoli siamo sfuggiti ai meccanismi che mantengono l’equilibrio e i rapporti nella comunità biotica. Siamo andati a briglia sciolta, come un’erbaccia introdotta in un nuovo continente. Abbiamo conservato il tasso di natalità a cui si era adattata la specie nella sua evoluzione attraverso la vita selvaggia del Pleistocene, e contemporaneamente abbiamo alterato radicalmente la natura e l’incidenza dei fattori che provocano la morte. Il risultato è una densità di popolazione che va al di là di ogni ragione, di qualsiasi possibilità di sostentamento, e non si vede ancora la fine”.

Sulla responsabilità morale della scienza moderna Hosle (1992) evidenzia che “Se paragoniamo il sapere biologico del nostro tempo con quello di Aristotele, il progresso è incommensurabile; ma se paragoniamo la sua consapevolezza della necessità dell’integrazione degli esseri viventi nella totalità dell’essere con il rifiuto da parte della moderna scienza della natura di riflettere sulle premesse filosofiche del proprio operato, allora ci assale il dubbio se questa evoluzione possa essere definita sotto tutti i rispetti come progresso; e per concludere, verrebbe voglia di parlare di decadenza se si paragonasse il senso di responsabilità morale proprio della scienza antica con il rifiuto, anzi con l’incapacità dello scienziato moderno di rispondere sul piano morale delle vaste conseguenze del proprio operato......

Son ben lontano da voler idealizzare il passato......; ma l’uomo non aveva il potere che oggi è nelle sue mani. E’ la sproporzione tra potere e saggezza che dà motivo di preoccupazione; e dal punto di vista storico questa sproporzione non può che coincidere con uno sviluppo del potere dell’uomo sulla natura quale soltanto la società industriale può consentire”.

Tornando ancora al manifesto di Kaczynskj (1997): “Immaginiamo un alcolizzato di fronte a una botte di vino. Immaginiamo che egli cominci col dire a sé stesso: ‘Il vino non ti fa danno se usato con moderazione. Perché, dicono, le piccole dosi di vino ti fanno persino bene! Non mi farà alcun male sorseggiarne un po’’. Sappiamo bene come va a finire. Non dimenticare che la razza umana rispetto alla tecnologia è un alcolizzato di fronte a una botte di vino”.

Concludiamo il paragrafo con una profonda riflessione di Fukuoka (2001): “L’uomo si vanta di essere l’unica creatura con la capacità di pensare. Pretende di conoscere se stesso e il mondo naturale, e crede di poter usare la natura a proprio piacimento. E’anche convinto che intelligenza sia sinonimo di forza e che qualsiasi cosa lui desideri sia alla sua portata.

L’umanità, evolvendosi, compiendo progressi nella scienza e ampliando smisuratamente la sua cultura materialistica, si è via via allontanata dalla natura ed è finita per costruirsi una civiltà propria, come un bambino capriccioso che si ribella alla madre. Tuttavia queste frenetiche attività, queste città gigantesche, hanno portato l’uomo verso gioie vuote e disumanizzate, verso la distruzione del proprio ambiente, mediante lo sfruttamento indiscriminato della natura. La dura punizione per esserci allontanati dalla natura e averla depredata delle sue ricchezze, si è manifestata con l’impoverimento delle risorse naturali e alimentari, gettando un’ombra oscura sul futuro del genere umano. Dopo aver aperto gli occhi sulla gravità della situazione, l’uomo ha finalmente cominciato a considerare il da farsi, ma, a meno che non sia disposto a un serio esame di coscienza, non potrà fare a meno di seguitare sulla via della totale rovina.

Estraniatosi dalla natura, l’esistenza umana diventa vana, la sorgente vitale e la crescita spirituale si inaridiscono. L’uomo si ammala e si indebolisce sempre di più a causa della sua strana civiltà che altro non è se non una inutile lotta per un frammento di tempo e di spazio”.

Il concetto che i processi mentali siano superiori nell’ambito umano è un’argomentazione del tutto pretestuosa, spocchiosa e che sa tanto di un ennesimo accentramento antropocentrico. Goldsmith (1997) ci chiarisce bene il concetto: “L’idea che i processi mentali dell’uomo siano categoricamente distinti da quelli di altri animali è un’assunzione gratuita che non si basa su nessuna conoscenza valida di alcun tipo. In particolare, è gratuito sostenere, come fa attualmente la scienza ufficiale, che solo gli esseri umani siano ‘intelligenti’ - tanto più che il termine non è mai stato definito in modo soddisfacente. Dichiaratamente, abbiamo dei test d’intelligenza, ma, come osserva Herrick, ‘non sappiamo esattamente che cosa misurino’. Alcuni autori, tra i quali Ashis Nandy, sostengono che l’intelligenza è poco più che ‘ciò che è misurato dai test d’intelligenza’”.