lunedì 29 novembre 2021

Il contratto sociale

Wild Nahani

Illustrazione di Elzbieta Mielczarek

NB. Testo tratto dal libo "L'uomo naturale"


“In questo mondo, il migliore dei mondi possibili, ogni evento è 

interconnesso” (Candide, Voltaire).”L’uomo ha perduto la capacità di prevedere e di prevenire. Andrà a finire che distruggerà la terra” (Albert Schweitzer, in Rachel Carson, 1963, una precorritrice delle problematiche attinenti alle distruzioni ambientali).

Se, come dice l’Hegel, la creazione dello stato è l’ingresso di Dio nel mondo, è pur vera l’affermazione dell’Hobbes che individua la matrice statale nel reciproco timore che spinge gli uomini ad associarsi, inducendoli a rinunciare al diritto naturale. Rousseau osserva: “Il primo che avendo cintato un terreno pensò di dire “questo è mio” e trovò delle persone abbastanza stupide per credervi, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, guerre, assassinii, quante miserie e errori avrebbe risparmiato al genere umano chi, strappando i pioli e colmando il fossato, avesse gridato ai suoi simili: “Guardatevi dal credere a questo impostore! Se dimenticate che i frutti sono di tutti e che la terra non è di nessuno siete perduti!”...........Dal momento in cui un uomo ebbe bisogno dell’aiuto di un altro, dal momento in cui si accorse che era utile ad uno solo aver provviste per due, l’uguaglianza disparve, si introdusse la proprietà, il lavoro divenne necessario, le vaste foreste si cambiarono in ridenti campagne che gli uomini dovettero bagnare con il loro sudore e nelle quali si videro presto germogliare e crescere, insieme alle messi, la schiavitù e la miseria..........Da libero e indipendente che era prima ecco l’uomo, a causa di una moltitudine di nuovi bisogni, asservito, per così dire, ai suoi simili, di cui in un certo senso diventa schiavo anche quando sembra diventarne il padrone. Se è ricco ha bisogno dei loro servizi, se è povero ha bisogno del loro aiuto, e la mediocrità non lo mette affatto in condizione di poter fare a meno di loro........”. Siamo dunque innanzi ad un contratto sociale che non discende da valori assoluti ma che ha invece la propria fonte nel reciproco timore e nell’istinto di “conservazione”. Questi scopi, è vero, appaiono conseguiti, almeno nella loro essenza, nell’aggregazione statuale, ma non possiamo esimerci dal ricordare le lacerazioni che nel corso della storia sono avvenute all’interno stesso degli stati, tra le quali vogliamo emblematicamente ricordare la lotta tra Cesare e Pompeo, o quella tra Ottaviano e Antonio. Ma il fallimento più clamoroso della costituzione dello stato è rappresentato dalla sua incapacità di trasferire i propri principi etici ai rapporti con gli altri stati. E’ con orrore che lo studioso deve soffermarsi a considerare quanto è avvenuto nel corso della storia, contrassegnata com’è dalla violenza, dalle guerre, dai massacri, dalle sopraffazioni, sì che essa appare scritta col sangue, perché troppe Arbie si sono tinte di rosso. Quale ottimismo può germogliare innanzi a simili orrori? E’, in essenza, il trasferimento dello “homo hominis lupus” dell’Hobbes, dall’ambito dei rapporti individuali a quello dei rapporti tra gli stati che si affrontano in conflitti immani (come quello che Benedetto XV° definì “l’inutile strage”, o come l’altro conflitto mondiale, a noi ancora vicino, ma non abbastanza ammonitore. Vedasi poi le tante guerre sparse per il mondo). Com’è possibile accettare il pensiero del Locke e del suo “homo homini deus”?. Sovviene a questo punto l’ironia del Voltaire che nel Candide tratteggia dal par suo il naufragio dell’ottimismo leibniziano innanzi alla dura realtà del mondo.

Il pessimismo non deve tuttavia identificarsi con la filosofia della disperazione, ma deve anzi impegnarci a ricercare nuovi modi di vivere, una nuova “Weltanschaung”. Ma in realtà non si può lottare contro la gente di oggi. Le lacerazioni dell’uomo sull’uomo hanno compreso anche il rapporto uomo-natura, e il pessimismo prende inevitabilmente il sopravvento. “La società e le leggi…. Posero nuovi ostacoli al debole e dettero nuove energie al ricco, distrussero definitivamente la libertà naturale, fissarono per sempre la legge della proprietà e dell’ineguaglianza… e, per il profitto di qualche ambizioso, assoggettarono il genere umano al lavoro, alla servitù e alla miseria” (J.J. Rousseau).

La lotta di classe, la sopraffazione dell’uomo sull’uomo, sviluppa la sopraffazione dell’uomo sull’ambiente. Concepire il valore in sé della natura, in una visione non utilitaristica, otterrebbe una riconnessione con la natura e, conseguentemente, la nascita di una società egalitaria e “umana”: “..la maggior parte dei nostri problemi ecologici ha le sue radici in problemi sociali e che l’attuale disarmonia tra umanità e natura può essere ricondotta essenzialmente ai conflitti sociali. Non credo che si possa giungere ad un equilibrio tra umanità e natura se non si trova un nuovo equilibrio - basato sulla libertà dal dominio e dalla gerarchia - in seno alla società” (Bookchin, 1989). Incalza Hosle (1992): “... lo Stato di diritto sociale e democratico dev’essere al contempo uno Stato ecologico. Con ciò intendo dire che uno dei più importanti compiti dello Stato deve consistere nel conservare i fondamenti naturali della vita......”.

Ma purtroppo, le classi egemoni “orientano” integralmente il pensiero delle masse, con i mezzi più subdoli e penetranti. L’ideologia della cieca logica del profitto è la caratteristica mentale dei nostri tempi, ormai saldamente radicata in ampi strati dell’opinione pubblica e del tessuto sociale. Questo rende ancor più difficile la proposta e la successiva affermazione di una nuova quanto antica ideologia estremamente pratica basata, come detto, sulla riconnessione dell’uomo con l’uomo e dell’uomo con la natura, intima unione ed un tempo vera essenza della vita. Un totalizzante contrasto viene dalle forze scatenanti e prevaricatrici del capitalismo e quindi dell’occidentalismo, tutte proiettate verso l’illimitato accumulo del denaro e del potere decisionale. A proposito del capitalismo scrive Bookchin (1989): “Una cosa comunque deve essere ben chiara: è un sistema che deve espandersi continuamente fino a distruggere tutti i vincoli tra società e natura, come dimostrano i buchi nello strato di ozono e l’aumento dell’effetto serra. E’ letteralmente il cancro della vita sociale”.

Un’ideologia del valore intrinseco delle cose deve dunque confrontarsi, in una lotta impari, con il valore utilitaristico del pensiero corrente occidentale, valore sorretto dalle forti spinte economiche. Tra l’altro occorre ricordare che il contratto sociale fortemente articolato ha progressivamente ridotto la “vera” libertà individuale. Kaczynskj (1997) ci ricorda che “Libertà significa essere in grado di controllare (sia come individuo che come membro di un piccolo gruppo) tutti gli aspetti relativi alla propria vita-morte; cibo, vestiti, riparo e difesa contro qualsiasi pericolo ci possa essere nel proprio circondario. Libertà significa avere il potere; non il potere di controllare altre persone ma il potere di controllare le circostanze della propria vita. Nessuno è libero se qualcun altro (specialmente una grossa organizzazione) lo ha in suo potere, non importa con quanta benevolenza, tolleranza e permissivismo questo potere sia esercitato... “.

In questa immane dialettica, lo sviluppo economico-sociale, dapprima limitato, necessario e controllato, assume poco alla volta un carattere invadente e prevaricatore. Le necessità economiche delle classi lavoratrici, ormai inserite in un tessuto sociale degenerante, spingono gli Stati e ancor più gli imprenditori privati (in società o in proprio), ad “investire” i capitali nella produzione di beni, spesso inutili, con la sola logica del profitto. La società allora affonda progressivamente in una illusione “produttivistica” con l’intento di avere e di accumulare sempre di più. Le classi borghesi si assicurano l’”avere”, mentre quelle imprenditoriali l’accumulo. La logica è quella del profitto, come sappiamo, ed allora i parametri del buon senso e della mediazione perdono ogni significato. La società consumistica, con l’ideologia delle false necessità, spinge il singolo a chiedere le cose, che il sistema partorisce a ritmo incalzante (il concetto di sviluppo è una definizione che viene ripetuta incessantemente come un disco incantato). Ma la parabola dapprima illusoriamente ascendente piega la sua curva, perché la logica perversa del capitalismo pone le sue fondamenta nel saccheggio dell’ambiente, sia nel senso dei prelevamenti (energia, materie prime, ecc.) che in quello dei rilasci (inquinamento dei rifiuti). Il cerchio si chiude ed il sistema umano affonda nella palude e purtroppo con esso anche gli elementi della natura. Marx asseriva che lo sfruttamento della natura è una delle contraddizioni del capitalismo; più in generale direi che la distruzione della natura è il risultato della società umana “civilizzata”! L’uomo è capace di rovinare tutto ciò che tocca perché in fondo la “civiltà” ha in sé il germe della propria distruzione e della distruzione del mondo.

Scrive ancora Murray Bookchin (1995): “La ‘civiltà’ come noi la conosciamo oggi è più muta di quella natura per la quale pretende di parlare e più cieca di quelle forze elementari che pretende di controllare. In realtà, questa ‘civiltà’ vive nell’odio per il mondo che la circonda e nell’odio per se stessa. Le sue città sventrate, le terre rovinate, l’acqua e l’aria avvelenate, la sua meschina ingordigia sono un’accusa quotidiana alla suo odiosa immoralità. Un mondo così ridotto è forse irrecuperabile, per lo meno nel quadro delle sue attuali strutture istituzionali ed etiche......... Questo pianeta si merita un destino migliore di quello che sembra attenderlo nel futuro, se non altro perché la storia, compresa la storia umana, è stata così ricca di promesse, di speranze, di creatività”.

Paradossalmente si potrebbe considerare che anche le opere dell’uomo (città, macchine, tecnologia, ecc.) siano in una qualche misura cose “naturali”, frutto dell’ingegno e dell’evoluzione di un essere senziente. Ciò potrebbe anche essere vero, ma questa “natura umana” è in netto contrasto con tutte le “cose naturali” non umane. Il mondo antropico non solo si oppone e si scinde da quello della natura, ma determina la totale distruzione e prevaricazione di quest’ultimo. In sintesi nessun accordo armonico è possibile stabilire tra le parti perché la scissione determina sempre contrasto e antitesi. Scrisse J. Muir (1995) “Chiamo Carlo e per tornare a casa, ripercorro il disagevole tratto di Indian Canon, lieto di essere dove sono e compatendo in cuor mio il povero professore e il generale, vincolati da orologi, calendari, ordini, doveri e quanti altri legami e sempre  costretti a vivere gli affanni della vita di pianura, la polvere e il rumore, mentre il povero, insignificante vagabondo gode la libertà e la grandiosità della divina natura selvaggia”.

Il concetto di globalizzazione, oggi tanto diffuso e popolare, è un concetto che rende le società umane sempre più dipendenti le une dalle altre, causando un indebolimento dello spirito di “sopravvivenza” tanto che ognuno di noi è sempre più schiavo dei meccanismi infernali della vita quotidiana. Se un tempo, per esempio, un piccolo borgo di montagna rimaneva isolato per mesi durante il lungo inverno, la popolazione era perfettamente in grado di sopravvivere grazie ad una buona dose di autarchia che regnava sia nello spirito che nella pratica quotidiana. Oggi, un borgo, se perde per qualche giorno la strada di accesso, entra in una profonda crisi sia materiale che spirituale. Ecco il risultato delle catene sociali che stiamo amplificando sempre più. Una dipendenza ormai irrinunciabile. Il contratto sociale dovrebbe stipularsi tra piccoli gruppi autonomi senza creare immani strutture sociali fortemente dipendenti le une dalle altre, non libertarie e sempre più ingovernabili. Ovviamente non ci riferiamo alle dipendenze ecologiche proprie degli ecosistemi, ma a quelle catene non cicliche ed inutili che permeano sempre più i rapporti sociali. Lo sviluppo enorme del terziario e dell’industria ha contribuito definitivamente all’asservimento e alla vulnerabilità delle masse.

Scrive Bookchin (1989): “Affinché la tendenza venga invertita, il capitalismo deve essere sostituito da una società ecologica fondata su relazioni non gerarchiche, su comunità decentrate, su ecotecnologie come l’energia solare, sull’agricoltura organica e su industrie a misura umana, insomma forme di insediamento veramente democratiche, economicamente e strutturalmente coerenti con l’ecosistema in cui si trovano collocate”. Ma una società ecologica non può nascere all’interno del sistema attuale, ma solo da un atto “rivoluzionario”, radicale e totalizzante. Afferma infatti Bookchin (1989): “.... Esso è fondato sull’opinione decisamente errata che la nuova società debba nascere nel seno stesso della vecchia, crescendovi e sviluppandosi come un figlio vigoroso capace di imporsi ai suoi genitori o distruggerli”.

Il contratto sociale sebbene abbia una genesi di positività si è trasformato in una multiforme varietà dove giganteggiano esclusivamente il potere quanto più illimitato possibile, la sopraffazione, le disparità sociali, le menzogne, le mere illusioni, le distruzioni, le discriminazioni, le guerre e chi più ne ha ne metta. Non sembra affatto un buon “contratto”. Riflettiamoci un po’! Concludiamo con una massima di E. B. White, citata dalla Carson nell’epigrafe del suo capolavoro Primavera silenziosa (1963): “Sono pessimista sulla sorte della razza umana perché essa ha troppo più ingegno di quanto ne occorra al suo benessere. Noi ci accostiamo alla natura solo per sottometterla. Se ci adattassimo a questo pianeta e lo apprezzassimo, invece di considerarlo in modo scettico e dittatoriale, avremmo migliori probabilità di sopravvivere”.

venerdì 29 ottobre 2021

La religiore

Wild Nahani


Illustrazione di Elzbieta Mielczaek



“L’uomo ha sempre saputo; ha sempre saputo che la vita è fondamentalmente buona, che l’universo, le stelle nel cielo, gli animali, le piante, i minerali, gli elementi della terra non sono malevoli, ma cosmicamente impregnati del proposito ordinatore.

Il proposito è la sacralità inerente, l’ordine dell’universo in se stesso. Finché l’uomo ha rispettato questa sacralità, finché ne ha ordito il modello nel suo cuore attraverso l’umiltà e l’interiore sintonia spirituale, il modello della società umana ha anch’esso riflesso la sacralità e l’ordine di cui tutte le cose sono dotate” (J. Arguelles , in J. Levey, 1988).


A questo punto occorre occuparsi, sia pure con un rapido “excursus”, dell’influenza esercitata dal pensiero religioso nei confronti del rapporto che, nel corso dei millenni, l’uomo ha intrattenuto con l’ambiente, osservando preliminarmente che, ove si escluda il Taoismo e il Buddismo (almeno in parte), e non considerando la filosofia di vita di buona parte degli indiani d’America e di pochi altri popoli “nativi”, carattere comune a quasi tutte le religioni è l’antropocentrismo nel quale l'uomo è il "signore del creato".

Tutto è a disposizione del genere umano e nulla ha valore al di fuori della cerchia antropica. La diffusione delle religioni antropocentriche ha avuto un effetto devastante sulla natura tanto che quest'ultima, soggiogata e asservita alle cieche necessità umane, è stata sempre considerata una fonte inesauribile da dove attingere a piene mani senza limiti e senza rispetto. All'apice dell'uomo sta un "essere superiore" (leggasi Dio) che si preoccupa solamente di lui, lo illumina, lo guida, lo protegge e lo esalta nella vita eterna. Dinanzi ad uno scenario così accentrato quale spazio e significato potrà avere il verde di una foresta, lo sguardo di un lupo, il volo di una uccello o la corsa di un ghepardo? Nessuno, sono solo esseri di contorno che l'uomo religioso vede intorno a lui, ma che considera solo alla stregua dei suoi bisogni e della sue necessità. Questo modo di pensare e di agire, unitamente ad altri fattori storico/filosofici, ha determinato il distruttivo dualismo tra l'uomo da una parte e la natura dall'altra, esterna ed indipendente creata esclusivamente per il "signore del creato". La nascita di questo dualismo è all'origine di tutte le concezioni "violente" dell'uomo verso la natura, distaccato da una realtà che all’inizio lo vedeva integrato. Murray Bookchin scrive (AA.VV., 1987): “Per superare il problema del conflitto tra necessità e libertà, fondamentalmente, tra la natura e la società, dobbiamo fare di più che costruire semplicemente ponti tra l’una e l’altra, come avviene nei sistemi di valori fondati su atteggiamenti puramente utilitaristici nei confronti del mondo naturale. La denuncia dell’abuso che l’uomo fa della natura, compromettendo le condizioni materiali della sua stessa sopravvivenza, è indubbiamente fondata, ma del tutto strumentale. Essa presuppone infatti che il nostro interesse per la natura si basi sull’interesse personale, piuttosto che su una sensibilità verso la comunità vivente di cui siamo parte, seppure in modo assolutamente unico e peculiare. Da tale punto di vista, il nostro rapporto con la natura si riduce alla possibilità di saccheggiare il mondo naturale senza arrecare danno a noi stessi, purché riusciamo a trovare sostituti fattibili o adeguati (per quanto sintetici, semplici o meccanici che siano) delle forme di vita esistenti e dei rapporti ecologici. Il tempo ha dimostrato che proprio questa concezione ha giocato un ruolo preminente nell’attuale crisi ecologica, una crisi che non è soltanto la conseguenza di una distruzione fisica, ma anche di un serio sconvolgimento delle nostre sensibilità etiche e biotiche”. L'uomo, nella maggior parte dei credi religiosi, non si è più curato dell'unità della propria vita con quella dell’”esterno da sé" e, conseguenza della radicale scissione, si è sentito al centro del motore dell'universo e conseguentemente ha governato da despota un potere mai dato ma rubato o meglio inventato. Purtroppo i contenuti spirituali della maggior parte delle religioni non hanno proiettato l'uomo in una dimensione universale della vita, ma lo hanno condotto verso una cieca visione egoistica ed accentratrice. E' questo il "peccato mortale" di molte “fedi”, che, scevre da quella visione unitaria e globale, hanno "imposto" all'uomo il senso del dualismo creando un dissidio inconscio verso ciò che è esterno da lui. 

“Il pensiero occidentale è dominato per secoli dalla filosofia aristotelica, ma a partire dal sedicesimo secolo si assiste a un mutamento radicale che segna il passaggio dall’antica concezione di un universo organico e vivente a quella di un mondo-macchina. Questa rivoluzione avviene in seguito alle scoperte di Cartesio, Galileo e Newton in campo matematico, fisico e astronomico. Cartesio separa la res extensa dalla res cogitans cioè lo spirito dalla materia. L’Uomo è l’unico essere dotato di entrambe: ha un corpo il cui funzionamento è descrivibile in termini meccanici ma possiede anche una mente ragionevole, sede del pensiero. Questo lo rende diverso e superiore a tutto il resto della Natura la quale è costituita esclusivamente da elementi materiali, è una grande macchina governata da precise leggi matematiche che l’Uomo può conoscere e dominare.” (Guarraci, 2004). 

Ma elementi destabilizzanti che rendono l’uomo ostile a se stesso e alla natura tutta si rilevano fortemente nella concezione biblica/cristiana del mondo. In quest’ultima, citando Kaiser (1992) ricordiamo che “si crea un abisso tra il mondo, fonte di pericoli e minacce, e i credenti, e si predica ostilità nei confronti della terra....Nella Genesi dell’Antico Testamento l’uomo, considerato soprattutto sotto un profilo spirituale in quanto simile a Dio, viene chiamato di conseguenza a dominare sul resto della natura.......Così il racconto della Creazione non solo ha gettato le basi del dualismo tra Dio e il mondo, ma anche di quello tra l’uomo e il resto del creato, la natura: vale a dire tra l’uomo e il suo mondo. “ Forse”, come scrive Frank Water, “proprio in questa concezione dualistica, che divide l’uomo dalla natura, sta la radice della tragedia umana dell’Occidente””. Scrisse B. Russel (1959): “La religione si basa, ritengo, prima di tutto e soprattutto sulla paura. E’ in parte il terrore dell’ignoto, e in parte il desiderio di sapere che abbiamo una specie di fratello maggiore accanto a noi in tutti i guai e le dispute. La paura è il fondamento di tutto: paura del misterioso, paura della sconfitta, paura della morte”.

Quanto sarebbe più nobile vivere una spiritualità universale, non disgiunta, nella quale l'uomo, elemento di un’ampio infinito sistema, svolga la propria parte al pari di una pietra, di un fiore, di una montagna o di un lupo. Ciò non esclude nessun pensiero che consideri importante l'uomo per l'uomo senza però giungere a sentire l'universo come elemento di appendice alla sua vita. Se l'uomo occidentale è riuscito a sviluppare una si' ampia e distorta spiritualità ha perso la grande opportunità di elevarsi al di sopra della mediocrità antropocentrica dove l'uomo e soltanto l'uomo inteso sia come specie che come singolo individuo, ha valore. Ma è bene ricordarsi che nella convivenza sociale una spiritualità così accentratrice non potrà che portare a continue scissioni, dissidi, intolleranze e incomprensioni. 

Prendiamo a paragone di esempio il Cristianesimo. Esso, pur esprimendo alle sue origini il culto della mitezza e della non violenza, non ha saputo coerentemente trasferire quei principi al rapporto che l’uomo ha con la natura, in quanto rimase condizionato, come abbiamo visto, dalla radice storico-teologica espressa dal Vecchio Testamento. Si legge infatti nella Bibbia (Genesi 1,26): “Facciamo l’uomo che sia la nostra immagine, conforme la nostra somiglianza, ed abbia dominio sui pesci del mare, sui volatili del cielo, sul bestiame e su tutte le fiere della terra, e anche su tutti i rettili che strisciano sulla terra” e poi fatto l’uomo Dio disse (Genesi 1, 28): “Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra e soggiogatela e abbiate dominio sui pesci del mare e sui volatili del cielo, sul bestiame, e su tutte le fiere che strisciano sulla terra”. 

Parole che pesano come macigni, parole che portano al trionfo dell’antropocentrismo. “...Dio, conferendo una legittimazione divina alle mire di dominio cosmico dell’uomo, gli comanda di sottomettere a sé la terra” (Kaiser, 1992) . Solo il Buddismo, tra le più grandi concezioni religiose, ha saputo cogliere, almeno in buona parte, come abbiamo prima sottolineato, il carattere unitario uomo-natura anche se ovviamente è sempre l'uomo che recita la parte principale; tra i fondamentali principi del Buddismo ve n’è uno che recita: ”ogni uomo è portato a tenere un costante amore verso un suo fratello e verso gli animali”, oppure un altro: "......Poiché colui che si rende conto appieno dell'intima unione tra la sua vita ed ogni altra forma di vita, troverà che la sua coscienza si espande, e via via che comprende, ama: fino a che il palpito del suo cuore, s'identifica col palpito dell'universo e la sua coscienza coincide con tutto quanto ha vita. L'amore, naturalmente, ha altrettante forme quanti sono gli esseri che lo racchiudono, tuttavia, in definitiva, ciò che è meramente personale deve cedere il passo all'impersonale, ciò che è egoistico deve recedere dinanzi a quanto è altruistico........".

Quando, muovendo da sì sconsolate meditazioni, si ripercorre secolo dopo secolo la vicenda umana, fino ad arrivare, tra scenari di genocidi e di immani rovine, alla storia del XIIº secolo, ci si trova all’improvviso al cospetto della figura di Francesco di Assisi; quale indescrivibile illuminazione, quale vivido raggio di luce va a posarsi allora sulla storia della Chiesa cattolica! Quale vero e proprio atto rivoluzionario è il “Cantico delle Creature”! E quel Canto appare ancora più sublime se al ripetitivo “sii lodato mio Signore” non si fa seguire il “propter” latino che può tradursi “a causa di”, ma si fa invece seguire il “par” francese, che suona “da parte di”, sicché è un coro di mille e mille voci quello che si innalza dalle creature in lode del Signore. “Già nel tredicesimo secolo San Francesco d’Assisi cercò di distogliere il cristianesimo dalla tesi antropocentrista prevalente in favore di una posizione biocentrica più animista e più antica ‘proponendo una democrazia di tutte le creature di Dio’” (Devall & Sessions, 1989).

Scrive C. G. Jung “Nulla riusciva a convincermi che il ‘fatto a immagine di Dio’ dovesse riferirsi solo all’uomo. In realtà credevo che gli alti monti, i fiumi, i laghi, gli alberi, i fiori e gli animali manifestassero l’essenza di Dio assai meglio degli uomini, con i loro ridicoli vestiti, le loro meschinità, la vanità, la menzogna, l’odioso egotismo...”.

Gli indiani Nordamericani, salvo eccezioni, sono il più vivido esempio di una visione unitaria della vita e della pratica spirituale. Vi è un abisso tra il loro modo di pensare e di agire e il nostro in quanto “....il pensiero fondamentalmente globale, olistico degli indiani americani e di altri popoli nativi, si contrappone al pensiero dualistico occidentale” (Kaiser, 1992). Un artista pueblo disse “Solo dopo essermi liberata dal cristianesimo riacquistai la sensazione di essere integra, di aver raggiunto il mio equilibrio, di essere indiana” (Kaiser, 1992). Scrive ancora Kaiser (1992): “Tutti gli sforzi per vincere la crisi attuale della nostra concezione del mondo sono tesi ogni volta a superare il dualismo di impronta occidentale e a ritrovare la strada che porta al mondo globale, perduta più di duemila anni fa.

Un aspetto centrale di questo dramma concettuale è rappresentato dalla questione della sacralità o meno del mondo. Prima che il mondo unitario e globale fosse scisso in due sfere dell’essere, esso era inteso come spirituale e materiale allo stesso tempo, divino e terreno, trascendente ed immanente....... Questo mondo tutto ripieno di spirito divino era considerato intero e quindi sacro. Solo dopo la differenziazione tra sacro e non sacro, e dopo lo scioglimento dello stretto intreccio tra divino e mondano si arrivò gradualmente a concentrare tutta la sacralità nel Dio trascendente e, di conseguenza, alla dedivinizzazione o sconsacrazione del mondo della materia.....

A tutto ciò si contrappone la visione globale del mondo degli abitanti dell’America prima dell’arrivo degli europei: praticamente tutte le popolazioni native americane condividevano la concezione mitica di un mondo in cui le sfere dello spirito e della materia, del sacro e del profano non erano rigorosamente distinte, ma formavano un’unica globalità....”.

Integra il discorso Dalla Casa (1996): “Nelle concezioni orientali le altre specie viventi sono composte di esseri che vivono in modi diversi la nostra stessa avventura, con pieno diritto ad una vita libera ed autonoma. Invece, nel nostro mondo, i cosiddetti ‘movimenti per la vita’ ritengono ovvio occuparsi solo della vita umana, senza neanche il bisogno di precisarlo. Dell’equilibrio e dello stato di salute della Vita, cioè del Complesso dei Viventi, non si preoccupano affatto”. Un classico atteggiamento del genere è evidenziato chiaramente da molti credenti che si preoccupano esclusivamente ed egoisticamente della vita umana! Hosle (1992) annota saggiamente che: “Le Chiese dovranno modificare radicalmente la loro maniera di predicare: al giorno di oggi colui che opera in modo ecologicamente consapevole può affermare di seguire lo spirito dell’etica cristiana con maggior diritto di chi tramanda credenze che possono anche essere degne di rispetto per la loro vetustà, ma che danno uno scarso contributo alla soluzione dei problemi riguardanti l’esistenza del genere umano. E’ palese che in questo contesto andrebbe rivista anche la formazione dei teologi: mi sembra che per un maestro di morale (perché anche questo dovrebbe essere il sacerdote) alcune nozioni fondamentali in materia di ecologia siano più importanti di uno studio dettagliato della scienza liturgica”.

A proposito di tutte le speculazioni umane sul significato e sugli scopi della nostra vita, speculazioni che hanno coinvolto una fila interminabile di filosofi, teologi e quanti altri, Watts (1978) ci ricorda magistralmente: “Forse cominciamo a comprendere perché quasi tutti gli uomini hanno la tendenza a cercare conforto tra gli alberi e le piante, i monti e le acque.......forse la ragione di questo amore per la natura non umana è che la comunione con il mondo naturale ci riporta a un livello della natura umana nel quale siamo ancora sani, liberi dalle sciocchezze e dalle ansiose domande sul significato e lo scopo della nostra vita. Infatti quella che chiamiamo ‘natura’, è un mondo libero da un certo tipo di presunzione e di scaltrezza. Gli uccelli e le bestie si impegnano a cercare il cibo e a generare con la massima devozione, ma non cercano giustificazioni, non pretendono che le loro azioni siano al servizio di fini superiori o che contribuiscano in modo rilevante al progresso del mondo”.

John Muir con la sua infinita acutezza di pensiero scrisse (in Devall e Sessions 1989): “Supponete che un cacciatore cristiano vada dal Signore dei boschi e uccida le sue bestie migliori o gli indiani selvaggi e non ci sarà niente da ridire. Ma immaginate che una di queste vittime predestinate, un po’ più intraprendente delle altre, vada nelle case e nei campi e uccida il più insignificante appartenente a questi assassini su due zampe fatti a immagine di Dio e questo sarà assolutamente poco ortodosso e, se l’assassino è un indiano, un atroce delitto. Beh, provo scarsissima simpatia per l’egoistica proprietà dell’uomo civilizzato, e se scoppiasse una guerra fra gli animali selvaggi e il Signore Uomo, sarei tentato di simpatizzare per gli orsi...

Ci è stato detto che il mondo è stato creato per l’uomo. E’ una supposizione completamente smentita dai fatti. Sono in molti a stupirsi quando nell’universo di Dio trovano qualcosa, vivo o morto, che non è commestibile o non è, come si dice, utile per l’uomo. Non contenti di prendere tutto dalla natura, pretendono anche lo spazio divino come fossero le uniche creature per le quali è stato progettato questo insondabile impero...

E’ molto più probabile che la natura abbia creato gli animali e le piante per la loro stessa felicità piuttosto che per la felicità di uno solo dei suoi elementi. Perché l’uomo dovrebbe reputarsi più importante di una entità infinitamente piccola che compone la grande unità della creazione?.....”.

Per completare la breve dissertazione non vi è passo più appropriato di quello di Gregory Bateson (1976): “Se mettete Dio all’esterno e lo ponete di fronte alla sua creazione, e avete l’idea di essere stati creati a sua immagine, voi vi vedrete logicamente e naturalmente come fuori e contro le cose che vi circondano. E nel momento in cui vi arrogherete tutta la mente, tutto il mondo circostante vi apparirà senza mente e quindi senza diritto a considerazione morale o etica. L’ambiente vi sembrerà da sfruttare a vostro vantaggio. La vostra unità di sopravvivenza sarete voi e la vostra gente o gli individui della vostra specie in antitesi con l’ambiente formato da altre unità sociali, da altre razze, dagli altri animali e dalle piante.

Se questa è l’opinione che avete del vostro rapporto con la natura e ‘se possedete una tecnica progredita’, la probabilità che avete di sopravvivere sarà quella di una palla di neve all’inferno. Voi morrete a causa dei sottoprodotti tossici del vostro stesso odio o, semplicemente, per il sovrappopolamento e l’esagerato sfruttamento delle risorse”. 


“Non credete a ciò che avete udito; non credete alle tradizioni solo perché sono state tramandate per generazioni; non credete in qualcosa perché ne è corsa voce o molti ne hanno parlato; non credete semplicemente perché vi viene citata un’affermazione scritta di un qualche antico saggio; non credete nelle congetture; non credete in ciò che considerate vero perchè vi ci siete attaccati per abitudine. Non credete semplicemente all’autorità dei vostri maestri e degli anziani.

Dopo osservazioni e analisi, quando la verità che avete trovato da voi stessi si accorda con la ragione e contribuisce al bene e al miglioramento di ognuno, allora accettatela, praticatela e vivete secondo essa” (Il Buddha - in J. Levey, 1988).

“Credo nel Dio di Spinoza, che si manifesta nell’armonia di tutte le cose, non in un Dio che si interessa del destino e delle azioni degli uomini” (A. Einstein).

“Nel mondo indiano non esiste la concezione secondo cui l’essere sarebbe distribuito lungo una scala verticale, con la terra e gli alberi collocati sui gradini più bassi, gli animali un po’ più in alto e l’uomo, soprattutto quello civilizzato, in cima. Tutte le cose sono considerate piuttosto come sorelle o parenti; tutte sono figlie del Grande Mistero e della Madre Terra, e membri necessari di una globalità ordinata, equilibrata e vitale” (Paula Gunn Allen, in Kaiser, 1992). 

lunedì 27 settembre 2021

La filosofia della conservazione della natura

Wild Nahani


Illustrazione di Elzbieta Mielczarek


"Quando avrete inquinato l'ultimo fiume, catturato l'ultimo pesce, tagliato l'ultimo albero, capirete, solo allora, che non potrete mangiare il vostro denaro" (profezia degli indiani Cree). 

La materia che concerne la conservazione della natura può essere definita una vera e propria scienza filosofica che ha stretti  legami con l’ecologia. Occorre però avvertire che, quantunque un siffatto legame appaia intrinseco, sarebbe erroneo considerare la conservazione della natura un’esigenza che si esaurisce nella pura sfera scientifica, poiché essa ha una connotazione ben più ampia che spazia dalle implicazioni etiche a quelle sociali e politiche. D’altra parte una tale puntualizzazione giova anche all’ecologia in sé stessa, che, operando già in una sfera tanto vasta, non può sopportare altre sovrapposizioni. 

La scienza ecologica offre senza dubbio le basi alla conservazione dell’ambiente, ma questa dovrà poi percorrere una propria strada che è irta di ostacoli spesso difficilmente superabili. Infatti, la protezione della natura, entrando inevitabilmente in conflitto con le attività umane che turbano l’equilibrio dell’ecosistema, trova spesso una opposizione totalizzante e tenace, come sa esserlo solo quella connessa a interessi economici.

Il degrado ambientale è arrivato a sì alto livello che a volte l’animo del naturalista ne rimane sopraffatto al punto da non essere più in grado di appellarsi al rigore mentale, senza il quale non può impostare le direttive per la soluzione dei problemi. Accade invece altre volte che il naturalista abbia la ventura di portare i propri passi in zone, sempre più rare, non ancora ferite dal degrado, e allora l’incessante dialogare della natura lo affascina, ora con l’apparire delle tenui luci del sottobosco, ora con il bagliore di grandi distese di ghiaccio, ora col nitido stagliarsi di vette immacolate, ora col rosseggiare della faggeta in autunno.

“Una foresta ininterrotta si stende da tutte le parti della capanna in cui scrivo, fluisce innanzi, in un cupo fiotto ondeggiante, verso settentrione, fino all’Oceano Artico. Nessuna ferrovia la traversa, per bruciare e distruggere, nessun colonizzatore la rovina col fuoco e con l’ascia. Da ogni eminenza, si possono contemplare leghe innumerevoli di Foresta, che non nutrirà mai le fauci affamate del commercio.

Questo è un posto differente, è un’altra giornata.

In nessun luogo qui la vista delle ceppaie e delle nobili vette abbattute offende l’occhio o rattrista lo spirito; né la bellezza strana, selvaggia, inimmaginabile di questi tramonti nordici è sfigurata da filari e filari di alberi scheletrici ed orrendi......... Ritorno alle origini? Forse sì; ma ci hanno portato fortuna.

Tutti i sogni sono diventati veri, e anche più. Scomparsa è la paura assillante di una mano vandalica. La vita selvatica in tutte le sue numerose varietà, animali ritenuti timidi ed elusivi ci passano ora quasi a portata di mano, e a volte si fermano presso la capanna, ed osservano. Ed uccelli, e bestie minute e grosse, e creature piccole e grandi, si sono raccolti qui intorno, e frequentano il posto, e volano e nuotano o camminano corrono secondo la loro natura.

Piomba la Morte, come deve pure talvolta, e sorge la Vita al suo posto. La natura vive e procede e fluisce tutto intorno nel suo assetto armonioso e metodico.

Le cicatrici degli antichi incendi pian piano scompaiono; gli alti alberi diventano ancora più grandi. Si riaffollano le città dei castori. Il ciclo continua.... “. WA-SHA-QUON-ASIN (Grey Owl, 1940)

A questo punto un interrogativo si fa pressante: la civiltà potrà avere un avvenire? La risposta parrebbe essere negativa, perché l’uomo è ormai prigioniero di un modello di sviluppo che comporta irreparabili squilibri ambientali ed è, per di più, protagonista di una paurosa esplosione demografica che gli ha fatto quasi raggiungere il potenziale biotico  massimo che può essere attinto alla natura dalla specie umana. A ciò si aggiunge che una gran parte della popolazione del pianeta conduce un tenore di vita che comporta l’uso di una quantità enorme di energia nonché il consumo di preziosi metalli che si avviano al totale esaurimento.

In verità, gli interventi umani sul territorio sono devastanti e non risparmiano nessun elemento dell’ambiente naturale: l’acqua, l’aria, la flora, la fauna, l’assetto della cosiddetta materia inerte, ecc. L’uomo sfrutta la natura in mille modi, quasi sempre per il volgare ed inutile accumulo delle ricchezze e del potere. Ciò che una volta, nel piccolo e nell’episodico, poteva essere sostenibile (p.e. la caccia sportiva, il prelievo di risorse non rinnovabili, la pesca, l’emissione di sostanze relativamente inquinanti, ecc.), anche perché molte attività venivano adeguatamente filtrate e degradate dai sistemi naturali (per esempio l’autodepurazione dei fiumi o dei piccoli mari),  ora, con i mezzi tecnologici, con l’eccessivo uso delle “cose” e con il dramma della sovrappopolazione, molte attività umane non lo sono più e ciascuna di esse esercita un forte impatto sull’economia della natura. Se una o due persone persone raccolgono un fiore in un prato, il prato non ne risente affatto, ma se quella operazione viene svolta da migliaia di persone il prato perderà tutti i fiori che possiede. Questo deve far riflettere sulle continue pretese che l’uomo contemporaneo accampa continuamente anche in riferimento ad attività dei tempi andati. Si ricorda inoltre che anche nel passato, fenomeni sistematici e capillari, anche se esercitati con mezzi ridotti e da una popolazione meno esigente, hanno prodotto risultati deleteri per la natura (si pensi al massiccio disboscamento della Gran Bretagna, all’estinzione del lupo nell’arco alpino, alla scomparsa della popolazione Maia o a quella dll’isola di Pasqua). Un altro esempio ci viene offerto dal fenomeno del turismo di massa. Favorire al giorno di oggi la frequentazione turistica di luoghi naturali, vuol significare alterare completamente quei territori. Per esempio, gli ultimi luoghi abitati dall’orso bruno in territorio italiano (Abruzzo e Trentino), dovrebbero essere gelosamente tutelati dalla perniciosa presenza massiva delle persone, altrimenti nel volgere di un brevissimo tempo il plantigrado resterà un lontano ricordo della fauna autoctona.   

Dinanzi ad un siffatto degrado la difesa dell’ambiente deve divenire un obiettivo primario e globale. “La visione dell’uomo ‘signore del creato’, in pieno diritto di distruggere o alterare tutto, è dura a morire. Certe culture, più di altre, hanno manifestato addirittura una profonda ostilità verso qualsiasi cosa naturale: questo spiega perché in alcuni paesi industrializzati la degradazione e l’alterazione dell’ambiente siano maggiori che in altri” (Storer et al., 1984).

Ma occorre comunque considerare che i problemi ambientali sono a tal punto complessi che ipotizzare una loro soluzione all’interno di un solo Paese significa consumarsi in uno sforzo velleitario, giacché il degrado è, per così dire, ecumenico e non s’arresta davvero innanzi alle barriere doganali. Infatti è necessario osservare che il degrado non è uniformemente distribuito sul pianeta, in quanto esso presenta una distribuzione che potremmo definire a “macchia di leopardo”; sarebbe comunque una fallace speranza quella che intendesse ricostituire l’equilibrio ecologico generale mediante provvedimenti che curino le “macchie” caso per caso, poiché occorre al contrario che l’influenza negativa esercitata dalle attività umane sull’equilibrio ambientale venga drasticamente ridotta dappertutto. “Gli uomini devono trovare la soluzione ai problemi attuali in un contesto universale” (Dorst, 1990).

Occorre poi sgombrare il campo degli studi naturalistici o del pensiero comune da una pregiudiziale che è di un tale rilievo da assumere il valore di una contraddizione in termini, poiché tale è appunto la pretesa di chi si ostina a considerare il problema ambientale esclusivamente in funzione dell’uomo. L’uomo è una parte, un tassello dell’ecosistema, non è l’ombelico della natura, perciò cade in un grave errore chi subordina la salvaguardia dell’ambiente al primato dell’uomo, cade in grave errore chi dice, ad esempio, “ se continua la distruzione delle foreste il danno si ripercuoterà sull’uomo”...” se si continua ad avvelenare i campi anche l’uomo ne resterà avvelenato”. C’è insomma il rischio che nei nostri discorsi si ripresenti ognora il nostro inveterato antropocentrismo, tutto e sempre per l’uomo. Occorre ribaltare una siffatta concezione per porre al centro di tutto gli interessi globali della vita e non, sulla Terra (ecocentrismo). La regola deve tendere a salvare un bosco secolare non per l’uomo, ma per il bosco stesso; alla fine anche l’uomo se ne avvantaggerà, ma sarà un riflesso, non lo scopo di quel salvataggio. Dobbiamo invertire il pensiero di salvaguardare una “valle selvaggia” per poter poi provare emozioni e profonde sensazioni dinanzi a quello scenario naturale incontaminato. La “valle selvaggia” va mantenuta tale per se stessa, per il suo essere libero, poi se il nostro spirito ne troverà giovamento sarà solo una eventuale positiva conseguenza e non la molla che ci ha spinto ad operare per il mantenimento di quello status incontaminato. Sono andato alla fine della terra, sono andato alla fine delle acque, sono andato alla fine del cielo, sono andato alla fine delle montagne, non ho trovato nessuno che non fosse mio amico. (Canto per il Dio della Piccola Guerra, Navajo - in AA. VV., 1995). Il valore in sé delle cose indipendentemente da noi e da tutto è il pensiero più elevato che la mente umana possa concepire. E’ anche possibile giustificare l’antropocentrismo come “istinto” della specie umana per una efficace autoconservazione. In fondo ogni specie è un po’ “egocentrica” verso se stessa per sopravvivere nella natura. Ma negli altri esseri viventi l’egocentrismo porta in genere ad un indubbio vantaggio per la specie e un ancor più grande vantaggio per la natura tutta. L’egocentrismo umano invece porta distruzione e morte sia nell’uomo stesso che in tutto il mondo naturale. Tra l’altro gli atteggiamenti degli altri viventi non sono affatto premeditati e consapevoli delle conseguenze, mentre l’uomo è pienamente cosciente dei propri abusi, della propria superbia e delle proprie distruzioni e prevaricazioni. Una bella differenza dunque tra le due forme di egocentrismo! Scrive Santayana (1944): “Un californiano che ho recentemente avuto il piacere di conoscere mi diceva che se i filosofi vivessero tra i suoi monti, i loro sistemi sarebbero diversi da quello che sono i sistemi che la tradizione europea della buona creanza ci ha tramandati dai tempi di Socrate, perché questi sistemi erano egoistici; direttamente o indirettamente erano antropocentrici, e ispirati dalla fatua nozione che l’uomo o l’umana ragione, o l’umana distinzione tra il bene e il male, siano il centro e il perno dell’universo. Questo è ciò che i monti e le foreste dovrebbero farvi vergognare d’asserire”. Santayana con questo suo discorso presentato nel 1911 a Berkeley è stato uno dei pochi filosofi occidentali a sferrare un significativo attacco all’antropocentrismo e alla visione egocentroca del cristianesimo. Infatti “rappresentò una svolta storica nello sviluppo dell’indagine contemporanea su una visione del mondo alternativa e un’etica ambientale non soggettivistiche, antropocentriche ed essenzialmente materialiste.

Nel suo discorso Santayana affermava che acquisire consapevolezza ecologica per mezzo di un contatto profondo con la natura ci avrebbe aiutato ad abbandonare la zavorra del nostro sciovinismo umano” (Devall & Sessions, 1989). Gli aspetti di una siffatta esiziale commistione di ruoli sono focalizzati con grande chiarezza da Franco Zunino (fondatore dell'Associazione Italiana per la Wilderness) quando dice che ".... L'uomo deve rispettare la natura per il suo valore in sè, e deve sapersi tirare indietro non appena la sua presenza vi incide negativamente, non trovare cavilli e rimedi provvisori per giustificare la necessità o, peggio, il 'diritto' della sua presenza". Scrive poi Pavan (1988): “...stiamo traversando una fase di confusione dell’uomo, dei suoi valori morali, dei suoi diritti e doveri, del suo ruolo e delle prospettive; siamo in una fase di scoperta degli errori che abbiamo fatto e stiamo facendo, ma abbiamo ancora la facoltà di corregerci.” 

Occorre domandarci: siamo realmente in grado di corregerci ? I dubbi sono tanti, troppi. Le nostre azioni distruttive sono molteplici e quasi mai si comprendono appieno le implicazioni connesse agli interventi che turbano l’equilibrio naturale: se, ad esempio, l’uccisione di un orso da parte di un bracconiere costituisce una drammatica ferita all’ambiente, una turbativa ancora maggiore è insita in quegli atti che, nel modificare l’ambiente in sé stesso, determina, col tempo, la scomparsa di tutti gli orsi nel territorio. Scrive Thoreau “Se vogliamo proteggere gli animali selvatici dobbiamo garantire loro una foresta in cui possano vivere e a cui possano far ricorso”.

Queste considerazioni sull’orso bruno ci portano a riflettere ancora sull’interconnessione dei problemi ambientali. In natura non esistono fenomeni vitali che esauriscono in sé stessi la ragione di essere; tutti i fenomeni sono concatenati tra loro, un po’ come accade per le singole scansioni musicali di una sinfonia. Tenuto fermo tale principio, è del tutto intuitivo che in un siffatto concerto naturale l’assetto territoriale eserciti un’incidenza che sovrasta gli altri fattori, a simiglianza di quanto accade col “leit-motiv” di un testo musicale. L’esempio sul quale ci siamo poc’anzi intrattenuti, ipotizzando la scomparsa dell’orso bruno in seguito al sovvertimento del suo “habitat”, trova un riscontro, portando a paragone un altro esempio, nella scomparsa dell’Aquila di mare da alcune zone del suo areale anche in seguito alla distruzione del proprio “habitat” rappresentato dalle coste marine che l’attività antropica ha profondamente modificato ed inquinato. Occorre tra l’altro puntualizzare che la conservazione di un territorio (valle, grotta, costa marina, ecc.) deve essere sempre paritetica alla conservazione di una specie animale o vegetale anche se un dato ambiente è di minime dimensioni (distruggere un territorio perché piccolo è come uccidere gli ultimi orsi del trentino ritenendo inutile la loro sopravvivenza in quanto ormai troppo pochi). Anzi, spesso, la salvaguardia dei “luoghi” è un atto ancora più importante. Le ultime aree selvagge hanno una grande importanza in quanto complessi integri o unitari e rari come tali; conservandoli salvaguarderemo anche i loro “capitali” di specie animali e vegetali salvaguarderemo il paesaggio, l’ambiente, l’intera struttura: tutto questo in un unico atto di azione. Animali e piante infatti sono solo una parte di un territorio, sia pur saliente ed inalienabile. “Un fiore senza giardino è condannato a morte anche se trova sopravvivenza nel limitato spazio di un vaso grazie alla seminazione artificiale” (F. Zunino).

Scrive ancora Pavan (1967): “ La natura è costituita da innumerevoli fattori legati fra di loro da fini, azioni e reazioni che costituiscono un equilibrio dinamico in continuo spostamento: l’uomo si getta a capofitto in azioni di disturbo, di alterazioni, e provoca profonde modificazioni e rotture di equilibri di cui raramente si preoccupa di prevedere l’evoluzione e il destino........Lo sviluppo storico dell’umanità, presa nel suo insieme, è avvenuto in modo molto disarmonico e così procede tuttora, mantenendo molti squilibri, talora aggravandoli e creandone nuovi.”

In natura ogni specie svolge la propria parte all’interno di un processo dialettico che tende al conseguimento di uno stato di equilibrio; questo non è ovviamente perenne, ed ha in sé stesso la capacità di assestarsi sui parametri che via via si presenteranno. E' da notare che ogni singola specificità biologica, allorché entra nel processo dialettico che determinerà poi il punto di equilibrio dell’ecosistema, assume un proprio assetto unitario. In teoria anche l’uomo dovrebbe partecipare al processo dialettico a parità di diritto con le altre specie, sia animali che vegetali, ma ciò in realtà non accade perché l’uomo, a causa del suo sviluppo intellettivo è, tra l’altro, in grado di modificare e stravolgere l’assetto della cosiddetta materia inerte mediante opere gigantesche, come - ad esempio - le dighe che sbarrano i fiumi, le autostrade lunghe migliaia di chilometri, il prosciugamento dei laghi, la costruzione di nuove città; a ciò si aggiunga che, forte della sua sofisticata tecnologia, l’uomo ha la possibilità di sterminare, nel volgere di un breve arco di tempo, qualsiasi altra forma vivente. Su tali problemi si intrattengono Galiano & Marchino (1990), che annotano “...il grande ‘peccato’ dell’uomo occidentale è di essersi staccato dalla natura, dal suo ambiente. Per lui il sole, la luna, le stelle, i fiori, le piante, gli animali, non sono più né ‘sorelle’ né ‘fratelli’. Dal cosmocentrismo è passato al teocentrismo ed è finito nell’antropocentrismo. La conseguenza ‘perversa’ è stata chiara: se l’uomo è centro di tutto, egli allora diventa despota, può imporre senza remora le sue leggi, può esercitare violenza sulla natura e oppressione sui fratelli. Ma la natura espropriata e manipolata manifesta tutti gli effetti boomerang di un tale intervento”. Con queste considerazioni G. Galiano e M. Marchino focalizzano icasticamente la dimensione dell’uomo di oggi che sembra drammaticamente vocato all’autodistruzione.

Il progresso rappresenta, secondo il Rousseau, qualcosa di esteriore rispetto all’uomo, qualcosa che non tocca ciò che v’è di più intimo nel nostro essere, cioè l’istinto naturale (Geymonat, 1971). Se poi il pensatore ginevrino sembra cadere nel paradosso quando proclama la superiorità della vita primitiva rispetto a quella realizzata dai popoli cosiddetti “civili”, è pur vero che uno degli aspetti più significativi della crisi dell’uomo moderno è proprio il suo distacco dalla natura. Ed è stato un distacco particolarmente cruento quello verificatosi negli anni che segnano l’inizio della rivoluzione industriale, quando il saccheggio dell’ambiente assunse una capacità distruttiva fino ad allora inimmaginabile. “L’umanità è un cancro nell’universo della vita” (David Foreman). L’uomo occidentale è infatti un vero e proprio “cancro” nell’organismo natura e, a similitudine delle cellule maligne, porta solo morte e distruzione.“La conservazione dell’ambiente manca il suo obiettivo perché è incompatibile con il concetto di terra che ci è stato tramandato dai tempi di Abramo: noi violentiamo la terra perché la consideriamo un articolo che ci appartiene. Solo quando la vediamo come una casa comune, a cui apparteniamo, possiamo cominciare a servircene con amore e rispetto” (Leopold, 1949-1997).

La necessità di trattare la questione ambientale prevalentemente dal punto di vista etico/filosofico, è mossa dalla constatazione che nell’occidente tutta la speculazione filosofica è stata praticamente priva, dalle origini ai giorni nostri, di argomentazioni sostanziali sulla materia (gli esempi sono pochi: J. Muir, A. Leopold, H.D. Thoreau, ecc.). Scrive infatti Hargrove (1990): “Nonostante i molti risultati monumentali della filosofia, essa non è mai riuscita, in tutto l’Occidente, a fornire una base per il pensiero ambientale. Questo insuccesso coinvolge tutte le branche maggiori: metafisica, epistemologia, etica, filosofia sociale e politica, filosofia della scienza e, naturalmente, estetica......

L’etica ambientale rappresenta per la filosofia l’occasione per correggere il suo maggiore errore, il rifiuto del mondo naturale qual è sperimentato concretamente nella vita reale......

Ci auguriamo che i preservazionisti e i conservazionisti della natura dell’inizio del prossimo secolo dispongano di teorie filosofiche migliori fra cui operare una scelta.....”. 

La mancanza di questa base filosofica ha senz’altro determinato tutti i sostanziali atteggiamenti negativi che l’uomo ha sviluppato nella sua visione del mondo (andropocentrismo, dualismo, ecc.). Ne sono testimonianza le ottuse speculazioni religiose scissionistiche e prevaricatrici proprie dell’Occidente o il rigido meccanicismo del razionalismo cartesiano. Scrisse A. Leopold (1949-1997): “Non esiste tuttora un’etica che consideri il rapporto dell’uomo con la terra, e con gli animali e le piante che crescono su di essa. Proprio come le schiave di Ulisse, la terra è considerata ancora una proprietà. Il rapporto con la terra è tuttora strettamente economico e prevede diritti ma non doveri.....

In breve, un’etica terrestre modifica il ruolo dell’Homo sapiens da conquistatore della terra a semplice membro e cittadino della sua comunità. Implica rispetto per gli altri membri e per la stessa comunità, in quanto tale”. 

Integra molto bene il discorso Capra quando scrive (1997): “Tutti gli esseri viventi sono membri di comunità ecologiche legate l’una all’altra in una rete di rapporti di interdipendenza. Quando questa percezione ecologica profonda diventa parte della nostra consapevolezza di ogni giorno, emerge un sistema etico radicalmente nuovo.

Oggi la necessità di una tale etica ecologica profonda è urgente, soprattutto nella scienza, dato che gran parte di ciò che fanno gli scienziati non serve a promuovere la vita né a preservarla, ma a distruggerla. Con i fisici che progettano sistemi di armamenti che minacciano di cancellare la vita sul pianeta, con i chimici che contaminano l’ambiente mondiale, con i biologi che mettono in circolazione tipi nuovi e sconosciuti di microrganismi senza poter prevederne le conseguenze, con gli psicologici e altri scienziati che torturano animali nel nome del progresso scientifico, con tutte queste attività che continuano, appare urgentissimo introdurre nella scienza delle norme di ‘eco-etica’”.

Vittorio Hosle nella sua interessante opera “Filosofia della crisi ecologica” (1992) evidenzia l’importanza che assume il pensiero etico/filosofico per una nuova responsabilità collettiva verso la natura. “Le catastrofi ecologiche sono la sciagura che incombe su di noi in un futuro non più lontano; nonostante tutti gli sforzi collettivi per rimuovere tale prospettiva, nonostante tutte le strategie sviluppate per rassicurarci e tranquillizzarci, nel frattempo questa convinzione si è consolidata nelle coscienze della maggior parte delle persone e costituisce il cupo sottofondo del senso della vita per la giovane generazione dei paesi sviluppati. Da un lato la prassi di coltivare questo sentimento ha in sé qualcosa di ripugnante, in quanto è fin troppo facile che essa porti alla rassegnazione e all’apatia, o addirittura, cosa ancor peggiore, che induca le masse a un edonismo frenetico e gli intellettuali a un cinismo morboso che si rassegna a ciò che sembra inevitabile e che desidera soltanto sorbire le ultime gocce dal calice del mondo, prima di mandarlo in frantumi. D’altro canto però questo pericolo non può servire a giustificare la rimozione e quindi l’imperterrita, folle corsa suicida verso l’abisso: ciò vale per ognuno di noi, e innanzitutto per la filosofia. Questa infatti mal si concilia con le rimozioni perché la filosofia si occupa della verità, e precisamente non di questo o quel singolo momento di essa, ma della verità che concerna la totalità dell’essere...... La filosofia non può restare indifferente di fronte al suo destino. Nessuno dei grandi filosofi si è sottratto alle emergenze del proprio tempo......; quindi nel momento in cui è in gioco non solo il destino del proprio popolo, ma anche quello dell’umanità e di gran parte della natura inanimata, essere indifferente significa tradire la causa della filosofia......

Come è arrivato l’uomo a minacciare il proprio pianeta nel modo che oggi stiamo sperimentando? E di fronte a questa situazione ha ancora senso  l’idea del progresso? .........  Non è sufficiente riconoscere il pericolo in cui ci si trova quando, nel mezzo di un lago gelato, il ghiaccio scricchiola sotto i nostri piedi; bisogna cercare delle scappatoie per sfuggire al pericolo. E anche se tutt’intorno siamo avvolti dalla nebbia, la filosofia può comunque sperare di scorgere la spiaggia di salvezza grazie alla luce che irradia; può forse indicare la direzione nella quale è necessario procedere..... “.

Kaiser (1992) mette bene a fuoco gli aspetti estremamente negativi della visione dualistica della vita in quattro relazioni fondamentali (Io-Sé; Io-Tu; Io-mondo; Io-Dio). Scrive infatti: “(Io-Sé) Il dualismo divide l’uomo dalla natura, separandolo così da se stesso, in quanto anch’egli è natura. Frutto di questa scissione l’esperienza di una profonda contraddizione, di una lacerazione interiore, è la sensazione di non essere uno con se stesso, di non vivere in armonia con la propria persona - (Io-Tu) Una concezione dualistica della relazione dell’uomo con il suo prossimo implica che l’individuo si senta innanzi tutto separato dall’altro, contrapposto a lui. Ne sono un eloquente esempio le tendenze polarizzatrici nella vita politica e sociale - (Io-mondo) Il pensiero dualistico divisore vede l’uomo come opposto alla natura, in quanto sostanzialmente diverso da essa. Anche qui solo un passo ci separa dalle conseguenze dell’imperialismo, per cui l’uomo sarebbe chiamato a dominare sulla natura, sottomettendola al proprio volere - (Io-Dio) Nella relazione dell’uomo con il divino, il dualismo porta al concetto di un Dio personale e trascendente (e pertanto teistico), separato nettamente dall’uomo e dal mondo. Dio è ‘totalmente altro’, non confrontabile con alcuna cosa terrena. Conseguenza di questa concezione dualistica di Dio è la dissacrazione del mondo.... che sta alla base dell’imperialismo cosmico...”.

Scrive G. Snyder (1992): “La società americana (come tutte le società) ha un proprio sistema di assunti sulla realtà che vengono dati per scontati. Continua a nutrire una fede in gran parte acritica nel concetto di progresso. E’ attaccata all’idea che possa esservi un’immacolata obiettività scientifica. E, ancora più importante, funziona in base all’illusione che ciascuno di noi sia come una specie di ‘conoscitore solitario’, una pura intelligenza sradicata, senza numerosi strati di contesti locali: l’illusione che ci sia un ‘sé’ e il ‘mondo’”.

Una filosofia della conservazione deve dunque ispirarsi ad una profonda visione unitaria della vita, dove i particolarismi divisori lascino il posto all’universalità e all’impersonale: “L’esame delle parti non porta mai alla comprensione del tutto” (Fukuoka, 2001). Solo così il valore in sé delle cose potrà essere acquisito gradatamente dal pensiero collettivo facendo leva, nella fase iniziale, sulle persone più sensibili e profonde che avendo compreso tale idea si impegnino a diffonderla.

“C’è solo una speranza di respingere la tirannica ambizione della civiltà di conquistare ogni luogo della terra. Questa speranza è l’organizzazione delle genti più sensibili ai valori dello spirito, affinché combattano per la libera continuità della natura selvaggia” (Robert Marshall).

“Non facendo nulla, non c’è nulla che non venga fatto” (Lao-Tze).