Wild Nahani
La Marsica
e la sua natura
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Orso bruno marsicano |
Edizione 2008
PARTE PRIMA
BREVE STORIA GENERALE DELLA MARSICA
L’identità geografica della Marsica emerge con estrema limpidezza dall’ininterrotto sistema orografico che la cinge da ogni lato: i Monti Simbruini, a ponente, la dividono dal Lazio centrale, il massiccio del Velino la separa dal Reatino, i monti del Parco Nazionale delimitano il confine col Molise, il sistema montuoso che muovendo dalla Serra di Celano si porta sino a Forca Caruso, la stacca senza incertezze dal territorio peligno.
All’interno di quella cintura s’apre il grande respiro dell’alveo fucense che si dilata sino a quello dei Piani Palentini, configurando in tal modo l’estendersi di un’ampia pianura sulla quale s’affaccia d’ogni dove il terso profilo dei monti.
Su tutti si ergono le cime solenni del Velino e del Viglio che sembrano vigilare su una terra che la gelosa premura della natura ha inteso distinguere e custodire.
Una siffatta identità geografica doveva necessariamente tradursi nella identità culturale degli antichi Marsi; come ciò sia avvenuto e quando sia avvenuto non è dato stabilire, giacché - come spesso accade quando si tratta di individuare la legittimità storica di un popolo - la realtà si vela di leggenda. A tal proposito Muzio Febonio(1), nella sua “Historia Marsorum”, richiama un pensiero di Livio secondo il quale “si concede volentieri agli antichi la libertà di rendere più auguste le origini delle città mescolando l’elemento umano col divino, ed anche di consacrare le proprie origini attribuendole agli dei”. Tuttavia il Febonio, pur citando la dissacrante riflessione
di Livio, riporta ugualmente le varie ipotesi formulate dagli storici antichi in merito alla derivazione del nome dei Marsi; incomincia col ricordare che secondo alcuni il nome viene da Marso, figlio di Circe, secondo altri da Marsia, re dei Lidi, secondo altri ancora da un tal Marro, condottiero dei Marsi. Col riferimento a Circe siamo in piena mitologia; la Circe figlia di Eeta, di cui ci parla anche Omero nell’Odissea, era sorella di Medea, quella stessa che con arti magiche aiutò Giasone nella leggendaria spedizione degli Argonauti, ed era anche sorella di Angizia, la maga, la guaritrice e l’incantatrice di serpenti, tenuta in conto di dea delle genti del Fucino. Silio Italico,(2) poeta latino vissuto dal 25 al 101 d.C., così cantava di Angizia:
“Angizia, figlia di Eeta, per prima, come narrano, insegnò a riconoscere le erbe velenose,
e a rendere innocui al contatto i veleni
e spogliava le montagne attirandone con suo canto le selve”.
Angizia, il cui nome deriva da “angere” soffocare, era incantatrice di serpenti, arte che i Marsi appresero a tal punto da tener viva la loro fama sino all’evo moderno, come appare da questa testimonianza del Surio.(3)
“Ordina ai Marsi, esperti nell’incantare i chelidri, che curino di raccogliere con le loro formule magiche aspidi, vipere, serpi, dipsadi, idri e quanti animali strisciano attorcigliandosi per terra”.
Ai sacerdoti marsi si rivolgeva lo stravagante imperatore Eliogabalo per arricchire gli spettacoli del circo mediante l’esibizione di una gran quantità di serpenti; perfino S. Agostino ebbe ad occuparsi delle singolari facoltà dei Marsi allorché scrisse: “non perché le serpi abbiano potuto percepire e comprendere le parole dei Marsi, sicché per effetto dei loro incantesimi siano solite uscire dai loro nascondigli; infatti lì opera una forza diabolica”.
La seconda versione, come detto, fa risalire a Marsia il nome dei Marsi; questo Marsia, re della Lidia, o secondo altri re della Frigia, approdato in Italia durante una migrazione dei Pelasgi, si insediò nella Marsica, come dice Silio Italico:
“Ma a questa popolazione diede il suo nome uno straniero, Marsia, allorché atterrito perché il suo flauto migdonio era stato superato dalla cetra di Apollo, qui si era rifugiato, attraversando i mari, dalle frigie sorgenti”.
Marsia sarebbe infatti venuto a contesa con Apollo in una gara di flauto e, vinto e debellato, dovette allontanarsi dal regno e cedere i suoi possedimenti.(4) L’infelice re spodestato, forse sperando di vincere la crescente nostalgia per la sua terra d’origine, conferì il nome di città frigie o lidie ad alcuni insediamenti marsi, così Celano deriverebbe da Celene, Ortucchio da Ortigia, Carrito dalla Caria, Cocullo da Curricola, Collarmele dall’Armenia, Cappadocia dalla omonima regione dell’Asia Minore; si tratta senza dubbio di derivazioni immaginarie.
Il nome dei Marsi secondo la terza ipotesi trarrebbe origine dal condottiero Marro; Silio Italico dice:
“Marruvio, che trae il nome dell’antico Marro è la capitale di quelle popolazioni”.
Secondo il Febonio “i Marsi si chiamarono prima Marrubi e Marruvi dal loro capo Marro, ma in seguito il nome si corruppe sino ad assumere la forma attuale”.
Virgilio stesso nell’Eneide ci dà testimonianza dell’antico appellativo dei Marsi, quando dice:
“E’ presente anche un sacerdote del popolo Marruvio mandato dal re Archippo”.
Ma sull’origine dell’appellativo Marruvi, sussistono altre ipotesi; infatti il filologo latino Servio,
(5) nel commentare il citato verso di Virgilio dice: “Sono chiamati Marrubi, quasi che abitino intorno ad un mare, tale potendosi considerare il Fucino per la vastità delle paludi”.
Le notizie fin qui riportate appartengono alla leggenda, anche se non è da escludere che alla
radice di essa vi sia - come spesso accade - un sustrato di storicità. Ed è per questo motivo che anche il passaggio dall’epoca leggendaria a quella storica vera e propria appare alquanto sfumato e non privo di incertezze. Infatti, mentre apprendiamo da Livio che nel IV° secolo a.C. le truppe romane passarono “per Marsos” dirette a Capua, sembra che - come afferma la critica moderna
- l’evento non sia veritiero. Molto incerto è anche l’atteggiamento assunto dai Marsi durante la guerra sannitica nel IV secolo a. C.; secondo Diodoro Siculo essi furono alleati dei Romani, secondo Livio, dei Sanniti.
Il Mommsen non sposa né l’una né l’altra versione, ma - nel raccontare la guerra sannitica - dice che “sembrò a momenti che la storia d’Italia dovesse essere scandita nel futuro con accento sannitico; le genti che abitavano l’Abruzzo si schierarono parte con Roma, come fecero i Peligni e i Marrucini e - più tardi - i Vestini, ma gli altri conservarono una prudente ed ambigua neutralità”, mentre i Marsi, “altrettanto bellicosi dei Sanniti” dettero segni d’inquietudine, tanto che le colonie romane di Carsoli e di Alba Fucens, nel territorio degli Equi, sorsero proprio allo scopo di infrenare l’audacia dei Marsi.
Ma è Livio stesso, fonte inesauribile di notizie, che ci dà la possibilità di fissare una data che conferisce finalmente chiarezza storica ai rapporti intercorrenti tra i Marsi e la Roma repubblicana: la data è quella del 302 a.C., anno in cui i due popoli, geograficamente contigui, affidano ad un patto i loro rapporti futuri, dopo che il dittatore Lucio Massimo “aveva sbaragliato i Marsi con una sola battaglia e li aveva ricacciati entro le loro città munite, Milonia, Plestina e Fresilia”. Da parte romana il patto tendeva a rendere sicuro il passaggio per Monte Bove lungo la via Tiburtina e, più a sud per la Valle del Liri; dalla parte marsa l’accordo si prefiggeva lo scopo di affidare al sorgente predominio romano il compito di mantenere la pace nelle regioni confinanti col Fucino. Il Febonio scrive: “Dopo questi avvenimenti la fedeltà dei Marsi rifulse in ogni circostanza in cui si trovò la repubblica, ed i Romani li ebbero sempre amici e alleati contro qualsiasi avversario, fosse italiano o straniero”. Poi soggiunge: “i nostri antenati perseverarono con incrollabile fermezza nella fedeltà a Roma, per la buona e la cattiva sorte, rivelandosi amici sicuri e saldi a tutta prova”. Per comprovare l’affermazione ricorda che, dopo le sconfitte subìte dai Romani contro Pirro nella battaglia di Eraclea del 280 a.C. e in quella di Ascoli Satriano dell’anno successivo, i Marsi rimasero fedeli all’inviolabile giuramento di
fedeltà a Roma, a differenza dei Lucani, dei Bruzi e dei Sanniti, “staccatisi da Roma con aperta ribellione”. Altra prova di fedeltà dettero i Marsi quando i Galli “scesero dalle Alpi per portare alla confederazione dei Boi aiuto contro il potere di Roma”; infatti Polibio(6) ricorda che in quell’occasione “furono arruolati fra i Marsi, Marrucini, Frentani e Vestini ventimila fanti e quattromila cavalieri”. Quando poi la Roma repubblicana corse il più grave pericolo della sua storia a causa della discesa di Annibale in Italia durante la seconda guerra punica, “i Marsi furono del tutto compartecipi della sorte di Roma”, segnalandosi nella battaglia del Ticino, poi in
quella di Canne, come ricorda Silio Italico, che così dice:
“Allora (Varrone) profferendo minacce si affretta ad assegnare a ciascuno la parte da sostenere nella battaglia e là dove il terribile Nealce ha schierato le sue feroci tribù, colloca se stesso con i soldati della Marsica. ”
Più oltre lo storico scrive:
“Giacciono qua e là per il campo le insegne che prima innalzavano i bellicosi Sanniti, i Sarrastrate e le schiere dei Marsi”.
La fedeltà dei Marsi nei confronti di Roma emerge anche da un passo di Livio in cui si dice che “Marsi, Peligni e Marrucini si offrirono volontariamente per l’arruolamento nella flotta” quando il Senato andava organizzando l’esercito che doveva espugnare Cartagine (la vittoria di Zama è del 202 a.C.).
Ma era passato poco più di un secolo dalla battaglia di Zama quando una grave crisi sconvolse il delicato equilibrio che legava Roma ai suoi confederati, tra cui primeggiavano i Marsi e i Sanniti che, insieme ai Volsci, costituivano l’importante ceppo etnico - linguistico originato dagli Umbri
- Sabelli. La questione del diritto di cittadinanza e del diritto di suffragio rivendicato dai confederati trovò un cruento punto di collisione nello scontro armato che la storia ricorda come guerra sociale, guerra italica, o con l’appellativo di guerra marsica, un appellativo che pone l’accento sul ruolo preminente svolto dai Marsi nell’ambito delle popolazioni d’Abruzzo.
Il rilievo che un sì drammatico evento ebbe nelle vicende della Roma repubblicana è attestato, oltre che dalle ampie notizie storiche, dalle leggende che fiorirono numerose intorno a spaventosi segni premonitori che atterrirono i contemporanei. Il Febonio, nel cap. VII del libro I° della sua Storia dei Marsi, così scrive: “L’immensità delle stragi che questa guerra doveva causare fu preannunziata dalla molteplicità dei prodigi che si manifestarono in ogni parte d’Italia”. Poi cita Plinio che narra di una donna chiamata Alcippe che partorì un elefante, e di un ancella che mise alla luce un serpente; ricorda che Cicerone riferisce che allo scoppio della guerra marsica le statue degli dei sudarono, il cielo si squarciò, e a Lanuvio gli scudi furono rosi dai rospi; infine si
rifà ancora a Plinio che racconta di “due montagne che presso Modena, correndosi incontro, cozzarono l’una contro l’altra”. E più oltre cita Plutarco il quale racconta di vessilli che sprizzavano fiamme e di un risonare di clangore di trombe in un cielo sereno; si riferisce infine a
S. Agostino che narra: “prima che la guerra sociale contro Roma divampasse, tutti gli animali, cani, cavalli, asini e buoi furono presi da improvvisa rabbia. non senza pericolo di morte o di
altro per chi osasse avvicinarli”. Questi furono gli infausti presagi della guerra marsica, ma ancor prima di essi ben altri segnali di natura politica avevano preannunziato lo scontro; già una voce s’era levata, sul finire del II° secolo a.C., in favore del riconoscimento dei diritti dei confederati, la voce di Gaio Gracco che, con acuta sensibilità politica, si era fatto interprete di un’esigenza non più eludibile, né i suoi avversari - nel mozzare il capo del generoso tribuno - riuscirono nell’intento di “spegnere un focolaio che annunciava ormai un più vasto incendio”. La fiaccola già innalzata da Gaio Gracco fu infatti raccolta da Marco Druso che, pur appartenendo all’aristocrazia, non esitò a sfidare il potere oligarchico del Senato proponendo una legge che estendeva il diritto di cittadinanza agli Italici da Messina alle Alpi. Druso intessè una fitta rete di rapporti segreti con le popolazioni italiche che videro in lui il campione della propria libertà, ma il tribuno moriva nell’anno 91 a.C. colpito da mano assassina. Non restava agli Italici che rinnovare il tentativo di distruggere Roma con le armi, o almeno di strapparle con la forza la concessione dell’eguaglianza dei diritti, come essi avevano tentato inutilmente di fare nell’anno
125 a.C., quando Fregelle - città situata a sud/ovest di Ceprano - ribellatasi a Roma, fu inesorabilmente distrutta. Questa era la situazione in Italia allorché, nel 91 a.C., l’incendio scoppiò improvvisamente nella città di Ascoli Piceno; quivi, nell’anfiteatro, il Pretore Caio Servilio e il suo seguito furono, come dice il Mommsen, “messi dalla peble a brani”. E ancora il Mommsen scrive: “come la fiamma nelle steppe, così la ribellione si propagò in tutta la penisola: prima fu l’ardita e numerosa popolazione dei Marsi, d’accordo con le piccole ma energiche federazioni degli Abruzzi, cioè i Peligni, i Marrucini, i Frentani e i Vestini; il valoroso e intelligente Marco Quinto Silone era l’anima di questo movimento”. I Marsi furono i primi a staccarsi formalmente dai Romani, sì che - conclude il Mommsen - “si diede il nome di marsica alla guerra che ne seguì”. La ribellione corse la penisola sui cavalli dell’Apocalisse e in un baleno tutta l’Italia centrale e meridionale, dagli Abruzzi al Sannio, sino alla Calabria e alla Puglia, era in armi contro Roma in una guerra che durò dal 90 all’88 a.C.. Tuttavia qualche comune, come Alba Fucens e Penne, parteggiò per Roma, il primo a causa della sua origine di colonia latina, il secondo perché la propria aristocrazia municipale si identificava con gli interessi dell’aristocrazia romana, circostanza questa che trovava riscontro anche presso gli Umbri e gli
Etruschi che, nel corso della guerra sociale, si schierarono con Roma. Capitale della lega italica fu eletta Corfinio, in territorio peligno, che - col nome di Italia - iniziò a coniare monete con legende a volte latine, a volte osche, emblematica quella che raffigura il toro sannita che abbatte la lupa romana. Gli insorti divisero militarmente il paese in due parti: in quella settentrionale, che andava dal Piceno agli Abruzzi sino al confine settentrionale della Campania, il comando fu affidato al marso Marco Quinto Silone, il quale era insignito della dignità consolare al pari del generale romano che lo fronteggiava, Publio Rutilio Lupo; nella parte meridionale, che comprendeva la Campania e il Sannio, teneva il supremo comando consolare il sannita Caio Papio Mutilo, al quale si contrapponeva il console romano Lucio Giulio Cesare. Da entrambe le parti furono mobilitati sino a centomila soldati, senza contare i presìdi, e i capi ribelli non erano militarmente inferiori ai generali romani che pure contavano tra loro condottieri insigni come Mario e Silla, nelle cui file militò anche il giovane Marco Tullio Cicerone. Il Mommsen scrive: “ l’insurrezione, partendo dall’Abruzzo e dal paese bagnato dal lago di Fucino, minacciava da
vicino la capitale; il grosso dell’esercito romano settentrionale, comandato da Lupo, si accampò sul confine tra i territori latino e marsico, ove il nemico, potendo usufruire delle due vie Valeria e Salaria, si trovava più vicino alla capitale; il fiume Toleno (oggi Turano) che taglia la via Valeria tra Tivoli ed Alba Fucens, e presso Rieti mette nel Velino, separava i due eserciti”. Il Mommsen racconta poi che la battaglia che ne seguì si concluse con la morte del console romano Lupo e di ottomila soldati. Ma poco dopo Mario infliggeva una dura sconfitta ai Marsi che lasciarono sul terreno seimila morti, né meno rovinosa per i Marsi fu la sconfitta che essi subirono in Etruria nel tentativo di portare aiuto, con quindicimila armati, all’insurrezione che fermentava nell’Italia settentrionale.
Sconfitti definitivamente i Marsi e i loro confederati abruzzesi, Marco Quinto Silone si trasferì nel Sannio dove proseguì la lotta col consueto valore, ma dove trovò pure la morte nell’anno 88 a.C., dopo aver riconquistato la città di Boviano. Così la guerra sociale s’andava man mano spegnendo ma, come avviene spesso nella storia, i Romani dovettero concedere da vincitori quello che prima non avevano voluto dare pacificamente agli italici: la piena cittadinanza e il diritto al suffragio.
Trascorsi circa quarant’anni dalla fine della guerra sociale i Marsi si riaffacciarono sulla ribalta della storia quando rimasero coinvolti, com’era inevitabile, nella decisiva contesa tra Cesare e Pompeo. Schieratisi dalla parte di Pompeo nel quale vedevano il garante delle istituzioni repubblicane, i Marsi parteciparono con altre popolazioni dell’Abruzzo alla difesa di Corfinio assediato da Cesare che aveva appena varcato il Rubicone; accadde però che, avuto sentore dei
propositi di fuga manifestati da Lucio Domizio, capo delle truppe, i Marsi - opponendosi alla restante parte dell’esercito - chiesero che la piazzaforte si arrendesse a Cesare. Cesare stesso, in “De bello civili”, così racconta l’episodio: “I Marsi in un primo tempo cominciano a dissentire da costoro ed occupano quella parte della fortezza che sembrava la più munita e scoppia così violento il contrasto con quelli che tentano addirittura di venire alle mani e combattere con le armi; poco dopo....... vengono a sapere quanto ignoravano sul proposito di fuga di Lucio Domizio. Allora, tutti d’accordo, traggono Domizio sulla pubblica via.....e mandano alcuni dei loro a dire a Cesare che sono pronti ad aprire le porte ”.
Dopo circa un secolo dall’assedio posto da Cesare a Corfinio, la storia riserva un’altra delle sue pagine al legame che intrecciava la vita dei Marsi a quella dei Romani. L’occasione è data dalla grandiosa opera del prosciugamento del lago di Fucino cui si dedicò l’imperatore Claudio, riprendendo un progetto che già aveva occupato la mente di Cesare. Dell’impresa di Claudio lasciamo parlare Tacito che negli Annali così la descrive: “In quello stesso tempo venne portato a compimento il taglio del monte fra il lago Fucino e il fiume Liri; e perché potessero ammirare in molti la grandiosità dell’opera, nel lago stesso si allestì una battaglia navale, come già in passato aveva fatto Augusto, se pur con navi più leggere e meno numerose, in uno specchio d’acqua approntato di là dal Tevere. Claudio apprestò invece triremi, quadriremi e un contingente di diciannovemila uomini; tutt’intorno pose un cerchio di zattere, per evitare fughe arbitrarie, lasciando tuttavia spazio sufficiente per la spinta dei remi, le manovre dei timonieri, l’impeto delle navi e le consuete esigenze di una battaglia. Sulle zattere stavano reparti delle coorti pretorie, di fanteria e di cavalleria, e sul davanti si ergevano parapetti per collocare catapulte e balestre. L’altra parte del lago era occupata da marinai, su navi coperte. Sulle rive, sui colli e sulle cime dei monti si accalcava, come in un teatro, una moltitudine sterminata, occorsa dalle città vicine e dalla stessa Roma per la curiosità dello spettacolo o per ossequio verso il principe. Questi presiedeva allo spettacolo con un sontuoso mantello da generale; non lontano da lui era Agrippina con una clamide dorata. Lo scontro fu condotto, se pur da malfattori, con eroico accanimento: e dopo che molti furono feriti, fu impedita la strage.
Terminato lo spettacolo fu dato il via alle acque. I difetti dell’opera apparvero subito evidenti, non essendo stato lo scavo condotto a tal grado di profondità da raggiungere i punti più bassi o almeno quelli medi del lago. Fu così necessario altro tempo per approfondire il canale sotterraneo, dopo di che, a fine di richiamare di nuovo il popolo, fu offerto uno spettacolo di gladiatori, su ponti appositamente gettati per far da piano a una battaglia di fanteria. Presso lo sbocco dell’emissario del lago venne inoltre imbandito un banchetto, che procurò a tutti un
grosso spavento per l’improvviso erompere delle acque che travolsero quanto vi era nei pressi, provocando scompiglio più lontano e suscitando, col rombante fragore, un terrore generale. Agrippina approfitta dello sgomento del principe e si dà ad accusare Narciso, appaltatore dell’opera, di corruzione e avidità. Ma questi, lungi dal tacere, le rinfaccia la femminile intemperanza e la sfrenata ambizione”.
Quando si compì l’opera di Claudio si era nel 52 d.C., ma Claudio stesso dovette poco dopo approfondire e allargare l’emissario artificiale finché si ottenne un prosciugamento quasi completo. Traiano ed Adriano riattarono più volte la galleria che funzionò regolarmente sino al IV° secolo d.C., quando l’incuria della manutenzione che seguì alle invasioni barbariche portò alla sua definitiva ostruzione.
Dei numerosi tentativi intrapresi nel medioevo e nell’evo moderno per presevare la grandiosa opera si parlerà allorché sarà trattata la straordinaria impresa portata a termine nel XIX° secolo da Alessandro Torlonia.
Ma proseguiamo intanto con ordine nella ricognizione cronologica degli eventi per osservare che la vasta risonanza data dagli storici al celebrato tentativo di Claudio costituisce per la Marsica l’ultima occasione di comparire ancora con un certo rilievo sulla ribalta dei memorabili eventi dell’epoca romana, poiché da allora in poi cala sulla storia dei Marsi un pesante velo che contrasta non poco con la dovizia delle informazioni che ci sono pervenute in merito agli avvenimenti in cui quel popolo rimase coinvolto nei secoli precedenti. Si sa, è vero, che, in base alla divisione amministrativa decretata da Augusto, la Marsica fu inclusa nella IV^ regione, si sa che la Via Tiburtina fu prolungata sino a Corfinio mediante la Via Valeria, si sa che Diocleziano, nel 297 d.C., nel riordinare la materia già trattata da Augusto, incluse la Marsica, con i Vestini, Peligni e i Sabini, nella provincia Valeria, ma da allora in poi le scarse notizie pervenuteci sul conto dei Marsi non si collegano tanto alla storia dell’impero, quanto a quella del sopravveniente cristianesimo.
In quest’ambito apprendiamo tra l’altro che nel III° secolo S. Cesidio subì il martirio in “Transaquae”, l’attuale Trasacco, dov’è sepolto con alcuni suoi discepoli entro un Oratorio ricavato in alcuni locali dell’antico palazzo imperiale ivi esistente. Secondo la tradizione i Santi Simplicio, Costanzo e Vittoriano, la cui venerazione è ancor viva in Celano, furono decapitati nei pressi di quella città, sotto Antonino Pio. Dopo che Giustiniano emanando la “Prammatica Sanzione” ebbe delegato ai Vescovi il potere ormai sfuggito ai funzionari imperiali, la grande fioritura di abbazie benedettine irradiatasi da Montecassino interessò in misura crescente la Marsica nella quale ancor oggi rifulgono le chiese di S. Maria in Valle Porclaneta, di Trasacco, di
S. Benedetto dei Marsi, di Albe e di tante altre, a testimonianza dei valori spirituali che la Marsica seppe esprimere in quell’epoca storica. Già prima d’allora, nel V° secolo, si era costituita la sede vescovile dei Marsi.
Quasi inesistenti le notizie relative alla presenza dei Goti nella Marsica, mentre con la calata dei Longobardi che inclusero la Marsica nel Ducato di Spoleto si aprono nuove fonti di informazione.
Prima di seguire nelle sue grandi linee il periodo della storia medioevale che riguarda la Marsica, è necessario osservare che questa, a differenza di quanto, ad esempio, accadeva in quel tempo in Lombardia, in Emilia, nelle Marche, nell’Umbria o nella Toscana, non conobbe in modo significativo la tormentata esperienza dei comuni, e - ancor meno - lo splendore delle insorgenti Signorie che la coinvolsero sì, ma solo sotto le insegne delle grandi Casate romane.
L’aggregazione della Marsica al Ducato longobardo di Spoleto non fu al suo inizio indolore, tanto che antiche fonti raccontano del martirio di un diacono della regione dei Marsi e di altre iniquità compiute al di fuori della Marsica. Dopo la sconfitta di Desiderio ad opera di Carlo Magno, avvenuta alla fine del IX° secolo, anche la Marsica passa sotto il dominio dei Franchi; dopo l’anno 800, questi, nel riordinare il nuovo assetto politico che i Longobardi avevano dato alla provincia Valeria quando vi avevano unito i territori dei Marrucini, dei Frentani e dei Piceni- Pretuzi, continuarono a tenere la Marsica nel Ducato di Spoleto, non più longobardo ma franco, e diedero alla rinnovata aggregazione il nome di “Provincia dei Marsi”. Questa nell’843, fu elevata a contado autonomo, in cui i Conti Marsi venivano eletti dall’imperatore. Un siffatto assetto politico, in sostanza svincolato dalla tutela franca, assume nel medioevo un ruolo di grande rilievo poiché si eresse a mo’ di barriera per contrastare le prime incursioni normanne, nonché le frequenti incursioni degli arabi, da poco infiammati dal verbo dell’Islam. L’opposizione dei Conti Marsi ai Normanni dovette alla fine cedere per adeguarsi al nuovo disegno politico dei conquistatori; questi, impadronitisi delle province meridionali, sottoposero i conti Marsi al ducato Normanno di Puglia, che si era ormai consolidato in quella regione nel 1142 sotto Ruggero II°; dopo poco più di un decennio, regnando Guglielmo, figlio di Ruggero II
°, la Provincia dei Marsi, cessata di esistere, prese il nome di Valle dei Marsi. Da allora in poi la storia passa sui Marsi con le sue grandi ondate, spesso crudeli e distruttrici, senza che questi possano in qualche modo influenzarne il percorso, né - a volte - attutirne la violenza. Così accadde quando Federico II°, l’illuminato campione degli Svevi ed egli stesso erede del declinante potere normanno, scagliò con veemenza le sue milizie contro Celano e la rase al suolo per vendicarsi della ribellione del Conte Tommaso. Ancora uno Svevo legherà il suo destino alla
terra dei Marsi, quando Corradino, erede del grande ed ambizioso disegno imperiale di Federico, si scontrò presso Scurcola con Carlo d’Angiò, in una battaglia impropriamente chiamata “di Tagliacozzo”. Lo scontro avvenne il 23 agosto del 1268 nei Campi Palentini, tra Scurcola, Cappelle, Albe e Magliano dei Marsi (v. Tagliacozzo).
Da questo momento in poi la storia della Marsica si scandisce sul pentagramma delle vicende dei suoi centri più importanti, cioè Albe, Tagliacozzo e Celano, che, ottenuto il perdono di Federico, era stata nel frattempo ricostruita non lontano dal primitivo insediamento. In realtà la dialettica politica tra Albe, Tagliacozzo e Celano non ha una matrice marsicana, ma esprime una dialettica che si dibatte tra gli Orsini e i Colonna, le due potenti famiglie romane. Tagliacozzo fu feudo degli Orsini dal XIII° sino al XV° secolo, allorché lo persero per essersi ribellati agli Aragonesi che erano succeduti agli Angioini - Nel XVI° secolo le contee di Albe e Tagliacozzo si riuniscono definitivamente sotto i Colonna che diventano Signori del Ducato di Tagliacozzo, meglio detto “Stato di Tagliacozzo”; l’evento ha grande rilievo perché conferisce ad una larga parte della Marsica una stabilità politica a lungo perseguita, tanto che la nuova aggregazione riesce ad uscire indenne dai mutamenti politici che travagliarono la nostra penisola, dagli Aragonesi agli Spagnoli, agli Austriaci, ai Borboni sino agli anni che videro il fulmineo fulgore bonapartista trionfare in Europa. Anche la contea di Celano durò sino a quegli anni, dopo essere passata dal dominio dei Colonna, a quello dei Piccolomini, poi ai Peretti, ai Savelli, ai Cesarini e infine agli Sforza Bovadilla.
Della Marsica si parla ancora allorché l’Italia, anzi l’intera Europa, è percorsa nel XVI° e XVII° secolo dall’impetuoso vento di una ribellione contadina e piccolo-borghese; questa scrisse a Napoli nel 1647 una memorabile pagina con la rivolta di Masianello e non era evitabile che eventi di tale portata si ripercuotessero nella Marsica ove il mito del famoso brigante Marco di Sciarra è vivo a tal punto che, ancora oggi in qualche paese della Marsica, come ad esempio in Civita d’Antino, quando si vuole definire la figura di un personaggio protervo si dice: “mi sembra Marco di Sciarra”.
Nel XVIII° e XIX° secolo i moti risorgimentali ebbero nella Marsica un’ampia risonanza, ma bisogna pur dire che, a somiglianza di quanto accadde a Napoli nel 1799 allorché la Repubblica partenopea, nata dalla generosità di una sparuta schiera di idealisti, trovò un rapido epilogo sul ceppo del carnefice, anche nella Marsica quei generosi ideali coinvolsero soltanto una sparuta “élite”.
I problemi emersi dopo l’unificazione politica dell’Italia, coinvolsero naturalmente la Marsica che fu teatro non secondario del brigantaggio post-unitario. Famoso l’episodio che riguarda il
brigante Iosè Borjés e la sua banda, presi l’8 dicembre 1861 nella Valle di Luppa dai soldati del maggiore Franchini, poi fucilati in Tagliacozzo. Nella Valle Roveto i vecchi ricordano ancora, attraverso i racconti dei padri, le geste di Giacomo Giorgi, detto “l’avvocato”, che imperversò nella Valle Roveto e vi dovette seminare un tale terrore che, ancora oggi, si intimoriscono i bambini disubbidienti evocando il nome di Giacomo Giorgi. Magliano dei Marsi fu teatro nel 1860 di un violento episodio di brigantaggio quanto il colonnello borbonico La Grange, spalleggiato da Giacomo Giorgi, espugnò Magliano e la mise a soqquadro.
E’ sul finire del XIX° secolo che la Marsica conosce col prosciugamento del Lago di Fucino la sua grande rivoluzione; questa, come tutte le rivoluzioni, ha una matrice di carattere economico quale è la messa a coltura di una superficie di 14.000 ettari, il che si configura come un fatto di estrema importanza anche per chi non condivide la dottrina fisiocratica. E’ da quel momento che Avezzano inizia la sua fase di sviluppo che è innanzitutto sviluppo demografico, si che in brevissimo tempo la città toglie a Tagliacozzo e Celano il primato che esse avevamo esercitato per più secoli nella Marsica. Per questi motivi è necessario soffermarsi a considerare con una certa ampiezza l’opera ciclopica che condusse al prosciugamento del Lago di Fucino. Dei tentativi escogitati da Traiano e Adriano per riattare la galleria aperta da Claudio si è già fatto cenno; per narrare quello che avvenne dopo di allora ci affidiamo a quanto si legge nel VI° Volume del Grande Dizionario Enciclopedico dell’UTET: “Tentativi per un nuovo prosciugamento del bacino furono compiuti da Federico II e da Alfonso I d’Aragona, senza risultati apprezzabili; lo stesso accadde per i progetti avanzati e discussi sotto Ferdinando IV re di Napoli, che diede inizio ai lavori nel 1791, ma dovette interromperli per le vicende politiche di quegli anni; nuovi tentativi ebbero luogo prima sotto Giuseppe Bonaparte (1805-08), poi nel 1816 dopo la restaurazione borbonica, quindi nel 1826-35; in quest’ultima occasione fu riattata in gran parte la galleria di Claudio. Il prosciugamento completo e definitivo del lago ebbe luogo fra il 1854 e 1878 per iniziativa del duca Alessandro Torlonia che si servì del progetto dello svizzero F. Mayor de Montricher e affidò la direzione dei lavori agli ingegneri H. S. Bermont, svizzero, e A. Brisse, francese. L’emissario Torlonia fu scavato seguendo l’andamento di quello claudiano, ma con una maggiore profondità e ampiezza; la sua azione bastò a prosciugare il lago; per la sistemazione idraulica del bacino fu costruito un grande canale collettore, dighe, canali minori, che convogliano le acque della conca nell’emissario, bonificandola completamente; gli ultimi lavori di bonifica furono compiuti nel 1886-87. L’impresa, che superò immense difficoltà e importò gravissime spese, valse ad Alessandro Torlonia il titolo di principe del Fucino; tranne alcuni tratti rivieraschi, tutto il territorio prosciugato del Fucino è oggi una
delle regioni italiane più fertili e produttive per le colture intensive di cereali, patate, barbabietole e anche, nelle zone marginali, di viti e di alberi da frutta. Per il cambiamento del clima, divenuto più rigido in seguito al prosciugamento, vaste colture di mandorli hanno sostituito gli uliveti”.
A commento di una descrizione sì chiara e sintetica dell’impresa che condusse al prosciugamento del Lago di Fucino, non appare improprio riportare un pensiero del Gregorovius che, con accenti forse tardo-romantici, così scriveva: “non so assuefarmi all’idea che questo solenne lago, che per migliaia di anni ha specchiato nelle sue acque questi monti severi e maestosi, debba scomparire per sempre”.
Il nuovo assetto produttivo del Fucino generò, com’era inevitabile, gravi tensioni sociali che miravano a ridistribuire col metro dell’equità la ricchezza generata dal grande alveo riportato alla luce; è così che, dopo il lungo travaglio delle rivendicazioni e delle lotte del bracciantato di cui Ignazio Silone ci ha lasciato testimonianze di grande valore letterario, si giunse nel 1950 alla riforma agraria che, tramite la costituzione dell’Ente Fucino, procedette all’assegnazione delle particelle agrarie alle singole famiglie di agricoltori, estromettendo così non solo Torlonia, ma anche i grandi assegnatari che avevano tratto dal prosciugamento grandi benefici.
A partire da quel momento, l’espansione economica di Avezzano segna un’accelerazione che raramente si riscontra in altre città. I gravi danni causati dalle incursioni aeree del 1944 vengono riparati con inusitata celerità, e i servizi essenziali tempestivamente ripristinati facilitano il rapido ritorno alla vita civile. Si espandono le attività commerciali per le quali la città ha sempre avuto una naturale vocazione, e riprendono vigore quelle artigianali. Sorge un nucleo industriale che occupa migliaia di operai, si costruiscono nuove sedi bancarie e attrezzate cliniche mediche. L’edilizia pubblica che spazia dal moderno Ospedale Civile, al palazzo dell’INPS, alle Poste Centrali, agli edifici dei Licei Classico e Scientifico, conferisce alla Città una configurazione urbanistica di ampio respiro. Un fervore di opere di tale livello non ha inteso celebrare il primato del Capoluogo del Circondario, ma si è posto invece come il momento più significativo di una rinascita che è di tutta la Marsica, giacché il destino dell’uno è legato a quello dell’altra.
Note:
- (1)Insigne storico lasciò un testo fondamentale per la storia della Marsica, Historia Marsorum, in tre volumi in lingua latina.
Nato ad Avezzano il 13 luglio 1597 abbracciò la vita ecclesiastica e fu nominato abate di S. Cesidio in Trasacco.
Fu in seguito eletto Vicario generale della diocesi de L’Aquila, poi fu chiamato a Pescina dove rimase sino alla morte, avvenuta, pare, il 3 gennaio 1663.
- (2)Plinio dice che Silio Italico scrisse con più diligenza che ingegno.
- (3)Lorenzo Surio, ovvero Lorenz Sauer, umanista tedesco del XVI° secolo.
- (4)Così immagina Paolo Marso, umanista e storiografo nato a Pescina nel 1440, morto a Roma nel 1484.
- (5)Servio Mario Onorato, sec. IV-V d.C., autore di un ampio commento ai poemi virgiliani.
- (6)Storico e uomo politico greco ca. 200/118 a.C.; la sua opera più importante le “Storie” si articola in 40 libri, di cui i primi 5 sono pervenuti integri sino a noi, unitamente a frammenti degli altri.
PARTE SECONDA
Storia naturale della Marsica
1 - ASPETTI GENERALI
GENERALITA’
Il territorio della Marsica misura una superficie di 190.577 ettari, pari al 18% della superficie della Regione e al 32% di quella della Provincia aquilana, all’interno della quale si sviluppa. La Marsica comprede nella sua parte centrale l’alveo del Fucino, un vasto altopiano che si estende ad una altezza media di poco inferiore ai 700 metri ed è racchiuso in un articolato sistema montuoso su cui spicca il Monte Velino, con i suoi 2486 m. sul livello del mare.
Il confine geografico della Marsica visto nelle sue grandi linee può essere così descritto: dal Passo di Forca Caruso si dirige verso le elevate creste dei monti Terratta, Argatone e Marsicano, segue la gola di Opi, raggiunge la Serra delle Gravare, piega verso la Forca d’Acero e, prima a mezzogiorno,poi a ponente, segue il confine regionale con il Lazio fino a raggiungere il Costone nella zona del Velino, devia verso il Piano di Pezza, raggiunge il Vado omonimo, poi il Piano della Rovere e infine la cresta del Sirente, sino a tornare a Forca Caruso.
Il territorio, con Avezzano come Capoluogo, comprende 37 Comuni e conta una popolazione di circa 130.000 abitanti.
L’idrografia del territorio marsicano non annovera fiumi di grande portata, caratteristica che distingue d’altronde l’intera regione abruzzese, ma non manca tuttavia di notevoli corsi d’acqua come il Liri, il Giovengo, il Sangro, l’Imele, e di un gran numero di torrenti e di ruscelli di montagna. Degna di particolare menzione la cascata di Zompo lo Schioppo, nel Comune di Morino, con il suo salto di oltre 80 metri. Frequenti le profonde incisioni provocate nel corso dei secoli dall’azione delle acque di scorrimento; tra esse ricordiamo le affascinanti Gole di Celano, caratteristico canyon carsico, scavato dal torrente Foce. Occorre poi tener presente che la prevalente natura calcarea dei rilievi marsicani dà luogo alla formazione di innumerevoli corsi d’acqua sotterranei derivanti dalla percolazione delle precipitazioni meteoriche attraverso le fenditure rocciose.
OROGRAFIA, GEOLOGIA E GEOMORFOLOGIA
La morfologia della Marsica che appartiene all’Arco abruzzese interno si è originata all’inizio del Pliocene, quando un “geotumore” innalzatosi da una fossa tirrenica si diresse per scorrimento
verso oriente, venendo così ad urtare, in corrispondenza dell’attuale Valle Roveto, contro le strutture dei monti marsicani. Questo scontro di masse allogene e autoctone determinò i corrugamenti montuosi della Marsica, mentre in una fase distensiva successiva si verificarono le faglie che dettero origine alle valli e al bacino del Fucino (Cianciusi et al, 1980).
Il territorio presenta una morfologia articolata e accidentata su cui spiccano numerose cime che superano i 2000 metri di quota, come il M. Velino (2486 m.s.m.), il M. Cafornia (2424 m.s.m., 2409 metri su IGM), il M. Sirente (2348 m.s.m.), il M. Marsicano (2245 m.s.m.), il M. Magnola (2220 m.s.m.), il M. Greco (2285 m.s.m.), il M. il Bicchero (2161 m.s.m.), il M. Viglio (2156 m.s.m.), il Pizzo Deta (2041 m.s.m.) e molte cime minori, come il M. Turchio (1898 m.s.m.), il
M. Alto (1787 m.s.m.), il M. Midia (1738 m.s.m.).
Ad uno sguardo generale, la Marsica richiama subito l’attenzione su quella linea preferenziale NO-SE lungo la quale si allineano in alternanza e parallele le incisioni vallive, talora profonde, e le lunghe dorsali montuose.
Da Nord-Ovest verso Sud-Est, infatti, si rileva la grande struttura dei Monti Simbruini e degli Ernici, poi la grande catena calcarea che si origina in prossimità di Alvito, borda il Fucino ad Ovest e si prolunga fino a comprendere i monti del Cicolano.
Le due strutture montuose sono separate dalla Valle Roveto che contrassegna una depressione longitudinale in cui scorre il fiume Liri che nasce nei pressi di Cappadocia.
Confermano e generalizzano tale situazione la Vallelonga, il Vallone di S.Lucia e poi quella importante linea valliva che accoglie le prime acque del fiume Sangro dirette verso Sud e del Giovenco, dirette verso Nord.
In tale contesto sembrerebbe eccezionale la vasta Conca del Fucino, irrispettosa dell’andamento morfologico a valli e dorsali parallele. Invece tale motivo si conserva al di sotto delle alluvioni lacustri dove intere strutture sono sprofondate per effetto di dislocazioni tettoniche violente, frequenti e abbastanza recenti.
Le montagne che circondano la depressione fucense presentano una morfologia aspra, rupestre, segnata dal tormento che esse hanno sopportato e poi dai processi di dissoluzione carsica che ne hanno accentuato le irregolarità. Nelle parti più elevate alcune di esse presentano evidenti modellamenti glaciali. Le pendici, varie ed articolate, non sempre sono ricoperte di vegetazione; anzi, interi versanti d’aspetto detritico sono aperti all’azione disgregatrice del sole, dell’acqua e del vento. Le falde dei monti circostanti la conca presentano frequenti conoidi di deiezione che, degradando dolcemente verso quote più basse, si anastomizzano con i limi e le argille della Piana del Fucino, di chiara origine lacustre.
La struttura geologica prevalente del Comprensorio è quella calcarea con diffusissimi fenomeni carsici. Per questo motivo le precipitazioni meteoriche in quota non si raccolgono quasi mai in acque superficiali ma, per effetto della permeabilità determinata dalle innumerevoli fratture rocciose, si immettono in percorsi sotterranei, per riapparire spesso a valle anche dopo lunghi tragitti. L’acqua, una volta penetrata all’interno delle fessure, anche minime, esercita la sua azione solvente allargandole fino a formare cunicoli, corridoi, meati, grotte; a queste forme ipogee si contrappongono anche forme carsiche epigee tra cui spiccano i famosi karren, o solchi carsici, che conferiscono alla roccia le tipiche scanalature parallele simili ad un campo solcato.
Tra le altre forme di superficie si notano le doline, le uvale e le polje (o campi carsici). Le più comuni e diffuse sul teritorio in esame sono le doline, di contorno solitamente circolare od ovale, con diametro che spazia da qualche metro fino ad alcune centinaia di metri. Si rinvengono spesso inghiottitoi come per esempio quello della Luppa che ha una profondità di 48 metri. Numerose anche le grotte, a volta molto profonde, tra cui quelle di Beatrice Cenci, nei pressi di Petrella Liri e la Grotta Grande dei Cervi di Pietrasecca, scoperta non molto tempo fa.
La struttura morfologica della Marsica non fu determinata soltanto dal fenomeno del carsismo, ma porta anche evidenti segni dell’erosione glaciale pleistocenica di cui si hanno interessanti testimonianze nella Valle Majelama, nel Vallone di Teve, ed anche in oltre zone. Tra le forme d’erosione glaciale si ricordano anche le rocce montonate, le tipiche e classiche valli ad “U”, i circhi, i depositi morenici, i massi erratici, ecc..
Anche l’origine del Lago del Fucino è legata al fenomeno glaciale; questo lago, il terzo d’Italia, si estendeva ad un’altitudine media di 670 metri, per una superficie di 155 kmq., con una profondità media di 22 metri; era soggetto a numerose variazioni di livello dovute al fatto che, a fronte dell’invaso di materiali solidi trasportati dai suoi tributari, in principal modo dal Giovenco, si contrapponeva l’assenza di emissari naturali, cui supplivano in modo aleatorio alcuni inghiottitoi che si ostruivano frequentemente.
GEOLOGIA STORICA (a cura del prof. Giorgio De Sanctis)
La storia geologica significativa della Marsica inizia circa 200 milioni di anni fa, quando il territorio abruzzese era un bassofondo lagunare. In seguito, una lenta ma continua subsidenza provocò un abbassamento del fondo marino su cui andavano raccogliendosi scheletri di organismi marini, mentre altri vi costruivano edifici calcarei di varia forma e dimensioni.
Circa 80 milioni di anni fa avvenne una emersione temporanea della piattaforma carbonatica, tuttavia sufficiente a dar luogo a fenomeni di dissoluzione dei calcarei, con la conseguente formazione delle bauxiti che si rinvengono in vari distretti della Marsica (Lecce, Villavallelonga, M.Velino, ecc.).
Ma già 70 milioni di anni fa la superficie tornava sotto il livello del mare per riemergere poco dopo e restare scoperta per circa 40 milioni di anni durante i quali si ebbero notevoli sollecitazioni tettoniche che incurvarono e fratturarono diversamente il piastrone carbonatico.
Circa 25 milioni di anni fa il mare ingredì quasi ovunque determinando l’instaurarsi di un altro ciclo marino, l’ultimo, dopo di che i terreni carbonatici, variamente dislocati, emersero definitivamente scaricando nelle aree più depresse i sedimenti argilloso-arenacei che li ricoprivano. In particolare, si formarono rughe orogeniche riconoscentesi negli allineamenti delle dorsali calcaree suddette, che oggi mostrano i segni di una dinamica compressiva e successivamente di una di stile distensivo.
Le varie vicissitudini tettoniche produssero in sostanza sistemi di faglie orientate generalmente NO-SE. Saranno poi i movimenti di blocchi rocciosi lungo i piani di faglia a originare e definire la struttura della Valle del Liri, dei Piani Palentini, della Conca del Fucino, della Valle Longa, della Valle del Giovenco, ecc..
Il resto è essenzialmente fenomeno erosivo pressochè attuale che incide, corrode, riempie; sui pendii si accumula materiale detritico costituito da brecce nei coni di deiezione nelle zone immediatamente pedemontane, mentre materiali più fini riempiono le valli e le conche. Dove l’acqua non riesce a trovare sbocco verso il mare, si raccoglie e forma laghi sostenuti da complessi limo-argillosi impermeabili.
Il carsismo, ovunque diffuso, apre, come si è già rilevato, caverne, inghiottitoi e percorsi sotterranei.
I ghiacciai, nei periodi più freddi, arrivano con le loro lingue a quote superiori a 1000 metri, accumulando detriti morenici, mentre modellano, più in alto, numerosi circhi.
I fenomeni tettonici, tuttavia, ancora si conservano mantenendo viva una intensa attività sismica.
LINEAMENTI CLIMATICI, VEGETAZIONALI E FLORISTICI (a cura del dr. Bruno Petriccione *)
- Clima
Le caratteristiche climatiche dell’area della Marsica variano molto a seconda della zona considerata, della quota e dell’esposizione, dando luogo a diversi bioclimi sia di portata zonale che ristretti a piccoli biotopi.
Il clima della zona appenninica interna (parte meridionale del massiccio del Velino-Sirente e Piana del Fucino) è caratterizzato da precipitazioni medie annue scarse (da 700 a 1000 mm) e da un periodo di aridità estiva piuttosto pronunciato. I massimi di piovosità si registrano nei mesi invernali (regime delle piogge solstiziale invernale) e la temperatura rimane sempre al di sopra dello zero solo per tre mesi l’anno (da Giugno ad Agosto): il clima è quindi di tipo mediterraneo arido, con tendenza ad una certa continentalità (bassi valori di precipitazioni ed elevate escursioni termiche annuali). Le zone carseolana, degli Ernici-Simbruini e soprattutto del Parco Nazionale d’Abruzzo godono invece di piovosità molto maggiori (da 1200 a 1500 mm) e dell’assenza di periodi di aridità. La migliore distribuzione stagionale della piovosità (elevata anche in primavera ed autunno) rende l’ambiente molto più favorevole alle piante ed anche l’arco dell’anno privo di periodi di gelo è più lungo (quattro-cinque mesi). Il clima si avvicina di più in quest’ultimo caso a quello “mediterraneo-montano”, caratterizzato da regime delle piogge equinoziali e tendenza ad una certa oceanicità, diffuso su quasi tutti i massicci degli Appennini Centrali. Ovunque si hanno temperature medie annue da 3 a 10 °C, a seconda dell’esposizione e della quota (dai 300 m di Balsorano ai 2500 m del Velino).
E’ interessante notare una chiara tendenza del clima appenninico, negli ultimi decenni, ad una accentuata “mediterraneizzazione”, con diminuzione delle precipitazioni medie annue di 50-100 mm e spostamento dei massimi pluviometrici dai periodi equinoziali (primavera ed autunno) a quello solstiziale invernale. Comparando ad esempio i dati relativi alla stazione di Avezzano del periodo 1886-1950 con quelli del periodo 1951-1984, si scopre che nell’ultimo trentennio nei mesi di Marzo, Aprile e Maggio si sono avuti 55 mm di pioggia in meno, mentre altri 25 mm in meno si sono avuti ad Ottobre, per un totale di 82 mm in passivo. Gli ultimi trenta anni, rispetto alla situazione media (1886-1984), hanno visto quindi un’accentuazione notevole del carattere “subcontinentale” del clima dell’area del Fucino, che ha subito una forte diminuzione della piovosità proprio nei mesi più favorevoli al periodo vegetativo. La situazione relativa ad altre stazioni di rilevamento della Marsica è analoga, anche se il fenomeno appare talora meno estremo.
Per comprendere bene quanto prima esposto occorre tener presente che gli eventi meteorologici della catena appenninica risultano principalmente dalla interazione tra le perturbazioni atlantiche provenienti dal Mar Tirreno, che investono tutte le regioni occidentali provocandovi
precipitazioni piovose (cariche come sono di umidità ma anche di aria non troppo fredda), e i movimenti di aria fredda continentale provenienti dalla Penisola Balcanica, che determinano forti precipitazioni a carattere nevoso soprattutto sulle regioni orientali, quando vengono a contatto con l’aria umida del Mediterraneo. Si hanno così numerose aree con tendenza ad un bioclima di tipo suboceanico (zone carseolana, degli Ernici-Simbruini e del Parco Nazionale d’Abruzzo), poche aree a clima continentale di tipo “balcanico” ed infine pochissime zone più interne (protette sia dall’influenza dei mari che dalle correnti di aria fredda continentale da alte catene montuose) con un bioclima di tipo mediterraneo subcontinentale, meno temperato, con forte aridità estiva ed inverni freddi ma poco nevosi. Mentre il massimo della “continentalità” in senso balcanico si trova sulla parte settentrionale del massiccio della Majella, l’espressione più evidente ed estesa del clima “mediterraneo subcontinentale” si trova proprio sul Fucino e sulla parte meridionale del massiccio del Velino-Sirente che vi si affaccia, a causa delle barriere orografiche presenti sia verso il Mar Adriatico (Gran Sasso, Sirente, Majella) che il Tirreno (Ernici-Simbruini). Questa zona è infatti caratterizzata da quasi completa assenza di copertura nevosa duratura (i pochi centimetri di manto nevoso che talora vi si formano vengono rapidamente disciolti dal forte irraggiamento solare), fortissime escursioni termiche annuali e giornaliere al suolo, accentuata aridità estiva e scarse precipitazioni durante tutto l’anno. L’influenza mitigatrice del grande Lago del Fucino, prima del suo definitivo prosciugamento avvenuto circa un secolo fa, doveva indubbiamente arrecare grandi vantaggi climatici a tutta l’area (almeno fino ad una certa quota), rendendone il clima decisamente più mite.
- Vegetazione
Così come il clima, il paesaggio vegetazionale della Marsica è profondamente diverso se si considerano separatamente la zona appenninica interna e quella esterna. Mentre la seconda è caratterizzata da grandi estensioni di foreste caducifoglie di querce e di faggio (clima temperato suboceanico), così come avviene sulla gran parte degli Appennini, tutta la parte più continentale della Marsica (quella che raggiunge le massime elevazioni) presenta invece vaste superfici di arbusteti prostrati sempreverdi, rupi, ghiaioni e vegetazione erbacea di altitudine ed alpina. I boschi sono qui limitati a pochi relitti di faggeta e querceta confinati nelle posizioni più protette e defilate dai forti stress idrici e termici caratteristici di questa zona. Un buon esempio di questa situazione è rappresentato dalle due grandi valli glaciali che si dipartono dai versanti settentrionali delle maggiori elevazioni del Velino: esse offrono un paesaggio vegetazionale del
tutto diverso, l’uno caratteristico della zona tipicamente appenninica (Val di Teve, aperta ad Ovest, con faggete molto estese) e l’altro tipico di quella interna (Valle Majelama, affacciata sulla Piana del Fucino, con grandi superfici prive di vegetazione forestale).
La vegetazione della Marsica è ripartita comunque in generale su cinque fascie altitudinali, corrispondenti a differenziazioni climatiche fondamentali: la piovosità tende infatti generalmente ad aumentare con la quota, mentre la temperatura segue un andamento contrario. La vegetazione presenta quindi adattamenti e caratteristiche molto diverse, in dipendenza di diversi valori di piovosità, temperatura, nevosità, ventosità, ecc..
La fascia mediterranea del bosco sempreverde, caratterizzata dalle temperature più alte e dalla piovosità più bassa, è rappresentata solo da pochi relitti di lecceta rupestre presenti sempre al di sotto di 800 m sui versanti meridionali della Val Roveto e delle montagne che cingono a Sud-Est il Bacino del Fucino. Si tratta di presenze relittuali di estremo interesse: il leccio si trova qui in posizione extra-zonale, cioé al di fuori della sua consueta fascia bioclimatica (quella costiera), a causa della natura particolare dell’ambiente rupestre e di correnti umide presenti localmente con una certa costanza.
La fascia medioeuropea dei querceti caducifogli è generalmente diffusa da 500 a 1000 m circa, giungendo sulla parte meridionale del Velino fino a 1500 m a causa di caratteristiche climatiche e geomorfologiche del tutto particolari. I querceti termofili a roverella ne costituiscono la formazione più rappresentativa; solo localmente, in corrispondenza di suoli poco permeabili, si trovano querceti mesofili con dominanza di cerro. Lo strato arboreo, plurispecifico, è dominato dalla roverella (Quercus pubescens), ma un ruolo molto importante è giocato anche dall’orniello (Fraxinus ornus). Anche altre specie arricchiscono questo strato: il carpino nero (Ostrya carpinifolia) (specialmente nelle vallette più umide), il cerro (Quercus cerris) (solo su affioramenti marnosi), l’acero d’Ungheria (Acer obtusatum), il sorbo montano (Sorbus aria) e l’acero minore (Acer monspessulanum). Si tratta quasi sempre di cedui molto sfruttati, dove lo strato arbustivo è molto importante e vede la presenza, accanto alle stesse specie arboree, del nocciolo (Corylus avellana), dei ginepri (Juniperus oxycedrus, Juniperus communis) e di Cytisus sessilifolius. Lo strato erbaceo, ancor più ricco, presenta generalmente coperture non troppo elevate: in esso sono dominanti Brachypodium rupestre e Sesleria nitida. Lungo il corso dei fiumi principali (ad esempio sul Liri), dove il paesaggio non è ancora del tutto alterato dall’uomo, sono presenti relitti di boschi igrofili ad ontano nero (Alnus glutinosa), ricchi di specie rare e minacciate.
A partire da 1000-1200 m di quota il paesaggio vegetale appare nettamente caratterizzato, ove l’intervento dell’uomo non ne ha profondamente mutato i connotati, dalla foresta caducifoglia a faggio della fascia subatlantica. La comunità forestale dominante, se non esclusiva, è rappresentata dalla faggeta, caratterizzata dal faggio (Fagus sylvatica), che vi si trova quasi sempre in formazione pura, solo talora accompagnato dall’acero montano (Acer pseudoplatanus). L’aspetto generale delle faggete è unitario in tutta la Marsica, sebbene la composizione floristica del sottobosco vari da una zona all’altra,: le associazioni vegetali più diffuse sono solo tre o quattro, organizzate secondo un gradiente di termofilia-mesofilia, riscontrabile in tutte le aree al variare delle caratteristiche orografiche e quindi mesoclimatiche. Le sole altre associazioni forestali di questa fascia sono costituite da rarissimi lembi di bosco sempreverde a conifere, relitti della fascia boreale. Mentre la maggior parte delle pinete appenniniche è di sicuro impianto artificiale (e quindi estranea al paesaggio naturale), piccole estensioni di boscaglia a pino nano (Pinus mugo) si trovano alla Camosciara nel Parco Nazionale d’Abruzzo, in relazione a un particolare clima locale (mesoclima) freddo e nevoso. Nella stessa area si trova una delle poche stazioni sicuramente spontanee di pino nero (Pinus nigra). Per quanto riguarda le faggete, le specie esclusive sono tutte erbacee, poco numerose e ben caratterizzate: Adenostyles australis, Cardamine enneaphyllos, Polystichum aculeatum, Galium odoratum (faggete microterme), Orthilia secunda, Neottia nidus-avis, Cephalanthera rubra, Digitalis micrantha, Cephalanthera longifolia (faggete mesofile), Daphne laureola (faggete termofile).
Nella zona del massiccio del Velino-Sirente le faggete sono per lo più rimpiazzate dagli arbusteti prostrati a uva ursina (Arctostaphylos uva-ursi) e ginepro nano (Juniperus nana), a causa del clima subcontinentale di cui si é detto. Si tratta di una vegetazione relitta di grande valore, testimone del clima continentale freddo (steppico) dell’ultimo periodo glaciale, conservatasi sugli Appennini solo in pochissime stazioni.
Oltre i 2000 metri di quota la vegetazione erbacea discontinua delle alte vette conferisce un’impronta di tipo “alpino” alla fascia sommitale (mediterraneo-altomontana). Tra la fascia della faggeta e quella di altitudine sono però spesso presenti fitti arbusteti prostrati a ginepro nano. La vegetazione della fascia sovrastante il limite degli alberi, caratterizzata da comunità erbacee naturali, è rappresentata fondamentalmente da un tipo particolare di prateria xerofitica di altitudine aperta (il seslerieto), dominata da zolle di graminacee (Sesleria tenuifolia) e ciperacee (Carex kitaibeliana), che occupa gran parte dell’area priva di vegetazione arborea per motivi climatici (forte ventosità ed amplissime escursioni termiche). Queste praterie, con forti affinità orientali, presentano valori molto elevati di diversità floristica e consentono di osservare
spettacolari fioriture, come quelle di Helianthemum canum ssp. canum, Anthyllis montana ssp. atropurpurea, Globularia meridionalis ecc.; esse sono poi fortemente caratterizzate da specie del tutto particolari come Pulsatilla alpina ssp. alpina, Pedicularis elegans ssp. elegans, Euphrasia salisburgensis. Solo nei siti più umidi e freschi dal seslerieto la vegetazione può evolversi fino ad un tipo diverso di prateria, questa volta chiusa e più compatta, dominata da un’altra specie di graminacea (Festuca macrathera), il Luzulo-Festucetum; collegati a queste praterie mesofile sono anche i popolamenti a Festuca nigrescens, Trifolium thalii e Plantago atrata (Trifolio- Festucetum), che si sviluppano nelle conce e negli avvallamenti con prolungata permanenza della neve.
In molte aree, a causa del massiccio disboscamento, il limite superiore del bosco risulta abbassato anche di parecchie centinaia di metri: in tali casi, negli spazi aperti che ne risultano, i processi erosivi provocano spesso un forte impoverimento del suolo, che finisce per essere colonizzato da praterie termo-xerofitiche secondarie (brometi).
La fascia di alta quota (alpica), presente nella Marsica solo sul Velino tra 2300 e 2500 m, ospita una vegetazione discontinua a cuscinetti erbosi che manifesta forti affinità floristiche ed ecologiche con quella delle Alpi e in parte con quella delle zone di tundra alpina ed artica di tutto l’emisfero boreale (Europa, Asia e Nord-America). Si tratta di comunità davvero “alpine”, diffuse sugli Appennini solo nella zona sommitale dei massicci più elevati (Majella, Gran Sasso, Laga, Sibillini), dove si registrano temperature medie annue di circa 0 °C, suolo gelato in modo continuativo per circa otto mesi l’anno ed intensi fenomeni periglaciali (clima locale di tipo continentale artico-alpino). Si tratta della vegetazione della tundra alpina a Silene acaulis ssp. cenisia e Saxifraga speciosa e delle praterie discontinue a Sesleria tenuifolia, Carex kitaibeliana e Potentilla apennina.
Gli ambienti montani più estremi, infine, rappresentati dalle rupi e dai detriti mobili, ospitano una vegetazione e una flora molto specializzate. Si tratta sempre di vegetazione “pioniera” e di tipo azonale, cioé di comunità la cui presenza non è connessa a variazioni altitudinali (e quindi climatiche), ma è invece strettamente dipendente da fattori edafici di stazione, in questo caso la forte pendenza o il continuo rotolamento delle brecce, che impediscono un ulteriore sviluppo edafico e vegetazionale. Mentre le rupi sono colonizzate solo da pochissime specie (per lo più dei generi Potentilla e Saxifraga) che formano comunità abbastanza monotone, le diversità ambientali dei brecciai consentono la presenza di almeno quattro tipi principali di vegetazione, che si alternano in dipendenza dell’altitudine e delle caratteristiche fisiche delle brecce calcaree: una associazione (rarissima) è caratterizzata dalla presenza dei papaveri alpini (Saxifrago-
Papaveretum julici), un’altra (la più rappresentata) è dominata dagli alti cespi della graminacea Festuca dimorpha (Galio magellensis-Festucetum dimorphae), ed infine due comunità si distinguono per la scarsa copertura vegetale, quella caratterizzata dalla crucifera Isatis allionii e dall’ombrellifera Heracleum pyrenaicum ssp. orsinii (Isatido-Heracleetum orsinii) e la simile Drypido-Festucetum dimorphae, caratterizzata dalla cariofillacea Drypis spinosa.
- Flora
La flora della Marsica si può stimare in circa 2000 specie, corrispondenti a ben un terzo dell’intera flora italiana (5600 specie). Le aree a più alta ricchezza floristica sono rappresentate dal massiccio del Velino (circa 600 specie nella sola parte marsicana al di sopra di 1000-1300 m, equivalente a circa 40 kmq) e dalle montagne del Parco Nazionale d’Abruzzo (circa 1200 specie nell’intero territorio protetto, equivalente a circa 400 kmq). Mentre le entità più schiettamente mediterranee o alpine mancano quasi completamente, la regione marsicana comprende alcune delle aree a più alta concentrazione di specie endemiche e orientali, presenti soprattutto sui massicci più elevati. Le stesse aree ospitano comunque anche interessanti esempi di relitti glaciali, seppure in numero molto limitato.
Quasi tutte le specie protette dalla Legge Regionale 11.11.1979 n. 45 sono presenti nella Marsica: Adonis distorta (solo sul Velino), Anemone apennina, Aquilegia magellensis (solo alla Camosciara), Atropa belladonna, Carlina acaulis, Daphne mezereum, Dictamnus albus (solo nella Vallelonga), Gentiana dinarica, Gentiana lutea, Leontopodium nivale (solo sugli Ernici), Lilium bulbiferum ssp. croceum, Lilium martagon, Nigritella widderi (solo su M. Marsicano e Meta), Paeonia officinalis (solo nella Val Roveto), Papaver degenii (solo sul M. Marsicano), Papaver julicum (solo su M. Marsicano e Velino), Parnassia palustris (solo alla Camosciara), Primula auricula, Primula veris, Pulsatilla alpina, Ranunculus magellensis (solo su M. Marsicano e Meta), Ranunculus thora, Ruscus aculeatus, Soldanella alpina (solo su M. Marsicano e Meta).
Nove specie inculse nella Lista rossa delle piante italiane (WWF-Ministero dell’Ambiente) sono presenti nella Marsica: Androsace maxima (piana di Massa d’Albe), Apium repens (Laghetto di Ortucchio), Cypripedium calceolus (Camosciara), giudicate “vulnerabili”, Adonis distorta (Velino e Sirente), Aquilegia magellensis (Camosciara), Iris marsica (Parco Nazionale d’Abruzzo, ecc.), Leontopodium nivale (Ernici), Minuartia trichocalycina (Fucino), Papaver degenii (Marsicano), giudicate “rare”.
Moltissime, infine, sono le specie rare sul piano nazionale (secondo Flora d’Italia di Pignatti), ben rappresentate nella Marsica: se si esclude la flora sinantropica diffusa nelle aree più densamente abitate ed industrializzate (Fucino, Val Roveto) le specie rare vanno a costituire ben un quinto dell’intera flora marsicana. Le aree più interessanti a questo riguardo sono anche in questo caso il massiccio del Velino e le montagne del Parco Nazionale d’Abruzzo. Sul Velino sono presenti specie segnalate nell’Italia peninsulare solo in questo massiccio (Allium lineare, Hieracium piliferum) o in pochissime altre località abruzzesi (Arrenatherum elatius ssp. sardoum, Ligusticum lucidum ssp. cuneifolium, Betula pendula, Adonis distorta, Alyssum cuneifolium, Oxytropis pyrenaica). Per il Parco d’Abruzzo, allo stesso modo, si possono citare Aquilegia magellensis, Cypripedium calceolus, Epipogium aphyllum, Pinus mugo, Veronica alpina.
* biologo, funzionario del Corpo Forestale dello Stato.
FAUNA
1– Descrizione generale
La fauna che trova il proprio habitat nel Comprensorio marsicano è ovviamente condizionata dalla natura montuosa dell’ambiente che spazia dalle vette spoglie e sassose alle praterie d’alta quota, ai ghiaioni, sino alla faggeta, al bosco misto e ai campi coltivati sulle pendici montane.
La consistenza indicativa numerica delle specie è la seguente:
- Uccelli = 201
- Mammiferi = 44
- Anfibi = 12
- Rettili = 11 Totale = 268
Ogni fascia altimetrica ospita particolari specie di fauna, anche se alcune di esse, grazie alla capacità di adattamento, si possono trovare sia sulle vette che nei prati a valle. Spesso la natura impervia del terreno non rende facile nè agevole l’osservazione della fauna, ma l’impegno dell’osservatore è ampiamente ripagato dall’interesse naturalistico degli esemplari che riesce ad avvistare, tra cui anche quelli di specie minacciate di estinzione.
All’interno della fauna marsicana l’aquila reale (Aquila chrysaetos) attrae particolarmente l’attenzione del naturalista, in quanto questo rapace è ora presente con diverse coppie nidificanti
nel Comprensorio, dopo aver superato momenti che facevano temere la sua estinzione. Permangono tuttavia gravi pericoli per la sopravvivenza dell’aquila reale, derivanti non solo alle uccisioni di frodo, ma anche dalla manomissione del territorio che, attraverso l’urbanizzazione degli ambienti montani esplosa soprattutto con il turismo, ha reso accessibile zone un tempo del tutto isolate; in tal modo larghe parti del territorio hanno definitivamente perso la tranquillità e la pace, requisiti essenziali sia per la nidificazione che per la caccia esercitata dall’aquila reale; interventi sul territorio che non tengano conto della sua presenza ne insidieranno gravemente la vita e porranno a repentaglio le ultime vestigia del suo habitat.
I terreni su cui il rapace effettua la caccia appartengono alle più varie morfologie, con esclusione delle zone fittamente boscate o con vegetazione intricata. La maggior parte dei territori di caccia si trova a quote superiori rispetto al nido, certamente allo scopo di facilitare il trasporto in scivolata degli animali predati. Le prede predilette dall’aquila, e presenti nei territori marsicani, sono la lepre comune (Lepus europaeus) distribuita dai pascoli di alta quota fino alle pendici delle montagne, e la coturnice (Alectoris graeca), che abita terreni elevati pietrosi o rocciosi e terreni meno elevati nella stagione invernale; in questi ultimi tempi, grazie alla protezione estesa ad un’ampia parte del territorio, la coturnice è in buona ripresa ed è stata notata la ricolonizzazione di aree da cui era prima scomparsa. Anche vari mustelidi, come la faina (Martes foina) e la puzzola (Mustela putorius), non infrequenti nella Marsica, sono spesso preda dell’aquila reale che le scova nelle zone rocciose ed erbose e nelle radure dei boschi. I rettili costituiscono un’altra importante fonte di sostentamento del rapace; infatti, durante numerose osservazioni effettuate, si è avuto modo di avvistare l’aquila che tratteneva tra gli artigli un cervone (Elaphe quatorlineata), rettile che si trova frequentemente sotto i 1200 m.s.m., lungo i margini dei boschi, sui pendii rocciosi e nelle radure. Sino ai 1800-2000 metri di quota l’aquila preda un altro serpente comune nella Marsica, il saettone o colubro d’Esculapio (Elaphe longissima). Altro bellissimo rettile, dai forti colori verde-giallo-nero, è il biacco (Coluber viridiflavus); lo possiamo trovare sino ai 1500 metri s.m. in un’ampia varietà di ambienti, come declivi rocciosi assolati, margine dei boschi, macchie, boschi aperti, zone cespugliose. Importantissima, dato il suo ristrettissimo areale localizzato entro una stretta fascia del Centro Italia, è la vipera dell’Orsini (Vipera ursinii) rintracciabile intorno e oltre i 2000 metri, su pendii ben drenati con scarsa vegetazione e praterie spesso aride. Molto più frequente, e diffusa in areale molto ampio è invece la vipera comune (Vipera aspis). La fauna erpetologica è inoltre presente con la lucertola muraiola (Podarcis muralis), il ramarro (Lacerta viridis), il colubro liscio
(Coronella austriaca), la biscia dal collare (Natrix natrix) tipica degli ambienti acquatici, l’orbettino (Anguis fragilis), ecc..
Tornando a considerare più in generale i volatili, notiamo che sulle pareti rocciose, oltre la vegetazione arborea, nidificano i gracchi corallini (Pyrrhocorax pyrrhocorax) ed anche il più raro, per queste contrade, gracchio alpino (Pyrrhocorax graculus) che si distingue dai primi sia per il verso, che per il becco più corto e giallo. Sulle stesse pareti rocciose si può osservare il classico volo a “farfalla” del picchio muraiolo (Tichodroma muraria). Specie spiccatamente montana che si può osservare oltre i 2000 metri durante l’estate, e più in basso durante l’inverno, è il fringuello alpino (Montifringilla nivalis) localizzato in zone molto ristrette della catena appenninica del Centro Italia. Nel territorio del Velino e nelle zone limitrofe ci si può imbattere nel rauco gracchiare del corvo imperiale (Corvus corax), la cui presenza è frutto di una specifica reintroduzione operata dalla Riserva Naturale Orientata del Velino. Grazie all’irradiarsi del nucleo iniziale ora la specie è possibile rinvenirla in numerosi luoghi della Marsica. Oltre al corvo imperiale dalla Riserva del Velino è stato rentrodotto con successo il grifone (Gyps fulvus) grazie al rilascio di oltre sessanta esemplari provenienti dalla Spagna. Ormai la colonia si è stabilmente insediata nel massiccio e nelle località limitrofe e da 1997 le varie coppie formate si riproducono regolarmente. Il loro libero spaziare fa si che non è inconsueto rinvenire esemplari in gruppo anche in luoghi distanti dal Velino. Purtroppo nel ‘98 una decina di esemplari sono stati uccisi da bocconi avvelenati sparsi su carcasse morte per cause naturali. Ora si contano quasi un centinaio di esemplari.
Man mano che si scende a quote più basse, ove vegetano boschi di faggio e, ancora più giù, boschi di querce, si nota che la fauna si fa più varia ed abbondante. Qui si sente spesso la forte e squillante “risata” del picchio verde (Picus viridis) e il rapido tambureggiare del picchio rosso maggiore (Picoides major) o la discreta presenza del piccolo picchio rosso minore (Picoides minor). Una specie rarissima strettamnte legata ai boschi maturi per la ricerca del cibo e per la nidificazione è il picchio dorsobianco (Picoides leucotos); ancor più raro del precedente per le nostre contrade è il picchio rosso mezzano (Picoides medius). Nell’intero territorio marso è facile imbattersi nella cince (genere Parus: cinciallegra, cinciarella, cincia bigia alpestre, cincia bigia e mora) mentre effettuano le loro acrobazie in cerca di cibo sui rametti degli alberi, come è frequente incontrare il torcicollo (Jinx torquilla) che corre veloce su e giù per i tronchi e i rami degli alberi. Le cince sono le prede preferite dello sparviero (Accipiter nisus), un rapace che è agilissimo anche tra la vegetazione intricata. Altro rapace presente, sebbene più raro dello sparviero e di mole più grande, ma ugualmente agile ed esperto nella caccia nei boschi, è l’astore
(Accipiter gentilis); le sue prede sono uccelli di media taglia, come le numerose ghiandaie (Garrulus glandarius), il piccione selvatico (Columba livia), il colombaccio (Columba palumbus), la tortora (Streptopelia turtur) ed anche lepri e piccoli mammiferi che non disdegna. Tra gli altri uccelli merita particolare menzione la balia del collare (Ficedula albicollis), mentre durante tutto l’anno non è difficile osservare la tordela (Turdus viscivorus). Nei pressi dei torrenti, dei laghi e dei fiumi della Marsica è possibile incontrare il merlo acquaiolo (Cinclus ciclus) e il germano reale (Anas platyrhynchos), nè è raro che si possa annotare sul taccuino ornitologico la presenza dell’airone cenerino (Ardea cinerea) e di numerose altre specie acquatiche e palustri come anatidi, rallidi e trampolieri. Un eccezionale relitto glaciale è rappresentato, dal piviere tortolino (Eudromias morinellus), specie artica che con poche coppie localizzate nidifica in alcuni monti più alti dell’Abruzzo. Specializzato nella caccia di ogni tipo di uccello in volo è il raro falco pellegrino (Falco peregrinus) presente nella Marsica con poche coppie nidificanti. Dopo anni di declino in questi ultimi tempi è in ripresa e sta ricolonizzando territori che una volta gli erano propri. Nei boschi chiusi o aperti trova ospitalità il picchio muratore (Sitta europaea), caratteristico per le “corsette” che effettua sui tronchi degli alberi, anche a testa in giù.
Molti sono gli uccelli che si portano tra le montagne della Marsica nella stagione calda per nidificare; tra questi ricordiamo l’upupa (Upupa epops), l’elegante culbianco (Oenanthe oenanthe), il calandro (Anthus campestris). Nelle caldi notti estive possiamo udire anche la monotona nota del più piccolo dei gufi, l’assiolo (Otus scops). Nelle ore notturne il bosco risuona anche del canto degli allocchi (Strinx aluco) e di quello meno frequente del gufo comune (Asio otus) mentre, nei pressi delle abitazioni rurali, è facile osservare e sentire il barbagianni (Tyto alba) e la civetta (Athene noctua). Nelle valli boscose e rocciose vive il raro gufo reale (Bubo bubo).
Altri uccelli che si trovano frequentemente nei boschi e nelle radure sono il codirosso (Phoenucurus phoenucurus), il codirosso spazzacamino (Phoenucurus ochruros), il saltimpalo (Saxicola torquata), lo zigolo nero (Emberiza cirlus), l’averla piccola (Lanius collurio), l’averla capirossa (Lanius senator) e, in gran numero, l’usignolo (Luscinia megarhynchos), la capinera (Sylvia atricapilla), il codibugnolo (Aegithalos caudatus), il fringuello (Fringilla coelebs), il cardellino (Carduelis carduelis), il verzellino (Serinus serinus) e, nella stagione estiva, rondoni (Apus apus) e balestrucci (Delichon urbica). Non manca il sordone (Prunella collaris), lo spioncello (Anthus spinoletta), il ciuffolotto (Pyrrhula pyrrhula), il rampichino (Certhia
brachydactyla), il rampichino alpestre (Certhia familiaris), la ballerina bianca e gialla (Motacilla alba e Motacilla cinerea), il rigogolo (Oriolus oriolus), il cuculo (Cuculus canorus).
Tra gli altri rapaci troviamo il gheppio (Falco tinnunculus), frequentissimo nel Comprensorio marsicano; si nutre di topi selvatici (Apodemus sylvaticus e Apodemus flavicollis), di lucertole e ramarri, nonchè di piccoli passeriformi. Meno diffusa è la poiana (Buteo buteo) anche se abbastanza comune e in evidente ripresa negli ultimi tempi. Di grande interesse è la presenza del lanario (Falco biarmicus feldeggi) una specie simile al pellegrino ma più raro in queste contrade. Spostando l’attenzione sugli anfibi occorre ricordare la salamandra pezzata appenninica (Salamandra salamandra gigliolii) e la salamandrina dagli occhiali (Salamandrina terdigitata), entrambe endemiche dell’Appennino e frequentatrici delle faggete. Presente anche il tritone punteggiato (Triturus vulgaris) e il tritone crestato (Triturus cristatus), mentre è dubbia la presenza del tritone italiano (Triturus italicus) così come quella del geotritone italiano (Hydromantes italicus) quest’ultimo appartenente alla famiglia dei Plethodontidae. Più comuni l’ululone a ventre giallo (Bobina variegata pachypus) e il rospo comune (Bufo bufo spinosus). Diffuse la rana verde (Rana esculenta complex) e la rana greca (Rana graeca).
Interessanti gli avvistamenti che si possono effettuare durante i periodi di passo. Nel mese di maggio arrivano nei campi coltivati i falchi cuculi (Falco vespertinus) che si esibiscono nel loro affascinante “spirito santo” che consiste nel rimanere immobili nell’aria per avvistare le piccole prede. Tra i migratori più avvistati ci sono le albanelle minori e reali (Circus pygargus e Circus cyaneus), i falchi pecchiaioli (Pernis apivorus), i lodolai (Falco subbuteo); si registrano anche avvistamenti del falco pescatore (Pandion haliaetus), del falco di palude (Circus aeruginasus), dello smeriglio (Falco colunbarius) e del biancone (Circaetus gallicus) che si nutre esclusivamente di rettili.
Tra i mustelidi, oltre alla citata puzzola e alla faina, si rinvengono la donnola (Mustela nivalis) e la rara martora (Martes martes); con un po’ di fortuna ci si può imbattere nelle grosse buche d’entrata delle labirintiche tane dei tassi (Meles meles), amanti dei boschi e dei pendii con bassa vegetazione. Nella parte più alta delle montagne è interessantissima la presenza, peraltro molto limitata, della rara arvicola delle nevi (Microtus nivalis), relitto glaciale. Tra gli altri roditori più comuni si ricordano il ghiro (Glis glis), lo scoiattolo meridionale (Sciurus vulgaris meridionalis) con la sua livrea nera lucente e il moscardino (Muscardinus avellanarius), abitatore della boscaglia a mezza quota. Diffuso il riccio (Erinaceus europaeus), soprattutto nelle zone campestri sino alla media quota, mentre limitata è la presenza del raro istrice (Hystrix cristata), anche se in questi ultimi tempi sembra essere in leggero incremento; si spera che poco alla volta
possa riconquistare il territorio perduto. Numerose poi le specie di altri micromammiferi come insettivori, roditori e chirotteri.
Le specie ittiologiche presenti nella Marsica non sono state finora oggetto di studio approfondito; si può tuttavia affermare che le specie più diffuse e rappresentative sono la trota di torrente (Salmo gairdneri e Salmo trutta), la trota di lago (Salmo trutta lacustris), il cavedano (Leuciscus cephalus), la tinca (Tinca tinca) (Tassi, 1987). Il gambero di fiume (Austropotamobius pallipes italicus), una volta ad ampia diffusione, è ora più raro; di notevole interesse biologico è la presenza dell’alborella (Alburnus albidus), un pesce endemico dell’Appennino centromeridionale (Tassi, 1987).
L’entomofauna è rappresentata da un numero incalcolabile di specie di cui si ricordano, a titolo di esempio, alcune abbastanza rare notate nel Parco Nazionale d’Abruzzo, come gli endemici Coleotteri, Chrysochloa marsicana e Chrysochloa siparii (Tassi, 1987); nelle faggete si rinviene il carabide, Cychrus rostratus costai e il Carambicide Rosalia alpina (Tassi, 1987). In via di estinzione un’altro Carabide, il Carabus cavernosus variolatus (Tassi, 1987) e il Lepidottero Parnassius mnemosyne. Nella zona del Sirente vi è un altro importante endemismo rappresentato dai Coleotteri Oreina marsicana e Calathus sirentensis (C. Console et al., 1988).
Tornando a considerare i mammiferi notiamo che, oltre alla comune volpe (Vulpes vulpes) e al sempre più diffuso cinghiale (Sus scrofa), il territorio marsicano annovera la presenza di specie di eccezionale interesse naturalistico e scientifico, come il gatto selvatico (Felis silvestris) elusivo e solitario abitatore dei boschi, e l’ormai rara lontra (Lutra lutra) che vive nei torrenti, nei ruscelli e nei fiumi del Parco Nazionale d’Abruzzo soltanto con pochissime coppie. In questi ultimi tempi nel territorio marsicano (prevalentemente nel Parco d’Abruzzo) è stata nuovamente rilevata, sia pure in forma sporadica ed episodica, la lince (Felis linx) la cui presenza è però fonte di polemiche e di continue diatribe in quanto a detta di taluni si tratterebbe del frutto di una probabile rentroduzione operata da ignoti.
Altro tipico mammifero marsicano è il camoscio d’Abruzzo (Rupicapra pyrenaica ornata), che si distingue dalle razze alpine. E’ localizzato solamente nel Parco Nazionale d’Abruzzo, ma alcuni esemplari sono stati recentemente trasferiti in recinti all’interno della Majella e del Gran Sasso e successivamente liberati; salvato miracolosamente dall’estinzione, vive con oltre quattrocento esemplari nelle zone più impervie e inaccessibili delle montagne del Parco, ma non è difficile avvistarlo a breve distanza, grazie alla sua spiccata mansuetudine. Il camoscio d’Abruzzo è ritenuto una “perla faunistica”, ma corre ancora oggi grossi rischi di sopravvivenza sia per la sua omogeneità genetica, sia per la ristrettezza del territorio in cui vive.
Per completezza occorre menzionare altri mammiferi reintrodotti nel territorio marsicano, precisamente nel Parco Nazionale d’Abruzzo e, di recente, nel Velino; ci si riferisce ad ungulati come il cervo (Cervus elaphus hippelaphus) e il capriolo (Capreolus capreolus) (quest’ultimo prevalentemente nel Parco d’Abruzzo). I due ungulati, distrutti nelle epoche passate dal bracconaggio, dalla deforestazione e dalla competizione del pascolo zootecnico, stanno gradualmente reinsediandosi ed espandendosi (cervo 600-800? esemplari; capriolo 150-250?). Tale risultato è di grande rilievo perchè la presenza degli ungulati ripristina nella sua interezza la catena alimentare, riconferendo in tal modo al territorio un equilibrato ecosistema. Il capriolo oltre ai territori del Parco d’Abruzzo è rinvenibile, sia pure in forma meno consistente, sui Simbruini/Ernici e sporadicamente nel massiccio del Sirente/Velino.
Ma oltre alle menzionate specie, dobbiamo ora occuparci, prima di concludere, dell’orso bruno marsicano e del lupo appenninico che, insieme all’aquila reale e al camoscio d’Abruzzo, costituiscono il simbolo della fauna marsicana.
L’orso bruno marsicano (Ursus arctos marsicanus), cui spetta un’attenzione di primo piano, è ritenuto ormai da molti studiosi una speciale razza dell’orso bruno, che come noto vive nel resto d’Europa con piccoli nuclei dispersi. Quello marsicano, purtroppo ormai ridotto a poche decine di esemplari, è localizzato prevalentemente nel Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise, anche se non mancano avvistamenti diretti o segni di presenza nei territori limitrofi, come nella Majella , nel gruppo del Velino-Sirente e sugli Ernici-Simbruini. Segnalazioni si hanno anche nel gruppo Gran Sasso-Laga e finanche sui Monti Sibillini. Il plantigrado gravemente minacciato di estinzione a causa della progressiva distruzione dell’ambiente in cui vive al che si aggiungono le insidie delle uccisioni dirette che provengono dai bracconieri o da incidenti di varia natura (p.e. investimenti); per tutelarlo si adottano iniziative tese a salvaguardarne l’ambiente e a concentrare gli esemplari superstiti nei territori protetti, soprattutto del Parco; si organizzano poli di attrazione mediante l’introduzione di sciami selvatici di Apis mellifera, o piantagioni di fruttiferi (mele e pere), di ortaggi, cereali (mais), particolarmente appetiti dall’orso, o anche l’istituzione di carnai che si fanno rotare in posti diversi. Queste iniziative, nel restringere gli spostamenti dell’orso, consentono di ridurre i rischi connessi al bracconaggio o agli incidenti stradali, e riduce, nello stesso tempo, i consumi energetici che gli spostamenti comportano. In ogni caso però queste operazioni di sostegno non possono sostituire integralmente le fonti alimentari che l’ambiente offre spontaneamente all’orso, anche per evitare una sua pericolosa assuefazione e dipendenza. Progetti di salvaguardia sono stati elaborati nel tempo, non solo dal Parco, ma anche dall’Unione Europea, sia per l’orso marsicano che per quello presente nell’intero territorio
comunitario. Alle difficoltà di cui si è fatto cenno si somma l’effetto indotto dall’eccessivo turismo, e dalla scarsa capacità di adattamento del plantigrado a restringersi entro territori limitati. Come accennato, malgrado la rigida azione di tutela legale cade ancora vittima di ignobili atti di bracconaggio. Tuttavia le speranze di salvare questo stupendo plantigrado, sono ancora vive, anche se alquanto esigue.
Altra specie gravemente minacciata è quella del lupo appenninico (Canis lupus italicus). In nessuna epoca storica v’é mai stata cultura umana in cui la convivenza con il lupo non abbia dato luogo a forme di spietata persecuzione del vituperato animale. Questo formidabile carnivoro, fiero e selvaggio, non è, per sua sventura, nella condizione di sottrarsi alle vessazioni umane, al punto che, se volessimo emblemizzare la violenza che l’uomo esercita sulla natura, dovremmo assumere a riferimento la drammatica vicenda esistenziale del lupo. Oggetto di universale odio, il lupo è stato considerato in ogni epoca nemico da distruggere con qualsiasi mezzo, quale le fucilate, l’avvelenamento, l’impiccagione o anche mediante la crudelissima, lunga agonia provocata dalla indicibile spietatezza delle trappole.
L’inevitabile esito di un siffatto rapporto conflittuale instaurato dall’uomo a danno del lupo è stata la scomparsa di quest’ultimo da molti territori che gli erano propri.
Il lupo svolge un ruolo ecologicamente rilevante mediante il controllo delle specie predate; la rarefazione di queste lo spingono tuttavia a nutrirsi anche di carogne e, emblematica rappresentazione dell’inarrestabile antropizzazione ed eutrofizzazione del territorio, a ricercare il cibo nelle discariche.
Incontrare il lupo in natura è evento ormai raro, mentre una volta era una circostanza abbastanza o relativamente consueta in Italia, non solo sui rilievi alpini, ma anche nelle pianure; con la sopravvenuta espansione antropica il lupo è stato confinato sulle montagne, con conseguente contrazione del numero degli esemplari. Dalle Alpi è stato comunque “scacciato” sin dal secolo scorso, mentre sopravvive con esigua popolazione sull’Appennino, ristretto per lo più nelle zone boscose. In questi ultimi anni, grazie ai sopravvenuti interventi protettivi, nonché alla reintroduzione di certe prede, come il cinghiale e il cervo, il lupo è in graduale ripresa e va ricolonizzando poco per volta i territori che un tempo gli erano propri, tanto che si segnalano presenze nelle Alpi marittime e nel territorio francese. Allo stato attuale dopo il minimo storico di solamente un centinaio di esemplari si stima una popolazione di 400-500 individui distribuiti prevalentemente nell’arco appenninico. Negli ultimi anni, come detto, anche le Alpi marittime sono stabilmente interessate alla presenza del carnivoro tanto che è quasi certo un suo reinsediamento spontaneo nei territori alpini. Nel territorio marsicano sarebbero non oltre una
sessantina (stima solo indicativa, ma alcuni sostengono, che il numero totale, potrebbe arrivare a cento individui), localizzati principalmente nel Parco d’Abruzzo anche se negli ultimi tempi si nota una certa espansione e una presenza verso molte contrade marsicane e nel resto d’Abruzzo. Tuttavia non dobbiamo nasconderci che le sorti di questo predatore sono ancora precarie, non solo in Italia, ma anche in altre zone del pianeta.
2.– Check-list indicativa della fauna della Marsica
- UCCELLI
Legenda delle abbreviazioni usate:
- Tipologia di presenza
S = Stanziale o sedentaria (Sedentary, Resident) W = Svernante o Invernale (Wintering)
B = Nidificante (Breeding) M = Migratrice (Migratory) reg = regolare (regular)
irr = irregolare (irregular) par = parziale (partial)
A = Accidentale (Accidental or Vagrant) RE = Reintrodotto
Podicipedidae
Tuffetto (Tachybaptus ruficollis) SB - M reg - W
Svasso piccolo (Podiceps nigricollis) M reg - (1)
Phalacrocoracidae
Cormorano (Phalacrocoraz carbo) A - (1)
Ardeidae
Tarabuso (Botaurus stellaris) M irr - (1)
Tarabusino (Ixobrychus minutus) M reg - (1)
Nitticora (Nycticorax nycticorax) M reg - (1)
Garzetta (Egretta garzetta) M reg
Airone cenerino (Ardea cinerea) M reg
Airone rosso (Ardea purpurea) M reg - (1)
Ciconiidae
Cicogna nera (Ciconia nigra) A
Cicogna bianca (Ciconia ciconia) M reg - (1)
Threskiornithidae
Mignattaio (Plegadis falcinellus) A - (1)
Anatidae
Oca granaiola (Anser fabalis) A - (1) Oca selvatica (Anser anser) A
Fischione (Anas penelope) M reg
Canapiglia (Anas strepera) M reg
Alzavola (Anas crecca) M reg
Germano reale (Anas platyrhynchos) M reg - W - SB
Codone (Anas acuta) M reg
Marzaiola (Anas querquedula) M reg
Mestolone (Anas clypeata) M reg (1)
Moriglione (Aythya ferina) M reg
Moretta tabbaccata (Aythya nyroca) M reg
Moretta (Aythya fuligula) M reg
Accipitridae
Grifone (Gyps fulvus) RE - SB
Falco pecchiaiolo (Pernis apivorus) M reg
Nibbio bruno (Milvus migrans) M reg
Nibbio reale (Milvus milvus) M reg - W par
Biancone (Circaetus gallicus) M reg
Falco di palude (Circus aeruginasus) M reg
Albanella reale (Circus cyaneus) M reg - W
Albanella minore (Circus pygargus) M reg
Astore (Accipiter gentilis) SB - M irr
Sparviero (Accipiter nisus) SB - M reg - W
Poiana (Buteo buteo) SB - M reg
Aquila reale (Aquila chrysaetos) SB - M irr
Pandionidae
Falco pescatore (Pandion haliaetus) M reg
Falconidae
Grillaio (Falco naumanni) M reg
Gheppio (Falco tinnunculus) SB - M reg - W
Falco cuculo (Falco vespertinus) M reg
Smeriglio (Falco columbarius) M reg
Lodolaio (Falco subbuteo) M reg
Lanario (Falco biarmicus) SB
Falco pellegrino (Falco peregrinus) SB - M reg
Phasianidae
Coturnice (Alectoris graeca) SB
Starna (Perdix perdix) SB
Quaglia (Coturnix coturnix) M reg - B
Fagiano (Phasianus colchicus) SB
Rallidae
Porciglione (Rallus aquaticus) M reg - (1)
Schiribilla (Porzana parva) M irr - (1)
Gallinella d’acqua (Gallinula chloropus) SB - M reg - W
Folaga (Fulica atra) SB - M reg - W
Gruidae
Gru (Grus grus) A
Recurvirostridae
Cavaliere d’Italia (Himantopus himantopus) M reg
Avocetta (Recurvirostra avosetta) M reg
Charadriidae
Corriere piccolo (Charadrius dubius) M reg - B? - W? - (1)
Corriere grosso (Charadrius hiaticula) M reg
Piviere tortolino (Eudromias morinellus) M reg
Pavoncella (Vanellus vanellus) M reg - W
Scolopacidae
Gambecchio (Calidris minuta) M reg - (1)
Piovanello (Calidris ferruginea) M reg - (1)
Combattente (Philomachus pugnax) M reg
Beccaccino (Gallinago gallinago) M reg - W
Beccaccia (Scolopax rusticola) M reg - W par
Pittima reale (Limosa limosa) M reg - (1)
Pettegola (Tringa totanus) M reg - (1)
Pantana (Tringa nebularia) M reg
Piro piro culbianco (Tringa ochropus) M reg
Piro piro boschereccio (Tringa glareola) M reg
Piro piro piccolo (Actitis hypoleucos) M reg - W - B?
Laridae
Gabbiano comune (Larus ridibundua) A - (1)
Mignattino (Chlidonia niger) M irr - (1)
Columbidae
Piccione Selvatico (Columbia livia) SB
Colombella (Columba oenas) M irr Colombaccio (Columba palumbus) SB - M reg - W
Tortora dal collare orientale (Streptopelia decaocto) SB? - (1)
Tortora (Streptopelia turtur) M reg - B
Cuculidae
Cuculo (Cuculus canorus) M reg - B
Tytonidae
Barbagianni (Tyto alba) SB
Strigidae
Assiolo (Otus scops) M reg - B
Gufo reale (Bubo bubo) SB
Civetta (Athene noctua) SB
Allocco (Strix aluco) SB
Gufo comune (Asio otus) M reg - W - B
Gufo di palude (Asio flammeus) M reg
Caprimulgidae
Succiacapre (Caprimulgus europeaus) M reg - B
Apodidae
Rondone (Apus apus) M reg - B
Rondone pallido (Apus pallidua) M reg
Rondone alpino (Apus melba) M reg - B
Alcediniidae
Martin pescatore (Alcedo atthis) M reg - B? - W? - (1)
Meropidae
Gruccione (Merops apiaster) A - (1)
Upupidae
Upupa (Upupa epops) M reg - B
Picidae
Torcicollo (Jinx torquilla) M reg - B
Picchio verde (Picus viridis) SB
Picchio rosso maggiore (Picoides major) SB - M par - W
Picchio rosso mezzano (Picoides medius) SB
Picchio dorsobianco (Picoides leucotos) SB
Picchio rosso minore (Picoides minor) SB
Alaudidae
Calandra (Melanocorypha calandra) A - M irr
Calandrella (Calandrella brachydactyla) M reg
Cappellaccia (Galerida cristata) SB - M irr
Tottavilla (Lullula arborea) SB - M irr
Allodola (Alauda arvensis) SB - M reg - W
Hirundinidae
Topino (Riparia riparia) M reg - B?
Rondine montana (Ptyonoprogne rupestris) M reg - B
Rondine comune (Hirundo rustica) M reg - B
Balestruccio (Delichon urbica) M reg - B
Motacillidae
Calandro (Anthus campestris) M reg - B
Prispolone (Anthus trivialis) M reg - B
Pispola (Anthus pratensis) M reg - W
Spioncello (Anthus spinoletta) M reg - B
Cutrettola (Motacilla flava) M reg - B
Ballerina gialla (Motacilla cinerea) SB - M reg - W
Ballerina bianca (Motacilla alba) SB - M reg - W
Troglodytae
Scricciolo (Troglodytes troglodytes) SB - M reg - W
Cinclidae
Merlo acquaiolo (Cinclus cinclus) SB
Prunellidae
Passera scopaiola (Prunella modularis) SB - M reg - W
Sordone (Prunella collaris) SB - M reg - W
Turdidae
Pettirosso (Erithacus rubecula) SB - M reg - W
Usignolo (Luscinia megarhyncos) M reg - B
Codirosso spazzacamino (Phoenicurus ochrurus) SB - M reg - W
Codirosso (Phoenicurus phoenicurus) M reg - B
Stiaccino (Saxicola ruberta) M reg - B
Saltimpalo (Saxicola torquata) SB - M reg - W
Culbianco (Oenanthe oenanthe) M reg - B
Monachella (Oenanthe hispanica) M irr - B irr?
Codirossone (Monticola saxatilis) M reg - B
Passero solitario (Monticola solitarius) SB? - M par - W par?
Merlo dal collare (Turdus torquatus alpestris) M reg - B - W?
Merlo (Turdus merula) SB - M reg - W
Cesena (Turdus pilaris) M reg - W
Tordo bottaccio (Turdus philomelos) M reg - B - W
Tordo sassello (Turdus iliacus) M reg
Tordela (Turdus viscivorus) SB - M reg - W
Sylviidae
Usignolo di fiume (Cettia cetti) SB - M par - W?
Beccamoschino (Cisticola juncidis) SB
Pagliarolo (Acrocephalus paludicola) M irr
Forapaglie (Acrocephalus schoenobaenus) M irr
Cannaiola (Acrocephalus scirpaceus) M reg - B
Cannareccione (Acrocephalus arundinaceus) M reg - B
Canapino maggiore (Hippolais icterina) M reg
Canapino (Hippolais polyglotta) M reg - B
Magnanina (Sylvia undata) M reg - B?
Sterpazzola di Sardegna (Sylvia conspicillata) M reg - B - (2)
Sterpazzolina (Sylvia cantillans) M reg - B
Occhiocotto (Sylvia melanocephala) SB - M reg
Bigia grossa (Sylvia hortensis) M reg - B
Bigiarella (Sylvia curruca) M reg
Sterpazzola (Sylvia communis) M reg - B
Beccafico (Sylvia borin) M reg
Capinera (Sylvia atricapilla) SB - M reg - W
Luì bianco (Phylloscopus bonelli) M reg - B
Luì verde (Phylloscopus sibilatrix) M reg - B
Luì piccolo (Phylloscopus collybita) SB - M reg
Luì grosso (Phylloscopus trochilus) M reg
Regolo (Regulus regolus) SB - M reg - W
Fiorrancino (Regulus ignicapillus) SB - M reg - W
Muscicapidae
Pigliamosche (Muscicapa striata) M reg - B
Balia dal collare (Ficedula albicollis) M reg - B
Balia nera (Ficedula hypoleuca) M reg - (1)
Aegithalidae
Codibugnolo (Aegithalos caudatus) SB - M par - W
Paridae
Cincia bigia (Parus palustris) SB - M par - W
Cincia bigia alpestre (Parus montanus) SB
Cincia mora (Parus ater) SB - M par - W
Cinciarella (Parus caeruleus) SB - M par - W
Cinciallegra (Parus major) SB - M par - W
Sittidae
Picchio muratore (Sitta europea) SB - M par - W
Tichodromatidae
Picchio muraiolo (Tichodroma muraria) SB - M par
Certhiidae
Rampichino alpestre (Certhia familiaris) SB
Rampichino (Certhia brachydactyla) SB - M reg - W
Oriolidae
Rigogolo (Oriolus oriolus) M reg - B
Lanidae
Averla piccola (Lanius collurio) M reg - B
Averla cenerina (Lanius minor) M reg - B?
Averla capirossa (Lanius senator) M reg - B
Corvidae
Ghiandaia (Garrulus glandarius) SB - M par - W
Gazza (Pica pica) SB
Gracchio alpino (Pyrrhocorax graculus) SB
Gracchio corrallino (Pyrrhocorax pyrrhocorax) SB
Taccola (Corvus monedula) SB
Cornacchia grigia (Corvus corone) SB
Corvo imperiale (Corvus corax) RE - SB
Sturnidae
Storno (Sturnus vulgaris) SB - M reg - W
Passeridi
Passera d’Italia (Passer domesticus italiae) SB - M par
Passera mattugia (Passer montanus) SB
Passera lagia (Petronia petronia) SB - (2)
Fringuello alpino (Montifringilla nivalis) SB
Fringillidae
Fringuello (Fringilla coelebs) SB - M reg - W
Peppola (Fringilla montifringilla) M reg - W
Verzellino (Serinus serinus) SB - M rar
Verdone (Carduelis chloris) SB - M reg - W par
Cardellino (Carduelis carduelis) SB - M reg - W par
Lucherino (Carduelis spinus) M reg - W - B
Fanello (Carduelis cannabina) SB - M reg - W par
Crociere (Loxia curvirostra) SB - M par -W par
Ciuffolotto (Pyrrhula pyrrhula) SB -M par -W par
Frosone (Coccothraustes coccothraustes) SB - M reg
Emberizidae
Zigolo giallo (Emberiza citrinella) SB - M par
Zigolo nero (Emberiza cirlus) SB -M reg - W par
Zigolo muciatto (Emberiza cia) SB - M reg - Wpar
Ortolano (Emberiza hortulana) M reg - B - W par
Strillozzo (Miliaria calandra) SB - M reg - W par
Fonti
- - Mauro D’Amore
- - Bruno Santucci
- MAMMIFERI
Ord. Insettivori
Fam. Erinaceidi
Riccio (Erinaceus europaeus)
Fam. Talpidi
Talpa romana (Talpa romana)
Fam. Soricidi
Toporagno comune (Sorex araneus) Toporagno appenninico (Sorex samnitis) Toporagno nano (Sorex minutus) Toporagno d’acqua (Neomys fodiens) Mustiolo (Suncus etruscus)
Crocidura minore (Crocidura suaveolens)
Crocidura ventre bianco (Crocidura leucodon) ? da accertare Ord. Chirotteri
(Pipistrelli)
Presenti con diverse specie tra cui:
- Rinolofo minore (Rhinolophus hipposideros)
- Vespertilio maggiore (Myotis myotis)
- Nottola (Nyctalus noctula)
- Serotino comune (Eptesicus serotinus)
- Pipistrello nano (Pipistrellus pipistrellus)
Ord. Lagomorfi
Fam. Leporidi
Lepre comune (Lepus europaeus)
Ord. Roditori
Fam. Sciuridi
Scoiattolo (Sciurus vulgaris)
Fam. Hystricidi
Istrice (Hystrix cristata)
Fam. Gliridi
Quercino (Eliomys quercinus)
Ghiro (Glis glis)
Moscardino (Muscardinus avellanarius)
Fam. Microtidi
Arvicola rossastra (Clethrionomys glareolus) Arvicola terrestre (Arvicola terrestris) Arvicola di Savi (Pitymys savii)
Arvicola delle nevi (Microtus nivalis)
Fam. Muridi
Topo selvatico (Apodemus sylvaticus)
Topo selvatico collo giallo (Apodemus flavicollis)
Topolino delle case (Mus musculus domesticus)
Ratto delle chiaviche o surmolotto (Rattus norvegicus)
Ratto nero (Rattus rattus)
Ord. Carnivori
Fam. Ursidi
Orso bruno marsicano (Ursus arctos marsicanus)
Fam. Canidi
Lupo (Canis lupus) Volpe (Vulpes vulpes) Fam. Mustelidi Tasso (Meles meles)
Martora (Martes martes) Faina (Martes foina) Puzzola (Mustela putorius) Donnola (Mustela nivalis) Lontra (Lutra lutra)
Fam. Felidi
Lince (Felis linx)
Gatto selvatico (Felis silvestris)
Ord. Artiodattili
Fam. Suidi
Cinghiale (Sus scrofa)
Fam. Bovidae
Camoscio d’Abruzzo (Rupicapre rupicapra ornata)
Fam. Cervidi
Cervo (Cervus elaphus) (reintrodotto) Capriolo (Capreolus capreolus) (reintrodotto)
- ANFIBI
Ord. Urodeli
Fam. Salamandridi
Salamandra pezzata (Salamandra salamandra) Salamandrina dagli occhiali (Salamandrina terdigitata) Tritone punteggiato (Triturus vulgaris)
Tritone crestato (Triturus cristatus)
Tritone italiano (Triturus italicus) ? da accertare Fam. Plethodontidae
Geotritone italiano (Hydromantes italicus) ? da accertare Ord. Anuri
Fam. Discoglossidae
Ululone a ventre giallo (Bombina variegata)
Fam. Bufonidi
Rospo comune (Bufo bufo)
Fam. Hylidae
Raganella (Hyla arborea)
Fam. Ranidae
Rana agile (Rana dalmatina)
Rana greca (Rana graeca)
Rana verde minore (Rana esculenta)
- RETTILI
Ord. Sauri
Fam. Lacertidae
Lucertola muraiola (Podarcis muralis) Lucertola campestre (Podarcis sicula) Ramarro (Lacerta viridis)
Fam. Anguidae
Orbettino (Anguis fragilis)
Ord. Ofidi
Fam. Colubridae
Biacco (Coluber viridiflavus)
Cervone (Elaphe quatorlineata)
Saettone o colubro d’Esculapio (Elaphe longissima)
Biscia dal collare (Natrix natrix) Colubro liscio (Coronella austriaca) Fam. Viperidae
Vipera dell’Orsini (Vipera ursinii)
Vipera comune (Vipera aspis)
2 - LE AREE DI MAGGIORE INTERESSE NATURALISTICO PRESENTI NELLA MARSICA
L’elevato interesse naturalistico del Comprensorio marsicano ha incentivato la promozione di numerose aree protette, ed ha messo in luce altre zone meritevoli di protezione.
Le aree protette del Comprensorio sono:
- Riserva Naturale Orientata “Monte Velino”
- Parco Regionale Naturale “Sirente-Velino”.
- Riserva Naturale Guidata “Zompo lo Schioppo”.
- Parte del Sirente/Velino, Parco regionale (parte di esso ricade fuori della Marsica)
Ad esse va aggiunto il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise per la notevole parte che ricade nel Comprensorio marsicano.
Altre notevoli emergenze naturalistiche non ancora formalmente protette sono:
- I Monti Simbruini
- I Monti Cantari
- I Monti Ernici
- I Monti Carseolani
- La Valle Roveto-Serralunga
È opportuno osservare che nel limitrofo territorio laziale insistono alcune aree protette confinanti con la Marsica. Esse sono:
- Parco Naturale Regionale dei Monti Simbruini (40.000 ha circa)
- Riserva Naturale Parziale “Montagne della Duchessa” (2.000 ha circa)
Breve descrizione delle aree protette o delle aree di maggiore interesse naturalistico incluse nel comprensorio analizzato.
Valle del Liri - Monti Ernici - Cantari - Simbruini - Carseolani
1 - Riserva Naturale Guidata “Zompo lo Schioppo”
Generalità
La Riserva Naturale Guidata “Zompo lo Schioppo” è stata istituita dalla Regione Abruzzo il 29 maggio 1987. Ricade interamente nel tenimento montano di Morino e la gestione è delegata al predetto Comune che si avvale della collaborazione della Legambiente. L'intervento di tutela, fortemente voluto dall'Amministrazione Comunale, si è tradotto nella creazione di opportunità di lavoro, soprattutto attraverso una diversificazione di tante piccole attività. Ciò ha indubbiamente prodotto una positiva ricaduta nell'economia locale sia in senso diretto che indiretto. Una serie di strutture (Centro visita, Centro ricezione, tre aree sosta, un maneggio, un campeggio, sentieri escursionistici, punti di informazione e soccorso, ecc.) facilitano fortemente la visita e la conoscenza del terriorio della Riserva.
Orografia,clima, geologia e geomorfologia
La Riserva si estende per circa 1025 ettari nel gruppo montuoso dei Cantari, tra i Simbruini e gli Ernici, da una quota minima di 660 m.s.m. ad una massima di 1995 m.s.m. Il territorio presenta una accentuata articolazione che spazia dalle praterie d’alta quota, agli arbusteti, alle grandi formazioni rupestri, ai boschi fittissimi, ai corsi d’acqua, tra i quali spicca la stupenda cascata originata dalla sorgente “lo Schioppo”; il suo salto di oltre 80 metri è uno dei più alti dell’Appennino e d’Italia.
Il clima dell’area è riferibile a quello della regione temperata, con abbondanti precipitazioni, temperatura media annua intorno ai 13°, con inverni piuttosto freddi, che presentano per cinque mesi temperature al di sotto del 10°, ed estati calde, che comunque non determinano periodi di
aridità effettiva. Questa condizione climatica è resa più favorevole dalla conformazione della Valle Roveto, in cui la Riserva è situata, percorsa dall’alto corso del fiume Liri, limitata ad occidente dalla catena dei Simbruini-Ernici, chiusa ad oriente da un crinale montuoso con esposizione a meridione ed allineamento nord-ovest/sud-est, che la separa dalla piana del Fucino; il crinale è formato dai monti Cima Prato Santo-Orbetta-Bello-Alto-Longana-Serra Lunga- Breccioso-Cornachia, con altitudini intorno ai 1300 metri s.l.m. nella sua parte iniziale, che culminano nei 2003 metri di Monte Cornacchia, con lo stesso allineamento della opposta catena dei Simbruini-Ernici. L’esposizione favorevole determina un clima particolare, fatto di settori sia caldi che freschi, che permetono l’insediamento e la via anche ad elementi tipicamente mediterranei, come leccio, il corbezzolo, ill terebinto, e a quelli di clima più freddi, come il faggio e il tasso.Dal punto di vista geologico la Riserva presenta dei calcari compatti di età cretacica nella sua parte più montana, mentre nella parte alto collinare predominano le arenarie. La costituzione calcarea garantisce il manifestarsi di numerosissimi fenomeni carsici (doline, risorgive, grotte, vallette, ecc.). All'interno dell'area protetta si evidenziano anche i segni lasciati dalle ultime glacizioni con evidenti circhi glaciali. Il fenomeno della cascata avviene nel seguente modo: all'interno della roccia vi è una grande "serbatoio" naturale che raccoglie le acque del bacino di alimentazione sovrastante. Quando detto serbatoio è pieno, l'acqua trabocca dando luogo alla cascata dello Schioppo.
Flora e vegetazione
L’aspetto vegetazionale è estremamente interessante: il faggio (Fagus sylvatica), la specie indubbiamente più diffusa, è spesso associato all’acero di monte (Acer pseudoplatanus), al cerro (Quercus cerris), al maggiociondolo (Laburnum anagyroides), al sorbo montano (Sorbus aria), al nocciolo (Corylus avellana), e al tiglio (Tilia platyphyllos). Interessante la presenza, sia pure limitata, dell’agrifoglio (Ilex aquifolium) e del tasso (Taxus baccata), ormai raro e qui rappresentato da numerosissime piante secolari. Abbarbicato tra le rocce vegeta il leccio (Quercus ilex), mentre lungo i corsi d’acqua primeggiano i salici, i pioppi e finanche l’ontano nero (Alnus glutinosa). Vivace la policromia delle specie erbacee, come il giglio martagone (Lilium martagon), il giglio rosso (Lilium bulbiferum), le genziane, l’aquilegia di re Otto (Aquilegia ottonis), ecc.; tra le orchidee spicca la rara Corallorhiza trifida. Nel suo insieme la ricchezza floristica è rappresentata da più di 300 specie vegetali, che comprendono il 50% delle specie protette con la legge regionale sulla flora.
Fauna
La fauna, varia e multiforme, include anche specie rare di notevole interesse naturalistico. Tra queste fa spicco il raro e localizzato picchio dorsobianco (Picoides leucotos) simbolo della Riserva la cui presenza è sintomo di un ottimo stato naturale di una buona parte dei boschi dell’area, il picchio rosso mezzano (Picoides medius) anch’esso estremamente raro (ancor più del dorsobianco) e il gufo reale (Bubo bubo); accertata è la presenza costante dell’orso marsicano (Ursus arctos marsicanus), ormai rarissimo e in serio pericolo di estinzione, e del lupo appenninico (Canis lupus italicus). Nella lettiera del sottobosco vive la salamandrina dagli occhiali (Salamandrina terdigitata); lungo il torrente lo Schioppo è particolarmente interessante la presenza del merlo acquaiolo (Cinclus cinclus). Tra le formazioni rocciose non è inconsueto rinvenire il picchio muraiolo (Tichodroma muraria), con il suo tipico volo a farfalla.
I rapaci notturni sono rappresentati, oltre che dal citato gufo reale, dal barbagianni (Tyto alba), dall’allocco (Strix aluco), dalla civetta (Athene noctua), dal gufo comune (Asio otus) e dall’assiolo (Otus scops). Tra i rapaci diurni emerge la presenza del falco pellegrino (Falco peregrinus), del raro astore (Accipiter gentilis), dello sparviero (Accipiter nisus), del gheppio (Falco tinnunculus) e della poiana (Buteo buteo); si può osservare a volte il volo dell’aquila reale (Aquila chrysaetos) che si libra di passaggio sul cielo della Riserva. Ricca la fauna del sottobosco, ben rappresentata anche da altri picidi come il picchio verde (Picus viridis), il picchio rosso maggiore (Picoides major), il picchio rosso minore (Picoides minor) e da numerosi mammiferi come lo scoiattolo (Sciurus vulgaris), il moscardino (Muscardinus avellanarius), il ghiro (Glis glis), il quercino (Eliomys quercinus), il tasso (Meles meles), la donnola (Mustela nivalis), la faina (Martes foina) e la rara martora (Martes martes), ormai in regresso in quasi tutto il suo areale di distribuzione europea; da diversi anni si registra la presenza, sempre più costante, del capriolo (Capreolus capreolus), reintrodotto nel 1984 dall'Amministrazione Provinciale di Frosinone con la liberazione sui Monti Ernici (versante laziale) di 40 esemplari provenienti dalle regioni della ex Jugoslavia. Dal punto di vista naturalistico è di estrema importanza la ricomparsa dell'istrice (Hystrix cristata) segnalata più volte alle propaggini inferiori della Riserva.
Nelle zone umide è presente il rospo comune (Bufo bufo), l’ululone a ventre giallo (Bombina variegata), la salamndra (Salamandra salamandra), la biscia dal collare (Natrix natrix). Tra gli altri rettili fa spicco la vipera comune (Vipera aspis) rinvenibile dalle quote più basse sino alla sommità della Riserva e l’orbettino (Anguis fragilis). Nelle acque attive è possibile rinvenire la
trota fario (Salmo trutta fario) che ha resistito finora alle immissioni di specie affini avvenute per la pesca sportiva.
2 - Valle Roveto-Serralunga
La valle, originata da un disturbo tettonico ben evidente sul terreno, si estende sia in territorio abruzzese che in quello laziale e separa la struttura Simbruini-Cantari-Ernici dalle catene della Marsica. E’ una valle ampia che si sviluppa per oltre 30 chilometri, con andamento NO-SE ed è percorsa dal fiume Liri che nasce nei pressi di Cappadocia. Il fiume nell’abitato di Isola del Liri forma una suggestiva cascata di 27 metri e nell’ampio bacino di Frosinone riceve il Sacco e il Melfa; dopo la confluenza con il fiume Gari prende il nome di Garigliano sfociando dopo 158 km. di percorso nel Golfo di Gaeta presso Minturno; poichè il suo regime è abbastanza costante, le acque vengono utilizzate per scopi irrigui e idroelettrici.
Ricca di boschi e di una interessante fauna, la Valle Roveto gode di un clima mite grazie all’influenza del Mar Tirreno; per questo motivo vi è coltivato l’olivo (Olea europaea) che, come noto, è una pianta spiccatamente termofila. Nel Comune di Morino ricade la celeberrima cascata di Zompo lo Schioppo, di cui si è ampiamente parlato nelle pagine precedenti. La valle conta numerosi e caratteristici insediamenti, tra cui Civita d’Antino, l’Antinum dell’epoca romana, celebreta da un autorevole gruppo di pittori danesi che la frequentarono ininterrottamente nel periodo che va dalla fine dell’ottocento fino allo scoppio della prima guerra mondiale.
Orograficamente la valle è denominata a ponente dalle alte vette della catena Simbruini-Cantari- Ernici che la dividono dal Lazio, mentre verso levante i monti della Serralunga la separano dal bacino del Fucino.
La Valle del Liri accresce il suo interesse perchè è anche un ottimo punto di partenza per escursioni dirette al versante Nord-occidentale del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise con i Monti della Serralunga. Quest'ultimi registrano la presenza di specie animali di indiscutibile pregio: orso bruno, lupo, cervo, capriolo e martora.
- 3.- Monti Carseolani
I Monti Carseolani, costituiti da una serie di catene parallele spesso divise da ampi piani carsici, si sviluppano per la maggior parte in Abruzzo e si collegano a NE ai Monti Simbruini. Le dorsali principali di questi monti sono due; la prima si sviluppa dalla Piana del Cavaliere in direzione del
Santuario di S. Maria dei Bisognosi, prosegue più o meno regolarmente per culminare con la Cima di Vallevona (1803 m.s.m.), e poi scendere, dopo aver toccato elevazioni minori, a Campo Ceraso; la seconda dorsale parte a Nord della prima, tocca il Monte Fontecellese (1623 m.s.m.), poi la massima elevazione con il M. Midia (1757 m.s.m.), quindi il M. Padiglione (1627 m.s.m.) e infine la catena della Renga.
Una parte dei Monti Carseolani è inclusa nel Parco Regionale dei Monti Simbruini (Lazio), il che conferma l’elevato interesse naturalistico di queste contrade, ricche di boschi e di una fauna che al considerevole numero unisce una grande varietà. Gli ampi pianori carsici di questi monti, tra cui fa spicco quello di Camposecco in territorio laziale, sono paesaggisticamnente affascinanti e di grande interesse naturalistico per la dovizia di doline, nonchè di grotte come quelle di Pietrasecca, dell’Ovido (Luppa) e la Grotta Grande dei Cervi.
- 4.- Monti Simbruini-Cantari
Generalità, orografia, geologia e geomorfologia
Il versante laziale dei Monti Simbruini è stato elevato a Parco Regionale Naturale che, oltre ai Simbruini, include anche la catena dei Cantari e parte dei Monti Carseolani. La Legge istitutiva della Regione Lazio n° 46 risale addirittura al lontano 1977, mentre l’iter costitutivo, è stato avviato soltanto nel 1983 (L.R. n°8 del 29-1-1983) ed ha trovato non poche difficoltà attuative.
Il Parco si estende per circa 40.000 ettari interamente in territorio laziale e si spinge col Monte Viglio (Cantari) sino alla quota di 2156 m.s.m.; include un ambiente quasi incontaminato, con le sue splendide faggete, i tipici pianori carsici di Camposecco e di Campaegli, e una presenza faunistica di grande rilievo come quella del lupo, dell’orso e dell’aquila reale.
E’ interessante notare che l’oronimo “Simbruini” deriva dal latino “sub imbribus”, cioè “sotto le piogge” che sono infatti notevoli, attestandosi a 2500 mm. annui; esse, percolando tra le formazioni carsiche, danno vita, come si vedrà appresso, ad un sistema pedemontano sorgentizio di eccezionale rilevanza.
Occorre osservare che, essendo i Simbruini a prevalente struttura carsica, le zone di media altitudine e sommitali sono prive, come vedremo dettagliatamente più avanti, di acque superficiali degne di nota, tranne alcune piccole sorgenti (la fonte più alta è quella degli Scifi ubicata a quota 1680 m.s.m.); alle quote basse invece, come si è già accennato, affiorano numerose sorgenti che nella valle di “Fiumata” formano uno dei principali fiumi del Lazio,
l’Aniene. Analogo fenomeno si registra nel versante abruzzese nei pressi di Cappadoci dove sgorgano le sorgenti del fiume Liri.
I limiti geografici dei Monti Simbruini toccano nel loro sviluppo Sud-orientale la carrozzabile Filettino-Capistrello, nello sviluppo Nord-occidentale la zona di Arsoli; la Valle dell’Aniene costituisce il limite meridionale, mentre quella del Liri, con la Valle Roveto, costituisce il limite settentrionale. La massima elevazione dei Simbruini è quella del M. Cotento, 2015 m.s.m., che si innalza quasi al limite Nord-occidentale del Parco. Altre notevoli elevazioni sono quelle dei monti Tarino 1960 m.s.m., Pratiglio 1884 m.s.m., Autore 1855 m.s.m., Tarinello 1844 m.s.m., Viperella 1834 m.s.m., Calvo 1590 m.s.m., Livata 1430 m.s.m.. Il M. Viglio (2156 m.s.m.), è la vetta più alta della catena dei Cantari alla quale appartiene, ed è - allo stesso tempo - la massima elevazione del sistema montuoso Simbruini-Cantari-Ernici. La catena dei Cantari, posta tra i Simbruini e gli Ernici, parte dal Valico della Serra con orientamento che da Nord si dirige verso mezzogiorno, a differenza degli Ernici e dei Simbruini che da Nord-Ovest volgono a Sud-Est. Oltre al Viglio, i Cantari includono anche altre notevoli cime come quelle del M. Piano (1838 m.s.m.) e del Cantaro (1992 , 2050, 2103 m.s.m.). Il M. Agnello (1912 m.s.m.) il M. Vermiciano (1948 m.s.m. e il M. Pozzotello (1995 m.s.m.) fanno invece parte della catena degli Ernici e separano questi ultimi dai Cantari.
La struttura del sistema montuoso Simbruini-Cantari è a prevalente morfologia carsica, con predominio dei calcari del Cretacico superiore. Gli intensi fenomeni carsici dei Simbruini si manifestano in modo evidente, in quanto alla ricchezza d’acqua delle quote inferiori, come accade p.e. nella Valle di Cappadocia ove, come detto, ha origine il fiume Liri, si contrappone la siccità delle quote superiori, prive di acque superficiali. Caratteristici, infatti i pianori carsici di Campaegli, Campobuffone, Camposecco, della Renga, Cesa Cotta, ecc. in cui insistono innumerevoli doline e inghiottitoi, alcuni profondi sino a 100 metri. Molte masse rocciose presentano spesso le tipiche striature di corrosione dei karren, nè mancano forre, canaloni, grotte, meati. Ma la morfologia della catena Simbruini-Cantari non è stata modellata soltanto dal carsismo, poichè ad esso si è unito l’effetto del continuo crionivalismo e dell’erosione delle glaciazioni pleistoceniche; ne sono testimonianza gli interessanti e spettacolari circhi glaciali che si osservano alle pendici del Monte Viglio.
Flora e vegetazione
La vegetazione dei Monti Simbruini che si manifesta con una ricchezza floristica di circa 1500 specie, è caratterizzata da estese e tipiche faggete che da una quota minima di 900-1000 metri si elevano sin’oltre i 1800 m.s.m.. Non manca l’alto fusto con esemplari plurisecolari dal portamento eccezionale, come p.e. quelli che si rinvengono nella zona di Camposecco o della Renga. Il faggio (Fagus sylvatica), rappresenta la formazione climax della fascia montana dell’Appennino tra i 1000 e i 1800-1900 m.s.m., intendendo per climax la fase conclusiva di un tipo di vegetazione, stabile, in stretta relazione con le caratteristiche edafiche e climatologiche di una regione; nello stadio di climax l’unica evoluzione possibile si manifesta solo nel senso del regresso. La copertura boschiva nei Monti Simbruini è nel suo complesso di oltre 22.000 ettari.
Il “piano basale”, che nel nostro caso si estende a partire dall’altitudine di 300-400 m.s.m., include tutte le specie tipiche di quella fascia altitudinale, in quanto presenta una vegetazione submediterranea, con querceti termoxerofili a roverella (Quercus pubescens) e una vegetazione submontana con querceti mesofili a cerro (Quercus cerris). In questa fascia basale si rinvengono, oltre alla citata roverella e al cerro anche l’acero campestre (Acer campestre), l’acero minore (Acer monspessulanum), il melo selvatico (Malus sylvestris), l’Acer obtusatum, il carpino bianco (Carpinus betulus), il carpino nero (Ostrya carpinifolia), il sorbo domestico (Sorbus domestica), il sorbo montano (Sorbus aria), l’orniello (Fraxinus ornus), il tiglio (Tilia platyphyllos), il nocciolo (Corylus avellana), il maggiociondolo (Laburnum anagyroides), il ciliegio canino (Prunus mahaleb), il ginepro comune (Juniperus communis), il biancospino (Crataegus monogyna), la rosa canina (Rosa canina), ecc..Nel versante abruzzese sono frequenti gli esemplari di castagno (Castanea sativa), per la maggior parte vetusti e in stato di abbandono.
Tra le querce sempreverdi fa spicco il leccio (Quercus ilex, denominato anche elce), specie termofila tipica della regione mediterranea, spesso abbarbicato tra le rocce; vi sono esemplari che, sia allo stato arboreo che allo stato arbustivo, colonizzano anche terreni poveri con aridità molto spinta. Numerosi esemplari vegetano anche a ridosso del fiume Liri, nella omonima vallata.
Il faggio che troviamo nel territorio montano dei Simbruini è frammisto, nella fascia di contatto con il bosco di latifoglie, all’acero montano (Acer pseudoplatanus), al sorbo montano (Sorbus aria), al sorbo degli uccellatori (Sorbus aucuparia), all'orniello (Fraxinus ornus), al tasso (Taxus baccata). La faggeta, spesso interrotta dai pianori carsici, come p.e. quelli di Campaegli e di Camposecco, ha subito sui Simbruini, come d’altronde nel resto degli Appennini, ripetuti tagli indiscriminati..
Lungo il corso del Liri e dell'Aniene fa spicco la ricca vegetazione tipica dell’ambiente umido di acqua dolce, come canna palustre (Phragmites australis), crescione (Nasturtium officinale), menta acquatica (Mentha acquatica) e piante spiccatamente igrofile, come i salici e i pioppi.
Nella zona culminale, oltre l’Orizzonte del faggio, si nota la tipica vegetazione erbacea ed arbustiva d’alta quota come p.e. il ginepro nano (Juniperus communis) e l’uva ursina (Arctostaphylos uva-ursi), e si scoprono praterie montane anche pascolive come il seslerieto, il festucheto e il nardeto.
Nelle zone rupestri e nei brecciai dei Simbruini si incontrano piante colonizzatrici che riescono ad affermarsi e ad estendersi, sia pure lentamente e gradualmente, in un ambiente estremamente ostile e selettivo; come accade altri gruppi montuosi, la vegetazione colonizzatrice non è mai continua ed omogenea ma è sempre aperta e discontinua, per cui la presenza di piante erbacee in un ghiaione è il risultato di una colonizzazione durata molti anni. Occorre pertanto che gli escursionisti e gli altri frequentatori della montagna riflettano che questo lento e difficile processo può essere annullato da una sola persona che scende lungo un ghiaione senza curarsi delle piante che calpesta, per cui si raccomanda di astenersi da tale pratica, anche se in tal modo il percorso può risultare a volte più agevole. Tra le specie colonizzatrici si ricordano la Drypis spinosa, il Galium magellense, la Festuca dimorpha, la Cymbalaria pallida, la Linaria purpurea, il Doronicum columnae. Nelle rupi è facile poter osservare le specie del genere Saxifraga, Sedum e Sempervirum, tra le quali ricordiamo la tipica Saxifraga lingulata.
Volgendo l’attenzione alle policrome fioriture che si rinvengono sui Simbruini ci limitiamo a menzionare per ragioni di spazio soltanto alcune di esse, come p.e. Gentiana lutea, Gentiana dinarica, Gentiana verna, Atropa belladonna, Hyssopus officinalis, Paeonia officinalis, Thymus serpillum, Aquilegia vulgaris, Hepatica nobilis, Digitalis micrantha, Lilium martagon, Lilium bulbiferum, Narcissus poeticus, Campanula glomerata, Aconitum lamarkii, Carlina vulgaris, Saponaria ocymoides, Iberis sempervirens, Primula vulgaris, Neottia nidus-avis poi molte specie di orchidee. In abbondanza i funghi e i tartufi.
Fauna
La fauna dei Monti Simbruini si distingue per la presenza di specie di altissimo valore naturalistico, spesso minacciate di estinzione. Tra i mammiferi le specie più rappresentative sono: l’orso bruno marsicano (Ursus arctos marsicanus), di cui è quasi sicura la presenza stabile (anche se con un numero minimo di esemplari), circostanza di grande rilievo se si tiene conto che la sua
presenza nell’Appennino è limitata, come abbiamo visto, a poche decine di individui; abbiamo poi il lupo appenninico (Canis lupus), anch’esso raro anche se in leggera ripresa, il cinghiale (Sus scrofa), molto diffuso, l’elusivo e raro gatto selvatico (Felis silvestris), la lepre (Lepus europaeus), il tasso (Meles meles), la volpe (Vulpes vulpes), lo scoiattolo (Sciurus vulgaris), la martora (Martes martes), la faina (Martes foina), la donnola (Mustela nivalis), la puzzola (Mustela putorius), il ghiro (Glis glis), il riccio (Erinaceus europaeus), il moscardino (Muscardinus avellanarius).
Tra gli uccelli meritano particolare menzione i rapaci diurni e notturni come: aquila reale (Aquila chrysaetos), poiana (Buteo buteo), astore (Accipiter gentilis), sparviero (Accipiter nisus), lanario (Falco biarmicus), il comune gheppio (Falco tinnunculus), falco pellegrino (Falco peregrinus), gufo comune (Asio otus), gufo reale (Bubo bubo), barbagianni (Tyto alba), assiolo, (Otus scops), civetta (Athene noctua), allocco (Strix aluco). Tra gli altri uccelli si ricordano: coturnice (Alectoris graeca), starna (Perdix perdix), ghiandaia (Garrulus glandarius), Gracchio alpino (Pyrrhocorax graculus), gracchio corallino (Pyrrhocorax pyrrhocorax), cornacchia grigia (Corvus corone cornix), gazza (Pica pica), ciuffolotto (Pyrrhula pyrrhula), sordone (Prunella collaris), fringuello alpino (Montifringilla nivalis), spioncello (Anthus spinoletta), picchio rosso maggiore (Dendrocopus major), picchio verde (Picus viridis), picchio muraiolo (Tichodroma muraria), rondine montana (Hirundo rupestris), succiacapre (Caprimulgus europaeus), zigolo giallo (Emberiza citrinella), zigolo muciatto (Emberiza cia), balia dal collare (Ficedula albicollis), luì verde (Phylloscopus sibilatrix), luì bianco (Phylloscopus bonelli). Di notevole interesse è la presenza del raro picchio dorsobianco (Dendrocopus leucotos), localizzato nelle foreste più mature, del picchio rosso mezzano (Picoides medius) di cui si contano solo pochi esemplari, nonchè del merlo acquaiolo (Cinclus cinclus) che nidifica lungo le sponde dei corsi d’acqua ricche di vegetazione.
Tra i rettili, oltre alle comuni lucertole e al ramarro (Lacerta viridis), alla biscia dal collare (Natrix natrix), al saettone (Elaphe longissima), al biacco (Coluber viridiflavus) e al cervone (Elaphe quatorlineata), si rinviene anche la Vipera aspis, presente con cospicua popolazione.
Tra gli anfibi si enumerano la salamandra pezzata (Salamandra salamandra), la salamandrina dagli occhiali (Salamandrina terdigitata), l’ululone dal ventre giallo (Bombina variegata pachypus), la rana greca (Rana graeca), la rana agile (Rana dalmatina) e la raganella (Hyla arborea); interessante la presenza del tritone punteggiato (Triturus vulgaris meridionalis) e del tritone crestato (Triturus cristatus carnifex).
Per quanto attiene ai pesci si ricorda che nell’Aniene sono comuni la trota (Salmo trutta trutta), il barbo (Barbus barbus), il cavedano (Leuciscus cephalus), presente anche il sempre più raro gambero di fiume (Austropotamobius pallipes italicus), tanto sensibile all’inquinamento dei corsi d’acqua.
- 5.- Monti Ernici
Generalità, orografia, geologia e geomorfologia
I boschi di incontaminata bellezza, il terreno scandito dal susseguirsi di silenziose valli, il baluginare delle acque sorgenti o di quelle che precipitano a valle, il succedersi di numerose cavità sotterranee, fanno dei Monti Ernici un habitat di eccezionale interesse naturalistico.
Il nome Ernici forse deriva da “Herna” che significa rupe, antica parola sabina o marsa. Ferdinando Gregorovius, storico tedesco della metà del secolo scorso, scriveva nel 1859 da Trisulti: “Il paesaggio alpestre che circonda questa fonte offre uno spettacolo di straordinaria bellezza.... quaggiù una lunga distesa di valli rocciose discende a perdita d’occhio, più in là si elevano monti giganteschi dalle forme maestose, sulle cui cime ancor vergini si librano aquile reali ”.
L’osservatore che affronta questi monti da mezzogiorno rimane colpito dall’imponenza dei rilievi della Monna (1952 m.s.m.) e della Rotonaria (1750 m.s.m.). Quest’ultima è ricca di singolare fascino per la parete Sud che scende a picco con un salto di quasi 600 metri nella sottostante Valle di Capo Rio. Anche le altre cime degli Ernici hanno aspetto imponente, con diverse elevazioni che superano i 2000 metri di quota, tra cui il Pizzo Deta (2041 m.s.m.), il M. del Passeggio (2064 m.s.m.), M. Ginepro (2004 m.s.m.), M. Fragara (2005 m.s.m.), M. Agnello (1912 m.s.m.), M. Vermicano (1948 m.s.m.). Il Monte Viglio (2156 m.s.m.), la cima più alta della catena Ernici-Simbruini, appartiene al sottogruppo dei Cantari.
Separato dalle catene della Marsica dalla profonda Valle del Liri, il gruppo degli Ernici si presenta orientato verso NO-SE e si sviluppa sia in territorio laziale che in quello abruzzese.
La geologia è caratterizzata da banchi calcare-dolomitici del Cretaceo, modellati da intensi fenomeni carsici e dai ghiacciai pleistocenici che hanno lasciato circhi, rocce montonate, canali e depositi morenici. Il carsismo si manifesta con le consuete forme epigee e ipogee, come doline, campi, karren, inghiottitoi, grotte; ben conosciuti gli ampi pianori di Campocatino e Campovano, ricchi di doline e di inghiottitoi.
Altra peculiarità caratteristica degli Ernici è data dalla presenza di cavità sotterranee di cui si ricordano il Pozzo d’Antullo, grandiosa dolina di crollo determinatasi a seguito dello sprofondamento della volta di una grotta, nonchè la Grotta Regina Margherita, la celebre Grotta di Collepardo detta anche Grotta dei Bambocci, e l’impressionante Abisso del Vermicano profondo oltre 400 metri. Le vie sotterranee che s’aprono in un sistema carsico sono quasi sempre percorse dalle acque che a volte riappaiono a valle, anche a notevole distanza dal luogo di origine. Nota a tutti nel versante abruzzese la cascata di “Zompo lo Schioppo” che compie un salto di oltre 80 metri. Numerosissime poi le fonti d’acqua grandi e piccole, tra cui Capo Fiume, Capo Cosa e Capo Rio.
Flora e vegetazione
L’aspetto botanico è quanto mai interessante e ricco di specie rare ed endemiche. Tra quelle erbacee si ricordano: Aster alpinus, Orchis spitzelii, Cynoglossum magellense, Doronicum columnae, Dryas octopetala, Silene acaulis, Gentiana dinarica, Gentiana verna, Gentiana lutea, Paeonia officinalis, Lilium martagon, Lilium bulbiferum, Lilium alpinum, Pulsatilla alpina, Botrychium lunaria, Orchis pallens, Daphne mezereum. La Dictamnus albus, l’Ophrys insectifera, l’Epipactis persica, e il Leontopodium nivale, costituiscono altre specie di rilevante interesse naturalistico.
Tra le specie arboree spicca il faggio (Fagus sylvatica) che, come noto, rappresenta la formazione climax; esso è accompagnato in maniera subordinata, alle quote più alte, da acero di monte (Acer pseudoplatanus), Acer obtusatum, sorbo degli uccellatori (Sorbus aucuparia), sorbo montano (Sorbus aria), mentre più in basso, sotto i 1000 metri, subentrano i querceti mesofili a cerro (Quercus cerris) e quelli termofili a roverella (Quercus pubescens) con elementi di carpino bianco (Carpinus betulus), carpino nero (Ostrya carpinifolia), acero campestre (Acer campestre), orniello (Fraxinus ornus), melo selvatico (Malus sylvestris). Ampia diffusione ha nella Valle dell’Inferno l’ormai raro tasso (Taxus baccata) che è presente con numerosi esemplari secolari dalle dimensioni imponenti.
Fauna
Ai notevoli interessi botanici si aggiungono quelli inerenti alla fauna che si distingue per la presenza di specie non comuni, molte delle quali in serio pericolo di estinzione.
Gli invertebrati includono tra i Lepidotteri l’endemica Melanargia arge e la Anthocaris belia, specie d’alta montagna molto rara; tra i Coleotteri fa invece spicco il Carambicide Rosalia alpina, specie in serio pericolo di estinsione. Tra gli anfibi si citano la salamandrina dagli occhiali (Salamandrina terdigitata) e la salamandra gialla e nera (Salamandra salamandra).
Numerosi i rapaci tra cui spicca l’aquila reale (Aquila chrysaetos) che nidifica ancora nel punto in cui la vide Gregorovius, poi il falco pellegrino (Falco peregrinus), l’astore (Accipiter gentilis), lo sparviero (Accipiter nisus), il raro gufo reale (Bubo bubo).
Assai numerosi e vari gli uccelli tra cui si ricordano il gracchio alpino (Pyrrhocorax graculus), il gracchio corallino (Pyrrhocorax pyrrhocorax), il fringuello alpino (Montifringilla nivalis), e - lungo i corsi d’acqua - il raro merlo acquaiolo (Cinclus cinclus).
Tra i mammiferi non mancano specie rare: l’orso marsicano (Ursus arctos marsicanus), la cui presenza è ormai certa grazie ai ripetuti ritrovamenti di tracce e di escrementi, il lupo appenninico (Canis lupus italicus), una volta frequente ed ora ridotto a pochi esemplari, il capriolo (Capreolus capreolus) reintrodotto, la martora (Martes martes), il gatto selvatico (Felis silvestris).
Non si possono concludere queste brevi note senza sottolineare che l’alto valore naturalistico dei Monti Ernici necessita di essere tutelato mediante l’istituzione di un'area protetta (versante laziale ed abruzzese) che, nell’unirsi al già esistente Parco dei Simbruini (Lazio), realizzerebbe un territorio tutelato le cui peculiari caratteristiche avrebbero pochi riscontri anche a livello nazionale.
Massiccio del Sirente/Velino
6.- Riserva Naturale Orientata “Monte Velino” - Parco Regionale del Sirente/Velino
Premessa
Il massiccio del Sirente-Velino si identifica principalmente nelle sue grandi linee con l'omonimo Parco Regionale e secondariamente con la Riserva Naturale “Monte Velino”. L'istituzione di queste aree protette costituisce un’iniziativa di grande rilievo poiché implica la tutela di un ambiente ricco di straordinarie peculiarità naturalistiche, sia sotto l’aspetto della geologia che della flora e della fauna. Gli interventi effettuati o progettati nell’area protetta non mirano soltanto alla tutela dell’attuale assetto del territorio, ma tendono anche ad orientarne l’evoluzione verso le forme originarie, in parte modificate dallo sconsiderato intervento antropico operato nel corso dei secoli.
La Riserva Naturale Orientata Monte Velino è stata istituita con D. M. n° 427 del 21/07/1987 per tutelare un ambiente di grande interesse naturalistico di circa 5.000 ettari, caratterizzato da comunità biotiche e da fenomeni geomorfologici sicuramente unici. Il territorio della Riserva ricade per circa 4.000 ettari nella provincia de L’Aquila, in tenimento dei Comuni di Magliano dei Marsi e di Massa d’Albe, e - per circa 1.000 ettari - in provincia di Rieti, nella zona del Lago della Duchessa, in tenimento del Comune di Borgorose (Foresta Demaniale Montagna della Duchessa). Il rimanente, e più ampio territorio delle Montagne della Duchessa ricade nell’omonima Riserva Naturale Parziale, nella regione Lazio.
Come abbiamo visto, l’istituzione della Riserva Naturale del Velino non rappresenta che un primo intervento di protezione; infatti, con Legge Regionale n° 54 del 13/7/89, è stato istituito dalla Regione Abruzzo, dopo molti anni di attesa, il Parco Regionale Naturale del Sirente/Velino che ingloba totalmente il massiccio del Velino e quello del Sirente, provvedendo così a proteggere per intero uno dei territori più interessanti dell’intero Appennino. L’estensione dell’area protetta è approssimativamente di 50.000 ettari includendo ben 22 Comuni e 41 centri abitati.
E’ facile comprendere come l’insieme di tali aree protette, sebbene disomogeneo dal punto di vista amministrativo, rappresenti un “unicum” naturalistico di grande rilievo.
Da questa prima fase di protezione trae grande vantaggio la fauna stanziale che, grazie alla costante sorveglianza, nonché alle varie iniziative di integrazione, riesce a svilupparsi adeguatamente. Ne dà esempio la Coturnice che è in crescita e sta ricolonizzando pian piano le contrade del massiccio che una volta le erano proprie. Lo stesso dicasi dei rapaci, tra cui l’Aquila reale, il Falco pellegrino, l'Astore che, attentamente salvaguardati all’interno del loro territorio di riproduzione e di caccia, godono di adeguata tranquillità. In incremento anche il Lupo, la Lepre, l'Istrice e il Cinghiale. Per dare spinta ad una ulteriore riqualificazione faunistica ed ambientale, da diversi anni nell’ambito della Riserva Naturale del Monte Velino per opera del Corpo Forestale dello Stato (gestore della riserva) è in corso la reintroduzione del Cervo, del Corvo imperiale e per ultimo del Grifone. Progettata quella del Capriolo.
Ciò non deve tuttavia indurre a facili ottimismi, giacché non si può dimenticare che oggigiorno nessuna area, considerata sotto i suoi aspetti multidisciplinari, può sottrarsi ai condizionamenti dell’ambiente circostante. Le insidie, sia subdole che palesi, provenienti dall’esterno sono ancora troppe e forse in fase crescente, ma ciò non esclude che un'oculata gestione delle aree protette possa contrastarle. Tuttavia in un’area protetta il solo divieto di caccia non è garanzia esclusiva di vera tutela del territorio; occorre porre grande attenzione a tutte le speculazioni “ecocompatibili” oggi tanto di moda e riservare estrema attenzione al turismo che se non controllato rappresenta uno degli elementi più distruttuvi per l’ambiente naturale.
Ai benèfici effetti che l’istituzione delle citate aree protette ha riversato sulla fauna e sulla sua sopravvivenza, si sommano quelli riversati sulla protezione della flora che in queste contrade annovera endemismi di grande interesse.
Il Montelucci (1958) a proposito della vegetazione del Velino scrive: “la vegetazione del Velino ha dovunque un aspetto arcaico. Si ha la suggestione che su questa enorme piramide di pietra emergente dall’altopiano, mancante delle foreste oceaniche appenniniche più recenti, sia conservata una vegetazione erziaria-pliocenica di prevalenza continentale-orientale, notevolmente specializzata in endemismi, uno dei più importanti relitti della vegetazione illirico- adriatica s.l.”.
A chi l’osserva in lontananza da mezzogiorno il massiccio del Sirente-Velino appare spoglio, fors’anche ostile; quando però si affronta la sua ascesa, muovendosi proprio da quel versante, l’impressione iniziale cede il passo ad uno stupore via via crescente, a causa della peculiarità dell’ambiente che man mano si scopre d’intorno.
E' la natura geologica e geomorfologica a conferire all’area la singolarità che si esprime con le profonde incisioni vallive di origine glaciale, le rocce montonate, i depositi morenici, i circhi glaciali, i massi erratici. Il tormento della degradazione delle rocce operata dal continuo dinamismo della morfologia carsica accentua nella maggior parte del territorio una configurazione strutturale fortemente articolata, con grandi ghiaioni, anfratti rocciosi, grotte, inghiottitoi, forre, karren, doline, canaloni.
I profili delle vette del massiccio sono in qualche modo l’emblema di un Appennino in cui, grazie alla perseverante e alla nascente opera di protezione, è ancora possibile e lo sarà per il prossimo futuro osservare il solenne volo delle aquile che si leva sulle praterie di alta quota, sulle ampia distese boschive e sulle superbe pareti rocciose.
Massiccio del Velino
Generalità, geologia e geomorfologia
Il massiccio del Velino è uno dei più imponenti ed estesi dell’Appennino Centrale. La tormentata e complessa struttura orografica che lo distingue determina una grande varietà di microclimi e di ambienti: ne risulta una ricchezza biologica di grande rilievo, con una ventina di comunità vegetali ben distinte, comprese nelle quattro fasce altitudinali che si succedono dai piedi del massiccio (m 1000 circa), sino alla sua cima (m 2486); in tale ambito si contano circa 600 specie vegetali e 190 specie di vertebrati, regolarmente censite sinora.
Da una quota minima di 987 m. (Bocca di Teve), il massiccio del Velino si innalza sino a cime che superano i 2.000 metri di altitudine, come quelle del Monte Velino (2487m.), del Monte Cafornia (2424 m.), del Monte di Sevice (2331 m.s.m.), del Monte Rozza (2064 m.s.m.).
La natura geologica del massiccio è caratterizzata dai calcari organogeni del Cretaceo, molto compatti e permeabili; solo alcuni pianori di alta quota sono costituiti da formazioni marnose, meno permeabili e con pedogenesi più veloce.
Il Velino dà la possibilità di osservare una grande varietà di fenomeni geomorfologici su una scala di rara ampiezza. Imponenti manifestazioni del glacialismo quaternario sono quelle della Valle Majelama e della Val di Teve, due grandi valli glaciali con sezione ad U, lunghe fino a 5 km e profondamente incassate tra alte pareti a precipizio. Esse presentano frequenti segni lasciati dai ghiacci che le hanno formate: soglie glaciali, accumuli morenici, massi erratici, rocce montonate, valli sospese (tra le quali la più grande è quella della Genzana che confluisce nella Valle
Majelama). L’area del massiccio, che ha come cima culminante e centrale il Velino (2486 m.s.m.), è, come abbiamo appena accennato, caratterizzata da un profondo solco glaciale a forma di semicerchio, con la convessità rivolta verso Nord e qui sbarrato traversalmente dal Monte Bicchero. Le propaggini di questo solco sono ad Est lo sbocco della Valle Majelama, vicino all’abitato di Forme, ad Ovest Bocca di Teve, limitrofa al vilaggio di Cartore e al confine tra Abruzzo e Lazio. Il solco glaciale che da Bocca di Teve si dirige verso Nord-Nord/Est, dando luogo al cosiddetto Vallone di Teve, separa nettamente il Velino dai Monti della Duchessa; lo stesso solco, effettuata una conversione, origina verso Est la Valle Majelama e delimita il Velino dai Monti della Magnola.
Un imponente sistema di faglie ruota intorno ad una linea principale lunga circa dieci chilometri che taglia tutto il versante sud-occidentale del Velino ad una quota compresa tra 1200 e 1400 m, dove è ben visibile un’accentuazione delle acclività con relativo affioramento di roccia. Altre importanti linee di faglia corrono in corrispondenza del percorso delle due valli glaciali di cui si è detto, sulle quali si impostarono i ghiacciai quaternari.
Segni importanti dell’azione erosiva delle acque superficiali sono evidenti solo in Val di Teve e in Valle Majelama, mentre appaiono appena accennati altrove; ciò a causa della natura calcarea del substrato, la cui permeabilità comporta un notevole sviluppo dei fenomeni carsici sotterranei (grotte e cavità) e superficiali (microformazioni come scanalature e solchi nella roccia, campi carreggiati, doline, inghiottitoi). Due inghiottitoi attivi sono presenti ed evidenti in Val di Teve (dove un ruscello temporaneo scompare sottoterra) e sulla sponda settentrionale del Lago della Duchessa (dove si osserva una notevole captazione di acqua quando il livello del Lago è molto elevato). L’alveo stesso di questo Lago, sebbene di origine glaciale pleistocenica, risulta poi riplasmato dalla successiva azione carsica, che ha provocato l’originarsi di due grandi doline coalescenti. Una riserva d’acqua di tale consistenza, sufficientemente stabile grazie alla concomitanza di due fattori propizi, quali, da una parte l’assenza di emissari e, dall’altra, il rilevante rifornimento assicurato dalle abbondanti precipitazioni meteoriche, esercita un forte richiamo sulla pastorizia attratta, ad un tempo, dall’ampiezza dei pascoli e dalla perennità dell’abbeveraggio. Numerossime doline a fondo colmato sono presenti nelle zone di testata di Val di Teve e Valle Majelama, tra i dossi morenici.
La zona di alta quota del massiccio, oltre m 2300 s.l.m. circa, presenta evidenti segni di fenomeni periglaciali del tipo di quelli che si osservano nelle zone di tundra artica o alpina; si tratta di fenomeni crionivali, associati ai cicli di gelo e disgelo dello strato superficiale del suolo: si possono osservare frequenti aghi di ghiaccio, suoli gradinati, suoli poligonali, suoli a cuscinetti
erbosi. L’origine di tali formazioni è da attribuire alle rigide temperature ed alle ampie escursioni termiche giornaliere che si registrano in tutte le stagioni in questi biotopi davvero estremi.
Simulacri di una diversa vita ormai spenta da milioni di anni si osservano frequentemente nel massiccio sotto forma di calchi fossili di conchiglie che i monti sorti dai grandi sommovimenti tellurici hanno sollevato fin oltre i 2000 metri.
Clima #
Il massiccio del Velino presenta due differenti aspetti climatici; il primo è quello generalmente presente su tutta la catena appenninica, temperato suboceanico senza periodi di aridità, ben espresso su tutta la parte settentrionale del massiccio, a partire dalla Val di Teve che, come la zona delle Montagne della Duchessa, risente appieno delle correnti umide provenienti da Ovest, grazie al suo orientamento in senso latitudinale; il secondo, che costituisce una delle singolari peculiarità del massiccio rispetto a quasi tutti gli altri sistemi montuosi appenninici, è di tipo mediterraneo subcontinentale con periodi più o meno lunghi di aridità estiva: esso trova evidente manifestazione soprattutto sui versanti del Velino che guardano a meridione verso la Piana del Fucino, compresa anche la profonda Valle Majelama. Da un punto di vista ecologico, si tratta di un clima di tipo non comune: esso comporta per le comunità biotiche della zona potenti stress sia idrici che termici, combinando in modo inconsueto i fattori limitanti del bioclima mediterraneo e di quello continentale, nel senso che il primo comporta grande secchezza estiva, il secondo è all’origine di elevate escursioni termiche stagionali, con temperature quasi sempre inferiori allo zero nei mesi invernali. Così il periodo vegetativo, che in un bioclima di tipo strettamente mediterraneo si esplicherebbe nei mesi invernali e primaverili, viene qui inibito dai bassi valori termici; d’altra parte neppure i mesi estivi possono essere sfruttati appieno dalla vegetazione a causa della grande aridità della stagione, al contrario di quanto avverrebbe in un clima realmente continentale, con estati piovose.
Flora e vegetazione #
Il paesaggio del massiccio del Velino muta radicalmente a seconda che si consideri la parte volta a settentrione (Duchessa) o quella volta a mezzogiorno (Velino propriamente detto). Infatti, mentre le Montagne della Duchessa presentano, come avviene nella gran parte degli Appennini, grandi estensioni di foreste caducifoglie di faggio (clima suboceanico), tutta la parte più
continentale del massiccio, cioé quella che raggiunge le massime elevazioni, si distingue per le vaste superfici di rupi, arbusteti prostrati sempreverdi e vegetazione erbacea di altitudine ed alpina; qui i boschi esprimono solo pochi relitti di faggeta e querceta, confinati nelle zone più protette e defilate dagli stress idrici e termici caratteristici della zona. Le due grandi valli glaciali che si dipartono dai versanti settentrionali delle maggiori elevazioni (Velino, Cafornia, Sevice) riproducono in sostanza il divario del paesaggio vegetazionale di cui si è appena detto, nel senso che il Vallone di Teve (versante di settentrione) presenta estese faggete, mentre la Valle Majelama (versante di mezzogiorno) si distingue per estese superfici prive di vegetazione forestale. La parte centrale del massiccio da cui le due vallate traggono origine è caratterizzata da amplissimi circhi glaciali relitti ricoperti da brecciai di altitudine altrettanto ampi. Del tutto particolare, infine, appare la situazione della vasta zona pianeggiante compresa tra il Lago della Duchessa, il Murolungo e il Costone, tra 1800 e 2000 m circa, dove - grazie al clima ed al substrato favorevole - possono svilupparsi praterie mesofile continue che costituiscono i migliori pascoli del massiccio.
Se si analizza la disposizione della vegetazione con riferimento alle fasce altitudinali, partendo dalla zona basale sino ad arrivare a quella cacuminale, si possono riconoscere le tipologie proprie degli Appennini (zona bioclimatica mediterranea), anche se occorre sottolineare che i rapporti quantitativi tra esse e le relative quote sono del tutto peculiari di questo massiccio. La fascia centro-europea dei querceti caducifogli, generalmente diffusa sugli Appennini fino a 1000 m circa, non dovrebbe essere presente nell’area protetta, considerando che la quota minima di questa è, salvo eccezioni, di 1200 m s.l.m.; tuttavia - a causa di caratteristiche climatiche e geomorfologiche particolari - essa è rappresentata nella parte meridionale del massiccio da boschi caducifogli a roverella e a nocciolo e da praterie secondarie che si estendono fino ad una quota di 1500 m circa, per un totale di 710 ha (12 %). Il limite altitudinale superiore della fascia centroeuropea risulta quindi rialzato di ben 500 m. Subito al di sopra della predetta fascia hanno inizio le formazioni forestali caducifoglie a faggio o quelle arbustivo-prostrate sempreverdi a ginepro nano e a uva ursina, nonchè le praterie ad esse secondarie della fascia subatlantica, che rappresentano complessivamente ben il 34 % (1920 ha) del totale. Questa fascia, generalmente diffusa sugli Appennini da 1000 a 1900-2000 m di quota, si alza qui con formazioni arbustive sino a circa 2100 m, confermando in tal modo la generale elevazione dei limiti altitudinali dovuta al clima subcontinentale del Velino. Le creste situate da 2000 a 2200 m circa di quota, i pendii ripidi originati dal sistema di faglie del versante meridionale (fino a quote anche modeste come 1400 m) ed i pianori diffusi soprattutto nel settore della Duchessa (tra 1800 e 2000 m circa),
ospitano le praterie di altitudine primarie della fascia mediterraneo-altomontana, che coprono il 17 % circa della superficie (950 ha). A diretto contatto con le due precedenti fasce, tra 2200 e 2500 m (quindi solo sulla zona cacuminale del Velino propriamente detto), si trova infine la vegetazione di alta quota della fascia alpica (con 140 ha, corrispondenti al 2 % circa). Una superfice molto ampia (1980 ha, corrispondenti al 35 %) è caratterizzata infine da tipi vegetazionali azonali, non connessi cioè a variazioni altitudinali ma strettamente dipendenti da fattori edafici (rupi, brecciai, ghiaioni e acque perenni). Gran parte delle fasce centro-europea e subatlantica a vocazione forestale è qui occupata da arbusteti prostrati primari (18 % circa) e da praterie secondarie (17 % circa) originatesi per degradazione dei boschi, mentre solo l’11 % della superfice totale è coperto da formazioni boschive.
Le significative peculiarità del settore a bioclima subcontinentale sono ben espresse dalla sorprendente estensione delle comunità durevoli ad arbusti prostrati; queste, molto rare sugli Appennini, hanno sorprendenti convergenze con le analoghe comunità vicarianti presenti nelle zone interne a clima continentale delle Alpi Centrali. L’importanza e la naturalità di queste formazioni vegetali a fisionomia non arborea, diffuse in una fascia generalmente forestale, è stata solo recentemente accertata e rivalutata; la loro origine pleistocenica (relitti glaciali) è avvalorata da molti segni che portano ad escludere l’ipotesi di formazioni conseguenti alla distruzione dei boschi praticata sin dai secoli scorsi.
Riassumendo, le fasce vegetazionali del Velino possono essere così classificate:
- Fascia centroeuropea (800/1000 m.s.m.) è caratterizzato dalla presenza della vegetazione caducifoglia, con prevalenza di roverella (Quercus pubescens) e Ostrio-Carpineti (orniello, carpino, ecc.); si notano altresì infiltrazioni di specie tipicamente mediterranee, come il leccio (Quercus ilex) all’inizio del Vallone di Teve; sporadica e limitata la presenza del cerro (Quercus cerris), abbondante quella del nocciolo (Corylus avellana).
- Fascia subatlantica (da 1500 a 2100 m.s.m.) è dominato nel versante settentrionale dalla faggeta (Fagus sylvatica) del Vallone di Teve che non è tuttavia molto estesa, con infiltrazioni nell’Orizzonte più basso di altre caducifoglie come acero di monte (Acer pseudoplatanus), Acer obtusatum, orniello (Fraxinus ornus), sorbo montano (Sorbus aria), sorbo degli uccellatori (Sorbus aucuparia), pioppo tremolo (Populs tremula); col progredire dell’altitudine la faggeta diviene sempre più pura. Questo piano include, nel Vallone di Teve, l’interessantissima e rara
stazione relitta di betulla (Betula pendula Roth.) che per l’Appennino è un residuo dell’ultima era glaciale, nel Pleistocene. Sempre nel massiccio del Velino alle falde del Monte Pidocchio (Monti della Magnola), vegeta un’altra consistente stazione di betulla.
- Fascia culminale (oltre i 2100 m.s.m.): al climax del faggio segue la zona costituita dai pascoli di altitudine. Alla quota limite dominano le coltri rocciose con debole copertura vegetale, esclusivamente erbacea.
I popolamenti rupestri e delle coltri clastiche del Velino hanno un indice di copertura molto basso e si presentano, soprattutto per quanto attiene alla colonizzazione del materiale clastico, in forma aperta e discontinua. Tra le specie più rappresentative delle comunità rupestri occorre ricordare: Potentilla apennina, Potentilla paniculata, Saxifraga porophylla, Saxifraga lingulata; le principali specie colonizzatrici delle coltri clastiche sono Festuca dimorpha, Galium magellense, Isatis allionii, Adonis distorta, Papaver julicum (Avena & Blasi, 1980).
Le praterie montane mesofile e xerofile sono costituite da Festuca nigrescens, Brachypodium genuense, Bromus erectus, Nardus stricta, Sesleria nitida, Festuca curvula, Plantago sempervirens (Avena & Blasi, 1980).
In primavera e durante l’estate gli spazi erbosi e le nicchie rocciose si arricchiscono di una grande varietà di fioriture tra le quali emergono il Lilium bulbiferum, il Lilium martagon, la Gentiana dinarica, la Gentiana lutea, la Daphne mezereum, la Paeonia officinalis, il Galanthus nivalis, la Saxifraga porophylla, la Saxifraga lingulata, l’Aquilegia vulgaris, il Narcissus poeticus, la Primula auriculsa, la Valeriana saliunca, la Viola eugeniae, il Thymus longicaulis, nonchè molti esemplari di orchidee (Nigritella widderi, Orchis morio, Orchis mascula, Orchis tridentata, Orchis sambucina, ecc.).
La flora del Velino è dunque molto ricca di specie rare, endemiche e relitte; una, in particolare, cioé l’Allium lineare, con significato di relitto glaciale, si rinviene soltanto in poche località del Velino e in nessun’altra zona appenninica.
Massiccio del Sirente
Generalità, geologia e geomorfologia
Come abbiamo visto, all’istituzione della Riserva Naturale del Velino ha fatto seguito del Parco Regionale Naturale del Sirente/Velino con una estensione di 50.000 ettari circa.
Il massiccio del Velino è separato da quello del Sirente dall’Altopiano delle Rocche, anche se i due gruppi possono essere considerati unitariamente sia in riferimento alla stessa origine geologica, sia nella considerazione che l’Altopiano divisorio delle Rocche altro non era che il bacino di un lago.
Il Sirente si presenta come una dorsale lunga una ventina di chilometri orientata verso NO/SE da Rovere (1413 m.s.m.) a Forca Caruso (1107 m.s.m.); essa si caratterizza con il susseguirsi di varie cime come Colle di Mandra Murata (1949 m.s.m.), Punta Macerola (2258 m.s.m.), Monte Sirente (2348 m.s.m.) la cima culminante, Monte di Canale (2207 m.s.m.), Monte S. Nicola (2012 m.s.m.). Le Gole di Celano e la Val d’Arano separano la dorsale minore dalla Serra di Celano da quella maggiore del Sirente (Console et al., 1988).
Visto nel suo insieme, il Sirente presenta una difformità dei suoi versanti; quello esposto a SO ha aspetto dolce e debolmente ondulato con discontinui affioramenti rocciosi e degrada verso la Piana del Fucino; il versante di NE è invece di natura rocciosa con pareti precipiti e incoerenti, ricche di profonde incisioni; molte di queste, come per esempio il canalone Maiori e la Valle Lupara, sono state determinate dall’azione dei ghiacci dell’ultima glaciazione pleistocenica che, come il Velino, interessò anche il Sirente sia pur marginalmente.
La natura geologica del massiccio del Sirente non differisce da quella del Velino. Nel versante NE affiorano i calcari organogeni del Cretaceo che, come cennato poc’anzi, furono successivamente modellati in parte dal glacialismo quaternario. Il versante SO dolce ed erboso espone formazioni marnoso-calcaree (Console et al., 1988). Diffusi su tutto il massiccio i fenomeni carsici che si manifestano con le classiche, note forme epigee, come doline, karren, polje (per esempio nei Piani di Pezza) e con quelle ipogee, come grotte, meati, inghiottitoi.
Oltre al già citato Altopiano delle Rocche, il comprensorio in esame include il Piano di Ovindoli, i Piani di Pezza, la Piana di Campo Felice, i Piani di Canale, tutti sede un tempo di laghi di quota, tanto che il nome Velino sembra derivare, secondo Dionisio di Alicarnasso, da “Helos” che in greco significa palude (Bortolotti & Pierantoni, 1989). Particolare rilievo assumono poi le Gole di Celano, eccezionale canyon carsico originato dalla erosione esercitata dalle acque del torrente Foce che ha le proprie sorgenti nella Piana di Ovindoli.
La morfologia di questo canyon, lungo circa 5 chilometri, è di grande suggestione, non solo per l’imponenza delle precipiti pareti rocciose che lo racchiudono, ma anche per la singolare contiguità delle due pareti che in alcuni punti distano meno di tre metri.
Flora e vegetazione
Nelle epoche passate il massiccio del Sirente era interamente ricoperto di foreste, ma le attività umane, connesse specialmente alla pastorizia, hanno fortemente ridotto la forestazione, tanto che il versante SO si presenta oggi completamente privo di vegetazione arborea. Interessante la vegetazione che insiste ancora nella parte finale della Val d’Arano, in prossimità delle Gole di Celano. Qui si trova infatti una foresta mista di latifoglie, ricca di specie che in questa zona appenninica hanno ridotto la loro presenza (Console et al., 1988); ci si riferisce al tiglio (Tilia platyphyllos), all’acero riccio (Acer platanoides), all’agrifoglio (Ilex aquifolium) e al tasso (Taxus baccata). Sul versante Sud della Serra di Celano, al pari di quanto accade nelle prime pendici delle Gole di Celano, si rinvengono estese pinete di pino nero (Pinus nigra), frutto di vecchi rimboschimenti iniziati sin dai primi anni del novecento (negli ultimi tempi la superficie boscata a pino nero si è ridotta notevolmente a causa di grossi incendi estivi). Lo scenario forestale del Sirente cambia radicalmente quando si osserva il versante NE; qui infatti si estende una notevole faggeta che si porta sin sotto le strapiombanti pareti, tipiche di questo versante. E’ da osservare inoltre che il bosco presenta in certi punti grandi ferite provocate dalla caduta di slavine, al pari di quanto accade nel Vallone di Teve nel massiccio del Velino. Alle quote superiori il faggio (Fagus sylvatica) regna incontrastato, mentre più in basso si inseriscono molte altre specie come acero di monte (Acer pseudoplatanus), Acer neapolitanum, sorbo degli uccellatori (Sorbus aucuparia), sorbo montano (Sorbus aria), pioppo tremolo (Populus tremula), melo selvatico (Malus sylvestris), cerro (Quercus cerris), agrifoglio (Ilex aquifolium), nocciolo (Corylus avellana).
Nelle praterie di altitudine si notano le specie tipiche dei seslerieti, come p.e. la Sesleria tenuifolia. Il cotico erboso è interrotto a tratti da affioramenti rocciosi e dalla presenza di arbusti prostati, come il ginepro nano (Juniperus nana) e l'uva orsina (Arctostaphilos uva-ursi).
I popolamenti rupestri sono caratterizzati dalle tipiche sassifraghe (Saxifraga porophylla, Saxifraga lingulata), dalle campanule, come Campanula tanfanii e Edraianthus graminifolius, nonchè dalle crassulacee ben rappresentate dal Sedum dasyphyllum e dal Sempervivum arachnoideum (Console et al., 1988). Tipici i cuscini formati dalla Silene acaulis; particolare menzione merita una crucifera di brecciaio, la Ptilotrichum cyclocarpum, rinvenuta in Italia solo in Abruzzo e precisamente solo sulla Maiella, sulle cime del Sirente e nella Valle Lupara, nel versante NE del massiccio (Console et al., 1988).
I popolamenti delle coltri clastiche, colonizzando zone molto selettive soggette ad un continuo geodinamismo, si presentano in maniera molto discontinua e diradata; le specie rappresentative sono Festuca dimorpha, Galium magellense, Linaria purpurea, Crepis pygmaea.
Ricche e multiformi le fioriture, specialmente durante la primavera e il periodo autunnale; oltre al giglio martagone (Lilium martagon), al giglio rosso (Lilium bulbiferum), alla genziana maggiore (Gentiana lutea), all’aquilegia (Aquilegia vulgaris), alla peonia (Paeonia officinalis), alla belladonna (Atropa belladonna), al fior di stecco (Daphne mezereum), all’asfodelo montano (Asphodelus albus), è interessante annotare la presenza del Geum micropetalum, una specie esclusiva, segnalata in Italia soltanto in Basilicata e nel Sirente, e precisamente nelle praterie del Piano di Canale, alla base del versante di NE (Console et al., 1988).
L’interesse naturalistico del massiccio del Sirente trova poi, alle falde del Monte Canale, una peculiare espressione nella consistente stazione relitta di betulla pendula (Betula pendula) legata al glacialismo quaternario, testimonianza di eccezionale interesse fitogeografico e fitostorico, al pari delle altre stazione relitte di betulla nel massiccio del Velino, già citata nelle pagine precedenti.
La Fauna del Parco Regionale del Sirente-Velino
La fauna del Parco Regionale Sirente-Velino è correlata ad un ambiente che si distingue per la sua accentuata articolazione che va dalle vette spoglie e sassose, alle praterie d’alta quota, ai ghiaioni, alle faggete, al bosco misto e, nei pressi delle pendici montane, alle pianure e ai campi coltivati. Ogni ambiente ospita un particolare tipo di fauna, anche se alcune specie, grazie alla loro capacità di adattamento, si possono incontrare sia sulle vette che nei prati a valle.
L’avifauna, annoverando un’ampia diversità di specie anche rare, costituisce per lo studioso un capitolo di grande interesse. Non meno importanti i mammiferi diffusi in tutta l’area, anche se l’articolata morfologia del territorio appena descritto ne rende poco agevole l’osservazione.
Tra gli uccelli primeggia l’Aquila reale (Aquila chrysaetos), presente con tre coppie, di cui due nidificanti; il suo terreno di caccia, sorvolato a bassa quota o controllato da un posatoio, comprende un po’ tutte le morfologie, con esclusione delle zone fittamente boscate o con vegetazione intricata. Per quanto attiene alle specie che il rapace preda con più frequenza abbiamo potuto constatare, grazie alle osservazioni effettuate sul campo, che esse riguardano la Lepre comune (Lepus europaeus) distribuita dai pascoli di alta quota fino alle pendici montane, nonchè la Coturnice (Alectoris graeca) che si trova sui terreni elevati pietrosi e rocciosi, sui
fianchi montani non eccessivamente boscosi ed anche più in basso durante la stagione invernale; non disdegna altre specie di prede come la Faina (Martes foina) e lo Scoiattolo (Sciurus vulgaris). Non di rado si è osservato l’Aquila che tratteneva tra gli artigli un Cervone (Elaphe quatorlineata), o un Saettone o Colubro di Esculapio (Elaphe longissima), oppure un Biacco (Coluber viridiflavus). Tra le pietraie del Parco è facile rinvenire la Vipera comune (Vipera aspis) e più raramente la Vipera dell’Orsini (Vipera ursinii), distribuita in Italia solo sull’Appennino abruzzese e umbro-marchigiano (Gran Sasso, Monti Sibillini, Monti della Laga, Monte Velino, Monte Marsicano e Monte della Meta). Localizzata probabilmente solo sul Velino, per questo massiccio è certamente la specie di maggior interesse biogeografico.
Sulle pareti rocciose, oltre il limite della vegetazione arborea, nidifica il Gracchio corallino (Pyrrhocorax pyrrhocorax) con una popolazione di diverse centinaia di esemplari e anche il più raro, per questi ambienti, Gracchio alpino (Pyrrhocorax graculus), riconoscibile sia per il suo verso, che per il becco più corto e giallo. Sulle stesse pareti rocciose si può osservare il classico volo a farfalla del Picchio muraiolo (Tichodroma muraria). Specie strettamente montana (osservabile oltre i 2000 metri d’estate e più in basso d’inverno), è il Fringuello alpino (Montifringilla nivalis) che sull’Appennino è localizzato in zone molto ristrette.
Nei boschi di faggio, e più in basso in quelli di querce, la vita animale è più varia e abbondante. Spesso si sente la forte e squillante risata del Picchio verde (Picus viridis) e il rapido tambureggiare del Picchio rosso maggiore (Picoides major) o del Picchio rosso minore (Picoides minor) sporadico e localizzato in queste contrade. Nel 1993 nel Bosco dell’Anatella (Sirente) e nel 1994 nel Vallone di Teve (Velino) è stato rinvenuto per la prima volta il raro Picchio dorsobianco (Picoides leucotos) una peculiarità faunistica condivisa solo con poche altre località dell’Appennino. Tuttavia si tratterebbe di una popolazione isolata, la cui stabilità di presenza è da riconfermare (Bernoni, comunicazione personale). Segnalato anche, per quanto attiene il Sirente, il rarissimo Picchio rosso mezzano (Picoides medius) (Console et al., 1988), ma anche per questa specie occorre una riconferma. E’ facile altresì osservare sia le acrobazie delle Cince (genere Parus: Cinciallegra, Cinciarella, Cincia bigia e mora) in cerca di cibo sui rametti degli alberi, sia il correre veloce del Torcicollo (Jynx torquilla) su e giù per i tronchi e i rami degli alberi. Le Cince sono prede abituali e preferite dello Sparviere (Accipiter nisus), rapace che si muove a suo agio tra la vegetazione anche intricata. Altro rapace, ugualmente agile ed esperto nella caccia nei boschi, ma molto più grande e raro, è l’Astore (Accipiter gentilis); le sue prede sono uccelli di media taglia come le numerose Ghiandaie (Garrulus glandarius), il Piccione selvatico (Columba livia), il Colombaccio (Columba palumbus) le Lepri, anche se non disdegna i piccoli mammiferi.
Specializzato nella caccia in volo ad ogni tipo di uccello è il Falco pellegrino (Falco peregrinus) nidificante nel Parco con almeno 6/9 coppie. Accertata è anche la presenza del raro falco Lanario (Falco biarmicus feldeggi) anche se con una sola coppia, forse con due (una terza è insediata appena al di fuori dei confini del Parco). Il melanconico richiamo della Poiana (Buteo buteo) risuoni in più punti del Parco. Diverse sono infatti le coppie nidificanti con leggere fluttuazioni tra un anno e l’altro. Nelle zone boschive trova ospitalità anche il Picchio muratore (Sitta europea), caratteristico per le sue corsette, anche a testa in giù, sui tronchi degli alberi. Nelle fredde notti invernali nelle valli boscose e rocciose si ode il verso del raro e misterioso Gufo reale (Bubo bubo), una specie in forte regresso in molte parti del suo areale di presenza. Anche nel Parco lo status risulta alquanto incerto.
Numerosi uccelli accorrono nel territorio del Sirente-Velino solo nella stagione calda per nidificare; tra questi ricordiamo: l’Upupa (Upupa epops), il Succiacapre (Caprimulgus europaeus), l’elegante Culbianco (Oenanthe oenanthe), il Calandro (Anthus campestris); nelle calde notti estive si può udire anche la monotona nota del più piccolo dei gufi, l’Assiolo (Otus scops). Sempre di notte domina nei boschi il canto degli Allocchi (Strix aluco) e quello meno frequente del Gufo comune (Asio otus) mentre, nei pressi delle abitazioni rurali è facile vedere e sentire il Barbagianni (Tyto alba) e la Civetta (Athene noctua).
Altri uccelli frequentatori dei boschi e dei campi della zona sono il Codirosso (Phoenicurus phoenicurus), il Codirosso spazzacamino (Phoenicurus ochruros), il Saltimpalo (Saxicola torquata), lo Zigolo nero (Emberiza cirlus), l’Averla piccola (Lanius collurio), l’Averla capirossa (Lanius senator) e, tra quelli che accorrono in maggior numero, l’Usignolo (Luscinia megarhynchos), la Passera d’Italia (Passer domesticus italiae), la Passera mattugia (Passer montanus), la Capinera (Sylvia atricapilla), il Codibugnolo (Aegithalos caudatus), il Fringuello (Fringilla coelebs), il Cardellino (Carduelis carduelis) e d’estate Rondini montane (Ptyonoprogne rupestris), Rondine comune (Hirundo rustica) e Balestrucci (Delichon urbica).
Il Gheppio (Falco tinnunculus), che non è infrequente vedere nel Parco e nelle zone limitrofe, si nutre di Topi selvatici (Apodemus sylvaticus), di Lucertole (Podarcis muralis) e Ramarri (Lacerta viridis), nonchè di piccoli passeriformi. E’ certamente il rapace più diffuso. Durante i periodi di passo non è raro effettuare interessanti avvistamenti, come quello che riguarda l’arrivo, nel mese di maggio, del Falco cuculo (Falco vespertinus) che si esibisce con i suoi incessanti “spirito santo” in cerca di piccole prede. Tra i migratori più avvistati si cita inoltre l’Albanella minore e reale (Circus pygargus e cyaneus), il Falco pecchiaiolo (Pernis apivorus), il Lodolaio (Falco subbuteo) forse anche nidificante nell’ambito nel massiccio, si registrano infine diverse
osservazioni del Falco pescatore (Padion haliaetus), nonché di Biancone (Circaetus gallicus) e di Merlo dal collare (Turdus torquatus). Occorre ricordare che l’Albanella reale con qualche individuo risulta svernante nei versanti meridionali o più pianeggianti del Parco a quote non troppo elevate. Nel territorio della Riserva Naturale del Velino e nelle zone limitrofe ci si può imbattere nel rauco gracchiare del Corvo imperiale (Corvus corax), la cui presenza è frutto di una specifica reintroduzione operata dall’Amministrazione forestale che gestisce l’area protetta; le prime nidificazioni della specie nell'ambito del massiccio del Velino si sono registrate dal 1995. Grazie a questa reintroduzione numerosi esemplari si sono portati anche in altre contrade abruzzesi dove si sono regolarmente riprodotti: Valle Roveto, Simbruini, Ernici e Gran Sasso. In quest’ultima località nel 1994 sono stati avvistati due esemplari provenienti sicuramente dal Velino in quanto presentavano gli anelli colorati apposti alle zampe. Oltre al Velino nel resto del Parco si registrano continue presenze nella zona del Sirente, nell’Altopiano delle Rocche e nelle Gole di Celano.
Tra i mustelidi, oltre alla già citata Faina è da annoverare la piccola Donnola (Mustela nivalis), la Puzzola (Mustela putorius), più raramente la Martora (Martes martes) e, con un po’ di fortuna, ci si può imbattere (nei boschi o sui pendii con vegetazione bassa) nelle grosse buche d’entrata delle tane del Tasso (Meles meles). La Volpe (Vulpes vulpes) si trova in pratica dovunque, mentre nei boschi più selvaggi è possibile avvistare con un po’ di fortuna il raro Gatto selvatico (Felis silvestris); l’Istrice (Hystrix cristata) invece è prevalentemente localizzato nelle aree esterne, ma contigue del Parco. In forte ascesa è la presenza del Cinghiale (Sus scrofa), mentre quella del Cervo (Cervus elaphus), frutto di una reintroduzione operata dall’Amministrazione forestale della Riserva del Velino, è divenuta una positiva realtà tanto che oltre cento individui gravitano stabilmente nell’ambito del massiccio. Sporadica e del tutto occasionale è invece la presenza del Capriolo (Capreolus capreolus).
Dal luglio 1994 sul Velino è possibile osservare anche il Grifone (Gyps fulvus) grazie alle "liberazioni" avvenute nel territorio della Riserva Naturale con esemplari provenienti dalla Spagna. Il loro lento e maestoso veleggiare primeggia ormai stabilmente, unitamente a quello dell’Aquila reale, sui cieli del Parco. Come detto in precedenza si contano ormai una centinaio di esemplari.
Tornando a parlare degli Anfibi e dei Rettili è necessario elencare numerose specie escludendo quelle già menzionate: la Salamandra pezzata (Salamandra salamandra), la rara Salamandrina dagli occhiali (Salamandrina terdigitata), che con difficoltà è possibile incontrarla nelle lettiere più umide delle faggete del Parco, il Tritone crestato (Triturus cristatus carnifex) localizzato nei
piccoli specchi d’acqua (p.e. nel lago della Duchessa) e in alcuni fontanili, l’Ululone a ventre giallo (Bombina variegata), presente con pochissimi esemplari, il Rospo comune (Bufo bufo), il Rospo smeraldino (Bufo viridis), la Raganella (Hyla arborea), la Rana verde minore (Rana esculenta), l’Orbettino (Anguis fragilis), la Luscengola (Chalcides chalcides), la Biscia dal collare (Natrix natrix), e il Colubro liscio (Coronella austriaca) quest’ultimo localizzato negli ambienti soleggiati e aridi.
Di estremo interesse è il rinvenimento di alcuni Coleotteri endemici come Oreina marsicana, Carabus cavernosus e Calanthus sirentensis (Console et al., 1988).
Tra le specie di maggior rilievo presente nel Parco occorre citare quella dell’Orso bruno marsicano (Ursus arctos marsicanus), che come noto vive nel resto d’Europa con piccoli nuclei dispersi e con maggiore consistenza nel nordamerica. Nel Parco Regionale dovrebbe essere rappresentato da almeno 3-4 individui localizzati abbastanza stabilmente all’interno dell’area protetta. Specificatamente anche nell’ambito del Parco regionale sono cominciate le prime operazioni di tutela diretta, tra cui, quella basilare, il censimento analitico del numero degli individui presenti e la mappatura delle località maggiormente frequentate. Tuttavia, in linea generale, occorre dire che solo il massiccio del Sirente è stabilmente interessato alla presenza del plantigrado, mentre quello del Velino/Duchessa sembra esserlo in forma del tutto occasionale ed episodica.
Altra specie di eccezionale interesse, presente nel territorio del Parco, è quella del Lupo appenninico (Canis lupus italicus). Nel territorio in esame ancora non è possibile fare una stima precisa della popolazione. La presenza è abbastanza continua un po’ in tutti gli ambienti, specie durante la bella stagione, anche se gli esemplari si spostano continuamente nei territori limitrofi (anche in pianura a quote basse). A volte attaccano il bestiame domestico mentre è in crescita la predazione nei riguardi del cinghiale. In più di una occasione sono stati rinvenuti esemplari morti sia all'interno dell’area del Parco che nelle zone limitrofe. Per integrare l'alimentazione e sopratutto per concentrare questa piccola popolazione di Lupo nei territori protetti, si provvede saltuariamente ad istituire appositi carnai nei punti ritenuti più idonei. La presenza del Lupo all'interno del Parco conferisce all'area protetta prestigio e soddisfazione.
# Paragrafo scritto in collaborazione con il Dr. Bruno Petriccione. Notizie più approfondite si trovano in Petriccione (1993), v. bibliografia.
Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise
7.- PARCO NAZIONALE D’ABRUZZO, LAZIO E MOLISE
Generalità
Il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise fu istituito nel lontano 1922 con l’intento di salvaguardare un territorio che presenta grandi interessi naturalistici. Esso occupa una superficie di 44.000 ettari, cui si aggiungono 60.000 ettari di protezione esterna deputata a “raffreddare” il punto di congiunzione tra area protetta e area non protetta.
Il Parco si estende nel cuore degli Appennini, principalmente nella Regione Abruzzo, marginalmente nei territori appartenenti al Lazio e al Molise. Il suo sviluppo abbraccia l’Alto Sangro, parte della Marsica fucense, della Val di Comino, della Valle del Sagittario e del massiccio delle Mainarde (Valle del Volturno). Le provincie interessate sono quelle de L’Aquila (Abruzzo), di Frosinone (Lazio), e di Isernia (Molise).
La gestione è affidata all’Ente Autonomo Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise.
Orografia
Il Parco si sviluppa su altitudini variabili tra i 700 e i 2249 m.s.m. ed è caratterizzato dalla presenza di numerose cime, molte delle quali superano i 2000 m.s.m.; tra le principali si ricordano: Monte Petroso (2249 m.s.m.), La Meta (2242 m.s.m.), Monte Marsicano (2245 m.s.m.), Monte Forcone (2228 m.s.m.), Monte Tartaro (2119 m.s.m.), Monte Altare (2174 m.s.m.), Monte Palombo (2013 m.s.m.). Nella zona di protezione esterna spiccano il Monte Greco (2285 m.s.m.) e il Monte Cornacchia (2003 m.s.m.).
Zonazione
Il territorio del Parco è suddiviso in fasce denominate “zone”, le quali si differenziano per caratteristiche ambientali e di gestione; le fasce sono le seguenti:
- Zona A, Riserva integrale, nella quale è tassativamente precluso ogni intervento umano e finanche la sola presenza dell’uomo.
- Zona B, Riserva generale, a protezione dello spazio verde delle foreste e dei prati; vi sono consentite soltanto alcune attività umane categoricamente delimitate e rigorosamente controllate. Il visitatore vi accede seguendo sentieri segnalati.
- Zona C, di protezione esterna; qui si svolgono attività varie, soprattutto quelle relative alle aziende agro-pastorali, sempre nel pieno rispetto dell’ambiente.
- Zona D, lo spazio abitato.
Geologia e idrografia
Nel territorio del Parco prevalgono le formazioni calcaree e dolomitiche, con fenomeni di glacialismo e carsismo; in alcune valli si rinvengono anche terreni argillosi e arenacei. L’idrografia include sia i laghi che i fiumi; tra i primi occorre ricordare quelli di Barrea (artificiale), di Grotta Campanaro (artificiale) e il Lago Vivo che ha presenza stagionale (primavera-estate). Nella zona di protezione esterna spiccano il Lago di Scanno (il maggiore lago naturale d’Abruzzo), quello della Montagna Spaccata (artificiale) e il Lago Pantaniello. I corsi d’acqua che attraversano il Parco sono rappresentati dai fiumi Sangro, Giovenco, Melfa, Volturno, e dai torrenti Fondillo e Scerto.
Flora e vegetazione
Interessantissima la flora rappresentata da oltre 1.300 specie, cui si aggiungono le alghe, i muschi, i licheni e i funghi. Le foreste coprono i due terzi del territorio ed includono alberi secolari.
Nella descrizione sistematica della flora si sono assunte come punti di riferimento le quote altimetriche, che si prendono in considerazione in modo decrescente.
- Piano culminale (oltre i 2.000 m.s.m.): al di là del limite superiore della vegetazione arborea si estendono le praterie d’altitudine; in esse si rinviene una vegetazione erbacea che spesso forma tappeti compatti di Sesleria tenuifolia, Carex kitaibeliana, Festuca macrathera. Nei brecciai e nelle rupi calcaree vegeta la Festuca dimorpha, mentre nei punti più freschi e umidi alligna il Brachypodium genuense.
Scendendo di quota, ma prima di addentrarsi nei boschi, si incontrano i tipici arbusti contorti e spesso prostrati, come il ginepro nano (Juniperus nana), il pino mugo (Pinus mugo), ormai raro e ristretto soltanto a piccole estensioni, nonché relitti nordici, come l’uva ursina (Arctostaphylos uva-ursi) e il mirtillo (Vaccinium myrtillus).
- Piano montano (da 1000 a 1900 m.s.m.): si entra nel bosco, dove si rinvengono, soprattutto alle quote più alte, estensioni monofitiche di faggio (Fagus sylvatica) che, come noto, rappresenta la vegetazione climax di queste quote appenniniche. Spesso, soprattutto alle quote meno alte, il faggio si mescola ad altre specie, come l’acero di monte (Acer pseudoplatanus), l’Acer obtusatum, il sorbo degli uccellatori (Sorbus aucuparia), l’orniello (Fraxinus ornus), il sorbo montano (Sorbus aria), ecc.. Di tanto in tanto ci si imbatte in splendidi esemplari di tasso (Taxus baccata), mentre, in località molto circoscritte, è notevole la presenza di una sottospecie endemica del Parco denominata pino nero di Villetta Barrea (Pinus nigra).
Particolare interesse assume la presenza, in località Coppo Oscuro di Barrea, di una stazione relitta di betulla pendula (Betula pendula Roth.), legata all’ultima glaciazione pleistocenica.
- Piano submontano (400-900-1000 m.s.m.): in questo orizzonte si sviluppano altresì i tipici boschi misti di cerro (Quercus cerris) con elementi di carpino nero (Ostrya carpinifolia), acero campestre (Acer campestre), acero minore (Acer monspessulanum), ciliegio canino (Prunus mahaleb), biancospino (Crataegus oxyacantha), nocciolo (Corylus avellana), orniello (Fraxinus ornus), melo selvatico (Malus sylvestris), prugnolo (Prunus spinosa), rosa canina (Rosa canina), ecc.. Nelle contrade più calde si trova, spesso abbarbicato sulle rocce, il leccio (Quercus ilex), tipica pianta mediterranea termofila, mentre nelle zone più fresche non manca il castagno (Castanea sativa); inoltre nel versante meridionale si estendono, entro limiti ristretti, i tipici boschi xerofili a roverella (Quercus pubescens).
Nei terreni umidi vegetano le tipiche piante igrofile come i pioppi (Populus tremula, P. nigra, P. alba), il carpino bianco (Carpinus betulus) e i vari salici (Salix alba, S. viminalis, ecc.).
Di grande interesse è la varietà delle fioriture erbacee; si citano soltanto alcune delle specie più significative: scarpetta di venere (Cypripedium calceolus) specie rarissima, giaggiolo marsicano (Iris marsica) pianta endemica, nigritella (Nigritella widderi), giglio rosso (Lilium bulbiferum), giglio martagone (Lilium martagon), genziana maggiore (Gentiana lutea), aquilegia (Aquilegia vulgaris), peonia (Paeonia officinalis), trollio (Trollius europaeus), epipogio senza foglie (Epipogium aphyllum), orchidea rarissima che fiorisce ogni 10-20 anni.
Fauna
La fauna presente nel Parco è varia per specie e numerosa per esemplari. Tra i mammiferi spiccano l’orso bruno marsicano (Ursus arctos marsicanus ), simbolo del parco e ambiente roccaforte per la specie la cui salvaguardia passa anche attraverso l’istituzione di questa importante area protetta, il camoscio d’Abruzzo (Rupicapra pyrenaica ornata - ca. 500 esemplari), altro “gioiello” di valore zoologico inestimabile, il lupo appenninico (Canis lupus italicus), il cervo (Cervus elaphus - reintrodotto nel 1971), il capriolo (Capreolus capreolus - reintrodotto nel 1971), la volpe (Vulpes vulpes), la lepre (Lepus europaeus), il tasso (Meles meles), la martora (Martes martes), la puzzola (Mustela putorius), la donnola (Mustela nivalis), la lontra (Lutra lutra - rarissima), il gatto selvatico (Felis silvestris), la lince (Felis linx, pochissimi esemplari), l’arvicola delle nevi (Microtus nivalis), il moscardino (Muscardinus avellanarius), il ghiro (Glis glis), lo scoiattolo (Sciurus vulgaris), il riccio (Erinaceus europaeus). Tra gli uccelli si ricordano l’aquila reale (Aquila chrysaetos), il falco pellegrino (Falco peregrinus), la poiana (Buteo buteo), il gheppio (Falco tinnunculus), l’astore (Accipiter gentilis), lo sparviero (Accipiter nisus), il falco lanario (Falco biarmicus feldeggi), il gufo reale (Bubo bubo), il gufo comune (Asio otus), l’allocco (Strix aluco), il raro picchio dorsobianco di Lilford (Picoides leucotos lilfordi – oltre 200 coppie, una vera roccaforte per la specie. Bernoni, comunicazione personale), l’ancor più raro picchio rosso mezzano (Picoides medius – 20/30 coppie. Bernoni, comunicazione personale), il picchio rosso minore (Picoides minor, 60/100 coppie. Bernoni, comunicazione personale), il piviere tortolino (Eudromias morinellus - raro, relitto glaciale), il picchio muraiolo (Tichodroma muraria), il picchio verde (Picus viridis), la balia dal collare (Ficedula albicollis), il merlo acquaiolo (Cinclus cinclus), il fringuello alpino (Montifringilla nivalis), il sordone (Prunella collaris), il gracchio alpino (Pyrrhocorax graculus), il gracchio corallino (Pyrrhocorax pyrrhocorax), la coturnice (Alectoris graeca).
I rettili e gli anfibi sono rappresentati dalla vipera degli Orsini (Vipera ursinii - rara), dalla vipera comune (Vipera aspis), dalla salamandra pezzata (Salamandra salamandra), dalla salamandrina dagli occhiali (Salamandrina terdigitata), ecc..
La fauna acquatica annovera la trota (Salmo trutta fario), la trota di lago (Salmo trutta lacustris), il gambero di fiume (Austropotamobius pallipes italicus), il gambero lacustre (Gammarus lacustris), il cavedano (Leuciscus cephalus), l’alborella (Alburnus albidus), la tinca (Tinca tinca), ecc..
L’entomofauna è ricca di specie, alcune delle quali sono di notevole interesse naturalistico sia per la loro rarità che per l’incombente pericolo di estinzione: il Chrysochloa marsicana, il
Chrysochloa siparii, il Cychrus rostratus costai, la Rosalia alpina, il Carabus cavernosus variolatus.
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