Wild Nahani
Napapiiri
Ritorno al selvatico
Il mio “Walden”
A quel solitario e selvaggio luogo dove
lo spirito rientra nella natura.
All’amorevole ricordo
dei miei genitori, Vittorio Spinetti e Elisabetta Donatelli,
ed in loving memory
della mia compagna Elzbieta Mielczarek (1963-2014).
Questo libro è dedicato a Elzbieta Mielczarek,
Maria Mielczarek, Jadwiga Trojszczak,
e a Pietro Guerrieri, mio insostituibile amico.
Li ricorderò per tutto il resto della mia vita.
“Non si può toccare un fiore senza disturbare una stella”
(G. Bateson)
Questo libro è il mio testamento spirituale!
BE STRONG
ORCHIDEA
Alla memoria di Elzbieta Mielczarek, by Felice Casucci
La fugacità è ogni cosa. Sta nel volto di chiunque. E noi a difendere inutilmente la posizione conquistata! Come se ci appartenesse. Una “trappola” l’ho definita nel mio ultimo post. Confermo. Foglie di orchidea bianca le pagine dei libri che ho amato. E rondini suicide nella bocca dei fiumi freddi di Finlandia. Elisabetta non ha detto il suo nome al gorgo che l’ha inghiottita. Non aveva più un nome: una donna che muore nel mondo di nessuno. Colta direttamente dalla pianta, la sua vita sarà sembrata quella di una ninfa dei sassi, erosa dalla potenza elementare. Orchis in persona verrà a prenderne la passione. La morte sana molte ferite, coltiva molti campi, anche quelli sconsacrati. Uno squarcio nella pianta su cui crescono le giornate. Si tradisce chi governa il capitolo delle parole per trarne profitto. Mario, suo marito, un maestro per tutti noi, ha percorso ventimila leghe intorno alla perfezione di una foglia, alla necessità che sia mostrata, non colta. Eppure non è bastato! La salma della donna si è offerta al delirio del mondo controverso, forse per una collera mal gestita, forse per una favola conclusiva. Non voglio, non riesco a immaginare neppure i luoghi che l’hanno accompagnata, fugace vestale, dall’ombra del bosco a quella della strada senza ritorno. Le chiedo solo la stessa pietà che ha avuto per se stessa, modella di notti assommate nei magazzini di una guerra del legno e del fuoco. Nessuno, amica mia, può svegliarti. Neppure le belve feroci che ti mangiano le ossa. Tu sei terra, acqua e tormento. Nel planetario di un istante percorri tutte le distanze e le ammansisci con la temperie di una malinconia estirpata alla terra più nera. Fare pazzia d’amore, concepire l’inconcepibile. Questo ti chiedo, a nome dei rivoltosi, contro l’immane destino. L’orchidea tra i capelli della Olympia di Manet, la nudità femminile che sfida le regole dei benpensanti. Le nature morte di Heade. Le emozioni dilatate dalla vagina mentale della O’Keeffe. Tutti simboli di un rigoglio spettrale e impulsivo. Quel che sei tu per me. Tra i tuoi quadri, che conservo in salotto, macchiati di spine e colori tessuti a mano, gli artigli perdono la vista. Riaccesi ora da tutti i ricordi, discesi dagli occhi visionari di Proust, D’Annunzio e Marinetti, tre autori prediletti, foglie di orchidea bianca anticipano i simboli inespressi di un moto d’ira e perdono. Ti rendono viva. Magicamente trasformata, da un rivolo d’acqua dolce, in pianta.
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Prefazione
“C’è solo una speranza di respingere la tirannica ambizione della civiltà di conquistare ogni luogo della terra.
Questa speranza è l’organizzazione delle genti più sensibili ai valori dello spirito,
affinché combattano per la libera continuità della natura selvaggia”.
Robert Marshall
In questo, che definisco racconto naturalistico, volutamente sviluppato sotto la personalità di Larsen e in uno stile poetico narrativo, ricco di componenti surreali, ed in parte autobiografico, narro le vicende, le esperienze, le crisi esistenziali e soprattutto le riflessioni di un suo solitario surreale viaggio, scritte nella metafora di una sua dimensione mentale, spirituale ma forse anche fisica (il dubbio rimane nell’intera narrazione del brano), alla ricerca di un “punto di ascolto” dove comprendere e mettere a nudo le profonde motivazioni che sono alla base del dissidio drammatico tra l’uomo e la natura. Dopo un lungo peregrinare il personaggio raggiungerà il circolo polare artico, il “grande nord”, all’interno dell’affascinante foresta dell’emisfero boreale, la taiga, per porsi ai confini della realtà umana al fine di poter acquisire in solitudine ed in piena autonomia, le risposte che potrà apprendere solo nell’ascoltare “il vento” della wilderness, una wilderness non solo materiale ma anche interiore. Un indecifrabile sogno e soprattutto una misteriosa lettera che Larsen riceverà nel suo solatio luogo, gli svelerà e lo renderà consapevole di tutte le verità nascoste che nel suo essere erano in effetti già evidenti o in ogni caso latenti. Ed in questa dimensione la narrazione rivela il profondo senso della wilderness dei luoghi e dello spirito. Lo scritto è poi inframezzato da continui flash-back (i cui titoli, per evidenziarli, sono scritti con altro carattere ed il testo in corsivo) che tratteggiano la vita dell’orso bruno per evincere ancor più il palese contrasto tra il libero vivere di una specie selvaggia che da tempi immemori si ripete nei suoi ambiti naturali, e la nostra esistenza così incastonata di contraddizioni, di scissioni, di vite prive di consapevolezza. L’orso bruno funge da contrappeso ed è un’ottima guida per aiutarci a ricomporre almeno un tassello del nostro disarmonico vivere in cui troppi sono i pezzi sparsi perché “All’origine della venerazione dell’orso vi è il principio femminile della nascita, della crescita, della decadenza e della rinascita, perché l’orso è il modello supremo, e pertanto lo spirito guida, del tema del rinnovamento” (Paul Shepard a Barry Sanders).La narrazione delle gesta di un animale selvatico è un palese esempio che ci aiuta a focalizzare nel profondo lo spirito più puro della wilderness. I brani sulla vita dell’orso sono stati redatti mediante una libera e parziale rielaborazione ed adattamento alla regione e all’ambiente naturale finlandese, di molte delle descrizioni del lungo racconto di Franco Zunino, “I giorni dell’Orso bruno”. Questa scelta nasce dalla mia esigenza interiore di mantenere vivo il legame con l’Abruzzo e con l’animale per la cui protezione per molti anni mi occupai in quella natia regione italiana.
Attraverso la raffigurazione degli eventi e delle continue ricerche metaforiche e reali di “ascolto” di Larsen - prolungatesi nel corso delle stagioni dell’anno - il racconto vuole soprattutto simboleggiare la strenua difesa della libera continuità del mondo selvaggio, la considerazione del suo valore in sé, la riconnessione in forma unitaria e non dualistica con la natura e la vera tutela dell’ultima frontiera che sta scomparendo, affinché l’uomo moderno torni sui suoi passi per non estinguere, definitivamente, quel che resta della natura e dell’essenza delle cose.
E’ un grido, un appello sconsolato fatto a tutti gli uomini affinché si rendano consapevoli della giusta via naturale e si battano per riconquistarla e mantenerla. Ma una sorta di pessimismo pervade le conclusioni del racconto, poiché, alla fine, sostengo che la vera e concreta consapevolezza da parte del genere umano a voler mutare radicalmente il suo modo di agire, è estremamente esigua se non paradossalmente del tutto assente.
Il racconto, arricchito dalle profonde sensazioni che il personaggio Larsen descrive quasi in ogni pagina, è nel sottofondo illuminato continuamente dalle magiche e limpide luci del grande nord dominate da una silente ed primigenia foresta dove si ode il magico ululato del lupo e si percepisce il dinamico muoversi della vita di quelle contrade.
In tal modo Larsen, nell’intrecciare questa breve tela, rivela alla fine un messaggio semplice, ma eloquente: prima che l’ultima frontiera della natura scompaia è necessario sensibilizzare l’uomo nella sua interezza perché, come cita alla fine del testo, “Se perderemo veramente il mondo selvaggio..... - parafrasando un famoso scritto - il dolore si impadronirà di noi. Ma grazie ad esso, dopo, e qualora un dopo ci sarà, se dovessimo rivivere il selvaggio creeremo “forse” finalmente con esso un eterno rapporto di verità, di unione, d’infinito ed indissolubile rispetto.........”.
Wild Nahani
“Come i venti e i tramonti, la vita selvaggia era considerata sicura finché il cosiddetto progresso non ha cominciato a portarla via. Ora ci troviamo di fronte al problema se un ancora più alto livello di vita valga il suo spaventoso costo in tutto ciò che è naturale, libero e selvaggio”
Aldo Leopold
“Ognuno ha un posto di ascolto da qualche parte”
Sigurd Olson
PRIMA PARTE
Napapiiri
Caro lettore,
D’improvviso un giorno
D’improvviso un giorno decisi di partire, ma forse fu più una viaggio della mente e della mia fantasia che una partenza fisica, non so; esso mi avrebbe dovuto condurre verso nuovi lidi, per aprirmi le porte verso una realtà ben diversa, in parte inaspettata, ma da me inconsciamente voluta e forse già nota. Issai le “vele” e presi il largo anche se la navigazione si sarebbe potuta presentare tutt’altro che agevole. Avrei dovuto comporre un complicato puzzle senza averne l’immagine guida.
Trovavo delle luci cangianti, delle aurore musicali, delle voci inusitate e, alla fine, un lungo e indecifrabile ascolto di un qualcosa che si librava in alto tra le cime dello spirito.
Era cominciata la mia ricerca, una ricerca che era senza soggetto ne personaggi, una ricerca eterea dove il fluire delle silenti ed indissolubili anime conducevano ad un necrologio di vita.
Proseguivo a tratti con difficoltà, perché ciò che è profondamente vero non sempre è così facile. Aprii il mio cuore, spalancai i miei pertugi e ascoltai in silenzio ciò che non udivo. Le luci, dopo la loro scomposizione, si ricongiunsero, ma sembravano sfuggire come foglie mosse da un forte vento.
Attraversai dune alberate, superai massi disarmonici, camminai lungo un sentiero che non vedevo, ma alla fine giunsi ad una improvvisa ed amena radura: aprii il mio petto e lasciai che le lacrime se ne andassero fluenti senza porre ostacoli. Era il veleggiare senza vento, ma un duro, veritiero risvegliarsi delle membra.
Fu così che partii dentro me stesso per trovare ciò che restava della natura, una natura morente che stava per essere sepolta, ma che io volevo ancora vedere e soprattutto sentire prima che l’ultima manciata di terra fosse versata sui suoi resti. E, cosa di non secondaria importanza, volevo ancora capire e dire qualcosa. Avrei dovuto viaggiare a lungo, molto a lungo per riconnettermi con un mondo ormai perduto da cui io stesso, forse, ne volli essere escluso. Dovevo trovare un luogo, un punto di ascolto, dove sentire un “vento” che probabilmente poteva insegnarmi qualcosa.
Ero costretto a viaggiare con la mia mente perché il silenzio della primavera mi obbligava a farlo. Non un passo, non un fremito fendeva l’aria immota e nulla, nulla sembrava voler elargire parola.
Mi accostai ad un tronco caduto, ormai trasformato in humus, il pane della vita; un tronco millenario che racchiudeva nei suoi vanescenti resti la storia di un declino. Non il suo - quell’albero ne era stato solo un testimone - ma quello del nostro io che pian piano si spegneva con la volontà decisa di farlo.
Giunsi ad un bivio. Due sentieri quasi impercettibili, ma in fondo palesemente delineati. Ne scelsi uno a caso, ma il tragitto che pensavo alternativo fu breve. Solo un centinaio di passi ed i sentieri si sovrapposero d’improvviso. Era forse un monito ad una finta scelta dove l’obbligo del procedere pareva che regalasse un diversivo. Il segno era chiaro: il cammino doveva essere percorso in unico senso privo di deviazioni e scevro di corruzioni. Poi vidi un impronta nel fango, una impronta di un animale etereo, plastico, vanescente, sublime. Era passato da poco e in quel dagherrotipo di immagine scorsi agevolmente l’autore: un lupo. Vidi in quell’orma un mondo infinito, un mondo di ululati, fughe, corse a perdifiato e rigogli di gioie estinte. Mi soffermai, riflettei, fotografai col mio pensiero e poi compresi: quanti incontri avrei potuto fare nel mio viaggio e quale giusta via seguire senza una guida? Decisi così, in un sol fiato, di farmi “portare” spiritualmente dal quel simbolo della wilderness della terra. Presi quella guida, la nominai più volte nel mio io e fui così rinfrancato che avrei sicuramente trovato il mio luogo di ascolto! Ma il mio ascolto non era concepito solo come un udire qualcosa, ma soprattutto percepire dei messaggi, dei simboli, delle comprensioni eteree, delle sensazioni profonde che avrebbero travalicato lo spirito al di sopra di un meccanicismo palesemente tangibile.
Il mio viaggio era volto a settentrione, il grande nord della madre terra dove al freddo fisico che pungeva l’anima si contrapponeva la luce della limpidezza. Avevo ora almeno un punto di riferimento, un punto cardinale chiaro e definito. Ed avevo, soprattutto, la mia guida spirituale.
Sapevo di calpestare la mia ombra, ormai raggelata per la sua ineluttabile vanità. Calpestavo il mio dolore e la mia inerzia dinanzi al cangiarsi delle remote stagioni dell’anima. Seguivo intanto la pista del lupo e scorgevo, ai bordi del sentiero, le inevitabili devianze cui la mente tende. Distorsioni esistenziali, vacuità delle cose e, sopra ogni elemento, lo spirito fuggente che perde l’attimo per carpire il significato della terra. La nuda terra sotto i miei piedi e, dinanzi al chiaro vedere delle cose, l’oscura ombra di me stesso, intrisa di speranze egoistiche e centripete.
Il giorno fu lungo, il cammino incessante, ma la mia meta, il punto di ascolto nel grande nord, doveva essere raggiunta. Solo lì percepivo che avrei potuto ascoltare l’assoluto e l’inossidabile vento delle magie dove ogni parametro si sarebbe disgregato per ricomporsi nel giusto verso della natura in una affinità elettiva senza compromessi.
Ignare follie, tristezze certe, allucinazioni reali e, nel mezzo, la mia ombra ormai unificata a quella della mia guida. Il desiderio di avere, di possedere, calunniava ciò che c’era di più puro nella madre terra. Io, la mia ombra, il mio intero stava ben appollaiato da un lato e, distinta e allontanata, la natura sembrava che mi osservasse sgomenta perché da me “volutamente” disgiunta. Avevo reciso ciò che era indivisibile, avevo rimosso ciò che era inamovibile ed ero entrato, classicamente e con spavalderia, nella mia mente divisoria rinunciando a quell’unicum che era il flebile, ma incessante vento delle origini.
Ero una pietra, un sasso lanciato nel vuoto e traslavo tutta la mia pazzia verso il nulla della dualità. AVEVO SCISSO l’inscindibile, avevo sciolto l’indissolubile ed avevo gridato al mondo, forse ignaro del grave errore, il mio successo nel fare tutto ciò..........
Camminai molto, giorni e giorni, lasciando dietro alle mie spalle latitudini dopo latitudini. Cangiava ogni elemento, le foreste di conifere prendevano il posto a quelle delle latifoglie, e gli animali, sempre nuovi, mi guidavano verso settentrione. Un orso bruno nel fitto della foresta, un’alce da qualche parte, una grande diga di un castoro che implacidava l’andare delle acque e, la mia guida, il lupo, che, pur se non vedevo, mi indicava ognora la via. Ero a tratti stanco, ma sapevo che dovevo farcela.
Trascorsero molte lune e, giorno dopo giorno, guadagnai centinaia di chilometri. Non sapevo dove mi sarei dovuto fermare, ma fidavo nel mio senso interiore. Intanto nella mia mente si susseguivano velocemente le immagini della mia e soprattutto di tutta la vita dell’uomo con le sue “quiete disperazioni esistenziali” e con il suo procedere verso un luogo non definito, ma chiarissimo: la disintegrazione totale dell’ordine caotico della madre terra. Una disintegrazione che portava seco anche se stessi, ma, anche se non del tutto ignari, procedeva con estrema determinazione, come il fluire di un impetuoso tratto di fiume: “l’Occidente è una nave che sta colando a picco, la cui falla è ignorata da tutti. Ma tutti si danno da fare per rendere il viaggio più confortevole”. Quelle immagini mi scorrevano l’una dietro l’altra e tutte avevano un unico filo conduttore: recidere drasticamente il senso di unità con la terra. Era la stessa sensazione che avevo in me stesso, ma in questa occasione essa era traslata all’intera razza umana, almeno quella gran parte che rincorre il nulla e la divisione. Ma nel complesso, anche se in fondo non ci riuscivo, cercano con forza di non farmi soggiogare dal pensiero della sofferenza. Ricordai a tal proposito un bellissimo passo di un libro che ebbi la fortuna di scorrere qualche tempo prima: “Ogni infelicità è in parte, per così dire, l’ombra o il riflesso di se stessa: non è soltanto il proprio soffrire, ma anche il dover pensare continuamente al proprio soffrire. Io non solo vivo ogni interminabile giorno nel dolore per la sua morte, ma lo vivo pensando che vivo ogni giorno nel dolore.......”.
Cieli plumbei, crepuscoli dorati, aurore vanescenti e luci che nella loro intensità illuminavano a giorno il mio pensare.
Il grido del cuore, l’effimero innalzato, l’inutile arricchito e l’essenziale ignorato.
Il vento sulle guance, il fruscio delle foreste e, d’improvviso, il fragore del tuono dopo il fulmine.
Il mio procedere era rallentato perché sentivo che la mia guida ora progrediva non più linearmente, ma si fermava ad annusare l’aria, zigzagava a destra e a sinistra, come per dirmi che il momento di fermarmi era molto vicino. Ma non sarebbe stato certamente un fermarmi statico, ma fondamentalmente dinamico e soprattutto riflessivo e costruttivo perché per comprendere appieno l’essenza dei fatti, l’unico modo era quello di ascoltare la natura. Il segno mi sarebbe quando prima arrivato.
Mi trovavo in uno scenario quasi surreale: articolate colline sullo sfondo, un sinuoso e a tratti impetuoso fiume nelle vicinanze e, dappertutto, una grandiosa, millenaria foresta primigenia. Un ambiente che toglieva il respiro, che concedeva all’essere il più profondo senso della wilderness dei luoghi e dello spirito. Ero forse giunto al mio luogo di ASCOLTO, dove avrei probabilmente compreso il giusto esistere e avrei respirato nella mente l’aria dell’armonico vivere. Ascoltare, comprendere, riflettere........... Mi sovvenne a quel punto una riflessione che un tempo non la condividevo in pieno, ma ora forse vi scorgevo qualcosa di coinvolgente:“La vita va vista attraverso tutte le sue sfumature come i colori di un prisma. Occorre lasciarsi penetrare dalle mille luci che la attraversano, perché poi alla fine del processo tornano a ricomporsi, basta non opporre resistenza; ci sono cose che vanno vissute con partecipazione, come il male e il bene, l'amore e la gioia. E’ necessario farsi attraversare da loro e guardarle, in modo distaccato ma presente, facendo capire a chiunque che sei tu il padrone di te stesso, della tua mente e del tuo corpo”.
Fu questa la mia prima sensazione di pensiero ora che mi toccava il compito più arduo. Ricomporre il mio dissidio con la natura attraverso la penetrazione nei più reconditi recessi del proprio cuore onde demolire poco alla volta tutto quel trascorso errato e tangibile, ma del tutto effimero di cui la mia mente, ben rappresentante di tutto il genere umano, era così fortemente incastonata. Era come dover lavorare in una miniera per rimuovere il superfluo e trovare la vena madre, la fonte di tutte le ricchezze.
Dovetti muovermi ancora per una decina di giorni, valicare numerose colline e guadare piccoli fiumi, ma alla fine mi resi conto che il mio procedere non aveva più senso. La pista della mia “guida” era infatti scomparsa. Avevo percorso un lunghissimo cammino ed ora mi accorsi che ciò che cercavo potevo scoprirlo in tutta la sua interezza. Dovevo semplicemente, per modo di dire, ripulire a fondo le incrostazioni del mio essere, togliere i tappi dalle orecchie e cominciare ad ascoltare..........
Ero dunque alla mia prima meta
Ero dunque alla mia prima meta: avevo trovato l’importantissimo senso del luogo nel pieno della taiga, la grande foresta dell’emisfero boreale. Era il mese di maggio, ma mi occorreva un riparo perché non sapevo se sarei dovuto rimanere un anno, un decennio o l’intera vita.
Muovendomi qua e là, poi, tra il fitto della foresta, poco distante da un fiume e da un lago adiacente, vidi improvvisamente le fattezze di una vecchia capanna. Era costruita grezzamente in tronchi di pino, ma in molte parti era malandata. Sapevo che mi sarei dovuto mettere al più presto al lavoro per renderla abitabile soprattutto per quando sarebbe sopraggiunto l’inverno perché il freddo pungente che regalava il circolo polare artico non concedeva compromessi. Fortunatamente all’interno vi era una vecchia, grossa e sostanziosa stufa in ghisa, un tavolo massiccio, una sedia, uno scaffale di fronte alla porta e altre piccole pratiche masserizie. Sembrava che quella austera abitazione fosse stata abbandonata da non molti anni; vi era vissuto probabilmente un uomo solitario in cerca di pace o fors’anche un naturalista sensibile ad una vera natura o un anacoreta. Ciò non aveva importanza, ma occorreva porre mano alle dovute riparazioni.
In primis comincia dal tetto, perché in alcuni punti era praticamente da rifare. Fortuna volle che dietro la capanna vi fossero numerose assi già tagliate e, senza riflessione alcuna, le presi e mi misi all’opera. Il tetto fu pronto in meno di una settimana. Ora dovevo stuccare alcune fessure che si erano determinate tra i tronchi e, mentre procedevo nel lavoro, mi sentivo più un castoro che un essere umano. Pulii ben bene la stufa e la canna fumaria, costruii una lunga panca e sistemai al meglio ogni altra cosa che sembrava non essere a posto. Un’ampia finestra volgeva lo sguardo a sud, verso un fiume e un lago, una seconda volgeva la veduta verso ovest, mentre il pagliericcio su cui dormire era posizionato non molto distante dalla stufa. In inverno i quaranta gradi sotto zero probabilmente non si sarebbero fatti lesinare. Feci dei piccoli, ma piacevoli ornamenti e poi passai all’ultimo compito: preparare una congrua scorta di legna, altrimenti tutto il lavoro era stato solo un passatempo. Quest’ultimo compito fu, come ben si sa, estremamente faticoso, ma ebbi almeno la fortuna che le falde del tetto della dimora fossero sufficientemente sporgenti tanto che potei mettere a riparo, in strette cataste, la legna tagliata e spaccata. In meno di un mese il luogo era nuovamente vivificato ed ogni cosa era al giusto posto. Poi praticai un classico rito nordico, un’usanza per “battezzare” una nuova capanna: accendere la stufa e da fuori osservare il fumo che esce dal comignolo. Alla fine, scalpello alla mano, incisi su un cerchio di legno la mia frase preferita “Lathe biosas” (vivi nascostamente) e lo posi proprio sopra la porta principale d’ingresso (un’altra, infatti, era posta sul retro). Per ultimo decisi di dare un nome alla capanna e la scelta venne da sola “Listening point”.........
Ora che la casetta era stata riassettata dovevo fare un altro importante lavoro: attrezzarmi per ottimizzare al meglio una rudimentale canna da pesca, fabbricarmi un paio di racchette da neve e allestire qualche trappola per catturare qualcosa che mi garantisse il giusto nutrimento. Alla fine le cose fondamentali furono pronte e cominciò così la mia nuova vita........
Per alcune settimane
Per alcune settimane girovagai nei dintorni della capanna per familiarizzare più possibile con il luogo, per scoprirne i passaggi migliori, i sentieri più agevoli, i limiti delle escursioni e trovai molti segni della presenza di una ricca e variegata fauna. Ma questo lo avrei scoperto nel dettaglio nei tempi successivi.
Silenzio sublime, silenzio eloquente, questo era il sottofondo della mia nuova dimora. Il fruscio delle piante mosse dal vento e il balzare delle acque del fiume, li udivo come qualcosa di armonica struttura dove il contrappunto riusciva ad insinuarsi plasmaticamente nel mio io.
Quando più o meno cominciai a compenetrarmi con il luogo, o meglio con il senso del luogo, decisi di avere un quaderno degli appunti su cui annotare le cose pratiche e quel poco che le parole potevano tradurre dalla mente e dalle sensazioni. Ma esso mi sarebbe stato utile perché nello svolgere la traduzione tra mente e scrittura, avrei sicuramente avuto un maggior impulso alla riflessione........ Evitai le date perché scandivano un tempo troppo tecnico, schematico, troppo poco espansivo. Avrei scritto senza tempo, fuori dal tempo e soprattutto senza dogmi e paradigmi altrimenti avrei detto molte cose, ma non certo l’essenziale.
Ero ormai integrato
Ero ormai integrato nel mio luogo romito e selvaggio e la mia vita si era perfettamente plasmata con una realtà che da agognato sogno era divenuta ormai palpabile. Sinfonie di natura avvolgevano l’esistenza quotidiana e il trascorrere delle giornate mi arricchivano continuamente di inusitate estasi di bellezze. Una natura incontrastata fungeva da costante sottofondo e nulla sembrava insinuarsi per disarmonizzare il mio essere. Luci cangianti, suoni indecifrati, visioni surreali erano le mie compagnie quotidiane. Vivevo respirando il senso della vita e traslavo la mia anima in un mondo di libere fantasticherie. Mi trovavo nella più profonda solitudine, ma era una solitudine piena di eventi e di contrasti che non creava in me alcun senso di disagio, anzi mi donava una continua pienezza interiore. Dovevo riconnettere le mie distanze, ormai da troppo tempo assemblate nella mia interiorità.
I giorni trascorrevano come sortilegi di avventure e il vento dello spirito alitava sopra ogni cosa. Acquistavo giorno dopo giorno una profonda pace con me stesso ed il mio cammino era sempre più delineato e creativo. Le grandi foreste primigenee si rappresentavano come immense cattedrali nella natura e il sinuoso muoversi delle acque dei fiumi e dei torrenti sembravano descrivere il moto dell’anima, mentre i placidi laghi racchiudevano la calma dello spirito. Tutto, insomma, era un inno all’armonia e non v’era momento in cui affiorava stanchezza mentale o irrequietezza delle membra.
Attimi fuggenti carpivano il mio dire e sensi di luce chiudevano ogni pertugio. La vita era manifesta in ogni movenza di essa e il cangiarsi degli eventi dava al tutto un finanche smisurato senso di appartenenza. La mia anima era come un mondo all’interno di un altro mondo e tra loro v’era sempre più un solido legame di continuità.
Quando mi ritrovavo raccolto nella mia capanna, sentivo di non essere isolato dal fuori ma sempre di muovermi in ogni istante in una incessante dinamica di eventi unitari. Non avevo scissioni e tutto si incorporava in un unicum fatto di un solo elemento. Dopo tanti anni di disarmonie e di contrappassi ora ero quasi giunto ad un dimensione profondamente unitaria. Non v’era più una natura definita e ben distanziata dal suo agire ed essa era una sol cosa con i tratti velati dell’umano esistere. La mia era ancora una forza cagionevole poiché doveva, malgrado tutto, integrarsi completamente con lo spirito univoco delle cose, ma ormai il sentiero era stato delineato e non mi restava altro che percorrerlo per acquisire, come una sorta di osmosi, le ricchezze che una volta appartenevano alla nostra indole unitaria e che negli ultimi millenni si erano progressivamente dissociate.
Quanta beltà spumeggiava nei più reconditi recessi della natura, una natura intatta e primordiale dove lo spirito doveva “obbligatoriamente” rientrare per percorre un cammino che era stato interrotto da sin troppo tempo. O anima gentile, illumina il mio percorso e prendimi per mano affinché io rientri, nella più assoluta totalità, in tutto quello che avevo voluto abbandonare.
Un ruolo tutt’altro che secondario veniva svolta dallo stare per proprio conto, una solitudine che fungeva da catalizzatore per unificare i mondi separati.
Una corrente di vita trasaliva dalla selvatichezza delle cose ed avvolgeva il mondo, così ch’esso sembrava inglobato in un mare vivente. L’aria era satura di vita e dovunque aleggiava un respiro ed un moto che alimentava il senso delle cose. Le rocce nella loro apparente immota stasi, parevano scuotersi per reclamare la loro insostituibile presenza e sembravano indicare la giusta via da seguire affinché, mentre percorrevo il mio sentiero, non smarrissi mai la direzione.
Udivo un continuo inno alla solitaria esistenza sempre più volta ad una unione ormai inevitabile ed imprescindibile. Ma il cammino era tutt’altro che facile, anche se la meta era in prossimità di essere avvistata. Come potevo riuscire nel mio determinato intento? E’ vero, lo sentivo dentro, ma non avvertivo che era stato acquisito in tutta la sua verità e consapevolezza. In altri termini avevo in me lo spirito teorico di tale riconnessione, ma quella teoria doveva trasformarsi con l’interiorità pratica del profondo.
Trascorsi alcune settimane in balia di eventi inaspettati, ma sapevo che era indispensabile che mi muovessi, altrimenti avrei convissuto con una stasi che agognava a qualcosa ma che non poteva arrivare in alcun luogo, essendo solo privo di attività dinamica……..
Quella sera uscii sul tardi
Quella sera uscii sul tardi perché sentivo che qualcosa mi stava chiamando. Camminai una mezz’ora, erano le undici di sera, ma c’era piena luce a quelle latitudini estreme. Guadagnai un dolce pendio boscoso e mi affacciai al di là di esso e, pur se non distinsi chiaramente le sagome che vidi, i miei occhi o, forse la mia mente, si posero su un branco di lupi che sinuosamente solcava il sottobosco dell’area. Svanirono subito dalla mia percezione, ma, ciò che mi fece trasalire oltre le soglie del divino, fu che qualche minuto dopo, verso est, già a notevole distanza, udii chiaramente - o fu la proiezione ancora della mia mente - il loro ululare, come una musica indomita che permeava la sala acusticamente perfette di un auditorium. Il mio auditorium era però alquanto più grande e si espandeva in ogni pertugio di quella fantastica natura selvaggia che mi circondava in ogni dove. Lì ascoltai per tutto il tempo che ulularono, forse qualche minuto, ma per me quel tempo che appariva così breve, mi sembrò infinito perché infinito ed indecifrabile era il vero significato di quell’ululare. Nei reconditi recessi del mio io, in quel particolare viaggio di ascolto che avevo voluto intraprendere, l’ululato e le gesta del lupo rappresentò, un elemento importante per la mia ricerca della comprensione.
Un primo ascolto arrivò dunque nel mio spirito quella notte, un ascolto che mi avrebbe spianato la strada verso altri successivi spesso indecifrabili “segni” e soprattutto verso la volontà di capire qualcosa che, pur se dentro me, come detto, era probabilmente presente, non appariva ancora allo scoperto in tutte le sue vestigia di chiarezza e di verità. Era infatti sicuramente giusta la riflessione di Farley Mowat quando scrisse: “Da qualche parte a est un lupo ululò in tono leggermente interrogativo. Riconobbi la voce perché l’avevo udita molte volte in precedenza..... Ma per me era una voce che parlava del mondo perduto un tempo nostro, prima che scegliessimo un ruolo in contrasto con esso; un mondo di cui avevo avuto un barlume e in cui era quasi entrato ..... soltanto per restarne escluso, alla fine, dal mio stesso io”
L’indomani, il sole espandendosi in un cielo terso si irradiava in ogni dove, e quella divina luce sembrava comporre lo sfondo di un palcoscenico fosforescente dove ancora gli attori dovevano presentarsi alla recita. Io, in ultima fila, attendevo con impazienza poiché desideravo assistere ad una rappresentazione che, stando alla trama che lessi, mi appariva estremamente interessante ed istruttiva. Presi a camminare lungo il bordo est del fiume per una decina di chilometri e, nel mio procedere, osservavo con attenzione le variegate immagini che a spaglio il luogo offriva in forma radiante. Curvai versi destra, questa era la volontà del corso di quelle acque, e, d’improvviso, vidi che in quel tratto il fiume s’apriva in un’ampia ansa placida e ben delineata. Osservai i bordi con il binocolo e trovai subito l’autore di quell’opera: il castoro. Infatti, oltre alle sua tana posta sulla sponda opposta (un intrico di rami e terra ben saldati fra loro a forma di piramide), dove il fiume restringeva, quell’ingegnere forestale aveva nel tempo ammassato e sagacemente intrecciato tra loro rami, bastoni, fronde e finanche un tronco di ragguardevole misura. Rimasi ad osservare ammirato e controllai con curiosità e particolarità tutto lo sviluppo di quella struttura. Una vera e propria opera di idraulica fluviale, con tutti gli elementi che, nell’ armonizzarsi fra loro, creavano quell’angolo davvero particolare e funzionale. Il tutto ovviamente non era il frutto di improvvisazioni e casualità, ma di un attendo studio della situazione ambientale che il castoro aveva elaborato per creare l’optimum per le sue esigenze vitali. Tralascio le descrizioni e le motivazioni tecniche di quel lavoro, ma la cosa più bella fu che anche quell’immagine, sicuramente realmente esistente, rappresentava un altro ascolto per il mio spirito.
Stavo comprendendo che i doni che potevo ricevere dal mondo selvaggio, favorito da un particolare punto di ascolto, non erano rappresentati da un’unica voce chiarificatrice, ma dall’insieme di tanti elementi che nel plasmarsi ed espandersi nel mio interno si coniugavano poi, probabilmente, in un profondo e tangibile significato. Intanto nel mio andare mi aspettava ora un nuovo personaggio della commedia. Appena superai di poco quella placida ansa, ad un centinaio di metri vidi un alce maschio immerso con le zampe nell’acqua e con il capo rivolto verso monte mentre masticava qualche leccornia che aveva carpito dal fondo melmoso delle acque. Fui molto circospetto, mi fermai, mi nascosi dietro un grosso abete e con pazienza spontanea mi misi ad ammirare la scena con tutto il corollario che si sviluppava d’intorno. Respiravo pian piano perché non avrei voluto rovinare il tutto per un mio modo di fare brusco e disarmonico. In fondo io in quel luogo mi sentivo, per lo meno in quella fase iniziale, come un ospite ed un amico e, un ospite che merita un tale appellativo, mantiene un atteggiamento estremamente rispettoso.
Pacatamente riguadagnai la via di ritorno e, rientrato nella capanna, mi accinsi a trascrivere sul quaderno gli ultimi eventi, nella forma più dettagliata possibile. Mentre scrivevo mi resi ancor più conto che la mia non era affatto una ricerca scientifica, ma semplicemente una ricerca che sgorgava dal più profondo dell’essere per non far scadere ogni nuova esperienza o emozione come un casellario monotematico in cui le conoscenze dirette venivano tradotte solo come eventi da classificare in una categoria scientifica con tutti i risvolti e le concatenazioni annesse. Gli interessi e gli aspetti geologici, etologici e biologici erano sempre stati al centro del mio lavoro e della mia vita, ma, in questa particolare situazione, essi erano fuori luogo. Mi venne a tal proposito una riflessione di Carl Gustav Jung che lessi molti anni addietro e che ora comprendevo al meglio: “Anche le piante mi interessavano, ma non scientificamente. Ero attratto da esse per un motivo che mi sfuggiva, e col sentimento che non dovessero essere estirpate e seccate: erano esseri viventi che avevano significato solo finché crescevano e fiorivano, un significato nascosto, segreto, uno dei pensieri di Dio. Dovevano essere considerate con reverenziale timore e contemplate con filosofica meraviglia. Ciò che poteva dire la biologia era interessante, ma non era l’essenziale” .
Trascorsi una settimana in quieta esistenza con brevi passeggiate, qualche pescata nel fiume e una serie di riflessioni che però non portarono a nulla di nuovo. Il vento bussava alla porta, il fiume procedeva tranquillo e le piante, nella loro maestosità, mi trasmettevano un senso di compagnia e di conforto, come se la loro presenza si insinuasse saldamente nel mio stato d’animo.
Il caldo di quei giorni era piacevole, ma sapevo che era effimero e nel volgere di poche ore poteva mutarsi in un improvviso baluginare di freddo, un freddo non solo dell’aria, ma anche dello spirito. Non nel senso letterale, ma puramente metaforico perché ognora mi chiedevo se il mio veleggiare nel mare della natura mi avrebbe mai portato da qualche parte o, meglio, se mi avesse donato un numero essenziale di ascolti al fine che io comprendessi tutti i miei ed i “nostri” errori umani.
Cambia la vita, sorge un nuovo giorno, trasuda il sentimento e il mutarsi del profondo essere trascolora come le foglie in autunno. Ed intanto i giorni stavano trascorrendo ed in effetti la stagione autunnale era ormai alle porte.
Stavo seduto sulla riva del fiume ed osservavo con analisi “microscopica” le rocce che in lontananza sovrastavano lo scenario di quel luogo. Erano rocce compatte che si facevano largo tra il fitto della vegetazione che pareva voler inglobare ogni elemento dentro il suo verde mantello. Alcuni grossi macigni di pietra mi dettero l’impressione che stessero come seduti ad osservare, proprio come stavo facendo io in quel momento, e subito la mia mente si pose in uno stato di “ascolto” per percepire da essi qualcosa che in apparenza si celava alla sensitività. Non so perché, ma mi sovvenne l’idea, o meglio la riflessione, che tutta la nostra vita osservava il mondo circostante sempre da un inamovibile punto di vista, senza mai cangiare il modo di guardare. Forse la stessa cosa vista da altra angolazione o addirittura alla rovescia ci avrebbe potuto consentire di approdare a nuove e forse entusiasmanti scoperte, ma solo se la nostra predisposizione interiore si fosse posta in modo critico e analista. Altrimenti tutto si sarebbe risolto in un vuoto simulacro dove ciò che appariva diverso era il solo frutto di un pensiero momentaneo che poco dopo sarebbe stato abbandonato per riporre in perfetto ordine il nostro cardine visivo e fintamente speculare.
Il giorno seguente
Il giorno seguente decisi di scrivere una lettera (e fu l’inizio di una lunga serie), non so a chi indirizzata, forse ad un fittizio anziano orso di nome Sigurd, comunque in ogni caso per il semplice piacere di farlo. Così annotai: “Caro Sigurd, ti ringrazio per la tua bella lettera che mi hai inviato. Le tue parole mi hanno portato la cara rimenbranza di te. Alla mia età la memoria corre spesso alla ricerca del tempo perduto, e tra i ricordi che più mi sono cari appare spesso l’assorta, placida mestizia, nei giorni in cui gli occhi della tua infanzia e quelli della mia giovinezza si volgevano attoniti al grande promontorio che appariva, improvviso, tra il verde degli alberi. Ahime’, quanti anni sono passati! Ma inutile è il rammarico per l’ineluttabile trascorrere del tempo, ne è possibile sottrarsi all’angoscia esistenziale perché ‘ducunt fata volentem, nolentem trahunt’.
Che posso dire di me?Ancora lamentazioni per la salute mentale che non è buona, e proprio ogni giorno apprensioni, tanto che il mio motto potrebbe essere ‘nulla dies sine die’……… Tanti affettuosi saluti, con l’occasione di vederti un giorno, un caldo abbraccio, Larsen”.
Rilessi ben bene la lettera, la misi in una busta, la firmai e la imbucai in una sorta di cassetta “metaforica” della posta ma che realmente mi ero costruito; anzi, ne avevo assemblato due: una per inviare ed una per ricevere. Chissà, forse speravo che un giorno un lupo, un orso, una lince o ad altro a cui scrivevo mi avesse lasciato qualche risposta!
L’ascolto nelle ore serali di un flebile e lontano ululato di un lupo lo presi come un interrogativo che esso mi poneva ed allora decisi di scrivere anche a lui una risposta: “Caro Taro, le stagioni volgono veloci e i nostri incontri si fanno sempre più rari. A me pare che la tua lontananza non sia soltanto fisica; sento che in te sono giustamente ormai recisi i legami della tua prima giovinezza. Son certo che le fattezze umane sono del tutto spente nella tua memoria ed estranei al tuo animo. Qui io rivivo le ipocrisie, le ambiguità e le corruttele del mio trascorso, ma mi accadono pure eventi straordinari in cui la tensione ideale, unico riscatto dell’anima, riappare, inattesa, come il guizzo di un lampo che spaventa e acceca un cucciolo; mi riferisco all’universale persecuzione che ha percorso il genere umano nei tuoi confronti. Non s’era mai assistito ad un accanimento tanto unanime: amici ed avversari ti hanno celebrato nell’oscurità, nella funesta tua esistenza, ed è singolare che una figura così carismatica ed imponente come la tua, ma nel contempo schiva, quasi anonima, si sia d’un tratto elevata al disopra del generale disinteresse, rivelando la vera statura della cattiveria dell’uomo in cui il rigore immorale s’era fatto stile di vita. Non che tu non ti sia nutrito di incertezze e dubbi e forse finanche di contraddizioni, ma ciò ti rende, oltre tutto, profondamente essere vivente e, per certi aspetti, sublime.
Ma fra tanti motivi di afflizione v’è pure una nota consolante, ed è la presa di coscienza di molti uomini di questo stravagante errore. Lo schiudersi di una nuova visione ha in sé qualcosa di miracoloso, ed appare l’unica confutazione possibile al pessimismo obbligatorio.
Con cuore, tuo Larsen”.
Firmai con diligenza la lettera e, come solito, “l’imbucai”.
“Tutto al mondo passa, e quasi orma non lascia”. Quanti ricordi sono legati alle esperienze vitali, quante speranze, ma tutto, nella vita, è sotto il segno della caducità. Ma pur bandendo le tristezze esistenzialistiche, la vita si svolge con una incessante dialettica, e la sintesi è il divenire, che è in fondo quello che conta. Ma mi viene un dubbio: che avesse ragione chi sostiene che ogni realtà è attuale, per il quale essa è un cambiamento continuo senza substrato permanente, e senza direzione stabile?
Il mio punto di ascolto mi induceva inevitabilmente alla meditazione, forse a causa della speranza di trovare delle risposte ai miei interrogativi ed al mio viaggio. Io m’accorgevo che v’era un velo, una soffusa presenza di quell’appagamento dello spirito, che a tratti non era privo di una sorta di accidia. Ovunque si scorgeva fin’ora una mestizia dinanzi ai dilemmi della distruzione della madre terra. Anche qui, come sempre accade a chi si soggiace ad una meditazione costruttiva, si mescolano momenti e personaggi immaginari con luoghi ed elementi realmente vissuti.
Fantasticherie! Ma mi prendeva un interrogativo che mi ero sempre posto: perché l’uomo vuole estinguere ogni cosa, se stesso compreso? Non so e non mi interrogavo su altro quesito.
Il sole era ormai alto nel cielo
Il sole era ormai alto nel cielo e la neve progressivamente si ritraeva; la coltre ghiacciata dei laghi lasciava, anche se lentamente, man mano posto al libero fluire delle acque, dopo sette mesi di immota stasi invernale. Dai lembi del manto bianco della neve apparivano gli ininterrotti tappeti di mirtilli e i morbidi cuscini dei muschi. Di tanto in tanto, affioravano anche i candidi e vaporosi licheni, cibo essenziale per la renna che qui contava migliaia di capi.
Con il passare dei giorni, la neve, che in inverno aveva ricoperto ogni angolo possibile, si era ormai fortemente disciolta. Restavano ancora imbiancati solo irregolari tratti esposti a nord o perché oscurati da tratti di fitta foresta, la grande taiga dell’emisfero boreale.
Quell’anno effimere nevicate primaverili si erano sovrapposte alla vecchia neve rimasta ancora dopo il lungo inverno, ma per l'Orso bruno era giunto il momento di destarsi dal suo lungo sonno. Affiorava ormai in lui un nuovo ritmo e si era estinta la profonda letargia che lo aveva pervaso per molti mesi. Con il rigido clima lappone e con il costante penetrante buio inverno, l’Orso bruno non aveva mai abbandonato la tana da quando l'aveva occupata dall’ultimo frangente di novembre; essa, pur nella sua angusta estensione, manteneva un caldo e confortevole aspetto con un giaciglio di rami e d'erba, era nascosta ai piedi di un anfratto sotto il groviglio delle radici di un grosso abete caduto da tempo a terra perché schiantatosi qualche anno addietro a causa del forte carico di neve e per il vento che, con il suo improvviso impeto lo avevo spinto fino a farlo cadere.
Fuori, di giorno, il sole era già relativamente caldo per quelle latitudini, e le notti erano sempre più luminose e l’Orso volle uscire dalla tana.
Dopo un girovagare libero ed impreciso, l'orso rientrò nella sua tana e si adagiò nella lettiera del giaciglio invernale. Era un fatto istintivo tornare ancora al suo vecchio covo di svernamento, anche se l’evento progressivamente diveniva più rado poiché il suo muoversi lo portava in luoghi sempre più distanti per la ricerca urgente di nuovi alimenti che l'avanzare della primavera portava. Dopo un così lungo digiuno qualunque cosa commestibile era ben accetta.
Anche una grande femmina in quei giorni lasciò momentaneamente il suo ricovero dove aveva svernato. Ma non stava sola, a differenza di molti altri orsi, poiché nella morbida imbottitura del giaciglio, c'erano tre cuccioli: l'orsa li aveva partoriti verso la fine di gennaio, nudi e minuscoli. Ora erano alquanto cresciuti ed erano ricoperti di caratteristici peli grigiastri. All’interno della tana erano molto dinamici, ma non avevano ancora lo spirito e probabilmente la forza di uscire dalla tana. Sarebbe dovuta passare ancora qualche settimana prima che l'istinto li portasse a lasciare il conforto e la protezione della tana. In quel primo frangente l'Orsa non si avventurò verso lunghe distanze, limitandosi a scavare gli acervi di formica rossa ai piedi di vecchi pini li attorno per saziare la sua fame tanto che ora appariva smunta e palesemente rimpiccolita rispetto all’inizio dell’inverno.
La neve se ne era quasi del tutto andata da tempo
La neve se ne era quasi del tutto andata da tempo e, con l'avanzare della stagione, il sole si alzava sempre più nell'arco del cielo, le notti erano sempre più chiare, e i raggi aprivano la strada al verde delle nuove erbe. Al ritiro della neve riapparvero anche i frutti del mirtillo rosso dell’estate precedente, conservatisi sotto la bianca coltre. Essi erano un’ottima fonte di alimento per gli orsi usciti dalle tane. I frutti li trovava ovunque perché il morbido sottobosco della taiga era ricoperto, quasi senza soluzione di continuità, di questi succulenti doni oltre che di muschi e licheni.
L'Orso bruno lasciò la prima volta la sua tana ai primi di maggio. Poi, per diversi giorni, girovagò nei dintorni nutrendosi di qualche nuova erba affiorante.
L'Orso bruno devastava i grossi acervi di formica e brucava le erbe tenere ormai sempre più trionfanti. La temperatura si fece alquanto mite e col trascorrere dei giorni non tornò più alla tana dove aveva svernato. Si spostò verso ovest, tra i boschi ormai riempiti dal gorgheggio del canto degli uccelli, molti giunti dalle zone di svernamento del sud per scamparsi dal grande gelo invernale nordico, e, come sua indole innata, si approntò un ricovero per la bella stagione in un luogo selvaggio ombrato d'alberi secolari e novellame fitto di abete rosso, di betulla e di pino silvestre.
Seguiva il mutare delle stagioni come ogni essere la cui sopravvivenza sia legata alle risorse della terra, e con l'avanzare della primavera, cambiava quartiere secondo un rinnovato istinto.
La giornata era particolarmente calda per quelle latitudini. L'Orso bruno uscì dal bosco sopra Josajarvi, su una traccia di sentiero fatto dal passaggio frequente di renne ed alci; era diretto ai bordi del bosco, in un'ampia radura dove stava nascendo della nuova erba.
Le foreste di betulla rinverdivano progressivamente, in contrasto con l’ultima neve che persisteva ancora sui dolci tunturi della Lapponia finnica, l'Orso brucò nelle macchie verdi che apparivano tra le coltre d'erba secca della stagione passata, e rivoltò i sassi in cerca di piccoli animali che catturava con estrema prontezza di riflessi. A tratti prendeva a scavare per portare alla luce le bianche radici di alcune piante.
Un giorno l’indole solitaria dell’Orso bruno prese il sopravvento e cautamente si allontanò da quei luoghi dove erano presenti altri orsi. Solo i giovani restarono assieme come pure le femmine con i piccoli che, a quell'epoca, ancora tenevano al riparo nelle tane. Gli adulti avrebbero condotto vita raminga e solitaria fino alla tarda primavera/inizio estate, quando i sessi si sarebbero cercati per breve tempo, per accoppiarsi. Poi ancora la solitudine fino all'autunno; dopo, alcuni sarebbero tornati a riunirsi subito prima dell'inverno, in quegli stessi luoghi che avevano abbandonato in primavera.
In un bosco primigeneo di pini secolari, tra radure già verdi di nascenti epilobi ed intrichi d'alberelli di betulla e salicone, l'Orso bruno si fermò quando giunse ad un vecchio giaciglio ai piedi di un enorme macigno muschioso. Con forti colpi di zampa scalzò una parte dell'accumulo di foglie morte, e si adagiò a riposare. D’attorno invece primeggiava immota e silente la verdeggiante foresta della taiga.
Era l'inizio vero e proprio della primavera
Era l'inizio vero e proprio della primavera, quando a fine maggio il verde tenue delle nuove foglie delle betulle cominciava a tingere gli alberi di un colore smagliante che contrastava col verde dei pini e degli abeti rossi e col biancore degli ultimi nevai.
L'Orso bruno si aggirò rovistando con gli unghioni entro lo strato di terriccio, ma non trovò nulla di commestibile. Più tardi continuò a scendere spostandosi verso il selvaggio vallone di Juminkeko.
Nel vallone ebbe la sorpresa di incontrare un ricco stuolo di renne che brucavano avidamente i bianchi licheni, ma pur accorti della presenza dell’orso, lo ignorarono completamente cosa che anche lui fece istintivamente. In quel frangente il grande Orso bruno era intento a rastrellare un grosso acervo di formica rossa e poi, forse perché in parte sazio di insetti e delle loro larve, si allontanò da esso per pascolare brevemente in una piccola radura che si apriva a pochi metri nel fitto della foresta. Poco dopo, rientrato nell’ombrosa abetaia, si adagiò sotto un secolare pino silvestre, simbolo incontrastato delle piante arboree della taiga finnica.
Nell'immoto specchio del lago di Maaselanjärvi le fitte foreste di conifere si riflettevano come una frastagliata fascia scura dominata sullo sfondo dalla cima del Tunturieko. L'Orso bruno pascolava allora nei pressi di un ristagno d’acqua prospiciente ad una palude, dove una distesa di erbe selvatiche si era impiantata grazie all’umidità della zona.
Quando alle tre del mattino il sole nascente cominciò a specchiarsi sul grande lago, l'Orso bruno si allontanò verso la boscosa bassura di Serrakkj dove tra muschi odorosi si ergevano variopinti massi morenici vivamente colorati da numerose specie di licheni endolitici.
L'Orso bruno si fermò improvvisamente e si mise ad annusare in tutte le direzioni. Era odore di carne in putrefazione. Dalla radura il vento portava anche lo schiamazzare degli immancabili corvi imperiali. L'Orso bruno cambiò direzione al suo andare, per seguire quella particolare scia odorosa.
Sui bordi di una depressione, trovò i miseri resti di un alce ucciso probabilmente dai lupi qualche giorno prima. Attorno, sul fango, un reticolo di orme di lupi, volpi e di un “temibile” ghiottone.
L'Orso bruno si avvicinò ai pochi resti dell’alce tra uno svolazzare irrequieto di corvi; si mosse attorno come a cercare le parti migliori, anche se riuscì a strappare ben poca roba, poiché gli animali necrofagi che lo avevano preceduto si erano già accaparrati le parti migliori.
Quando cessò ogni interesse alimentare, prima di lasciare il luogo, raspò del terriccio sulla carcassa, cercando di mascherarne i resti, spinto da un istinto atavico che gli diceva di celarli contro la voracità di altre bestie. E questo era il fare di ogni orso, ogni volta che avevano a disposizione la carcassa di un animale.
Lasciò poi la zona per seguire un sentiero verso valle, ma dopo un tratto mutò idea, deviò e si diresse verso la base di una collina.
L'Orso bruno risalì quindi verso la cresta del Tunturieko in cui nel primo tratto il bosco era ancora fitto ed intricato a causa del novellame delle betulle e dei pioppi tremuli. Sentì più volte il muoversi di un branco di renne cui non rivolse alcun segno di interesse poiché il suo obiettivo era quello di ritrovare una tana che sapeva nascosta sotto l’ombra di pini silvestri.
Intanto l’autunno
Intanto l’autunno aveva preso il suo corso e, alle sensazioni particolari che nascono in questo frangente dell’anno, faceva eco il mutare sfavillante dei colori che tingevano, come pennellate d’artista, tutto l’ambiente circostante. Le betulle si accendevano d’oro, le paludi rosseggiavano ed ingiallivano, le altre latifoglie cangiavano in una tavolozza muliebre dal rosso all’ocra, e, in ogni istante, si pareva cogliere il mutare del tempo. Proprio la stagione autunnale aveva infatti più di ogni altro periodo dell’anno un qualcosa che ispirava al mutare dello spirito interiore.
Comunque a quel punto mi tornò alla mente il recente mese di maggio, quando arrivai. In particolare gli ultimi giorni del mese mi colpirono in modo significativo. “Furono giorni intensi, diffusi, silenti, giorni sognanti ricchi di contrasti e di melodie selvagge. Vissi subito, quasi per intero, il mondo della taiga e i suoi legittimi abitanti. Un albero abbattuto e sagacemente rosicchiato, canali nell’acqua, ammassi di rami, terra e tronchi, corridoi irregolari: la vita e le gesta del castoro. Un mondo improvviso ed affascinante sulle rive di un fiume cristallino. Tra gli intrecci del sottobosco della taiga, camminai con un misto di curiosità e di sorpresa. D’improvviso un rapido e rumoroso battito d’ali: il gallo forcello, poi una beccaccia, nella palude più in là un chiurlo maggiore e nel limpido lago una strolaga mezzana. Mi girai e a terra, dopo che ebbi riconquistato il sentiero più a monte, e mi imbattei in un escremento di orso bruno e poi in giganteschi acervi di formica. Quanta meraviglia in così breve tempo. E poi l’incessante compagnia dall’alto del cielo del corvo imperiale, il re del grande nord, un indomito ed imperturbabile uccello che ha sempre affascinato le culture e le mitologie nordiche tanto da essere considerato, anche da popolazioni umane non in contatto tra loro, l’artefice primario della creazione del mondo. Una credenza che il corvo imperiale dimostrava ognora con la sua destrezza e la sua eccezionale resistenza. Ogni volta che ascoltavo il verso di un corvo mi veniva sempre spontaneo salutarlo interiormente e spesse volte anche materialmente con il gesto della mano. In fondo “i re” meritano il giusto rispetto!
L’indomani mi spostai velocemente per altra via a poca distanza dalla capanna, sempre alternando la maestosa foresta di indomite betulle, di abeti rossi e di pini silvestri ad altri tratti aperti grazie alla presenza di laghi, paludi e di improvvise radure. Poi, rientrato di nuovo nella foresta, un altro bellissimo incontro: un alce maschio estremamente comico nel comportamento e nelle gesta della fuga. Un essere simpaticissimo, confidente e fortemente attraente. Poi, riprendendo il sentiero, rinvenni, un lungo tratto di escrementi freschi di gallo forcello, di martora e di lepre variabile. Poi il frullo di ali di un di francolino di monte, le tracce su fango di un ghiottone, il passaggio di un’aquila di mare e il leggiadro e silente volo di un allocco di Lapponia. Quei giorni in cui la luce non scompariva mai non potevano mancare gli effetti inebrianti dei contrasti tra il sereno e il biancore delle nubi, dei lunghi tramonti rossastri, dei mistici stati che genera il vapore crepuscolare che sale dai laghi, il fantastico riflesso della grande foresta sulla loro specchiante acqua, l’arrivo a tarda sera di un cigno selvatico......
Anche il ritorno alla semplice capanna che stavo riassettando dopo il lungo peregrinare, le cose assumevano ugualmente una grande rilevanza. Appariva tutto così bello che mi sembrava d’essere entrato in un mondo surreale. Erano momenti intensi anche perché conditi con il fantasticare della mente che mi faceva sentire appieno la vita che albergava in quei luoghi, lontano dalle effimere e meschine illusioni dell’uomo. Mi rigeneravo completamente, sentivo nel mio dentro respirare la vita, pulsare le emozioni completamente scevre dalle influenze della contemporaneità antropica. Sentivo veramente una vita diversa, per la prima volta, così diversa ed intensa che credo non abbia forma veramente descrittiva. Le luci del grande nord sempre limpide e lussureggianti avevano anch’esse la forza di generare una sorta di sublime abbandono alle proprie interiorità e alle dinamiche riflessioni......”.
I colori dell’autunno
I colori dell’autunno affascinano, come ho già accennato, più di ogni altro periodo dell’anno. La policromia rende tutto profondamente magico e dona, con le spruzzate dei variopinti colori, un paesaggio che sembra plasmarsi dalle mani di un artista che dipinge, con una certa opalescenza impressionista, il mondo selvaggio che lo racchiude.
L’autunno che, piano piano ci conduce al lungo e bianco inverno, sembra prenderci per mano guidandoci in un dedalo di sensazioni e di luci che non è possibile cogliere solo con la spinta della fantasia, ma soprattutto con la visiva partecipazione diretta.
Nell’autunno vedevo il cangiarsi graduale della vita che, abbandonata a se stessa, dipartiva per sospendersi in un etereo ed infinito misticismo. Così il mio animo cambiava anch’esso e trasferiva in se un messaggio di pace e di quiete interiore dove la speranza e l’armonia prendevano fortemente il sopravvento. L’ambiente in cui vivevo mi ricordava marcatamente il mutare delle cose e il divenire ognora della vita.
I colori velocemente cangianti ispiravano ad un indescrivibile senso di meraviglia e di fascino e la vita in tutto il suo magico splendore annunciava in una forma nuova il suo continuo rinnovarsi. Un inno sincero alla gioia.
Io credo che vivere il proprio tempo nella dimensione voluta, nello spirito della libera continuità della natura e della mente, ispiri ad un profondo senso di illimitato equilibrio, sia con se stessi che con tutto il mondo circostante. E ricordo che in ciascuna vita alberga sempre un punto di ascolto, un punto dove anche le cose diverse, pur mantenendo le loro peculiarità, si fondono continuamente in un un’unica dimensione.
I giorni trascorrevano alacremente mentre le ultime vestigia della stagione che i nativi americani chiamano estate “indiana” andavano dissolvendosi ed io, sempre più preso dal mio peregrinare, sapevo che gli esseri selvaggi che quotidianamente mi accompagnavano come fantasmi nel fitto della foresta, mi erano profondamente amici perché, in cuor mio, ne dividevo le grevi minacce che l’uomo contemporaneo spargeva su di loro.
A simbolo di questi misfatti non c’era “vittima” migliore: il lupo dei boschi. Quella misteriosa presenza vanescente che sembrava materializzarsi ad ogni soffio di vento ed ad ogni rumore del bosco. Forse era più valevole per le emozioni dello spirito immaginare quella presenza che, paradossalmente, vederla direttamente.
Quanta ricchezza regnava nello spirito in quella selvaggia natura. Quanto mistero albergava nelle impronte della lince, del ghiottone o dell’orso bruno. Come Aldo Leopold ebbe a scrivere, “la wilderness è una ricchezza che può solo diminuire ma mai aumentare” così l’anima dell’individuo conscio di questo fatto si arricchisce giorno dopo giorno grazie al perfetto unisono tra le stagioni umane e quelle della foresta.
Io vivevo a fondo quelle sensazioni anche perché mi ripetevo soventemente che bisognava “trovare sempre la pace con se stessi per illuminare il proprio cammino”.
Un giorno
Un giorno, come ormai era mio solito, poco dopo le prime luci dell’alba, feci una lunga escursione. Avevo infatti la necessità di meditare cammin facendo poiché era sempre vigile in me la profonda necessità di trovare in me quei reconditi misteri cui cercavo di dare risposta. Poi, essendo trascorse quasi quattro ore, mi rimisi in cammino a ritroso seguendo un altro sentiero sotto un cielo sereno, reso ancor più benigno da alcune velature lattiginose che a mezzogiorno andavano quasi ad adagiarsi sulla foresta di Noderland.
Mentre discendevo il sentiero che portava al fondovalle, volsi lo sguardo ai monti di levante e a quelli di ponente, ove scorsi, al limite superiore della vegetazione, la fulva colorazione dell’assorta quiete delle giornate autunnali allorché il giallo intenso delle betulle s'accendeva come oro sotto la tiepida vibrazione del sole.
La lunga discesa, iniziata poco prima, terminava nel punto in cui scoprii altre vecchie capanne, che si susseguivano l'un l'altra, quietamente allineate sul ciglio del tracciato; stupiva che su quella piccola aggregazione di case non aleggiasse la sensazione di precarietà e d’anonimato, ma si distendeva - al contrario - la coltre quasi palpabile di un’abitazione antica e ininterrotta.
La vista che s'apriva da quel punto, che pur non era prominente, spaziava ampiamente sui monti Karden e sull'impervia e tormentata mole del Krugel, dagli impressionanti balzi rocciosi.
Nel lasciare quelle immagini mi diressi verso settentrione, passando nel punto in cui il sentiero rimaneva stretto tra il colle di levante e quello di ponente, quasi che la valle volesse teatralmente accentuare in quel punto il largo respiro che si sarebbe aperto di lì a poco all'approssimarsi della piana, in parte paludosa, di Storland. Mentre oltrepassavo la breve strettoia incontrai una lunga serie di imponenti secolari abeti, che si ergevano con un tocco di schiva solitudine ed apparivano quasi severi nella neutra colorazione che il tempo aveva steso sui loro tronchi. Avevo appena finito di volgere l'attenzione a quell'attonito gruppo di alberi, quando la valle s'aprì all'improvviso innanzi al mio sguardo con una dimensione nuova e una luminosità intensa, cui si univa una sensazione di estasi che impregnava quello scenario teatralmente manifesto. Mentre percorrevo il sentiero, l’improvviso grido di un rapace notturno fiaccò il silenzio di quella particolare situazione, quasi ad annunciarmi quel profondo senso di misticismo e di mistero che pervadeva l’aria di quell’ambiente selvaggio. E in ogni dove v’era la gran foresta della taiga che quasi senza soluzione di continuità raggiungeva gli avamposti più settentrionali della regione. Probabilmente nessuna rilevante struttura umana mi separava dall’estremo nord, ma solamente natura selvaggia, inquieta, perenne ed essenzialmente dinamica. Il significato più profondo della wilderness si manifestava nella sua più vera espressione.
Ormai ero giunto nella mia capanna, accolto da una singolare commistione di silenzio e di precarietà che nelle ore crepuscolari è propria del vivere in solitudine quando si è immersi in una primordiale foresta. Era sopraggiunta infatti la sera e sotto la luce incerta della luna, a tratti velata od offuscata da dense nubi, le ombre degli alberi parevano rappresentarsi emblematicamente come in una sorta di scenario teatrale ed il gran lago, affiancato al letto del fiume, rifletteva sul suo candido specchio la fittezza e l’evanescenza della foresta, quest’immagine resa possibile, come detto, dalla presenza della luna.
Ogni volta che rientravo nella capanna, essa mi risultava sempre più accogliente grazie ai grossi e rustici tronchi di pino assemblati magistralmente tra loro; un tocco di fascino veniva dato poi dalla colorazione esterna degli stessi poiché avevano assunto nel tempo un ingrigimento naturale che consentiva una perfetta ambientazione con il luogo in cui erano collocati. La capanna poiché era posta leggermente sollevata grazie ad una collinetta, consentiva di osservare dalla finestra o dalla veranda buona parte dell’ambiente circostante con un leggero senso di dominanza. Questo posizionamento permetteva di intravedere dal versante sud, il lago e il fiume distanti poche centinaia di metri sebbene gli alti e fitti alberi ne celassero una gran parte alla vista. Internamente vi era praticamente un’unica stanza i cui piccoli ambienti erano creati solo in senso dispositivo, cioè lo scrittoio e la libreria ad un angolo, la stufa al centro, un tavolo per mangiare vicino ad una finestra e così via. Il profumo del legno resinoso era sempre presente come se quella semplice dimora fosse stata eretta da poco tempo. Era bastevole qualche ora di assenza per percepire istantaneamente quel delizioso distillato di aroma.
Sovrastato da un cielo sereno
Sovrastato da un cielo sereno che la giornata novembrina volgeva al grigio, i monti d’intorno s’innalzavano puri nel biancore della neve che ne copriva le cime. Guardando verso settentrione si scorgeva nitida la valle di Karden, mentre a mezzogiorno quella di Boden si nascondeva alla vista dietro una tenera velatura di azzurro. Il sole che sorgeva alle mie spalle andava man mano tingendo di rosso i monti di ponente, mentre l’ampia radura su cui mi affacciavo si abbandonava quietamente alla luce che andava ormai trionfando. Intanto cominciava a cadere la prima consistente neve e i laghi già ghiacciati facevano a tratti fremere le membra quando le spaccature superficiali che determinava il forte gelo producevano dei singolari e un po’sinistri schiocchi che nel silenzio della foresta irrompevano come una sorta di tonfo, tanto da far credere che provenissero direttamente dal profondo dei misteri della natura. Sul terreno la neve bianca ed immacolata donava uno scenario incantevole, tanto che alcune volte sentivo un certo “fastidio” nel calpestarla, mi sembrava che rompessi un magico incantesimo di bellezza. E mi tornava in mente una celebre frase del poeta finlandese Aaro Hellaakoski quando scrisse: “Tietä käyden tien on vanki, vapaa on vain umpihanki”.
Un gran silenzio sovrastava la capanna, ma esso veniva rotto in certe giornate dalla rabbiosa voce di un vento di nord-est. Era un vento che flagellava ogni cosa con raffiche impetuose tanto da piegare le cime degli alberi, fino a volte a schiantarli. Ululava, sibilava, a volte con accenti acuti, a volte con struggenti lamenti. Intanto nel cielo si scatenava una lotta di titani con il vento che precipitando con forza verso mezzogiorno faceva balenare una sorta di turbinio sulle cime dei monti dense di nubi e già sovraccariche di neve. Scorgevo in quel vento la misteriosa simbologia dello sviluppo delle sensazioni profonde e dei mutamenti dello spirito. Nel vento che sospingeva con impeto le nubi mi si raffigurava la forza della coscienza morale e dell’amore che mi portava verso un momento dialettico che si concludeva in antitesi nell’attonita e placida serenità di ascoltare l’ululato del lupo.........
Era giunto il freddo mese di gennaio
Era giunto il freddo mese di gennaio, un mese che con forza rimarca costantemente la durezza del clima nordico. Un mese che però ha in se un fascino che raramente lo spirito ne rimane estraneo. La limpida e frizzante aria dei giorni sereni, il giganteggiare degli alberi colmi di neve che incurvavano pesantemente le chiome tanto da trasformare le loro attonite sembianze. L’immota stasi della grande taiga dove sembrava che il tempo fosse sospeso. Il fragore della neve quando vi affondavano le racchette nelle lunghe escursioni. E, nelle notti serene senza luna, la volta celeste grazie al buio assoluto appariva in tutto il suo splendore per l’infinità di stelle che sembravano coprire ogni spazio disponibile ed allora, senza soluzione di continuità, scintillando donavano la compagnia allo spirito e allo sguardo affascinato che le osservava. Ma, d’improvviso, il grande nord regalava ancora una sua esclusiva meraviglia. Luci fluttuanti cangiando colore e mutando dinamicamente forma e posizione, nella notte stellata riempivano il grande schermo del cielo. Brividi di luce illuminavano i più reconditi recessi dell’anima che nel profondo si espandeva nel grande mistero della natura. Era l’aurora boreale, la magica e leggiadra fiaba dell’emisfero nordico, una fiaba che non raccontava una storia definita, ma delineava nella sua interezza, un indecifrabile messaggio di unione universale e ancor più il continuo divenire delle cose. Questa luce del nord che sin dal tardo autunno si manifestava, donava sempre meraviglia e novità. Ed infatti ogni qual volta assistevo a quel poetico scenario, per me era sempre la prima volta e non rappresentava mai una visione abitudinaria distaccatamente osservata perché sin troppe volte ammirata. ……..
Il mese di febbraio, freddo e, quell’anno particolarmente nevoso, si annunciava con giornate dense di nubi che scurivano quasi sin dalle prime ore del tardo mattino. Fu in uno di quei giorni che, intento ad osservare il diffuso grigiore che si intravedeva al di là dei vetri, uscito nel mezzo della tormenta, ascoltai improvvisamente, sia pure in forma attenuata, l’ululare di un branco di lupi. Il mondo selvaggio, o meglio, quel che restava di un mondo selvaggio, si stava manifestando in tutto il suo splendore.......
La mia agitazione raddoppiava di giorno in giorno; l’ululato dei lupi che avevo ascoltato si sovrapponeva esattamente alla mia anima e a volte appariva come un’unica essenza variegata da cui mi sentivo fortemente attratto. Praticamente una sorta di anima sopra un’anima, un legame che fu rafforzato da ciò che una volta colsi negli occhi di un lupo, emblematica raffigurazione, come avevo più volte rimarcato, dell’essenza della wilderness.
Questo stato mi rassicurava e mi induceva a fantasticare. Cercavo di immaginare quello che sarebbe potuto avvenire nell’imminente futuro; il pensiero della singolare, trina attenzione, mi procurava un’esaltazione che andava tuttavia a mescolarsi ad uno stato di vaghezza, poiché sentivo che la mia identità forse stava per compenetrarsi, almeno in parte, con quella della foresta, e fors’anche con tutto il suo mondo selvaggio.
Una sofferenza più sottile si generava poi dalla inestricabile sovrapposizione delle “anime” cangianti che non riuscivo più a separare, sì che quella singolare commistione mi appariva sempre più come una misteriosa malattia dello spirito. Accadeva anche che nel corso delle mie solitarie meditazioni mi dedicassi talvolta a mettere a confronto l’aspetto e l’animo mio con quello dei lupi; nell’uno vedevo quasi la materializzazione dell’alba trepida e incerta, nell’altro la raffigurazione della pienezza dei meriggi d’estate.
Intanto il periodo invernale con le poche ore di luce e il clima particolarmente inclemente, mi portarono a scrivere numerose lettere ai miei ignoti destinatari che, come sempre, riponevo nella cassetta della posta “in uscita”. Ripeto, ne scrissi molte, ma una, che con grande accuratezza la compilai, mi sembrò più eloquente, singolare e profonda di altre e fu scritta per il “tempo”. Ne riporto lo stralcio più significativo: “Caro tempo, ti scrivo la presente per farti presente che da quando le mie membra vivono in questo solatio luogo, ho ritrovato delle sensazioni che avevo perduto da tanti anni. Ho ritrovato il tempo dell’anima, ma anche il tempo materiale che in effetti non scorre mai. Il concetto del tempo è il prodotto del nostro sviluppo mentale cui collochiamo, o meglio incaselliamo, momenti o azioni secondo uno scandire artificioso e preciso che ci siamo costruiti secondo uno schema molto relativo. Io nel riflettere, o nello scrivere, sono ancora prigioniero di questo concetto, ma ciò non mi toglie la possibilità di comprenderne la sua caducità.........
Per meglio significarti questo mio pensiero, ti trascrivo e ti dedico una bellissima poesia che fu scritta da un giovane indiano:
‘A che cosa ci serve il tempo?’
Allora nei tempi antichi,
non ne avevamo mai bisogno.
Noi ci orientavamo secondo il sorgere
e il calar del sole.
Non dovevamo mai affrettarci.
Non avevamo mai bisogno di guardare l’orologio.
Non dovevamo essere al lavoro
ad una determinata ora.
Noi facevamo quello che doveva essere fatto,
quando per noi era opportuno.
Ma noi stavamo attenti a farlo,
prima che il giorno volgesse al termine.
Noi avevamo più tempo,
poiché il giorno era ancora intatto
Questa mia riflessione è dunque il frutto del trascorrere la propria esistenza in una vita appartata, fatta pure di quesiti e di ricerche, ma che mi aiuta effettivamente molto a vedere le cose sotto una diversa luce.......
Per concludere, al fine di donarti una comprensione migliore del mio stato d’animo, ti riporto le bellissime parole di un testo taoista che ben raccoglie, nella sua brevità, lo starsene per proprio conto:
In un piccolo regno con poca popolazione,
farei sì che gli strumenti per dieci e cento uomini non fossero adoperati.
Farei sì che al popolo calesse di morire
E che lontano non se ne andasse,
che pur avendo carri e navigli
non vi salisse,
che pur avendo armi e corazze
non le schierasse.
Farei sì che tornasse alle cordicelle annodate
e di esse si servisse,
che trovasse gustoso il suo cibo,
belle le sue vesti, comoda la sua dimora,
dilettevoli i suoi costumi.
Gli stati vicinori si vedrebbero l’un l’altro,
le voci dei galli e dei cani
si risponderebbero l’un l’altra,
ma i popoli giungerebbero alla morte per vecchiaia
senza aver commercio l’un con l’altro
Con il cuore in mano, Larsen”.
Fu con difficoltà che riuscii ad imbucarla vista la pienezza della cassetta. Poi, come ogni volta, con un fare quasi meccanico, aprivo l’altra, ma inesorabilmente era sempre vuota. Ma io continuavo a sperare in qualcosa......
Il clima si era palesemente mitigato
Il clima si era palesemente mitigato. La foresta era tornata viva e verde, tiepidi i raggi del sole sulle radure arricchite di policrome ed estese fioriture.
Quando l'Orsa lasciò quel luogo, verso le ore serali, per scendere a pascolare nelle radure, i tre cuccioli ebbero la tentazione di seguirla; cercarono di farlo, ma la paura dell'incognito li pervase a poche decine di metri dalla tana, poi a finire di spaventarli pensò l'Orsa, che voltatasi, rudemente li cacciò indietro soffiando irata verso di loro. I tre piccoli corsero nella tana e dal suo imbocco osservarono curiosi e timorosi l'andare della genitrice attraverso gli alberi, fino a che sparve; sentirono poi ancora per un poco il rumore dei suoi passi, poi tutto tacque. I tre cuccioli si ritirarono vagendo in fondo alla cavità, e si rannicchiarono a dormire, affiancati come d'abitudine. L'Orsa sarebbe rimasta in giro per molte ore.
In una giornata particolarmente tersa, l'Orso bruno si sollevò dal giaciglio provvisorio per raggiungere un ampio pascolo chiuso tra i colonnati di abete.
Il sole era ormai alto nel cielo e illuminava ogni parte scoperta della foresta e si infiltrava tra le fitte fronde degli alberi.
L’Orso bruno sentiva uno strano richiamo che lo spingeva a muoversi. L'estro amoroso primaverile lo spronava a cercare una compagna.
Aveva pascolato per buona parte della notte e catturato piccoli insetti sotto i sassi; poi il richiamo inconscio lo riprese, l'istinto di amare, come avviene per tutte le creature della terra, lo sconvolse nuovamente, facendo scemare in lui l'interesse per il cibo. Osservò come attonito la radura; si aggirò senza meta nell'erba alta e umida, fino a che sentì qualcosa nell'aria, qualcosa di indefinibile ma tanto chiaro per il suo istinto primitivo, e con decisione si addentrò nella foresta. Ma nei pressi di un suo giaciglio estivo si aggirava un altro orso, il che lo infastidiva non poco, vista l’indole solitaria e niente affatto sociale della specie. Questo non impediva che in determinati luoghi, luoghi per esempio ricchi di alimenti, più orsi si raccogliessero l’uno vicino all’altro con il solo intento di mangiare senza nessun legame di socialità. Anzi, delle volte si accendevano delle vere e proprie baruffe tra i maschi con soffi e “ruggiti” da far paura, combattendosi anche con estrema violenza, durante il periodo degli amori.
Sbucò dal bosco
Sbucò dal bosco dove gli ultimi alberi radi delimitavano la palude. Di là l'Orso bruno dominava tutta quella particolare zona. L'erba era folta e profumata, ogni specie era in fiore, in quel mese che iniziava l'estate, favorite dalle piogge della primavera che finiva. Ogni angolo manifestava il rigoglio della vita e le tonalità del verde intenso riempiva ogni spazio disponibile.
C'era una sorta di pace e di indecifrabile armonia; solo il brusio di milioni di zanzare rompeva il silenzio. A tratti, a colmare quel brusio interveniva anche il canto degli uccelli maschi che attiravano le femmine e alcuni delimitavano il proprio territorio. Eppure il grande Orso bruno sentiva la presenza di un altro Orso; l'istinto sessuale gli diceva che aveva trovato una femmina, anche se a lui non era palese. Annusò con insistenza l'aria, camminando nella palude fendendo l'erba bagnata. A tratti si fermava ed alzava il capo in alto annusando con sempre maggiore insistenza. Incontrò nell'erba che si appiattiva nella palude, le tracce del passaggio di un altro Orso, trovò escrementi e sentì odore di urina: era femmina. L'Orso bruno sbuffò con eccitazione nell'annusare le esalazioni, e la femmina apparve improvvisa là dove prima non c'era che uno stentato pino silvestre.
Più piccola del maschio e di colore più chiaro, spaventata, la femmina si sollevò ritta sulle zampe posteriori, grugnendo e soffiando anch'essa, a sua volta eccitata, ma dalla paura per la comparsa del grande maschio nero, fissandolo mentre camminava verso di lei. L'Orso bruno ora avanzava con passo lento, guardingo, il pelo che ondeggiava cangiante lungo il filo della schiena. La femmina si abbassò sulle quattro zampe, aggirò un tronco e si diresse verso di lui, ora più quieta. L'estro sessuale da qualche giorno aveva preso anche lei, e anche lei come l'Orso bruno cercava istintivamente un compagno. I due orsi si avvicinarono fino al contatto fisico e si annusarono l'un l'altro a lungo, ovunque, sul muso e poi per tutto il corpo, mentre lentamente l'eccitazione e la paura di entrambi si affievolì fino a placarsi.
Dopo l'incontro la femmina si allontanò nel bosco, perché il sole era ormai alto. Il maschio non l'abbandonò, né lei lo cacciò. Le notti che seguirono ormai sempre illuminate tornarono a pascolare nelle radure, e se la femmina ignorava il compagno questi non la lasciava mai, mangiucchiando qua e là, ma sempre all'erta ai movimenti di lei. Le si avvicinava spesso, le sfiorava i fianchi, fingeva di aggredirla facendo alternare momenti di eccitazione insostenibili durante i quali diveniva aggressivo e suscitava la sua ribellione violenta, a momenti di calma e quasi di indifferenza.
Vissero così per diversi giorni, spostandosi a volte nella silente e selvaggia foresta della taiga.
In una “notte” illuminata ormai a giorno, nella palude apparve un secondo maschio. Più piccolo e di colore biondastro. Si fermò annusando innanzi a sé, sentendo l'odore della femmina ma anche quello dell'altro maschio. L'Orso bruno non accettò quella presenza; col pelo irto sulla groppa e lo sguardo vigile, sbuffò e corse incontro al giovane intruso. Si scontrarono con violenza, irosi; le fauci mordevano il folto pelo strappandolo a grossi ciuffi, e le grandi zampe vibravano colpi sui fianchi e sul muso. Ferite sanguinanti si aprirono sulle parti più vulnerabili della testa, dove gli unghioni giungevano più facilmente alla pelle. Il frastuono della lotta annullò ogni altro segno di vita e ruppe violentemente la quieta della teorica notte. Anche la femmina d'Orso si spaventò, e si allontanò verso i margini della palude.
La lotta durò poco; il giovane maschio accettò subito la supremazia dell'altro e abbandonò il posto con una fuga veloce, tallonato dal grosso maschio vincitore ancora teso per l'eccitazione, superò la cortina degli alberi in un rovinare rumoroso di fogliame e se ne andò.
Il grande maschio nero fermò la sua corsa sul limitare della foresta, poi si voltò e tornò a correre, ma verso la femmina. Dopo la lotta lo assalì la bramosia sessuale. L'orsa lo accolse timorosa, ma accettò le sue effusioni per un desiderio istintivo di essere sfiorata, un desiderio sempre più vivo che aumentò col passare dei giorni. E il cibo perse interesse anche per lei in quel periodo.
Gli approcci del maschio divennero più insistenti. La femmina cominciò a non scacciarlo più con tanta frequenza; cominciò anche lei a mordergli le orecchie e il collo, a leccargli il muso, a lottare come un cucciolo con lui nell'erba di una radura asciutta e nel sottobosco. Poi una sera, poco prima che la leggiadra luminosità del cielo si attenuasse lentamente, la femmina si concesse all'Orso bruno; si concesse una volta, due volte e poi ancora e ancora nella notte, ormai completamente avvinta dall'estro sessuale.
Trascorsero così diversi giorni e altre notti; si accoppiarono altre volte, poi il loro eccitamento scemò velocemente, fino a cessare del tutto.
Quando il grande Orso bruno prese la via verso i boschi della Juminkea abbandonando la zona e la femmina, questa era ormai fecondata.
Un giornata relativamente calda
Una giornata relativamente calda si preannunciava con un'alba alle due di notte.
In un'ampia tana ubicata sotto le radici di un abete caduto, tre orsacchiotti giocavano in attesa della madre che girovagava lontano in cerca di cibo. Erano nati durante l'inverno, partoriti mentre all'esterno il bianco mantello invernale celava la tana sotto uno spesso strato di neve che aveva mutato completamente il volto delle foreste. I tre cuccioli erano cresciuti succhiando il latte dalle mammelle della madre, una grande orsa di vetusta età che, nella sua vita, aveva partorito tante volte.
Un istinto innato doveva presto spingere l'Orsa ad allontanare i piccoli dalla tana; un evento importante nella vita degli orsacchiotti, che li avrebbe un giorno portati verso la loro indipendenza dalla madre.
Quando l'Orsa tornò dal suo girovagare notturno sui pascoli dove aveva cercato radici e insetti, trovò i cuccioli che sempre più coraggiosi e spontaneamente si erano avventurati lontano dalla tana, rincorrendosi e aggrovigliandosi, accanendosi contro pianticelle di pino con i loro già temibili unghioni, salendo sugli alberi più piccoli e rotolando spensierati sui morbidi cuscini dei muschi del sottobosco.
All'avvicinarsi dell'Orsa che si muoveva nella foresta, i tre cuccioli che stavano lottando animatamente avvinghiati in una apparente furiosa lite, smisero di giocare e si intimorirono; subito arretrarono verso la tana, e vi si nascosero. Poi riconosciuto il passo della madre tornarono fuori e corsero verso la sua sagoma scura, fino a lambire le sue gambe con continui gemiti di contentezza.
L'Orsa li leccò entrambi sul muso e in altre parti del corpo, come ogni volta quando tornava, e i piccoli cercarono le mammelle per soddisfare la loro fame.
Quando l'Orsa spinse i cuccioli a seguirla, allontanandoli dalla tana dove erano nati, il sole da tempo scaldava l’aria. Si incamminò con passo lesto verso il Laisioki; sapeva che in quella stagione i lamponi e i mirtilli neri erano ormai maturi per essere mangiati.
I cuccioli, indecisi e intimoriti da quell'evento che non conoscevano, vagirono e dopo qualche decina di metri tornarono d'istinto alla sicurezza della tana come altre volte avevano fatto all'allontanarsi della genitrice; ma questa volta l'Orsa tornò anch'essa sui suoi passi e li cacciò con violenza verso il bosco. Poi si mosse più piano, ed essi la seguirono standogli quasi tra le gambe, spaventati da quell'esperienza e dal mondo nuovo che vedevano e che non era più quella visione immutabile che conoscevano attorno alla tana.
Attraversarono la fitta abetaia dove grandi alberi svettavano radi su una macchia fittissima di rinnovazione, non ancora abituati a quell'ambiente e ai lunghi spostamenti; i tre orsacchiotti più volte restarono indietro, spersi nell'intrico delle betulle e degli epilobi che con le eriche e i rododendri infittivano ancora più l'infinita marea di pianticelle di mirtillo, e l'Orsa paziente tornava sui suoi passi a rassicurarli con la sua presenza.
Oltre il crinale discesero in una piccola radura nel bosco, e là la foresta si aprì più rada d'alberi, grandi, e grigi per l'abbondanza dei licheni. Lì un tappeto di mirtilli rivestiva la lettiera e gli orsi si prostrarono ad assaporare i dolci frutti.
Trascorsa qualche ora l’Orsa si stava muovendo insieme ai suoi tre cuccioli nel fitto della vegetazione. Dopo aver a lungo bevuto ad una risorgiva, il piccolo drappello, si mosse in direzione del fiume Olkijoki, dove la madre sperava di poter catturare qualche pesce in una particolare restrizione del fiume a lei nota o, in ogni caso, a reperirne qualcuno morto depositato sulla riva o galleggiante in quelle acque poco profonde.
Qualche giorno dopo con un andare sicuro e deciso, raggiunse le placide acque del fiume Olkiljoki dove conosceva un posto in cui le acque scorrevano in uno stretto passaggio, un decina di metri al massimo e per di più la profondità era di soli una cinquantina di centimetri. Entrò in quel tratto di fiume e con una attenzione guardinga e mirata, sondava a pelo d’acqua ogni cosa che si muoveva. Il suo scopo era quello di carpire qualche trota, di cui il fiume abbondava. La sua calma e la sua pazienza lo premiarono dopo un mezz’ora quando con un fare estremamente dinamico ed estremamente rapido, con le fauci catturò una grossa trota che divorò in pochi minuti, poggiandosi su un grosso masso che affiorava dall’acqua. Poi si rimise in posizione, attese con pazienza e il successivo passaggio di due trote lo trovarono impreparato poiché ebbe la fatale indecisione su quale delle due scattare per la presa. Il tentativo andò quindi a vuoto. Rimase nell’acqua per ancora un’ora, ma poi si spazientì e riconquistò il bosco circostante dove, dopo una plateale scrollo, si adagiò ai piedi di una centenaria betulla. L'Orso bruno squarciò con gli unghioni un gigantesco acervo, scoprì un formicaio e leccò di lena ogni cosa, divorando le larve e le formiche che come impazzite correvano ovunque.
La notte artica luminiscente avanzava sulle dolce colline dei tunturi. All'alba tornò la quiete apparente. Quando il sole splendeva già alto da oriente l'Orso bruno smise di scavare il terreno e di smuovere i sassi e si allontanò nell'ombra della foresta.
La primavera era ormai vicina
La primavera era ormai vicina annunciata anche dal ritrarsi progressivo della neve. Nel cielo fattosi più luminoso, piccoli gruppi di nuvole di un bianco purissimo correvano veloci verso ponente; intanto sui declivi dei monti, ove le betulle rinfogliavano, si stendeva una tenera vibrazione di verde. Alitava a tratti un vento nuovo che aveva al suo interno un calore inquietante. In quei giorni l’indugiare dei tramonti tingeva le cime dei monti di un rosso intenso che prima di spegnersi mutava man mano nel viola.
Proprio in uno di quei meriggi m’ero incamminato lungo il sentiero ben evidente che, volgendo a settentrione, fiancheggiava le pendici dei monti di levante; seguivo la stradicciola assorto nei miei pensieri quando, nel mutare lo sguardo verso il fondo della valle, ove remote apparivano le acque del Sarekin che andavano sciogliendosi, scorsi le sembianze di una sfuggente lince che, al di là di un filare di alberi, si dirigeva lentamente verso un fiume secondario. Fu un’osservazione più unica che rara vista l’elusività di questa specie. Con una determinazione che pur non mi era consueta, ma con molta cautela, scavalcai un ammasso casuale di rocce che delimitava in quel tratto il sentiero e mi diressi a piccoli passi verso quel grosso “gatto selvatico” illuminato dall’ultima luce del tramonto.
Fu uno di quei momenti raramente concessi ai mortali, il momento in cui gli animi, nel compenetrarsi l’uno nell’altro, insieme annegano nel grande respiro della natura circostante, anche perché in quel caso la lince era per me una sorta di anello di congiunzione tra il selvatico e l’addomesticato, unico connubio che si confaceva a pieno con il mio limitato spirito di essere umano forse irreparabilmente allontanato nella sua profonda entità dal mondo autentico della natura indomita.
Nei giorni che seguirono
Nei giorni che seguirono ritornavano con insistenza alla mia memoria tutti quei fugaci momenti dell’incontro con i lupi e soprattutto con il loro ululato; ne analizzavo le pause, le titubanze, la vibrazione dei suoni, il colloquiare immaginario con gli sguardi fuggevoli, ma ricordavo soprattutto d’aver scorto negli occhi di un lupo, in singolare sintonia di quanto accadeva a me stesso, l’inconscia percezione della precarietà del momento. Cadevo poi in una sorta di angoscia quando mi soffermavo a raffrontare i dubbi che alitavano nello spirito, quando mi sforzavo di reintegrarmi, sia pure in forma relativa e umanoide, con il selvatico, la cui difficoltà spronava, come per una sorta di contrappasso, le mie incertezze.
Ma pur mi tumultuava nell’animo un’ansia febbrile, un’irrefrenabile desiderio di plasmare il qualche modo la realtà che mi circondava, quasi che ciò fosse la trasposizione del travaglio che mi coglieva quando innanzi a una sorta di tela immacolata della natura tendevo lo sguardo alla ricerca dell’assoluto, per approdare poi al ridimensionamento di me stesso, preso nella realtà dei miei limiti in parte compromessi.
Mi maceravo in tali pensieri quando, dopo qualche giorno, rividi fugacemente, sul bordo della foresta, il “fantasma” sfuggente di un lupo; lo incontrai sotto il verde cupo di immensi abeti, luogo ideale per raccogliere le vicende di questi ameni personaggi. Nella foresta poi sentivo il crepuscolo della convivenza solatia, tanto simile alla mia. L’eloquente silenzio di quella immensa natura, la smorta luce che filtrava dal fitto dei rami, l’aggirarsi circospetto del sibilo del vento, la pacata armonia degli eventi, netti e scanditi senza mai trasformarsi in situazioni di banalità, disponeva il mio animo ad una sorta di stato di quiete e di meditazione.
Ma l’incontro di quel giorno fu per me motivo di una particolare inquietudine, perché il lupo, evitò ogni contatto, anche il semplice sfuggente sguardo. Il lupo aveva confermato la sua indole elusiva in una creatura quasi “chiusa”, una specie di sfinge che volgeva la sua attenzione verso l’ignoto della foresta.
Nei giorni che seguirono cercai inutilmente di trovare una giustificazione al comportamento del lupo, seppure appariva giusto e sacrosanto; per tranquillizzarmi mi dicevo che forse l’ostentata indifferenza di quel selvatico fosse scaturita dalle sottili schermaglie tra l’uomo dominatore e distruttore e un essere perfettamente integrato in una unità universale fatta di un solo concreto elemento: l’olismo di tutte le cose esistenti.
Quel travaglio stava però per risolversi, perché, dopo qualche giorno, scorsi nuovamente un lupo, forse lo stesso di prima anche se questa volta ci incontrammo, senza volerlo, in un’ampia radura nel fitto del bosco.
Quel rinnovato stupore durò più di una ventina di minuti, fin quando, approssimandosi l’imbrunire, un colpo di scena tanto straordinario, quanto meno atteso pervase la situazione; mentre stavo nascosto tra gli alberi al margine di quell’area aperta ad osservare quel lupo, questi, come se spinto da una forza incontrollata ed ad esso estranea, si voltò, o per lo meno così fu la mia interpretazione, con il suo profondo sguardo verso la mia direzione tanto che riuscii con il binocolo ad incrociare direttamente i suoi occhi fieri ed imperscrutabili. In quei interminabili momenti l’impazienza del mio essere si dispose all’attesa, ma mai pochi istanti trascorsero con tanta lentezza. Finalmente il lupo volse il muso verso l’alto e cominciò ad ululare. Io rimasi attonito e paralizzato anche perché quel misterioso lupo che ululava sembrava farlo idealmente per me, per salutarmi, ma soprattutto per rimembrarmi, nella mia metafora interpretativa, lo spirito vero del selvaggio........
Un giorno presi a dipingere
Un giorno presi a dipingere un lupo anche se l’arte pittorica non era usuale per me. Ero infatti piuttosto limitato nella tecnica e nelle rifiniture, ma un piccolo “talento” forse mi apparteneva. Impiegai una quindicina di giorni per svilupparlo ed ultimarlo e, in una prima fase, forse per una sorta di distrazione, osservavo il dipinto con una certa superficialità. Poi d’improvviso cominciò a svelarmi un profondo significato, come se quella piccola opera fosse il frutto di altro autore: la figura del lupo era ritratta a dominio di una grande vallata riccamente boscata che s’apriva sul diffuso biancore del cielo. Il lupo era effigiato nell’atto di osservare attentamente gli elementi di quella articolata valle. Tuttavia dalla mestizia di quello sguardo che si perdeva in quegli ampi spazi, si capiva che una sorta di doloroso presentimento albergava in quel lupo, un presentimento di incombente minaccia per gli atti più cattivi perpetrati dall’uomo verso la sua specie e la natura tutta. Dal suo sguardo infatti sembrava palesarsi chiaramente questo “pensiero”. Non a caso la luce del dipinto andava a posarsi sull’espressione del fiero predatore con una vibrazione che si esaltava a confronto dei toni freddi che dominavano la restante parte della composizione; nella quieta ombra goduta nella semplice abitazione di quei lunghi meriggi estivi la solitaria luce del quadro sembrava vibrare di una propria sonorità, tanto forte era la sua prevalenza. A quel punto interiormente ero sempre più convinto che non fossi stato io l’artefice di quell’opera!
Dopo aver collocato il quadro, ormai analizzato con attenzione, in una parete libera della capanna, incominciai a trascorrere molto tempo nella contemplazione del dipinto, che esercitava su di me un’attenzione crescente; questa non proveniva tanto da una emozione di natura estetica, quando dal concreto smarrimento da cui fui preso quando mi parve di scoprire che la mia personalità s’era misteriosamente sdoppiata, per riapparire nel lupo effigiato nel dipinto. La straordinaria trasposizione mi sembrava opera di un bellissimo e sagace sortilegio operato da un chissà quale misterioso evento come se esso avesse in un certo qual modo, con un atto di magia, accentuato quella riflessione per far rigermogliare in quel vuoto simulacro, il richiamo del lupo selvaggio che in fondo alberga nell’animo di chiunque vuole riconnettersi con la madre terra. Capii ancor più di quando fossero penetranti quelle forti immagini ormai sublimate nell’unione profonda con il cuore della wilderness e in fondo anche con la pacatezza e saggezza dell’ascolto.
Il crepuscolo della sera
Il crepuscolo della sera del 7 luglio concluse un giorno movimentato ed affascinante. Nell’arco di solo sei, sette ore avevo avuto la fortuna di poter vedere direttamente alcuni dei più “illustri abitanti” che vivevano vicino al mio “eremo”.
Era tarda mattina quando decisi di compiere una breve escursione con il proposito di non allontanarmi eccessivamente dalla capanna. Giunto all’interno della fitta foresta dove un dolce declivio sembrava essere contenuto nel basso da un filare di grossi massi di granito riccamente adornati con licheni rossi e gialli, vidi raccolti, in posizione di riposo, tre lupi, ognuno coricato su un fianco. Loro non mi videro, né mi sentirono, poiché il flebile movimento dell’aria era a mio favore ed io ero posto ad almeno una cinquantina di metri. Fu grazie al mio potente cannocchiale che discernevo con sufficiente chiarezza le sagome dei lupi, ma il loro pressoché totale immobilismo non mi permise una visione nitida e ben definita. Attendevo con pazienza che prima o poi si rialzassero, il che mi avrebbe consentito una più precisa osservazione. Ma la stanchezza che durante l’immota attesa si fece sentire (quasi un paio d’ore circa), mi portò a distendermi per qualche minuto, e quei pochi istanti furono fatali. Infatti, quando al sentore di un esile fruscio mi rimisi in posizione di osservazione, la delusione fu totale. I lupi non c’erano più! Fu un momento di rabbia interiore che preferisco non soffermarmi nella descrizione! Presi la mia attrezzatura, caricai lo zaino e mi spostai felpatamente per circa un chilometro verso nord con la speranza di poterli ancora rivedere; ma fu tutto inutile. I lupi erano svaniti nel nulla. Mi sedetti a terra con il solo binocolo in mano per scrutare se si muovesse qualcosa in direzione di una fascia aperta ad un centinaio di metri da me. Fui fortunato! In quel momento, “forse per la legge della compensazione”, con la sua andatura un po’ altanelante stava passando un ghiottone, una specie rara e in genere molto elusiva, difficile da osservare. Attraversò la radura, si fermò per un istante nei pressi di una grossa pietra e poi ripiegò nella fitta pineta di confine e scomparve alla vista. Fui comunque molto soddisfatto dell’osservazione, perché sin’ora il 90% dei rilievi che avevo fatto intorno a questo effimero mustelide si erano conclusi esclusivamente con il rilevamento di piste nella neve, nel ghiaccio o sul fango, rilievi di per se bastevoli al mio spirito, ma l’osservazione diretta mi consentiva di mettere a fuoco meglio l’autore di quelle tracce.
A quel punto mi presi una pausa di riposo per sorseggiare una tazza di caffé caldo che avevo nel termos. Riposai per una ventina di minuti e poi mi rimisi in cammino, dirigendomi verso il fiume, lì molto vicino. Al fiume osservai sull’altra sponda la grossa tana di un castoro a me già nota da tempo. Più a valle un intreccio di tronchi abbattuti e ramaglie sigillavano una sua classica diga e tutt’intorno i monconi di tantissime betulle e ontani “abbattuti” nel corso del tempo da questo formidabile roditore. Ma pur se le mie osservazioni erano concentrate in quei dettagli, con la coda dell’occhio vidi un movimento a pelo d’acqua: era proprio lui, il caro castoro che con la bocca trasportava un ramo probabilmente da poco reciso. Fu bellissimo poterlo vedere così facilmente anche perché in precedenza non mi era quasi mai riuscito a farlo e, le poche volte, sempre al crepuscolo con luce molto attenuata. Si diresse con sicurezza verso la sua diga e con precisione chirurgica inserì nella già stretta rete di rami questo nuovo elemento. Poi girò repentinamente su se stesso, tornò per una ventina di metri nella medesima direzione del tragitto di andata percorrendo alcuni tratti anche sott’acqua per poi virare verso sinistra e approdare sulla sponda del placido fiume a una decina di metri dalla sua tana. Rimase sul bordo per qualche minuto poi raggiunse un alberello di betulla e cominciò a roderlo. Impiegò solo pochi minuti e la piantina venne giù. A quel punto non si interessò di essa, ma rientrato nell’acqua guadagnò, come costume, l’ingresso della sua tana da sott’acqua, tana che, come ho già scritto, in superficie era ben sigillata da fango accuratamente spalmato e ben compattato. Attesi una mezz’ora ma non registrai altro movimento. A quel punto se fossi stato organizzato per rimanere più a lungo lo avrei fatto, ma alcune faccende alla capanna mi chiamavano alla via di ritorno. Mi allontanai dal fiume e riguadagnai un vecchio sentiero ben battuto che conoscevo palmo a palmo. Nell’andare, ponendo sempre molta attenzione a ciò che calpestavo o a quello che sentivo d’intorno, a metà percorso attraversai un'ampia radura, a dir vero una palude, nel punto in cui il sentiero la lambisce sulla destra poiché lì il fondo era più duro. Mi soffermai qualche istante e, attirato da un incessante gracchiare di due corvi imperiali, volsi lo sguardo verso il cielo anche se alquanto ristretto a causa del circolo dei grossi alberi che si estendevano ai margini di quello spazio aperto, ma fu cosa gradita nel vedere il libero e armonioso veleggiare di un adulto di aquila reale, visione migliorata grazie all’ausilio del mio binocolo. Il rapace stava palesemente sfruttando una corrente di aria calda per guadagnare quota senza dover ricorrere al battito delle ali e spendere energia; poi però il suo fare fece aumentare il cerchio dei giri e i grossi alberi di pino silvestre mi celarono il rapace alla vista. Rimasi in osservazione e fui premiato - anche se solo per pochi istanti - qualche minuto dopo, poiché la possente aquila, probabilmente una femmina, riapparve alla mia vista (sempre “scortata” dai due corvi), ma in questa occasione più in alto e, diversamente da prima, nel classico volo “scivolato” che la portò in breve tempo in direzione nord scomparendo definitivamente dal mio binocolo. Quel fugace avvistamento attivò nel mio spirito tutte le rimembranze degli anni passati quando studiai costantemente la vita delle aquile e in pochi istanti la mia mente rappresentò a se stessa tutte le scene e le sensazioni che avevo provato per sì lungo tempo. Ora ero alle prese con la mia particolare ricerca, ma nel mio cuore, insieme ad essa c’era sempre un ripostiglio dedicato a quel formidabile rapace. Sapevo bene che l’aquila in quelle contrade aveva tre nidi di cui due su roccia ed uno su un grosso abete il cui cesto, collocato vicino al tronco poco prima della cima, raggiungeva uno spessore di almeno due metri. Intanto si stava facendo tardi e ripresi il cammino, ma un ultimo evento mi attendeva. A circa un chilometro dalla capanna il mio sguardo si posò su grosse orme di orso bruno che qualche ora prima era transitato in quel luogo, certamente dopo il mio passaggio della mattina quando avevo intrapreso la breve escursione. Poco oltre vi era un grosso escremento cui era possibile discernere con chiarezza il pelo di un mammifero che non identificai, probabilmente una carcassa che il plantigrado aveva trovato in qualche posto della foresta. La pista si dirigeva verso est, ma il crepuscolo ormai incipiente mi fece desistere e ripresi il mio andare verso la capanna, che raggiunsi dopo circa una ventina di minuti.
Rientrai euforico e soddisfatto. Quel giorno ero stato fortunato ed ero stato, per così dire, salutato dai miei nobili amici che armoniosamente davano vita a queste stupende contrade. Le orme dell’orso mi fecero immediatamente ricordare quanto scrisse Adolph Murie, la cui nota avevo utilizzata come incipit su un mio documento scientifico sull’orso che avevo scritto qualche anno addietro….. “Ricordo la prima impronta di orso che vidi in vita mia...... Tutto ciò che vedemmo fu un’impronta in una pozzanghera di fango. Ma l’impronta era un simbolo, ancora più poetico che il vedere lo stesso orso - un approccio delicato e profondo allo spirito dell’Alaska selvaggia. In qualunque momento l’impronta di un orso può creare un’emozione più forte che il vedere l’orso stesso, perché viene chiamata in gioco l’immaginazione. Ti metti a osservare accuratamente il paesaggio, aspettando di vederlo comparire a ogni momento, mentre l’attenzione si affina e si rinvigorisce. L’orso è da qualche parte e può essere dovunque. La zona si è improvvisamente vivificata, ha acquisito una qualità nuova e più ricca”.
Una riflessione bellissima che nella mia vita che stavo svolgendo nella taiga ebbi la fortuna di vivere tantissime volte, praticamente ogni volta che mi imbattevo nelle orme di un animale selvaggio. Fu infatti così per la lince, per il lupo, per la lontra, per l’alce e così via. La ricchezza che mi offrivano quei posti era sempre manifesta anche quando il dono era parzialmente celato.
Ma la cosa che mi risultava ancor più importante veniva dal fatto che - oltre agli indubbi episodi tangibili prodotti da quelle osservazioni faunistiche dirette - l’insieme di quegli eventi avrebbero arricchito enormemente il mio continuo “ascolto interiore” che, sommandosi l’un l’altro, svolgevano la loro inconfutabile ed ignara parte al fine di condurmi progressivamente verso la giusta “comprensione” cui la mia mente tendeva.
Nella capanna ravvivai la stufa e prima di dar corso ad alcuni lavoretti urgenti cui dovevo por mano, annotai sul quaderno il significato e gli eventi testé descritti.
Assistere ad una parata di corteggiamento
Assistere ad una parata di corteggiamento di gallo cedrone è veramente spettacolare e trasferisce a chi osserva un senso di spavalderia e di sicurezza, poiché così apparivano i modi di fare dei maschi di questo grosso tetraonide. Il periodo primaverile era iniziato e la neve stava poco alla volta ritirandosi, anche se in molti punti ve n’erano ancora parecchi centimetri. Stavo muovendomi con lo scopo di andare in un mio capanno di osservazione, poiché di sovente mi ci recavo per osservare i lupi. Mi trovavo ancora nel fitto della foresta quando, sulla destra, a poche decine di metri, mi venne di ascoltare un “chiacchiericcio” inusitato che non misi subito a fuoco poiché la mia mente era concentrata sul procedere verso il capanno. Mi fermai, mi spostai leggermente verso sinistra e abbassandomi sulle ginocchia, protetto da un grosso pino silvestre, puntai il binocolo verso una radura che si apriva di lì a poco. Era in atto una parata vera e propria di corteggiamento dei maschi di gallo cedrone. Ne riuscii a contare almeno sette e, focalizzandone uno in particolare, notai tutto il suo tipico e celebre modo di agire. Il capo ed il collo protesi verso l’alto, la barba arruffata, le ali un po’divaricate e la coda completamente aperta a ventaglio. Il soggetto era a terra, a differenza di un altro che si trovava più in alto posato su un ramo. Emetteva, come d’altronde gli altri, il caratteristico canto d’amore. Mi spostai leggermente per vedere se c’erano delle femmine ed infatti, sul lato ovest del bosco, un piccolo gruppo di esse, anche se con un procedere un po’ riluttante, si avvicinavano a quella particolare “arena”. Dalla letteratura ero a conoscenza che per l’accoppiamento risultava indispensabile l’eliminazione o per lo meno la riduzione dell’iniziale aggressività che poteva istaurarsi tra il maschio e la femmina. Infatti, grazie a numerose osservazioni fatte, si era visto che le femmine scelgono soprattutto quei maschi che adottano un comportamento di equilibrio tra quello dominante della parata a quello di sottomissione. Qui, nella grande taiga, la popolazione dell’urogallo era cospicua, a differenza di altri distretti ed infatti, a parte questo momento del corteggiamento, durante il mio soggiorno e soprattutto durante il mio peregrinare in svariati punti della foresta, galli cedroni, come anche di forcelli e d francolini di monte, ne avevo sempre incontrati in gran numero (oltre ai frequenti escrementi che trovavo un po’ dappertutto). Ovviamente fuori dal periodo riproduttivo, maschi e femmine trascorrevano vita ben separata e anche durante la fase riproduttiva era la sola femmina ad occuparsi delle uova e dei pulcini.
Rimasi in loco per almeno un’oretta, ma poiché il tragitto che dovevo percorrere era abbastanza lungo, a malincuore dovetti lasciare la zona anche perché il richiamo del “re della foresta” mi spingeva interiormente a soprassedere alle altre meraviglie che mi si offrivano. Comunque sapevo che quando non ero impegnato con i lupi, avevo tutto il tempo per altre casuali o mirate osservazioni.
Infatti, era in mia previsione che la settimana successiva mi appostassi, nella giusta distanza, verso una tana di castoro, per osservare con meticolosa attenzione, tutto l’ingente lavoro di questo formidabile “ingegnere idraulico-forestale”. E poi mi attendeva anche un bel nido di falco pescatore cui tenevo in particolar modo al fine di studiare tutte le salienti fasi della sua incredibile tecnica di caccia in acqua. Ad una coppia di aquila reale avrei infine dedicato almeno una decina di giorni fermandomi in loco con la mia tenda; questo, non solo per osservarne il procedere della loro vita selvatica, ma anche per rimembrare i miei anni giovanili cui tante stagioni dedicai a questo grande rapace e finanche la tesi della mia laurea.
Il resto delle osservazioni, vista la ricchezza faunistica delle zone in cui mi muovevo, sarebbero venute spontaneamente da sole.
Un nuovo amico
Un nuovo amico arricchì la mia piacevole solitudine nella mia capanna. Si trattava di un bellissimo esemplare di Allocco di Lapponia, il grande gufo grigio, che veniva molto spesso in pieno giorno a posarsi sopra un trespolo che avevo proprio di fronte alla finestra dell’angolo cucina. Stava lì per molte ore ed io lo osservavo con ammirazione e meraviglia, poiché non si limitava a starsene in quieto riposo sul posatoio, ma soventemente si gettava a capofitto a terra per carpire le sue prede preferite: arvicole, topi, lemming di foresta. E’ pur vero che il luogo era facilitato dalla presenza dei micromammiferi poiché a terra vi erano molti briciole che cadevano giù da una limitrofa mangiatoia che da tempo avevo predisposto per alimentare, soprattutto durante il periodo invernale, i piccoli uccelli della taiga. Kalevi (questo è il nome che diedi all’allocco) non era affatto interessato all’andirivieni degli uccelli, solo di tanto in tanto si limitava ad osservali per poi, subito dopo, concentrarsi verso terra per scovare, con il suo formidabile udito, le sue prede. Non di rado passava persino la notte sul suo posatoio.
Nei primi giorni non avevo il coraggio di uscire dalla capanna per non mandarlo via ed attendevo che lui se ne andasse spontaneamente. Ma poiché la frequentazione divenne tutt’altro che sporadica, alla fine decisi di uscire ugualmente dal retro della casa e, con passo felpato, camminavo a debita distanza, e il caro Kalevi pur guardandomi incuriosito non andava via. Trascorse così il tempo, ma un giorno ci fu una grande e gradita sorpresa. Kalevi stavo sul suo posatoio, mentre un leggero nevischio alimentato da un flebile vento arricchiva la scena rendendola quasi fiabesca. A quel punto mi decisi. Calzai gli stivali, uscii delicatamente dalla porta principale e, sempre con un fare estremamente calmo, mi avvicinai a piccoli passi verso di lui. Pensai subito che sarebbe volato via, ma ciò non avvenne e, mentre il vento muoveva le sue soffice piume, un passo dopo l’altro mi portò a solo cinque metri da lui. Ci fissammo negli occhi, poi Kalevi si scrollò dalla neve che ora cadeva più copiosamente e l’unico gesto che fece fu quello di preparasi bene con le zampe, forse pronto per fuggire. Io restai fermo ed infatti il leggiadro allocco rimase a guardarmi. I suoi occhi sembravano riflettere un senso di bontà e di fiducia nei miei confronti, sperando in cuor mio che quella sensazione fosse realmente sentita dal rapace. Quei pochi istanti mi sembrarono un’eternità, poi, sempre lentamente, tornai indietro e con il cuore gonfio di gioia e di stupore rientrai delicatamente nella capanna. Sembrava proprio che Kalevi avesse accettato la mia presenza tanto che nella mia mente pensai ad una sorta di metempsicosi. Da quel giorno, quando il soffice rapace era nella capanna, io uscivo tranquillamente per le mie incombenze (prendere la legna, sistemare qualcosa, ecc.) e lui, pur osservandomi attentamente, rimaneva sul suo ormai “nobilitato” posatoio. Quando si diviene, sia pur simbolicamente, amico con un essere selvatico, lo spirito della vita e le luci dell’anima sembrano arricchirsi di un qualcosa di indefinito ma che più o meno ben rappresenta “la libera continuità della natura selvaggia”. Una situazione del genere non l’avrei mai immaginata, ed in cuor mio ringraziavo i doni che la natura ci offre così generosamente. Nel tempo, anche quando Kalevi era assente per parecchi giorni, in quasi ogni momento guardavo il posatoio nella sottintesa speranza di vederlo presente o sopraggiungere all’improvviso. Una altro significativo ascolto si aggiungeva alla mia ricerca.
Le osservazioni sul comportamento del grande gufo grigio mi ricordò le parole che un giorno un mio amico mi disse: “……… Ogni specie vivente, che sia aquila, lupo, lontra, alce, ecc. pur nella loro totale diversità di vivere, si trovano sempre in perfetto unisono con la natura, sono un’unica cosa e mai, dico mai si sognerebbero di vedere il mondo circostante come qualcosa di disgiunto, come altro da sé. Noi uomini invece abbiamo voluto con inusitata determinazione scindere le cose, distinguerle ben bene e di conseguenza abbiamo creato un netto dualismo, del tutto infondato da qualunque lato lo si guardi: l’uomo con la sua vita da una parte e la natura ben distanziata e quasi aliena dall’altra. Questa distinzione è stata le fondamenta dell’attuale insanabile dissidio che vede l’uomo dominatore assoluto che distrugge integralmente un regno cui anche lui ne faceva parte a pieno titolo. E’ l’unico caso di un figlio che uccide quasi ancor prima di nascere sua madre!”. Parole bellissime e tristissime, ma vere che penetravano sempre nel più profondo di me stesso e mi confermavano per l’ennesima volta il vicolo cieco che stavamo percorrendo noi umani.
Quella figura di lupo
Quella figura di lupo vanescente ed enigmatica che, durante il mio peregrinare all’interno della foresta qualche tempo prima, avevo potuto improvvisamente e per un solo istante osservare, s’era impressa con tanta inconsueta forza nella mia mente da procurarmi un’inconfessata agitazione dello spirito. Per lungo tempo i miei pensieri si volgevano ancora a quella fugace apparizione con una singolare mescolanza di sentimento e di compiacimento, tanto che per accentuare quell’improvvisa sensazione una mattina sedetti allo scrittoio; ma indugiai a lungo prima di scrivere o leggere qualcosa. Ero tentato di por mano ad un bellissimo libro sui lupi perché mi parve che leggendo qualche passo anche preso a caso avrei portato ancora più a nudo l’emozione che volevo intensamente esaltare. Le parole del libro, che alla fine decisi di scorrere un po’, si “alzarono” a grado a grado, e si diffusero nella mia mente tanto da portarmi ad una sorta di vera e propria fantasticheria nel mondo selvaggio. La mia positiva tensione andava ormai scaricandosi sulla lettura da cui trassi uno stato di sereno abbandono che però mi portò contemporaneamente alla soffusa immagine del lupo tanto che, a tratti, percepivo una sensazione di sospensione e di totale trasporto. Eppure l’avevo osservato solo per pochi istanti. Sentivo però che qualcosa di speciale si nascondeva in quell’essere libero e fiero forse perché era totalmente scevro dalle mediocrità umane.....
Il giorno seguente, raccolto nella capanna vicino alla calda stufa, ero assorto nuovamente nella lettura, quando lentamente presi sonno. Nel sogno che ne seguì….. “udii risuonare discretamente il battacchio dell’uscio. Nell’aprire scorsi la figura di un uomo, un uomo che rispecchiava nel suo volto una vita profondamente vissuta tra le silenti selve del nord dove lui era nato e dove aveva sviluppato, sicuramente sin dalla giovane età, un’incredibile abilità a vivere nella foresta e a conoscere tutti i suoi selvaggi abitanti; alle sue spalle, un po’ coperto, il suo fedele cane. Quando avanzarono nel vano d’ingresso già immerso nella penombra, la figura “del mezzo lupo” mi apparve ancora indistinta, ma non tanto da impedirmi di notare nel suo atteggiamento una esitazione che pareva accentuare in quell’essere una sorta di atavica selvaticità. Mentre entravamo nella stanza illuminata dai tenui ed incerti bagliori del “poco” sole, la figura di dell’uomo parve accendersi nell’improvviso riverbero della luce, in consonanza con la sua decisa personalità.
Contrariamente alla luce che andava declinando, dopo un sincero saluto di benvenuto la conversazione con quella persona si sviluppò rapidamente, anche se improvvisi silenzi interrompevano l’armonia del nostro dire, ma quei silenzi - lungi dal generare imbarazzo - mostravano di comporre in un unisono l’ipotetico pensiero dell’anziano uomo con quello mio, come se vibrassimo in perfetta consonanza con l’incipiente crepuscolo, anche se ci eravamo appena conosciuti. Intanto il cane si era completamente coricato forse perché un po’ stanco, ma manteneva sempre una certa attenzione.
L’uomo ruppe alfine il silenzio, ma solo per ricordarmi che la secolare foresta che ci circondava aveva in sé anche qualcos’altro che la semplice bellezza “tecnica” esteriore. Io, che a quel punto partecipavo attivamente alla conversazione constatando le grandi conoscenze dell’uomo e la sua estrema praticità, trasalii nel mio dire, contribuendo ad elevare il discorso verso l’infinito mondo della natura selvaggia ed incorrotta, di cui l’uomo era ovviamente fortemente partecipe…….
Rotti al fine gli indugi, accompagnai l’amico e il suo fedele amico all’uscio della capanna, ove ci salutammo in un eloquente silenzio. Poco dopo aver percorso qualche metro, l’uomo improvvisamente si rigirò verso di me e mi disse sommessamente: sappi che molto spesso gli orsi o i lupi non si vedono e non si sentono, ma ugualmente li si vivono interiormente perché essi sono come il vento: non lo si può vedere, ma lo si può sempre percepire. Un giorno comprenderai spontaneamente il metaforico e reale significato della percezione del vento. Vedi, alcune cose non possono essere apprese direttamente, perché gli elementi fondamentali della natura, che siano gli orsi o qualsiasi altro evento, in fondo non si esprimono palesemente come uno crede. Occorre cogliere il momento giusto per andare un po’ più in là, delle nostre materiali conoscenze dirette al fine di entrare, sia pur di poco e fors’anche per breve tempo, all’interno dello spirito del mondo selvaggio”……..
Di soprassalto mi svegliai e rimasi per qualche istante con la mente concentrata su quell’evento onirico che improvvisamente si era manifestato all’interno del mio mondo solitario. Un piccolo evento, ma fortemente significativo.
Il sole era alto sull’orizzonte
Il sole era alto sull'orizzonte, infuocato nel pieno dell’estate, e l'Orso bruno riposava nell'ombra delle abetaie.
La simbolica notte artica era da tempo giunta, rimanendo relativamente calda. Solo allora l'Orso bruno si alzò dal giaciglio, si stirò le membra irrigidite, mosse alcuni passi sulla zona aperta del pascolo e annusò l’aria. Poi si spostò seguendo un evidente sentiero. Nel cuore della notte, anche se piena di luce, era in vista di un gruppo di renne che non si accorsero della sua venuta.
L'Orso bruno si avventò contro di loro e ne atterrò alcune menando zampate nella mischia; ne afferrò poi una di piccole dimensioni e si ritrasse, sempre infierendo colpi d'unghioni attorno per farsi strada tra la fuga delle restanti renne. Si mosse rapidamente, sempre trascinando la preda, in direzione del bosco.
Quella “notte” l'Orso bruno si fermò nel fitto dei pini silvestri e, indisturbato, si mise a mangiare le carni del suo bottino.
L’Orso bruno era un maschio anziano ed aveva una corporatura superba che raggiungeva quasi i tre quintali di peso. Il suo passare nelle silenti foreste del grande nord finlandese raramente era silenzioso, tanto che il frusciare del novellame che infittiva il sottobosco o delle eriche secche, spesso si avvertiva a qualche decina di metri e poi, il suo soffiare, quando qualcosa lo turbava, intimoriva non poco gli animali che si trovavano al momento nei suoi paraggi. In genere le renne o gli alci, quando avvertivano la sua presenza, si defilavano repentinamente, mentre a volte, quando lo scorgevano bocconi intento a rimpizzarsi di mirtilli, lo ignoravano quasi del tutto. Poi qualcosa lo attrasse: un fetido odore che emanava una carcassa di renna. Il grande Orso bruno si approssimò alla zona del pasto, ma trovò un famelico ghiottone che con un fare estremamente aggressivo portò l’orso a desistere ed ad attendere che lo scaltro mustelide se ne fosse andato per carpire qualche resto che ancora rimaneva della carcassa.
Quando invece era lui il primo ad imbattersi in una carogna putrescente, soleva a volte scuoiarla quasi per intero, seguendo un suo atavico istinto. Si riempiva allora di carne a più non posso e in quelle circostanze le sue feci non erano come solito “profumate”, ma emanavano un pessimo odore tipico delle fatte dei carnivori veri e propri. Se invece il suo cibo erano i mirtilli o altri vegetali in erba, il caratteristico odore poteva definirsi gentile e nel contempo penetrante, ma mai fastidioso. Lo scuoiamento che l’orso effettuava alle carcasse nella maggior parte delle volte era così preciso che raramente riduceva la pelle in brandelli. Quello dello scuoiamento era un segno tipico “dell’utilizzo” di un orso su una carcassa integra.
L’Orso bruno nel pieno dell’estate stava un giorno pascolando in una radura nel mezzo della grande foresta di Palonen, ma l’erba era ben matura e, poiché diviene ricca di cellulosa, l’Orso sapeva che è molto meno digeribile ed allora dopo qualche altro boccone, si diresse verso l’intrico del bosco per cercare ancora una volta i frutti dei mirtilli rossi e neri o raspare sotto le ceppaie per cibarsi dei numerosi animaletti che in esse si celavano. Tuttavia l’estensione del tappeto di mirtilli era praticamente senza soluzione di continuità e quella situazione era ottimale per l’alimentazione del grosso plantigrado.
Nel gran chiarore del giorno
Nel gran chiarore del giorno, l'Orsa si mise in movimento seguita dal trotterellare dei tre cuccioli oramai quasi indipendenti. Attraversò i pascoli e le paludi del luogo sino ad entrare nel bosco.
Non tardò molto e coricatisi sui giacigli, si presero uno dei tanto consueti momenti di riposo. In quella pace solo le zanzare ronzavano in continuazione infastidendo non poco gli orsi, ma a quelle latitudini in quel periodo dell’anno, questi minuscoli insetti erano un vero e proprio flagello per tutti gli animali. A volte le renne cercavano sollievo addossandosi entro piccole depressioni dove rimanevano dei piccoli nevai che tenevano lontane le micidiali zanzare.
In quei giorni l'Orso bruno sentì che era giunto il momento di muoversi. Andava deciso, nel fitto della foresta per cibarsi di mirtilli neri. Era una zona particolarmente ricca ed anche altri orsi si radunarono nei pressi. Tra banchetti e riposi restarono in quei luoghi per diversi giorni, poi ognuno prese la sua strada. Gli orsi non sono animali sociali e quando sono a strette vicinanze, avvertono un qualcosa di fastidioso. Infatti, qualche giorno dopo, l’Orso bruno seguendo una pista di sentiero ben marcata, raggiunse un pianoro dove crescevano alte piante di pino silvestre, di betulla ed alberi di salicone.
L'Orso bruno annusò insistente le cortecce dei salici. Erano già stati lì altri orsi quella stagione, soprattutto in primavera. I tronchi erano feriti da morsi e colpi di unghioni. L'animale sentì istintivamente crescere una furia incontenibile dentro di sé, e la scatenò contro uno degli alberi. Si sollevò in piedi e gli unghioni scesero a scortecciare in lunghe strisce il tronco; i denti morsero con furia incidendolo in più punti, e ad ogni assalto la furia sembrò accrescersi.
Presto gli unghioni sbiancarono il tronco per tutta la sua lunghezza, e quando l'Orso bruno fece forza contro la chioma col suo peso questa si schiantò spezzando l'albero là dove i denti lo avevano inciso più profondamente. Il rumore dello schianto sembrò scatenare ancora ulteriormente la sua ira insensata ed istintiva, ed il fremito dei suoi muscoli si accentuò; come brontolii profondi le urla e i soffi dell'Orso bruno si udirono più alti oltre la cortina degli alberi. Presto la chioma del salicone non fu altro che un ammasso di ramoscelli spezzettati, sparsi intorno assieme alle strisce della corteccia e alle nitide schegge del legno: e il tronco spiccò bianco latteo contro il brunastro dei pini della foresta.
Improvvisa come era iniziata, poi la furia dell'Orso bruno cessò, e l'animale lasciò il pianoro. La sua figura si confuse tra gli alberi, verso i cespuglieti del ginepro nelle radure più basse della valle.
Lontano si sentiva il brontolio profondo di un tuono, mentre le nubi si facevano sempre più nere e il vento aumentava la sua forza. L'Orso bruno sentiva l'avvicinarsi del temporale nell'odore dell'aria e gli animali sembravano attendere rispettosi che si compisse un rito.
E il rito si compì col fragore di una cataratta, tanto violento quanto breve in quel mondo dove il tempo non aveva senso.
Quando ritornò la quiete l'Orso bruno si sollevò dal sua giaciglio tra il novellame e si sbatte vigorosamente i fianchi per scrollarsi di dosso l'acqua che si era infiltrata nella pelliccia, poi si incamminò in silenzio nella lettiera del sottobosco inzuppata e morbida, della foresta primigenia di Jarnioki, dove aveva approntato la sua tana invernale tra un albero cavo e un grosso formicaio.
Nelle radure che si aprivano
Nelle radure che si aprivano nell’annosa foresta boreale, l'Orsa cominciò ad frantumare le ceppaie putrescenti cercando i piccoli animali che vivono a contatto col suolo. Gli orsacchiotti la imitavano, ma più spesso cercavano i saporiti frutti selvatici dei mirtilli e dei lamponi, così facilmente pronti all’uso.
A giorno pieno l'Orsa non si ritirò nell'ombra della foresta, ma proseguì la sua ricerca di cibo. Risalì la valle per raggiungere una radura al limite alto del bosco, in quel tratto fortemente ondulato.
L'Orsa giunse al margine di quella zona prativa che si apriva lasciando intravedere uno sfondo di colline selvagge, e si fermò sospettosa, prima di inoltrarsi con i cuccioli allo scoperto. La presenza di qualche maschio poteva sempre essere una possibilità.
L'Orsa sentì la quiete del luogo e solo nel tardo pomeriggio lo lasciarono, mentre la luce del sole trionfava in ogni parte.
Quando girovagava con i suoi cuccioli dell’anno nel fitto della taiga, l’Orsa delle volte doveva fermare il suo deambulare per attendere che i giovani orsi scendessero dagli alberi, che per loro era un divertimento e un gioco vero e proprio. A volte, pur sbuffando fortemente mentre attendeva, si grattava il peloso dorso sui tronchi di betulla, mentre a volte evitava quelli di pino per non impregniarsi della resina scolante. Ma ciò non era affatto una regola fissa, tanto che non mancavano le occasioni di grogiolarsi e godersi il suo sfregamento su grossi pini o abeti la cui resina imbrigliava facilmente i lunghi peli setolosi del plantigrado.
Oscuro fantasma
Oscuro fantasma che camminava con lentezza, l'Orso bruno stava risalendo le pendici verso i pascoli dell’articolata collina di Risitunturi.
Dopo circa un’ora l'Orso bruno giunse al valico. Si era fermato più volte lungo la salita a scovare insetti sotto i sassi della vasta pietraia che costellava quei pascoli, ma il desiderio di altro cibo lo stimolò a continuare a cercare.
Sui pianori della cresta si diresse verso oriente, dove sapeva di poter trovare ancora dell'erba verde e appetitosa grazie alla pioggia non rara che di sovente veniva giù. Dopo un fare di un paio d’ore, l’Orso bruno si riposò e solo sul tardi della giornata, lasciò il giaciglio. Mentre la nebbia stava prendendo il sopravvento sui raggi tiepidi del sole, l'Orso seguì la pista verso Ilajoki, fermandosi solo a mangiare le rosse bacche del mirtillo maturo per penetrare subito dopo nel bosco. Il plantigrado discese lungo una traccia di sentiero e sbucò in una palude, anche se una nebbiolina oscurava un po’ il paesaggio.
L'Orso bruno si spostò in alcune radure circostanti ricche di cespugli e, quasi d’improvviso comparve come dal nulla un giovane orso. Alla sua vista l'Orso bruno sbuffò insospettito e si sollevò sulle zampe posteriori per annusare ed osservare meglio l'intruso, e solamente quando si fu rassicurato tornò ad abbassarsi per addentrarsi anch'esso nella macchia, indifferente al compagno.
I due orsi si aggirarono in un’ampia radura satollandosi delle piccole bacche di mirtillo. Le coglievano abbassandosi a terra per portare i gruppi di frutti alle loro fauci.
Nella tarda mattinata abbandonarono il luogo ed entrarono nell'oscura ombra della pineta; le nebbie si erano ormai dissolte col calore del sole.
L’Orso bruno era vissuto tutta l'estate cibandosi di piccoli animali trovati sotto le pietre o nei formicai e nei tronchi in decomposizione; di erbe e di frutti selvatici, e a volta di qualche piccola renna predata nelle zone sottostanti o di qualche carcassa, abbattuta dai lupi. Allora aveva il suo rifugio nella foresta che ammantava la valle; ogni giorno un luogo diverso, scegliendo i posti più nascosti ed intricati nella vegetazione, spostandosi da un giaciglio all'altro, ogni volta riattandoli o scavandone di nuovi. Ora stava spostandosi verso i quartieri autunnali.
Nella notte, nelle radure e nelle paludi, la rugiada a volte già gelava sugli steli. Allora all'alba i raggi del sole filtrati dalla nebbia si disegnavano nell'aria come se trafiggessero i boschi.
Durante il giorno la cappa di nubi non abbandonò mai la vetta delle colline, anche se, a tratti, lievi pioggerelle sembravano schiarire il paesaggio. Banchi di nebbia continuarono a salire e a scendere lungo le valli, stagnando sul bosco. Sul far della sera scendevano poi fino a lambire il piano di Karsikoski, trasformando le foreste in un grigio inestricabile labirinto d'alberi che ne esaltava la vastità.
In un anfratto tra le rare rocce, l'Orso bruno si destò dal suo torpore. Si sollevò ed uscì deciso dal ricovero.
Le foglie stavano ormai da tempo mutando colore e nei luoghi più freddi molte erano già cadute. Nei boschi la sinfonia dell'autunno era iniziata con quei colori e con primi freddi. Era tornata la ruska finnica. Gli aromi erano diversi, diversi i rumori e l'atmosfera: era ovunque odore di muffe e di foglie morte, odore della terra umida, e mutato era il canto degli uccelli, o era sparito.
I rami e le foglie degli alberi stillavano l'umidità che si condensava con la nebbia, e il rumore di grosse gocce che battevano la lettiera morta accompagnava il frastuono dei passi dell'Orso bruno che saliva nella foresta dove per tutta la notte l'Orso bruno si aggirò pigramente tra i cespugli saziandosi.
Aveva ripristinato il giaciglio costruito chissà quanti anni prima da altri orsi, assestandolo con erbe, foglie e terriccio, ma soprattutto con resti di legno in decomposizione. Era una conca molto grande e infossata, nascosta ai piedi di un abete tutto contorto e rinsecchito per l'età.
La femmina stava attraversando
La femmina stava attraversando con i suoi cuccioli dell’anno un’ampia radura erbosa, ma non si soffermò in nessun punto, anche se il luogo offriva degli ottimi spuntini. Era diretta verso la sua tana che da tempo aveva rinvigorito e resa il più possibile confortevole per raccogliere al suo interno lei e i suoi tre giocherelloni orsacchiotti. L’inverno del grande nord, nel tardo autunno, poteva arrivare molto repentinamente e la femmina, che ne aveva l’esperienza, si era già ben preparata a scanso di qualsiasi imprevisto. L’implacabile gelo e la neve abbondante sarebbero arrivati con certezza e nulla poteva essere lasciato al caso.
L’Orsa stava transitando in un lembo di foresta per lei inusuale, quando l’odore di una carcassa la attirò ai margini del bosco. Vide una femmina di Orso morta e parzialmente divorata ai piedi di un grosso abete. Annusò la carcassa, ma non si interessò ad essa e riprese il suo cammino.
Probabilmente era stata uccisa da un grosso maschio. Incidenti di questo tipo sono eventi rari e in genere si verificano quando una madre cerca di difendere la sua prole dall’attacco dei maschi adulti.
Infatti un giorno la femmina con i suoi tre cuccioli stava pascolando tranquillamente in un ampia radura della foresta di Jarkoski, quando improvvisamente ai margini del bosco comparve un maschio di Orso bruno. La femmina smise immediatamente di mangiare, corse verso quell’orso, si alzò in piedi e si mise a soffiare e ad aprire le fauci con estrema violenza mostrando i suoi temibili denti. Cercò con grande veemenza di spaventare quel maschio, tanto che gli andò a stretto contatto e tentò di brandirgli una sonora zampata. Il maschio si ritrasse prontamente e, senza reazione alcuna, prese altra via allontanandosi decisamente dalla zona!
La femmina con i cuccioli è sempre molto attenta e, senza esitazione alcuna, è pronta ad attaccare con un fare molto aggressivo quando si tratta di proteggere i suoi indifesi piccoli.
Alcuni giorni dopo l’Orsa con i suoi tre cuccioli al seguito stava transitando in una radura nel mezzo della foresta, una radura umida ed in parte fangosa. Improvvisamente si fermò e si mise ad odorare una serie di impronte su fango lasciate da un altro orso. La femmina dall’odore che percepì comprese che erano della sua stessa specie e subito, guardinga, si alzò in piedi per annusare acutamente l’aria. Era preoccupata che in quel suo raggio di movimento vi fosse qualche altro orso e, potendosi trattarsi di un maschio, si rese estremamente tesa ed attenta. Ma una sua rapida ricognizione le fece capire che erano segni di qualche giorno e nessun orso era nei paraggi. Si rassicurò e con i suoi cuccioli che a tratti le lambivano quasi le zampe proseguì il suo deambulare.
L’Orso bruno aveva nel suo temperamento un misto di dinamismo e di profonda pigrizia. C’erano momenti di estrema attività come durante l’estro sessuale, o le dispute con altri orsi su qualche carcassa, o ancora quando cercava di predare qualche alce o renna, ma ogni volta che poteva, approfittava sempre per stendersi a riposare in un dolce far niente. Anche il suo deambulare era spesso guidato dalle circostanze. Se rinveniva un agevole sentiero già ben battuto, lo preferiva quasi sempre a salite occasionali e più faticose. Solo quando approdava nelle zone piatte della taiga, l’uniformità dell’orografia e il soffice manto dei muschi che rivestivano il sottobosco, lo spingevano a girovagare a caso senza dover trovare una pista già delineata.
Quel giorno il grande Orso bruno attese con pazienza che un ghiottone si allontanasse dai resti di un grosso alce maschio. Non che l’Orso non fosse in grado di scacciarlo, ma la combattività del mustelide lo infastidiva e preferiva attendere ad una certa distanza. Quando il ghiottone si allontanò perché probabilmente sazio, l’orso prontamente si portò sull’animale morto e, senza particolare avidità, mangiò per una trentina di minuti. Probabilmente aveva già pascolato a lungo in precedenza e quel inatteso pasto lo colse per così dire di sorpresa.
Il giorno successivo il grande Orso bruno aveva appena rovistato in un acervo di formica rufa e con un andare lento si diresse verso la palude. La foresta risuonava per il forte vento che spirava da nord, quando d’improvviso l’Orso si accorse di un grande alce maschio che era coricato vicino ad un vetusto pino silvestre in un apparente stato di riposo. L’Orso bruno gli si avvicinò a qualche metro e, grazie agli abbondanti muschi che coprivano l’intero sottobosco, il suo andare era estremamente silenzioso. Ma anziché approfittare della situazione per aggredire quella potenziale preda, si mise a sbuffare ed a raspare sul terreno. L’alce in un batter d’occhio si sollevò in piedi e precipitosamente si dette alla fuga. Spesso l’Orso bruno si comportava in quel modo dinanzi ad una grossa preda, prediligendo attaccare quasi sempre i giovani o in ogni caso gli esemplari più piccoli forse per non confrontarsi con una preda che avrebbe lottato, per difendersi, con estremo vigore. A quel punto, sempre pacatamente, l’Orso bruno si rimise placidamente in cammino.
L'Orso bruno abbandonò la valle
L'Orso bruno abbandonò la valle, salì a destra fino alla cresta frastagliata di alberi e scomparve nell'umida ombra del bosco; un altro Orso si allontanò nascondendosi nella stentata ma intricata vegetazione di quel luogo.
I primi freddi si fecero sentire in anticipo quell'autunno; già quasi tutte le foglie delle betulle, dei saliconi, degli ontani, dei sorbi erano da tempo cadute dopo che avevano mutato il loro verde nelle tinte giallo oro, rossiccio e violaceo delle foglie moribonde. Sui prati la brina scendeva ogni notte ad increspare la terra umida, e nelle bassure dove il freddo era più intenso la notte un velo di ghiaccio si stendeva sulle zone acquitrinose. Intanto le giornate, dopo l’ininterrotta luce del periodo estivo, si accorciavano repentinamente.
Le erbe dei prati erano ingiallite e morte e le paludi avevano assunto una tonalità diversa, arrossati anch'essi dai ritmi dell’autunno. Nei boschi le ultime foglie cadevano in continuazione, addossandosi sopra le altre.
L'Orso bruno aveva cominciato a scendere da un tunturo verso la piana sottostante.
Con un andare preciso l'Orso bruno attraversò la boscosa pendice fitta d'alberi scivolando come un fantasma tra i tronchi dei pini, diretto ad una località a lui ben nota in fondo alla foresta. Aveva già soggiornato là in primavera, riposando di giorno in un giaciglio posto ai piedi di un grosso abete cresciuto sopra alcune rocce.
Avanti nella notte l'Orso bruno ritrovò l'albero e ritrovò il giaciglio: i rami verdi dei pini che aveva spezzato per costruirsi quel suo strano nido erano ormai secchi e ciò portò l’animale a riassettare il giaciglio con decisi colpi delle zampe nel terreno, poi tornò ad imbottirlo rozzamente scrostando muschio e licheni ed infine si coricò a riposare.
Altri orsi erano stati in quel luogo, e i giacigli sparsi nella zona ne portavano i segni: mucchi di escrementi odorosi erano ammonticchiati ai loro margini, segni di quel riposare.
Il sole era ormai alto, ma non più come nel periodo estivo, quando l'Orso bruno si risvegliò cambiando posizione nel giaciglio. I raggi non scaldavano molto, smorzati dalle fitte fronte delle conifere. Un vento freddo da settentrione spirava con veemenza e scuoteva il bosco, accumulando le foglie morte nei luoghi dove l’orografia facilitava il loro addensarsi. E, nell'ombra di quella zona, la brina notturna durava tutto il giorno. Dove riposava l'Orso bruno, al riparo del vecchio abete, la temperatura era però leggermente mitigata dal pallido sole.
All'albeggiare, la femmina dell'Orso bruno prese a salire verso la sommità rotondeggiante del Monte Semioki, allontanandosi nella foresta seguita dai piccoli. L'orsa saliva lenta, ma i tre cuccioli erano invece costretti ad arrancare lesti sulle sue orme per non perdere il contatto. I plantigradi sbucarono sul pascolo, lo attraversarono e scesero sull'altro versante al riparo degli annosi pini e dei sporadici abeti che erano armonizzati in piccolo numero in quel tratto di foresta.
L'autunno avanzato aveva fatto scendere al suolo buona parte dei frutti selvatici e resi ancor più maturi gli onnipresenti mirtilli rossi.
Nel bosco l'Orso bruno gironzolava passando da un sorbo degli uccellatori all'altro, pigramente, cogliendo quello che la natura così facilmente gli concedeva in quella stagione che preannunciava l'inverno. Aveva bisogno di mangiare molto, di produrre molto grasso così che durante il lungo sonno invernale lo stimolo della fame non lo svegliasse. Quando non erano i sorbi, la sua attenzione era per i mirtilli o, ancora, per qualche acervo di formica, così abbondanti in quei boschi. L’accumulo di grasso utile al periodo della letargia invernale si concentra principalmente nel garrese e nella groppa in genere e, secondariamente negli interstizi muscolari.
Altri orsi frequentavano quelle zone; alcuni andavano e venivano dalle foreste circostanti, dove si sarebbero poi ritirati tutti prima del finire dell'anno.
Col freddo le rosse bacche del mirtillo, sempre un po’acre pur se mature, si addolcirono lievemente perché toccati dal gelo, e l'Orso bruno li divorò come un'ultima risorsa, iniziando a spostarsi verso le tane d'inverno.
I giorni passarono e i nudi alberi caducifogli, apparivano come sagome morte.
Quando giunse la prima neve ad imbiancare l’intero scenario, l'Orso bruno percepì quasi la fine del suo alimentarsi.
Il tempo ormai era sempre più mutevole e molte notti il gelo già si manifestava con pungente precisione. L’Orso bruno vagava ancora spesso nella foresta, ma già da tempo aveva dato una buona riassettata alla sua tana invernale perché percepiva interiormente che la stagione stava per concludersi. Attraverso il suo sguardo misterioso ed imperscrutabile, l’Orso cercava ancora qualcosa da mangiare e quello fu un giorno fortunato perché trovò i resti di un piccolo alce, già dilaniato dai lupi e in parte spolpato da corvi e volpi. Ma ancora qualcosa per lui c’era ed era un’ottima occasione vista l’incipienza del gelido e lungo inverno.
L’Orso bruno, sentiva dentro di se che stava per giungere il momento di fermarsi, di scendere dal palcoscenico della bella stagione. Le avvisaglie arrivavano palesemente dall’ambiente circostante, ma le più profonde venivano da dentro se stesso perché, per innata indole, gli arrivava interiormente l’imput sugli atteggiamenti da prendere in quei giorni di fine autunno.
Sui versanti più esposti al sole del mattino, il maschio di Orso bruno aveva predisposto le sue tane e i suoi giacigli invernali; erano concentrati in piccole zone ben scelte per il loro aspetto selvaggio, coperte dalla copiosa vegetazione arborea. Da generazioni gli orsi utilizzavano quegli stessi ricoveri, nei quali si trovavano ormai accumulati grandi quantità d'erba secca.
L'Orso bruno passò il giorno nascosto nei boschetti di pioppo tremolo sulle pendici più basse della collina, al limitare della pineta.
L’autunno con i suoi variopinti e multiformi colori annunciava a l’orso l’imminente approssimarsi della gelida stagione invernale, perché nel grande nord la neve e il gelo arrivano molto presto. L’Orso bruno lo sapeva molto bene e si affaccendava molto per reperire gli ultimi alimenti per accumulare la giusta quantità di grasso che gli avrebbe permesso di trascorrere l’intero inverno nella sua accogliente, pur se angusta tana, in attesa della rinascita primaverile. Ogni cosa che risultava a lui commestibile lo ingurgitava senza troppi pensieri passando dalle carcasse di renna o alce, alle bacche di mirtillo e di sorbo, ai rari pesci che riusciva a catturare o che trovava decomposti sulle sponde dei laghi e dei fiumi. Anche i formicai lo attiravano non poco, ma nel suo complesso anche in queste latitudini estreme erano sempre i vegetali a primeggiare percentualmente nell’ambito della sua onnivora dieta.
Il gracchiare insistente dei corvi ripetuto sempre in un medesimo luogo, era per lui sintomo della presenza di qualche carcassa e, ogni volta che poteva, li raggiungeva con estrema solerzia per approfittare di un pasto a buon mercato.
A volte indugiava per qualche istante prima di cibarsi di qualcosa che lo attraeva, ma la sua titubanza era solo il frutto che sul finire dell’autunno già avvertiva di essere quasi pronto ad affrontare al riparo il lungo inverno, tanto che simultaneamente diminuiva il suo appetito.
“Io sono un naufrago che rema senza sosta in mezzo al mare
sperando di approdare in qualche lido
non sapendo che non c’è più terra!”
SECONDA PARTE
L’onirico e l’epistola
Era ormai trascorso molto tempo
Era ormai trascorso molto tempo di quella parte di me che avevo dedicato alla vita stabile nella foresta ed ogni cosa mi era divenuta sempre più familiare. Sentivo l’aria cristallina e limpida della primavera, quella calda e soleggiata dell’estate, quella colorata dell’autunno e quella turbinosa, gelida, imbiancata e spesso lungamente immota dell’inverno. Mi sembrava di scorgervi le nostre stagioni umane che però, vissute nello smarrirsi del tempo, si presentavano sotto altre vestigie. Conoscevo ora bene il branco di Shiro e Deeva (erano questi i nomi che detti ai due lupi dominanti), conoscevo i loro principali spostamenti, la loro tana, come conoscevo il giganteggiare ininterrotto degli “apparenti” immoti alberi. Le fredde acque dei torrenti mi dissetavano e i cristallini fiumi e gli articolati laghi allentavano la densità dell’amata foresta, mentre le amene paludi stimolavano la fantasia. Ormai ero quasi diventato un uomo della foresta, un uomo della grande taiga anche se nel mio profondo mi mancava ancora qualcosa di fondamentale per appartenervi realmente.
Gli eventi si susseguivano e sembrava che il tempo si era dilatato e si sviluppava solo verso una sostanza essenziale.
La primavera trascorsa Deeva aveva partorito ben quattro cuccioli e nelle stagioni successive apprenderanno i primi rudimenti della caccia e della vita nei boschi.
Un giorno finalmente con la dovuta calma incontrai Shiro, il maschio dominante del branco. L’osservai a lungo, mentre annusava il luogo della caccia del giorno precedente quando insieme al suo gruppo era riuscito ad abbattere un vecchio alce che malandato trascinava le sue ultime vestigia della vita. Il crepuscolo arrivava per chiunque, ma nella natura tutto appariva così netto e fluente che non sembrava esservi soluzione di continuità tra la vita e la morte. Shiro con grande attenzione si guardava spesso intorno, annusava la frescura dell’aria del nord e con un misto di curiosità e sicurezza non indugiava molto nello spostarsi tra il fitto della foresta di abeti e le piccole radure che interrompevano la continuità del bosco. Sembrava essere fiero di se stesso, della sua forza, del suo sicuro carattere, mentre io, nella piccolezza del mio spirito, mi sentivo quasi un intruso per non dire un estraneo, in quel mondo che emanava selvatichezza, prolungati silenzi ed atavismo. Gli allocchi, malgrado l’ora diurna, si annunciavano spesso riempiendo l’aria di note melanconiche e fluenti. Shiro era un lupo molto bello, robusto, di sembianze crepuscolari e mi piaceva profondamente calarmi nella sua realtà fatta di essenza e mai di apparenza. Era infatti proprio questa la cosa che più ammiravo nella natura selvaggia: l’essenza delle cose, della vita, dell’aria. Rimasi in tale vanescente stato per oltre una mezz’ora, poi, non appena Shiro si disperse nella foresta, ritornai sui miei passi spirituali che mi riconducevano, come detto, alla mia piccolezza e alla mia precarietà.
Intanto, tornato alla capanna, mi misi a preparare le esche per la pesca del giorno successivo, poiché mi sarei recato sul lago Talken per fare un po’ di provviste per l’inverno. Infatti, in quei luoghi remoti del nord, era molto importante anticipare il lungo inverno, una accurata e meticolosa preparazione che contemplava non solo la pesca, ma anche la legna da ardere per il caldo fuoco della stufa, i frutti del bosco trasformati in succose conserve e gli abbondanti funghi che seccavo direttamente nella capanna.
Un giorno, mentre in canoa mi recavo a pescare, sulla sponda opposta del lago vidi Deeva, la femmina alfa del branco che per qualche istante si era avvicinata all’acqua forse per bere o per fiutare qualche pista di caccia. L’incontro, anche se fuggevole - ne ero ormai abituato - mi appariva sempre come se fosse la prima volta e, come la prima volta, mi entusiasmava non poco. Erano giorni e momenti così intensi che in certi brevi istanti non vivevo appieno in quanto avevo il timore continuo che il tutto si potevano dissolvere improvvisamente in quanto frutto semplicemente di un bellissimo sogno. Tra l’altro, la mano vandalica dell’uomo avanzava sempre più e questo mi dava non poca ansia……..
Stavo osservando dal bordo del lago
Stavo osservando dal bordo del lago le tenui e colorate luci del crepuscolo per vedere qualche sequenza del “filmato” che la natura stava proiettando.Trascorsi una decina di minuti, presi il mio quaderno degli appunti e cominciai a leggere alcune riflessioni scritte in una dimensione surreale, in un momento di profonda irrazionalità e di generale sconforto……
“Un lago si dispiegava dinanzi alla vista del cuore. Un senso di vita albergava nell’aria, ma nel mio spirito sembrava mancare qualcosa, qualcosa di profondo che mi estraniava dal mondo circostante. Ero come un fantasma che si muoveva in una atmosfera stupenda ma per me quasi irreale ed opalescente.
Capivo che non era l’ambiente a determinare il mio profondo intimo, ma il mio spirito che ovunque vagasse portava con se qualcosa di oscuro e di incomprensibile. Sentivo tristezza, senso di non appartenere a nulla, di essere fuori dal mondo reale anche se così bello ed irripetibile.
Ero privo di vita interiore, non conoscevo più nulla, e tutto mi appariva senza senso e non vitale. Sentivo di amare la morte, ma in fondo di non volerla perché avevo un solo timore: perdere per sempre la possibilità di riuscire a calarmi nel mondo selvaggio.
Il giorno, alle prime luci dell’alba nordica, tutto continuava così. Ero vuoto, non riconoscevo la vita con la sua forza e pareva manifestarsi solo la tristezza e la melanconia. La mia mente vagava tra il nulla e il vuoto totale e nulla sembrava appagarmi. Ero troppo triste ed interiormente solo. Nessuna cosa mi scuoteva e mi dinamizzava. Era pura follia mentale di non vita!
Una piacevole passeggiata nella foresta alternata da laghi e paludi. Ma il mio spirito era altrove. Non sentivo il respiro della vita anche se l’ambiente ne diffondeva in abbondanza. Sentivo la mancanza di qualcosa di essenziale nel mio animo. Perché questa follia mentale? Forse non sapevo o forse ne ero consapevole appieno ma non volevo svelarlo a me stesso. Sentivo il respiro del mio corpo ma continuavo a respirare la non vita. Una brutta e vacua sensazione. Non vivere mentre si vive è qualcosa di allucinante e di indescrivibile.
Io probabilmente avevo dentro me il segreto di questa tristezza, di questa insanabile melanconia, ma nulla pareva scuotermi e vivificarmi. Vivevo da alieno, come se appartenessi ad un mondo non mio nel quale non riuscivo a adattarmi. Ma non parlavo di un mondo estraneo dal punto di vista esteriore, ma solo ed esclusivamente di un mondo interiore.
Vivere la vita è bellissimo, ma bisogna viverla veramente e consumarla. Non occorre morire dentro poco per volta e non sentire nulla. E’ meglio sublimarsi subito corporalmente, è meglio perire spiritualmente per annullarsi nel vuoto della vera ed inalienabile morte. Ti avevo sempre amato o vita ma purtroppo non ti vivevo ancora.
Perché non sentivo il tuo respiro o il tuo pulsante cuore? Mi mancavi. Mi mancavi molto, troppo per continuare a vivere senza viverti. Sentivo così tanto l’inespresso mondo del selvaggio.
Il giorno dopo fu una giornata funesta. Tensione, iracondia, tristezza, asprezza. Una strana luce adombrava la mia giornata. Non c’era possibilità di armonia. Solo settorialità e meschine menzogne. Il vento alimentava la mia angoscia e nulla mi allietava se non il pensiero rivolto alla possibilità di connettermi con la wildness dell’anima. Sentivo un profondo amore e un inafferrabile senso di perdita. Sapevo che potevo perdere qualcosa di bello per sempre, per l’eternità e ciò era per me funesto ed inaccettabile. Cercavo una mediazione, una sana follia, ma non trovavo altro che cenere e i resti consunti delle cose.
Non avevo la forza di reagire, di controbattere e lasciavo andare le cose così contrariamente al mio vero volere. Fu una ennesima giornata triste, densa e tetra che alla fine mi allontanò per l’ennesima volta dal mio vero io. Sentivo la follia, il senso della perdita e nulla poteva arrecarmi conforto, nulla, proprio nulla. Ma oh natura ispiratrice, dammi la forza di reagire, di ricostruire il mio essere, anche poco alla volta.
Siate felici o miei adorati lupi. Che ogni cosa vi sorrida sempre e che il malefico uomo con la sua scure vi sia lontano mille miglia. Ero felice per loro, mentre la mia vita si stava spegnendo! Non osavo pensare a loro, ma nello stesso tempo erano dentro di me. Mi faceva troppo male non poterli stringere simbolicamente tra le mie braccia perché stavano scomparendo poco per volta. Sentivo però la loro presenza occulta e ciò alleviava almeno un po’ la mia tristezza. Sentivo il loro profumo, il loro respiro e sentivo che il loro cuore, ignaro di tutto, batteva ricco di speranze. Le lacrime improvvise rigavano il mio volto, la tristezza si espandeva dentro me, ed ogni cosa si perdeva nella nullità della mia vacua esistenza. Forse questi erano i miei ultimi versi, ma una strana sensazione mi induceva a reagire e a sperare ancora. Ma ero ugualmente pessimista, non vedevo nulla intorno a me che potesse darmi la forza di reagire. Non appartenevo più a nulla, il vuoto intorno a me. Ero sempre assente, non ascoltavo nulla, e nulla sembrava poter ascoltare me. Addio giornata triste, addio mondo girevole. Io volevo tanto uscire di scena, per sempre e con certezza.
Alcuni giorni dopo la giornata ancora iniziava con un’angoscia nel cuore dopo una notte costellata da incubi e da emozioni dal profondo. Ma forse mi sembrava che la fresca aria del mattino potesse portare un po’ di conforto e di “ottimismo”. Sarà vero? Lo avrei verificato più tardi.
L’angoscia, nella sera, ebbe invece il sopravvento, perché dovetti fare ciò che mai avrei voluto. Trovarmi dinanzi ad un bivio e dover scegliere quale strada percorrere. Non era assolutamente il momento adatto e forse non lo sarebbe mai stato. Preferivo trovare alterne vicende, anche disagevoli ma sempre su un unico sentiero da percorrere. Invece, il caso della mia vita sembrava riservarmi questa grave ambascia. Che dolore nel petto, nel profondo. Amare lacrime solcavano il mio viso e gocce di sangue uscivano dal mio cuore.
L’indomani fu una giornata a fasi alterne, ma la tristezza era sempre ancora padrona di me. Una bella escursione tra i boschi non fu affatto sufficiente a sollevarmi almeno un po’.
Stavo ormai percorrendo un sentiero perché sia pure a malincuore probabilmente sembrava che lo avessi preferito ad un’altro. Quante belle cose sapevo di perdere per l’eternità. Non era certo una bella sensazione. E’ vero, probabilmente nessuna via porta a qualche parte, ma io ne soffrivo amaramente e bruciavo ardentemente nel mio profondo io. Sapevo che stavo perdendo per sempre qualcosa di “speciale”, qualcosa di irripetibile, eppure sembrava che lo stessi facendo e per di più per colpa mia. Stavo infatti perdendo l’unità con la natura, stavo perdendo per sempre lo spirito selvaggio. Ma mi rendevo conto che non avrei affatto dovuto scegliere. Che pazzia. Questa si che sarebbe stata la follia peggiore.
La luce d’intorno non mi illuminava minimamente, anzi dentro di me si incupiva sempre più.
L’angoscia era ancora la mia padrona, ma da una parte compresi un po’ il significato delle mie insofferenze. In fondo le meritavo perché nella mia vita il mio comportamento era stato troppo disarmonico con la natura e l’immagine che avevo dato ad altri esseri probabilmente non rispondeva affatto alla mia vera essenza. Non si può dalla vita prendere sempre le cose nel modo proprio e secondo le proprie necessità “domestiche”. Avevo capito che se nascono dei rapporti con il mondo e con altri esseri era necessario attivare un comportamento più universale e meno egoistico.
Un giorno feci un’altra utile riflessione. Non è possibile vivere la vita proiettandola solo nel futuro. Camminare sempre spostato in avanti. Oppure fare le cose facendo finta di dimenticarne altre. Non serviva a nulla perché ad ogni angolo sarebbero riapparse sempre le angosce e le delusioni. Quanta insanabile tristezza invece era ancora dentro di me. Quanta sfiducia! Mi sentivo come un principe che prima aveva avuto molto, un molto però fatto di fantasticherie, rapporti inespressi, continui e ricchi pensieri; poi d’improvviso il vuoto ed ecco che il principe si ritrova povero e privo delle vere cose. Ero diventato veramente povero. Avevo perso o forse stavo perdendo i miei sogni, le cose più belle, le sensazioni più forti, la mia unica verità: il lato selvatico di se stessi. Stavo solcando probabilmente il sentiero sbagliato lontano dalla wilderness della vita.
L’ambiente intorno era per me fortemente in unisono con il mio io, almeno in apparenza, ma un disagio continuo mi attanagliava e la disarmonia mi struggeva il cuore. Non riuscivo a controllarla ed a non farla appartenere al mio spirito. Non sapevo fin quando sarebbe durata la mia vita, ma in quel modo era impossibile proseguirla. Non potevo farcela. No, non potevo farcela.
Anche quella giornata era dunque cominciata nella più nera negatività!
Un giorno decisi di riflettere con più prospezione sul mio stato di essere.
Finalmente stavo forse reagendo un po’ positivamente per attraversare quel tunnel di negatività che ormai mi sembrava infinito.
La luce d’intorno mi appariva alquanto più chiara e un labile ottimismo sembrava presentarsi al mio cuore. Forse un sogno liberatore mi aveva aiutato ed in quei decisivi momenti riuscivo finalmente ad intravedere qualcosa. Si, in verità in quel giorno forse stavo riuscendo a risollevare il mio spirito. Sentivo il ritorno della verità e gli interessi per le cose, almeno in piccola parte. Sicuramente era il momento buono per cominciare a cambiare rotta e ad imboccare la via “maestra” della natura. Avrei visto le effettive conseguenze nei giorni successivi. Ero fortemente speranzoso. Un sicuro aiuto mi veniva certamente dalla tranquilla esistenza dei luoghi in cui mi muovevo anche se a tratti tutto mi pareva fortemente estraneo.
Dopo il cauto ottimismo di alcuni giorni mi tornò l’angoscia probabilmente a causa delle difficoltà non ancora superate sulla struttura del mio futuro interiore. Sentivo ancora la vita selvaggia sfuggirmi e nulla appariva chiaro e riposante. Ma non avrei dovuto tirare i remi in barca perché con un po’ di perseveranza e di pazienza forse ce l’avrei potuta fare. D’altra parte ormai era quasi normale che la sofferenza mi appartenesse e sapevo che se volevo costruire qualcosa di nuovo non avrei mai dovuto guardarmi indietro!
Un giorno giunse un momento cruciale. Mi ritrovavo di nuovo dinanzi ad un sentiero che d’improvviso cambiava rotta. E’ forse quello giusto e non è proprio questione di percorso?
Pensavo ai mie sogni del selvaggio e di leggerezza e un lupo dei boschi mi appariva dinanzi come un vanescente fantasma. Ne vedevo le sembianze, le leggiadre fattezze e perdevo a tratti la sua visione. Perché?
Le stelle cadevano nel cielo ed i miei desideri reconditi si moltiplicavano nella mente. Ascoltavo il silenzio mentre le mie sofferenti vestigie mi portavano compagnia.
Un vuoto si diffonde nell’aria e trasmigra tra le anime dell’eterno. Ne odoro la volontà e ne recepisco la libertà......
Quando la luna apparve nel cielo tardivo fu una sera delle rimembranze, la sera della mia pacata certezza. Mi stavo forse allontanando da una insensata perdizione. La luna si rifletteva sul lago filtrata da una magica opalescenza delle nebbie. Il senso di calma e di mistero si rafforzava d’improvviso anche se perdevo il mio controllo emotivo......Le stelle cadenti venivano giù a grappoli ed io per ognuna di esse esprimevo sempre lo stesso desiderio……. In quel momento ero per così dire felice, gioioso ed avrei voluto fermare il tempo, ma cosa mi tratteneva?
Poi d’improvviso compresi finalmente qualcosa: non potevo chiudermi nelle mie sofferenze interiori, vivere nella natura, amarla, ma essere lontano perché ottenebrato da chissà quali lugubri pensieri, essere sempre timoroso di tutto e continuamente succube della mia mente prigioniera di se stessa, essere sopraffatto da un’angoscia partorita dalle vanescenti minacce esistenziali, dal non saper affrontare veramente le cose, dal non coltivare e riportare alla luce il mio lato selvatico, spegnermi poco alla volta di consunzione…..ma a questo punto non posso, in verità, procedere nel discorso perché il grande dilemma rimane: affronterò veramente la realtà della wilderness della vita? Mi farò governare dalla saggezza e dal giusto coraggio? Farò stupidamente prevalere il lato domestico a quello selvatico? Non so quello che farò, o meglio so quello che dovrei fare per essere in verità, ma solo se lo realizzerò potrò vederne i meravigliosi effetti positivi. Intanto ringrazio quel misterioso e sicuramente metaforico lupo dei boschi, per le sua essenza, la sua verità e per la sua bellezza; sarò con il suo spirito, in ogni caso, per sempre unito ed irrevocabilmente inseparabile! Il mio spirito non cesserà mai di sognarlo anche se egli sarà lontano da me. Il selvaggio se lo hai perso o lo hai sfuggente lo senti sempre dentro ugualmente, in ogni caso.
Che io possa ritrovarti un giorno lupo solitario per poterti accarezzare la folta pelliccia così soffice per l’incipiente inverno, fosse pure in un’altra vita……”.
Quella mattina fu un risveglio traumatico
Quella mattina fu un risveglio traumatico. E pensare che la sera prima mi ero coricato pieno di fiducia ed ottimismo sapendo che l’indomani sarei dovuto partire per una lunga escursione.
Il risveglio fu traumatico perché la notte ebbi un sogno surreale di per sé estremamente bello e colmo di riflessioni, ma ricco di reconditi ed inspiegabili significati; queste furono infatti le prime sensazioni che percepii. Tale situazione mi portò, appunto al risveglio, ad una sorta di strana inquietudine che non mi davano, per così dire, pace.
Poiché come tutti i sogni con il trascorrere delle ore essi tendono, soprattutto nei particolari, progressivamente ad affievolirsi, decisi subito di annotarlo sul mio quaderno,“colorandolo” inevitabilmente con le trasposizioni e le licenze che permette la scrittura, aggiungendo soprattutto le sensazioni che avevo provato all’interno della vicenda, senza però stravolgerne in nessun passaggio il suo sviluppo di base. Presa la giusta concentrazione, scrissi……..
“Fu come un’improvvisa folgorazione. Un sincero e profondo sentimento nacque per una sfuggente lupa selvaggia chiamata da me “Lupa blanca”, questo per l’indissolubile legame di simbolico amore che mi unì subito a lei dopo averla incontrata in una silente foresta a nord della mia capanna. La chiamai “blanca” perché il suo mantello ero candidamente bianco e, come in ogni essere non umano, il suo cuore era privo di maschere e di menzogne. Si accese un amore speciale, direi indescrivibile e profondissimo. Forse fu la sua pura ed assoluta selvaticità, la sua continua nettezza, la sua amorevolezza, il suo elegante portamento, per tutto in blocco…. Non so. Quello che so è che in ogni caso mi appassionai perdutamente di lei. Lupa blanca era, per me, un essere unico, irripetibile che, con leggiadri balzi, svaniva tra le ombrose foreste della taiga come per ricordarmi ognora l’evanescenza delle nostre effimere quanto false “certezze”. Emetteva una sorta di attrazione sublime. Sentivo un sincero legame che mi univa alla sua profonda anima. I giorni trascorsi con il suo spirito mi rimandavano continuamente al suo essere. Arrivai a volte ad “associare” a lei molti eventi, ritrovando, nei più disparati reconditi recessi della realtà, le sue fattezze e la sua amorevolezza. Giunsi a concepire il tempo in un’altra dimensione tanto che avevo l’impressione di averla sempre conosciuta e vissuta. Ero stato con lei in indescrivibili significativi momenti e non credo di cadere nella retorica se dico i più belli in assoluto. Fu tutto molto intenso, passionevole, infinito e c’era, tra noi, una sorta di affinità elettiva. Era per me qualcosa di non definibile. Lupa blanca era sempre nel mio spirito e, grazie al suo esistere, la mia vita poteva continuare il suo piacevole decorso.
Una sera, stando vicino ad un fuoco, Lupa blanca si avvicinò, si strinse a me con il suo candido mantello e mi trasmise una sorte di energia telepatica così intensa che mi causò un fervido brivido vitale. Poi girò intorno al fuoco, mi guardò, ululò brevemente e con un agile balzo superò il tronco in cui ero seduto e velocemente se ne tornò nella sua foresta. Quel grande amore per Lupa blanca mi stava insegnando molte cose, forse le più importanti della vita e portava il mio cuore ad innalzarsi alle più alte vette dei sentimenti. Riflettei a lungo, a tratti pensavo amaramente ciò che Lupa blanca voleva anche farmi idealmente capire. La distruzione della terra, la fine delle foreste, l’alienazione dei sentimenti di amore e di comprensione. Con il suo diretto esempio e con quelle che elettivamente mi trasmetteva cominciai poco a poco a comprendere meglio e più a fondo i molti segnali di avvertimento sulla distruzione della wilderness della terra.
Lupa blanca era la sublimazione assoluta della selvatichezza allo stato puro, e mi faceva anche percepire quell’armoniosa melodia che poteva vibrare tra lo spirito dei popoli, tra lo spirito unitario tra uomo e natura. Sembrava voler riconnettere un legame brutalmente reciso dall’uomo verso l’anima della vita. Lupa blanca creò con me un feeling indissolubile anche perché vi leggevo nei suoi profondi occhi una passione di grande verità e, quando mi sembravano lucidi, li immaginavo che si commuovevano anche per me. Era praticamente nato un indefesso amore transpersonale dove Lupa blanca recitava la parte dello spirito sensoriale del femminile e io, ovviamente, quello maschile, la cui sensibilità poteva solo essere presa in dono. Era proprio così infatti: l’anima femminile consente in genere di far trasmigrare in quella maschile quel senso di buono che può regnare nell’animo dell’essere.
Una sera, stanco e affaticato, dopo una lunga giornata di cammino e di lavoro, caddi esausto accanto al fuoco che ero riuscito, a mala pena, ad accendere per cucinare qualcosa; nella successiva dormienza ebbi un turbinio di sogni molti dei quali il giorno seguente non li ricordavo affatto, ma, alcune scene in cui io e Lupa blanca correvamo liberi e leggiadri nella foresta di abeti, me le ritrovai tutte nitide e scandite nella riposata mente del mattino e fu un tutt’uno recitare, entro me stesso, mentre il mio pensiero era sempre per Lupa blanca, un bellissimo canto d’amore Inuit che conoscevo da molti anni…..“Questa notte ti ho sognata. Nel sogno camminavi sui ciottoli della riva, e io camminavo con te. Ti ho sognata, e sembrava fossi sveglio: ti inseguivo, ti desideravo, e tu eri desiderabile...... Così ti ho sognata, così eri desiderabile”.
Trascorsero molte lune e, tranne qualche pausa, mi capitava spesso di incrociare lo sguardo di Lupa blanca, anche se a tratti gli eventi della vita ci portavano lontano o ci facevano cangiare i nostri sentieri altrimenti quasi sempre congiunti. Quando ci rincontravamo dopo qualche tempo i suoi balzi di gioia e le mie lacrime di giubilo erano gli istanti più esaltanti dell’incontro; poi spesso Lupa blanca prendeva a correre sulle rive di un lago o sembrava che giocasse a nascondino tra i colonnati dei secolari abeti della foresta. Io cercavo di seguirla, di osservarla, di gioire con lei e, ogni tanto, ad essere sinceri, anche in quei momenti di positività trasaliva nel mio dentro una sorta di mancamento perché mi veniva di pensare o meglio di ricordare che Lupa blanca era una lupa selvaggia e prima o poi avrebbe anche potuto prendere una sua strada che l’avrebbe condotta verso lidi lontani dai miei. Quegli attimi di improvviso dolore mi smarrivano non poco anche se comprendevo la reale possibilità dell’evento. Mi ricordo che un giorno, mentre la pioggia con gran forza veniva giù, Lupa blanca passò vicino alla mia capanna, annusò l’aria, si volse verso me che nel frattempo mi ero precipitato sull’uscio e, come per non farlo sembrare una sorta di addio, si allontanò senza rivolgermi nessuna attenzione. Ricordo i miei momenti di panico quando la vidi svanire nella foresta …… Mi girai intorno, gridai il suo nome, corsi nel bosco e Lupa blanca non c’era più…. Tornai sconsolato nella capanna e mi raccolsi in un intrinseco dolore. Pensai che non l’avrei mai più rivista. Non so il perché, ma ebbi quella sensazione. Passarono settimane di sofferenza, di triste tristezza, di abbandono di me stesso….. poi improvvisamente una notte, era una notte stellata, la sentii ululare non lontano dalla capanna. Uscii di getto, corsi quasi senza direzione e, sotto le grandi ombre degli alberi illuminati dalla limpida luce della luna, il biancore di Lupa blanca apparve come un angelo avvolto in un simbolico mantello fosforescente. Mi corse incontro, gli corsi incontro e, quando arrivò ad un metro da me, si sollevò con le zampe posteriori e poggiò quelle anteriori sulle mie spalle. Io l’abbracciai con tutta la forza che avevo e non mi fu possibile trattenere la commozione e lunghe righe di lacrime scesero sulle guance. Fu un altro ennesimo momento di gioia che Lupa blanca mi offriva nella più totale spontaneità.
Trascorse qualche settimana, poi un giorno ciò che da tempo sommessamente pensavo prese maggior vigore dentro il mio cuore. Pensavo: Lupa blanca è un essere libero, perché la tengo legata a me che forse non possiedo più il mio lato selvatico? Non era certo un legame di forza, era un “patto” di amore ma cosa gli davo io effettivamente? Nulla. Proprio nulla. Era Lupa blanca che dava tutto a me e da parte mia mai nulla. Entrai in un tunnel di profondo sconcerto, di pacata rassegnazione e pensai che forse era meglio che io sparissi da lei per lasciarla volare sulle ali della sua libertà. Era pur vero che la mia presenza era fortemente accettata dalla lupa che a suo modo certamente mi amava, ma lei chissà se in tutto questo trovava qualche sofferenza o impedimento nel dispiegamento dei ritmi della sua esistenza? Avevo dubbi, incertezze, contorsioni esistenziali….. poi però feci scemare il tutto anche perché era sempre Lupa blanca che spontaneamente si presentava a me.
Trascorse qualche settimana e furono molti gli eventi che accaddero. Un giorno Lupa blanca aveva catturato un gallo forcello e la trovai vicino al letto del fiume mentre tenacemente ne smembrava le carni. Io mi avvicinai e lei, ma, ignorandomi del tutto, proseguì il suo da farsi. Io per contrappasso, andai a prendere la canna da pesca e, raggiunto nuovamente il fiume, in meno di un quarto d’ora, catturai una trota di un paio di chili. La cucinai proprio sulla riva del fiume, mentre Lupa blanca, posta ad una decina di metri di distanza, avendo ultimato il suo pasto, si era coricata su un fianco, ed ogni tanto mi dava una occhiata. Quando la trota fu ben cotta e parzialmente affumicata, ne lanciai un pezzo alla lupa che senza troppo entusiasmo lo mangiò con estrema calma. Probabilmente era sazia o non voleva darmi la soddisfazione di divorare con solerzia un boccone offerto da me. Ovviamente questi erano pensieri scherzosi, ma non facevano altro che contribuire ad unire sempre più il nostro legame di particolare amicizia.
Qualche giorno dopo accadde un fatto, tanto per cambiare, alquanto strano. Era mattina presto ed io ero vicino al lago ad osservare con il cannocchiale le strolaghe ed i cigni selvatici che arricchivano, con la loro amena e armoniosa presenza, le bellezze di quello specchio d’acqua, specchio d’acqua lambito in tutto il suo perimetro da una maestosa foresta fatta di pini i silvestri, abeti rossi, betulle ed ontani. Mentre era intento a quella piacevole incombenza, sopraggiunse Lupa blanca, con un andamento così felpato, tanto che non mi accorsi della sua venuta. Portava con la bocca un rametto di betulla adorno di gemme e, accostatasi a me, me lo depositò al mio fianco sinistro. Poi, allontanatasi di qualche metro per entrare nel sottobosco, raccolse una pigna di pino silvestre e fece lo stesso gesto. Quindi, rientrata nel bosco, dopo qualche minuto mi portò una pigna di abete. E fece sempre lo stesso gesto. Io tralasciai le mie osservazioni ornitologiche e, stupito per quel comportamento, chiamai a me Lupa blanca e le chiesi, ovviamente fittiziamente (non pensavo proprio che potesse comprendere il mio parlare), che cosa volesse farmi capire. Come palesavo non manifestò nessuna reazione al mio dire e si coricò tranquillamente ad un metro da me. Io meditati qualche minuto, poi mi alzai, presi i tre “reperti”, ed istintivamente andai a sotterrarli ai margini del bosco. Ovviamente la mia interpretazione fantastica fu quella che il gesto voleva simboleggiare il rinnovarsi della vita della foresta e nel contempo la salvaguardia della sua esistenza. Mi venne spontaneo chiedermi come faceva Lupa blanca a concepire qualcosa del genere, ma facilmente approdai alla conclusione che tutti quei suoi gesti rituali, forse non significavano proprio nulla, ma a me piacque pensare che invece erano un monito, un avvertimento sottile, sulla distruzione delle foreste che procedeva, nel mondo, ad una ritmo incalcolabile. Ovviamente l’immensa taiga era a pieno titolo, come le foreste tropicali, soggetta a quella incontrollata annientazione e giorno dopo giorno, immoti giganti di quell’immenso mare verde, venivano giù sotto la “scure” dei moderni buldozer taglia alberi.
Fu una sensazione spiacevole, ma purtroppo sin troppo veritiera. Il mondo selvaggio non era da tempo più presente nella mente umana e, gli immensi doni che ci offriva la natura, erano visti solo come un qualcosa di esterno da sfruttare per le più infime necessità di una società squilibrata, una società che vedeva solo ed esclusivamente il cosiddetto “sviluppo”. La mente malsana dell’uomo lo concepiva sempre assolutamente in continua crescita, altrimenti il sistema sarebbe andato in blocco.
La mia, a quel punto, fu una doppia interpretazione. La prima, quella simbolica del comportamento di Lupa blanca, frutto probabilmente della mia fantasia, la seconda, quella realistica e purtroppo inarrestabile cui tendeva con estrema solerzia il genere umano, ormai ingigantito da una incommensurabile globalizzazione. Era nata, ormai già da tempo, una società unica, ma fortemente diseguale che non risparmiava nessuna parte degli esseri umani e dell’intero pianeta terra!
Un altro piccolo evento catturò la mia attenzione. Stavo riscaldandomi la minestra della sera prima, quando sull’uscio di casa, sentii raspare la porta. Era Lupa blanca, probabilmente da tempo arrivata, ma con il mio affaccendarmi in cucina, non ne avevo scorto la presenza. Aprii la porta e, presa con me la gavetta colma di minestra fumante, mi andai a sedere sulla panca esterna, mentre Lupa blanca, dopo essersi avvicinata a me, si diresse verso il limitrofo punto fuoco dove aveva adagiato una lepre bianca, da poco catturata. Io la guardai, posai la gavetta e le dissi che ora voleva occuparsi anche del mio menù alimentare. Rimasi un po’perplesso, poi presi la lepre, la pulii come soleva farsi ed accesi il fuoco. Prima di cuocerla alla brace tagliai un bel trancio e la detti alla lupa. Non esitò un solo istante e con veemenza presa la sua meritata porzione. Io rinunciai alla mia minestra (mi sembrava uno sgarbo verso la lupa non accettare il suo pranzo) e di buon grado mangiai quel prelibato boccone che mi era stato elargito.
Un altro bellissimo esempio di fraterna amicizia profusami da Lupa blanca, mi fu offerto un giorno quando sul calar del sole ella si presentò alla mia capanna con un fare dinamico e pieno di energia. In sé non vi sarebbe nulla di strano poiché la sua forza vitale era sempre palesemente espressa nel suo globale modo di agire. Ma il mistero fu che proprio quel giorno io mi sentivo profondamente melanconico, avevo dentro di me una sensazione angosciosa senza nessuna apparente causa scatenante. Stavo giù di corda e niente più. Lupa blanca, invece, arrivò con un piglio estremamente dinamico, più dinamico del suo normale agire. Mi girò più volte intorno e, ululando in tono interrogativo, pareva chiedermi cosa stesse succedendomi. V’era praticamente in atto tra noi una vera e propria connessione telepatica. Io rimasi immoto, osservandola con un misto di curiosità e di meraviglia. La lupa si avvicinò a me, mi tirò leggermente per i pantaloni come per invitarmi a seguirla. Io interpretai quell’evento a “scoppio ritardato”, tanto che dopo quel tentativo della lupa di scuotermi dal mio torpore, ella stessa esitò sul suo proseguo, visto che da parte mia non vi era nessuna reazione. Ma poco dopo lupa blanca insistette sul suo intento di “trascinarmi” da qualche parte e, alla fine, mi feci prendere dall’evento. La seguii lungo il breve sentiero che ci conduceva al lago e li si fermò bruscamente guardando verso l’altra sponda. Una palla di fuoco illuminava la zona di un rosso purpureo, mentre d’intorno si diffondeva un’aria fresca e cristallina. Io assistetti a quei due semplici eventi: Lupa blanca che guardava il sole al tramonto e la luce che pacatamente trascolorava. Lupa blanca incominciò ad ululare, mentre il sole si andava spegnendo dietro la “grande muraglia” degli abeti. Rimasi in quel momento senza pensiero, e le mie precedenti malinconie, forse perché distratto da quei particolari accadimenti, mi si allontanarono leggermente. Poi, quando il sole tramontò e Lupa blanca cessò di ululare, un gran silenzio sovrastò la scena, ma ormai il concerto cui era stato invitato ad ascoltare stava per manifestarsi in tutte le sue forme. Un improvviso anelito di vento, scosse la stasi immota degli alberi, mentre le strolaghe nel lago emettevano i loro interrogativi e lupini guaiti. La luminosità declinante rese il paesaggio sempre più opalescente e a quel punto la lupa si girò verso di me per poi rivolgere nuovamente lo sguardo verso il lago morente di luce. Rimanemmo in tale stato per circa una mezz’ora ed io stavo avvertendo una sorta di inquietudine, quando, come se fosse un’apparizione improvvisa, si unì al concerto estatico la pienezza della luna. A quel punto le cose mi divennero chiare: Lupa blanca voleva palesarmi che la vita è strutturata con un andamento variante e multiforme e non c’è momento che il cangiarsi delle situazioni non siano ricche di forme e contrasti forti e variegati. A similitudine, anche la vita del singolo aveva questi dinamici connotati e vi era un’unico spazio cui non era consentito entrare, perché era uno spazio che non poteva esistere: era quello della rinuncia al dinamismo della vita, era quello di essere melanconici e pessimisti, era quello di vedere le cose da un solo e opinabile punto di vista. Era un monito chiaro, fattomi palese da semplici e comuni eventi che ogni giorno si manifestano, rinnovati, nella vita.
Presi respiro, guardai Lupa blanca ed ancora una volta constatai la sua particolare sensitività nel carpire i miei a volte sin troppo frequente stati di abbandono e di pacata tristezza. Capii allora che nella vita, pur se sovviene un attimo di smarrimento o di perduta gioia, essa, la gioia appunto, è sempre dietro l’angolo e ci attende con il massimo del suo splendore. Venga pure il pessimismo, la tristezza o la rassegnazione, ma, se daremo ascolto al libero dispiegarsi della vita selvaggia, la gioia e la forza positiva del vivere avrà sempre il sopravvento. In natura, termini come melanconia, tristezza, pessimismo ed altri ancora, non trovano mai alcun spazio cui manifestarsi, perché sono in profonda ed incolmabile antitesi con il dono del quotidiano esistere. La forza del singolo si prova quando deve confrontarsi con un atto di coraggio e di robustezza. Lupa blanca mi aveva insegnato che ciò che di negativo a volte subentra all’interno dell’anima, è normalissimo, ma è solo un brevissimo istante di contrasto su ciò che è la vita vera e su ciò che è l’unico percorso da seguire. Con l’animo ristorato, nel colmo della notte, rientrai nella capanna.
Insomma, come detto, tutti questi piccoli eventi, pur se non spiegabili razionalmente, mi avvicinavano elettivamente sempre più alla cara Lupa blanca e mi pareva cosa estremamente remota, forse per una sorta di rimozione froidiana, che un giorno quella amena amicizia si potesse improvvisamente interrompere. Erano troppi i segni e gli insegnamenti che la lupa mi elargiva ed io cercavo di scorgere in ciascun atteggiamento, anche piccolo che fosse, quale significato vi era celato, se significato doveva esserci.
In un’altra occasione presi a camminare lungo il bosco con la lupa che mi seguiva come un mansueto cagnolino. Mi appariva sempre così strana quella sua confidenza, tanto che una volta feci una prova. Mentre procedevamo sul bordo di una palude distanziati una trentina di metri, mi fermai e la chiamai a me; subito, con una obbedienza militaresca, mi raggiunse prontamente e si fece accarezzare come niente fosse. Un vero e proprio apparente comportamento addomesticato.
Nei meandri degli eventi un giorno arrivai alla fine a pensare che Lupa blanca non era una lupa selvatica, ma forse fuggita da qualche presunto “proprietario” che, avendola presa sin da cucciola, era ormai avvezza alla compagnia umana. Ma il suo modo di fare smascherava facilmente questo mio poco convinto pensiero. Era una abilissima cacciatrice, scompariva per settimane per riapparire improvvisamente a suo piacimento; manteneva, pur nella sua apparente docilità, un’espressione e un modo di agire che le davano tutti i connotati di essere selvaggio e, pur se mi sforzavo di descrivere il suo comportamento, nel profondo non trovavo mai i giusti attributi. Ero inevitabilmente limitato dai miei concetti di essere umano secolarmente addomesticato.
Insomma, i giorni trascorrevano alacremente ed io mi sentivo sempre entusiasta e fiero di me di avere come compagna, sia pure non costante, una lupa selvaggia. A volte infatti mi domandavo se il tutto era vero o il semplice frutto della mia “testarda” fantasia. Di tanto in tanto mi chiedevo se Lupa blanca fosse una essere solitario, come la vedevo io, o apparteneva a qualche branco che frequentava quando spesso era assente dalla mia capanna. Probabilmente, vista la sua forza e il suo carattere era una femmina alfa e a suo volere decideva, quando ne aveva le opportunità, di allontanarsi dal suo gruppo per venire da me. Non sapevo, ma ero dubbioso sulla sua totale solitudine rispetto ai suoi simili. Ma, in ogni caso, non la vidi mai insieme ad altro lupo.
Tuttavia, nel suo complesso, quel mio tangibile legame con Lupa blanca, come già detto, in certi momenti mi sembrava estremamente strano e non vi scorgevo, lo ripeto ancora, il significato della situazione soprattutto da parte del comportamento della lupa.
Passarono ancora diverse settimane ed erano almeno sei mesi che Lupa blanca veniva spesso a stare con me. Ma con il tempo che trascorreva, pur se mi sentivo adagiato sugli allori, ricaddi nuovamente in quella crisi, forse ingiustificata, ma che in ogni caso pervadeva tutto il mio essere. Era veramente cosa buona che Lupa blanca stesse tutto quel tempo insieme alla mia mediocre domestichezza? I dubbi mi si concretizzavano sempre più pur non notando nulla di strano nel comportamento dell’amata lupa. Ma, dopo una sua assenza di cinque giorni, quando ella tornò mi trovò, in uno stato mentale fortemente assente, seduto sulla panca che contornava il punto fuoco. Lupa blanca, come era suo solito, mi girò intorno, emise un piccolo guaito seguito da un breve cenno ululante, come per dirmi di “svegliarmi” ed io, in quella circostanza, le dimostrai una sorta di freddezza, pur se il termine era un po’esagerato. Poi, forse colto da un profondo senso di colpa, non so, la guardai con l’intenzione di scacciarla violentemente, ma mi frenai, perché il mio spirito non se la sentiva di allontanarla…... Ma qualche tempo dopo, d’improvviso, in un giorno di primavera, allo sciogliersi delle ultime nevi, mentre Lupa blanca dopo un’assenza di due giorni veniva verso di me, in una specie di trans, le gridai contro, la intimorii, le brandii un bastone e le continuai ad urlare all’eccesso. La lupa ovviamente con meraviglia si spaventò non poco e, pur con un trotto non eccessivamente sostenuto, si allontanò, prendendo la direzione della foresta…… Il giorno successivo della lupa non v’era traccia ed allora approfittai per riempire la mia sacca da viaggio con l’intenzione di approdare, temporaneamente, in un luogo estremamente remoto dove Lupa blanca non poteva raggiungermi………. Il tempo avrebbe fatto il resto…...!”
Così si dissolse il sogno e questo è quanto annotai su di esso. Tuttavia, il giorno successivo, volli riassumere, sempre sul quaderno, gli accadimenti della giornata precedente con alcune riflessioni aggiuntive: “A quel punto mi destai di soprassalto e, come detto, rimasi particolarmente colpito da quella storia fantastica. Dopo averla trascritta mi soffermai, leggendola più volte, a riflettere per quale motivo quel sogno mi aveva così fortemente turbato, tanto da volergli trovare o forse meglio vedere, nel suo sviluppo, un qualche significato, ammettendo che i sogni ne abbiano qualcuno.
Fu nel tardo pomeriggio che, pensiero sopra pensiero, giunsi alla conclusione che a mio avviso la parte più strana che non vedevo collimare con la mia indole, era la conclusione del sogno, il suo svanire durante un atto inconcepibile, cioè il mio volontario e deciso allontanamento da quella lupa il che era in nettissimo contrasto con la mia vita reale poiché, come più volte espresso, per i lupi e per la vita selvaggia avevo sin dalla tenera età un fortissimo legame sia simbolico che tangibile con mano. In altri termini vi era fors’anche un’esagerata affinità elettiva con questa imperscrutabile specie, ma io nel sogno, nel quale ebbi la grande fortuna di essere “amico” con una lupa, volli volontariamente allontanarmi da lei in forma netta e decisa. Non capivo il senso e mi prese una sorta di autopersecuzione per carpire cosa potesse significare quel mio gesto così forte.
Ma vi era anche un altro elemento non affatto secondario, fattomi percepire nel sogno da Lupa blanca, che mi turbò non poco; fu la consapevolezza del declino della vita selvatica, delle primigenee foreste e della natura nel suo complesso. Allontanando Lupa blanca mi sembrava che tentassi di ignorare anche quella realissima consapevolezza. Mi pareva infatti che Lupa blanca mi avesse fatto comprendere che…… i lupi selvaggi vanno via. Lo spirito del selvaggio va via. Il respiro del selvaggio va via. Foreste silenti e senza fine vanno via. Ogni cosa, libera e selvaggia sta andando via. Il tempo scorre e il selvaggio va via. La luce che illumina il selvaggio trascolora. Tutto ciò che fluisce senza tempo sta andando via. Forse lo stesso ricordo del selvaggio sta andando via. Stiamo perdendo la nostra vera essenza. Stiamo migrando nel vuoto della vita e stiamo, poco a poco, sommessamente spegnendoci. Siamo sempre più poveri della verità del selvaggio, siamo sempre più poveri della stessa vita, siamo ancor più poveri dell’ululato del lupo. Una lontana e flebile melodia vuole cantarci il mondo della wilderness, ma ci sta suonando note di infinita tristezza, perché ci siamo ritratti dinanzi all’assolutezza del selvaggio. Canta pure o melodia e sveglia l’anima assopita del nostro spirito che ormai non contempla più il mondo della natura. Addio lupo fiero e gentile, addio lupo fiero ed indomito, addio luci selvagge dello spirito che, nel dissolversi, portano il nostro cuore verso l’oscurità più tetra e, melanconicamente, verso una strada senza uscita e senza più anima né speranza. Le foreste ci osservano attonite mentre perlustriamo vanamente un mondo che è sempre meno selvaggio, scevro dalla verità dell’ululato del lupo. Io grido con forza contro tutto questo, perché so che perdendo il selvaggio, perdendo l’ultima frontiera della natura vuol anche dire perdere la vita e lasciarsi dietro alle spalle un mondo fatto di bellezze infinite e di silenti foreste. No, io non lo accetto! Il selvaggio deve tornare e, se potrà accadere, dovremo a quel punto riacquistarlo e riviverlo in tutto il suo splendore. Ma ora, dinanzi a questo baratro, sull’ululato del lupo potremo riflettere a lungo e scrivere tante parole e fors’anche diremo tante cose, ma la nostra retorica non ci porterà mai all’essenziale! E’ questo è proprio quello che ci manca: l’essenziale ed allora ci ritroviamo improvvisamente soli. Una solitudine che abbiamo voluto, fortemente voluto perché non abbiamo ormai più l’udito per ascoltare l’ululato del lupo. L’ululato del selvaggio……!”.
Comunque passò del tempo ed i miei impegni quotidiano mi distolsero, per un certo periodo, da quell’evento, anche perché con il passare dei giorni associai sempre più gli avvenimenti di quel sogno come qualcosa di casuale e poco per volta feci scemare quella iniziale tensione emotiva all’interno di una semplice suggestione onirica.
Ma esattamente due mesi dopo accadde ancora qualcosa di strano. Fu ancora un sogno, ma questa volta indecifrabile tanto che la mattina, appena dopo il risveglio, non ricordavo quasi nulla tranne delle vanescenti sembianze di un essere non definito, sfuggente e di colore bianco. Il fatto non mi turbò li per lì, ma con il passare delle ore quel colore bianco mi portò, forse facendo viaggiare la fantasia, all’immagine di Lupa blanca, la candida e leggiadra Lupa blanca. Forse l’associazione in quel momento fu forzata, ma ciò che accadde quattro giorni dopo sembrò confermare quella mia apparente fantasticheria.
Mi trovavo per caso in un’ampia zona aperta dove la tundra si sostituiva alla grande foresta. Mentre percorrevo il filo di cresta di una collina, vidi in lontananza il movimento di un qualcosa. Inquadrai subito la zona con il mio binocolo e, pur ponendo molta attenzione alla fase osservativa, non scorsi nulla. Ripreso però il cammino, sempre con l’occhio rivolto nella direzione del presunto avvistamento, vidi, questa volta con certezza, il correre di un mammifero che, inquadrato subito con il binocolo, risultò essere un bellissimo esemplare solitario di lupo. Ma quello che causò una mia incontrollata emozione fu che quel lupo era di colore bianco! Non sarebbe stato nulla di strano perché nella tundra non è così rara la presenza di lupi dal mantello chiaro, ma l’associazione inconscia e poi palese con il mio sogno mi portò immediatamente a Lupa blanca. Dopo qualche minuto di instabilità psicologica, il lupo scomparve dal mio binocolo, poiché una depressione non permetteva più l’osservazione diretta. Tuttavia, la mia fantasia incominciò a galoppare e, con una certezza da bambino, disse a me stesso che sicuramente si trattava di Lupa blanca.
Rimasi nella zona per un paio d’ore dirigendomi verso la depressione valliva dove era transitato poco prima il lupo, ma non vi era più alcuna traccia tanto che lentamente ritornai sui miei passi per recarmi al mio campo base dove avevo istallato una tenda.
Accesi un bel fuoco e rimasi in meditazione. La lucidità che sovvenne quasi subito mi fece ovviamente escludere qualsiasi associazione tra quel lupo osservato e gli eventi dei miei sogni, tanto che per un momento ridicolizzai me stesso.
Si fece sera e, dopo un frugale pasto, entrato in un caldo sacco a pelo mi coricai per dormire. Impiegai più di un’ora per prendere sonno, ma fu una notte agitata, una sorta di dormiveglia, tanto che la mattina mi sentii più stanco della sera. Ma in quel mio dormiveglia c’era stata la presenza, nella mia fantasia o nei momenti di sonno, non so, di Lupa blanca. Questa volta però non riuscivo ad avvicinarla e appariva sfuggente e quasi fantasmagorica. Era probabilmente solo una sublimazione di Lupa blanca e nulla di tangibile. Altri particolari non li ricordavo affatto. Ma il dubbio più grosso fu, come accennato, se quelle opalescenti immagini erano nei momenti di sonno o nella mia leggera dormienza, cioè frutto di una specie di “allucinazione” o di fantasia notturna cui avevo palesato quella mia tanto ricercata lupa. Il dubbio mi rimase, ma nuovamente si riaccese in me le rimembranza del primo sogno, fatto mesi prima in cui, come ho ampiamente descritto, mi allontanai volontariamente ed inspiegabilmente da Lupa blanca. Di nuovo, quello che poco per volta si era affievolito, ora era di nuovo presente nella mia mente e non mi dava né pacatezza, né serenità. Dovevo ad ogni costo interpretare, nel giusto significato, il mio rifiuto di un rapporto di amicizia con un essere selvaggio, una simbologia, il selvaggio appunto, cui la mia persona e il mio spirito inseguiva da anni!
I giorni seguenti, tornato alla mia solitaria abitazione, il pensiero di trovare una risposta non si placava e solo i consueti impegni di lavoro quotidiano riuscivano a distrarmi almeno un po’. Tutto mi sembrava strano, anche la stessa probabile esagerazione che stavo facendo su un semplice sogno, sogno che come molti altri, non hanno spesso una linearità e uno sviluppo che possa collimare con la logica razionale. Quindi, a tratti, mi allontanavo dall’evento, mentre in certi momenti ne ero fortemente attirato.
Sotto la nevicata
Sotto la nevicata il giovane Orso bruno seguiva la traccia di sentiero che costeggiava un corso d’acqua. Girovagò sulla sponda del fiume, ovunque insuperabile; provò alcune volte a scendere in acqua ma la corrente forte e l'acqua alta lo facevano desistere ogni volta.
L'Orso lasciò infine la riva e prese a salire un piccolo crinale nella limitrofa foresta, rinunciando a guadare il fiume.
L'alba arrivò lentamente; si fece giorno a mano a mano che il cielo si illuminava del sempre più fioco nordico sole. Infatti, i suoi raggi non erano caldi, la latitudine era troppo elevata. Il freddo era già intenso, e le pozze d'acqua erano ormai completamente ghiacciate; solo brevi tratti delle sorgenti dove l’acqua scorreva rapida, il gelo attendeva ancora, ma era solo questione di giorni.
L'Orso bruno si avvicinò alle sorgenti del Variokj e bevve lentamente, ma ciò che lo aveva attirato là più che la sete era l'odore che emanava un tronco di pino silvestre che emergeva quasi dalla polla d'acqua, martoriato da graffi antichi che generazioni di orsi avevano segnato con i loro forti unghioni ed intriso di peli che la resina tratteneva con tenacia; il suo fiuto gli disse che altri orsi erano stati alla fonte in quel periodo, approssimandosi alle tane d'inverno. Anche l'Orso bruno dopo aver annusato il pino gli si strofinò contro coi fianchi e con la schiena e ferì la corteccia con le unghie e coi denti.
L'Orso bruno entrò nella foresta tra le latifoglie ormai spoglie delle loro verdi fronde. Seguì un sentiero tra una vegetazione boschiva ricca di rami morti e tronchi d'albero schiantati dai carichi di neve e dal vento degli inverni precedenti, e si perse nel folto del bosco.
Il tardo autunno lo trascorse in quella amena estensione arborea. Si mosse spesso per raggiungere le numerose radure, alcune paludose; mangiò le bacche dei sorbi degli uccellatori, soprattutto di quelli più giovani cui arrivava alzandosi in piedi e poggiandosi sui tronchi. Pur se non li vide, in quella grande estensione boschiva, vi erano altri orsi compresa una femmina con tre cuccioli. Si allontanò da quel luogo quando il freddo si fece più pungente e quando una notte la neve venne ad imbiancare ogni angolo possibile; prese la via di un ben marcato sentiero che pian piano lo conducesse su aperte radure in cima ad una collina, poi tornò sui suoi passi e, nuovamente nel bosco, si saziò mangiando le bacche dei mirtilli rossi, sempre abbondanti.
Alcuni giorni dopo l'Orso bruno discese nella valle di Karden, lasciando le sue inconfondibile orme nel sottile strato di neve fresca che in alcuni punti era maggiore perché ammassata dal vento.
Nelle radure gli epilobi erano ormai steli secchi e rigidi e ogni altro tipo di vegetazione cespugliosa non era altro che un intrico di rami senza foglie.
Da tempo, dopo lo splendore della ruska le foglie delle betulle erano cadute al suolo a colorare il morbido strato della lettiera fatta di soffici muschi, rododentri, eriche e licheni.
Il freddo era oramai intenso e la neve caduta durante le ultime perturbazioni dell'autunno non se ne sarebbe più andata sino alla primavera successiva. Ormai le giornate erano sempre più corte ed il sole era già giù alle quattro del pomeriggio, mentre la mattina per vederlo dietro la grande muraglia della taiga, occorreva attendere almeno le nove.
L'Orso bruno stava attraversando la fitta e primigenia foresta della grande taiga diretto a delle zone aperte dove tra la neve poteva ancora saziarsi dei succulenti mirtilli; ogni tanto l'animale si fermò curioso ad annusare l'aria, come a trovare spiegazione a quel repentino cangiarsi del tempo, poi proseguì tra gli alberi attratto solo dal desiderio del cibo.
L'Orso bruno apparve improvviso sulla radura come un'ombra e scese in una piccola valle costellata di sassi che affioravano dalla neve; un sorbo degli uccellatori cresceva lì, contorto, e l'Orso bruno andò a rovistare tra la neve ai piedi dell'albero cercando i frutti fatti cadere a terra dagli uccelli.
La notte, ormai sempre più dominante, presagiva più di ogni altra cosa l’incipienza dell’inverno.
Stavo attraversando un brutto periodo
Stavo attraversando un brutto periodo esistenziale. Il fatto non era collegato con il sogno di Lupa blanca, ma era semplicemente il frutto di periodici miei malesseri esistenziali che in certi momenti si acuivano fortemente e prendevano il sopravvento su di me annullando qualsiasi pace interiore. In quei giorni le cose, che purtroppo mi attanagliavano sempre più, erano gli stati fortemente melanconici, depressivi, psicotici, ansiosi, fobici, allucinogeni; il tutto con un fondo incontenibile di tristezza. Vedevo improvvisamente la vita dilatata, in salita, opalescente, annullata e, fisicamente, avevo evidenti ripercussioni: stato di atarassia o astenia, pressione sanguinea estremamente bassa, difficoltà nel compiere anche i gesti più semplici, ecc. In molti momenti avevo la sensazione di non riuscire a vivere, anzi vedevo la vita dinanzi a me con un termine che sentivo di anticipare. Non sapevo, ma non ero sicuro, se la mia vita aveva qualche valore tanto da dover sopportare, in quei per fortuna brevi momenti, una sofferenza quotidiana quasi indicibile. Avevo sempre la forte tentazione di voler scendere, ma cercavo di tenere duro, finché la corda avrebbe tenuto! Il mio cuore pulsava, il sangue scorreva nelle vene, la mente divagava e forse, pur nella mia malinconia, sarei vissuto cento anni o forse avrei concluso l’esistenza l’indomani stesso, non sapevo.
“Dare un senso alla vita può condurre a follia
ma una vita senza senso è la tortura dell’inquietudine e del vano desiderio –
è una barca che anela al mare eppure lo teme”.
Così scriveva E. L. Masters, ed io mi riflettevo anche sull’inizio di quella profonda poesia quando diceva “…. una barca con vele ammainate, in un porto”. E si, per me più che il senso della vita in fondo erano le mie vele ammainate, perché la mia mente, sempre sognante e proiettata in avanti, per i suoi insanabili malesseri mentali e la sua autoprigionia, faceva si che qualora la barca avesse issato le sue vele per prendere il largo, sarebbe naufragata subito dopo. Avevo un totale distacco dalla realtà pur vivendo in un ambiente che per me era estremamente ottimale, pacato, isolato, lontano da tutto….. Ripetevo in quei momenti una semplice frase che riassumeva bene la mia esistenza. “Io sono un naufrago che rema senza sosta nel mezzo del mare con la speranza di approdare in qualche lido, non sapendo che non c’è più terra”.
E in queste circostanze l’unico mio pensiero positivo ed in fondo risolutivo era quello rivolto al caro ricordo di Lupa blanca, un’essere che, pur se nella fantasia, solo pochi fortunati al mondo potevano permettersi di avere in amicizia.
Molte cose che sentivo su di lei, le avevo già trascritte subito dopo il sogno, ma, in quei momenti, mi era mentalmente necessario ripetere, sia pure con le dovute variazioni, ciò che gratuitamente mi aveva donato Lupa blanca e che avevo annotato. Ricordavo ancora quella sera, nel sogno, quando mi risollevò da un profondo stato di atarassia e di malessere esistenziale. La sua bellezza era indescrivibile, ma quella principale stava nel suo animo, un animo gentile e profondissimo che aveva la capacità di comprendere e percepire le cose essenziali dell’umano esistere e portava con sé una amorevole senso di forza ed ottimismo, tanto forte da trasmetterlo a chi ne entrava nella sua conoscenza. Non che non avesse probabilmente momenti di sofferenza interiore, era pur sempre un essere vivente, ma aveva qualcosa di non descrivibile che la rendevano al di sopra delle parti. Riusciva, spontaneamente, ad andare sempre un po’ più in là dove gli altri si fermavano molto prima. Quando mi apparve nel sogno, come dissi, mi sembrò subito di averla sempre conosciuta, anche perché in forma istantanea si instaurò una forte, vera ed unica amicizia. Era la sua indole eccezionalmente penetrante che gli consentiva un sì grande atto di fraternità e di solidarietà.
Divenne subito per me un essere al di sopra di ogni cosa, per la sua spontanea amorevolezza e per la sua indomita grandezza di spirito, tanto che dentro me stesso provavo verso di lei qualcosa che le parole non potrebbero esprimere, perché, ciò che pervade la parte interiore di un essere, tante volte è così elevato che non può essere tradotto nell’umano dire.
Ecco, dunque, che Lupa blanca divenne per me anche nella vita reale un conforto esistenziale e questo rendeva ancora più oscura la mia scelta, nel sogno, di fuggire da lei…..
In fondo, per fare un paragone, era come scacciare, nel rapporto tra due esseri umani, la persona che si ama profondamente, di un amore per di più perfettamente corrisposto.
Perché rinunciai al selvaggio
Perché rinunciai al selvaggio in quel bellissimo e nel contempo conturbante sogno? Perché mi sembrava che rifiutavo l’evidenza della fine della terra fattami comprendere da Lupa blanca? Perché volevo ritrovare dinanzi ai miei occhi fantasticanti Lupa blanca e riabbracciarla con il massimo dell’amore e dell’unione? Perché continuavo ad essere schiavo e prigioniero di una semplice manifestazione onirica che, come ho detto, poteva non significare nulla? Infatti ripetevo sempre a me stesso che non era null’altro che un sogno, ma alla fine percepivo nel più profondo che un significato pratico l’avesse. Forse la mia mente voleva rimuoverlo, annullarlo, ma in realtà a prevalere era sempre la ricerca sopra qualunque proposito, conscio ed inconscio!
Quel sogno aveva una palese e dominante struttura surreale, ma era anche ricco di eventi pratici, eventi che vissi nel sogno medesimo e, l’indomani, con il senno del poi, riuscii infatti a trascriverne non solo lo sviluppo, ma anche le innumerevoli consapevolezze pratiche, le riflessioni e gli approdi a lidi concreti. Ebbi a tratti la sensazione che avevo vissuto un sogno all’interno di un sogno. La surrealtà nel descrivere gli avvenimenti, ha la forza e la piena libertà di poter dar mano libera a sensazioni o a fatti concreti senza il vincolo della logica e della limitante razionalità. Nella maggior parte degli eventi della vita, avvalendosi solo del ragionamento cosciente, probabilmente non si riesce ad andare un po’oltre il limite delle categorie mentali a cui siamo fortemente incatenati. L’elemento surreale fu sempre un mio cavallo di battaglia anche in miei scritti precedenti, perché, ripeto, consentivano di esprimere il massimo della realtà con il massimo della libertà. Così accadde con il sogno di Lupa blanca, ed ora, anche se non ne comprendevo il mio “rifiuto” della parte conclusiva, mi aveva, in ogni caso, donato una vasta gamma di possibilità per carpire appieno altre cose, cose cui forse con la ragione in mano, non sarei mai arrivato.
Tuttavia, per un lungo periodo, quando la sera mi coricavo per dormire, speravo sempre di sognare il proseguo di quella storia e che avesse ovviamente avuto un ben altro decorso conclusivo. Ma ciò non avvenne più e, pur se con il trascorrere del tempo, per lunghi periodi non pensavo più a Lupa blanca, ogni tanto, soprattutto nei giorni di malinconia e di tristezza, come ho ampiamente descritto, il mio pensiero correva subito da lei e il suo simbolico aiuto, all’interno della mia fantasia e nelle rimembranze del sogno stesso, risultò essere sempre un soccorso risolutivo.
Un giorno, però, mi sovvenne l’idea di riscrivere la storia di quel sogno e di dargli uno sviluppo ed un fine confacente con il mio essere e con le mie sensazioni. Ma anche quel nuovo proposito naufragò subito, scrissi una sola pagina e la gettai via, perché, pensai, se gli davo una interpretazione completamente manipolata dalla stato cosciente, razionale, sarebbe stata nel suo complesso sicuramente confacente ed appagante con me stesso, ma non avrebbe mai rivelato il vero significato del “monito” datomi dal sogno di Lupa blanca.
Preferii in conclusione di non pensare più a nulla e a lasciare sepolto nel mio inconscio quello che cercavo palesare.
E fu così che alla fine rimase tutto praticamente incompiuto, sperando che lo sviluppo della mia vita mi conducesse, nel suo decorso, a comprendere veramente, senza fallanze e forse senza averne coscienza, ciò che si celava dietro la leggiadra favola di Lupa blanca. “Amica mia, ora non posso credere che per causa mia il tempo per noi sia finito, no, perché non posso sopravvivere alla tua perdita. La mia anima ne muore……….. Ma se tu devi andare.... anche io svanirò nel nulla.
E ti ricordo che ogni fiore selvaggio, anche se appassisce in fretta, prima di morire dona al vento infiniti semi...”.
Un giorno decisi di inoltrarmi
Un giorno decisi di inoltrarmi per un paio di settimane, un po’ anche per stemperare quel mio fissismo sulle verità oscure del sogno di Lupa blanca, nell’ombrosa e silente taiga, percorrendo qualche decina di chilometri e bivaccando la sera accanto ad un confortevole fuoco; volevo captare ancor più le sensazioni che la solitudine traduce in multiformi e pacate riflessioni. Il risultato interiore fu ottimale, perché potei soffermare la mia mente, nella calma e nella rilassatezza, su molte speculazioni significative. Il taccuino degli appunti che portai con me si riempì così fittamente in sì breve tempo che dovetti annotare alcuni schemi riflessivi anche sulla copertina e sul retro........
Quando feci ritorno, a dire il vero un po’esausto, alla mia semplice dimora, ero fortemente preso ad elaborare i miei appunti, ma trovai una sorpresa che mai avrei potuto immaginare: la cassetta della posta era completamente aperta e all’interno non vi era più nulla. Lì per lì non mi soffermai molto su quel fatto, in quanto fui preso da una sorta di preoccupazione su chi era stato nella mia dimora e per quale motivo. Infatti, subito mi precipitai in casa, ma non trovai nessun segno di presenza, né le porte presentavano forzature o maldestri tentativi di irruzione. Ogni cosa era al suo posto ed ebbi, per un istante, la parvenza che una specie di “fantasma” o di spirito etereo potesse essere stato nella zona. Tornai fuori e non vidi traccia di nulla. Mi chiedevo chi mai poteva essere ad aggirarsi in quel remoto posto ed essere per di più interessato solo alla mia corrispondenza. Rimase un mistero, ma per alcune notti non feci sonni tranquilli.
Passarono alcune settimane e la mia mente di tanto in tanto tornava sul mistero di quella visita, ma alla fine non mi preoccupai più, altrimenti, con la mia totale solitudine, sarei impazzito di paura o di dubbi.
Era trascorso più di un mese da quel misterioso fatto, anche se alla fine pensai che qualche viandante poteva pur essere passato e, non essendo un ladro o un malintenzionato, non pensò di prendere nulla ad eccezione, e questo mi suonava sempre strano, delle mie “schizofreniche” lettere.
Un nuovo autunno
Un nuovo autunno era alle porte e, prima di dovermi preparare per un altro duro inverno, decisi di compiere nuovamente una escursione di più giorni, questa volta però solo di una settimana o poco più. L’aria autunnale che già cominciava a farsi sentire, era un’ottima ispiratrice alle riflessioni ed agli ascolti. Così una mattina, poco dopo l’alba, presi il cammino verso settentrione. In fondo il mio andare era sicuramente un fatto materiale, ma la mia mente era sempre libera e soprattutto pronta a vagare nella fantasia e spesso nelle illusioni all’interno di un proprio inestricabile mondo: un mondo a modo mio! Mi immaginavo sempre che tutta la natura fosse dinamicamente intatta, dove: “In ogni luogo ci vorrebbe un posto, così, lasciato incolto”. Poi il mio mondo era fatto di “foreste lontane, laghi blu, colline verdi e cieli puri dove gli animali vagavano liberi e gli uomini conoscevano ancora l’armonia del tutto”. Il mio mondo era sereno, appartato, solitario e lo scontro, che sino a prima di questo viaggio di ascolto avveniva dinanzi alla cruda realtà della civiltà, mi conduceva sempre ad uno sconforto ed ad una sempre maggiore necessità a chiudermi in me stesso. Una specie di autismo vero e proprio. Comunque, avevo sempre i giusti “personaggi” che, nel mio immaginario, mi proteggevano e mi elargivano i più saggi consigli e le pratiche cui seguire. In tal modo avevo qualche possibilità di sopravvivere, di difendermi, altrimenti mi sarei completamente perso tra le vie oggettive “dell’altro mondo”.
Vagai dunque per una settimana, tra le bellezze di quei luoghi e le fantasticherie della mia mente. Poi tornai alla capanna. Rientrato mi coricai sul pagliericcio e rimasi immoto per un paio di ore, quando mi sovvenne la preoccupazione se ancora una volta v’era stata qualche nuova misteriosa visita. Ma nulla era mutato e fuori, guardando nella cassetta della corrispondenza, ovviamente non c’era più nulla; poi, con una certa superficialità, posai lo sguardo in quella della posta in “entrata”, l’aprii meccanicamente e a quel punto la mia “crisi” fu totale. All’interno di essa v’era un rotolo di carta ben serrato e raccolto da un fiocco rosso!!! Credo che trascorse meno di un quarto di secondo ed io avevo già tra le mie mani quel misterioso plico. Mi precipitai nella capanna, sciolsi il fiocco e subito mi accorsi che il tutto era composto, più o meno, da una decina di pagine. Erano scritte con inchiostro nero e con una calligrafia estremamente chiara e curata. Il cuore mi batteva nel petto e al momento non osai leggere nulla. Uscii dalla capanna e mi guardai accuratamente intorno, ma “ovviamente” non vidi nulla. Presi respiro, cercai di contenere il mio sconforto, poi raccolsi la mia mente e con poco coraggio rientrai nella capanna. Avrei dovuto leggere quel plico. Fui ancora indeciso, poi dissi a me stesso che alla fine ogni fantasia può essere anche realtà. Mi accomodai sul tavolo della cucina e presi a leggere.
Come prima cosa notai che non vi era intestazione ed era scritto in prima persona come se l’avessi elaborato da me medesimo, ma non volli andare con l’occhio all’ultima pagina per leggere la firma, ammesso che vi fosse stata. Sorseggiai un po’ d’acqua e mi lasciai andare.........
“Mi trovo solo nella capanna. La neve cade copiosamente ed ogni cosa pare sublimarsi nella bellezza della materia e dello spirito. Sto scegliendo una vita diversa, ma devo impegnarmi a vivere e a respirare il nuovo. Non devo avere timore di cambiare e di unirmi al tutto. Devo trasfigurare me stesso in me stesso. Devo camminare nella notte, volare nella mente ed assaporare il significato recondito della verità naturale. Mi trovo solo nella capanna e devo attingere l’acqua dal pozzo e riscaldarmi con la legna che ho raccolto....... E’ proprio vero. E’ difficile ritornare semplici, è veramente difficile farlo e soprattutto sentirlo dentro. Mi inebrio delle luci interiori e trasfiguro nell’infinito, ma respiro a fondo e mi alimento con il mio nuovo pensiero. Sento a tratti la verità celata che poco a poco torna alla luce. La luce, una parola bellissima che si contrappone alle tenebre, non quelle della notte, ma quelle dello spirito quando è impegnato a ricercare l’effimero e il vacuo. La luce mi riporta alla vita, fors’anche unita alla morte stessa, ma la verità poco alla volta mi penetra nella solitudine e nella smarrita via. Mi trovo solo nella capanna. Il vento porta con sé turbini di neve, gelide sensazioni, ma trasferisce anche nell’aria il richiamo del selvaggio e limpide visioni che il frusciare delle fronde degli alberi amplifica teatralmente. Mi chiudo nel mio io, cerco di guardarmi dal mio interno e vedo i miei errori, le mie indecisioni, le mia fugacità e mi spingo oltre, oltre il mio limite e, con sorpresa, comincio ad intravedere la riva giusta dove ogni cosa è come deve essere e come sempre sarà. Caro lupo solingo, torna nella mia mente, aiutami ad aprimi al mondo selvaggio affinché possa ritrovarvi il carico di verità e di bellezza. Grazie spiriti dei boschi. La vostra voce annuncia la libertà, annuncia la giusta via ed io, in balia della vera vita, trasmigro lentamente verso l’assoluto, un assoluto che in forma opalescente ricordo che un tempo lontano era in me, in ogni essere umano poi...... la ‘magica’ parola civilizzazione ce lo ha portato via ed io mi sono stancato, è vero, mi sono stancato. Riconosco tutti i miei errori, uno ad uno e difficilmente cerco di trovarvi in mezzo qualche atto di saggezza. Poi d’improvviso ne trovo uno: la consapevolezza, l’essere consapevole di qualcosa. E’ un grande possesso, perché è il primo passo verso la giusta via. Ma a questo punto non devo più tornare indietro. E’ troppo bello per perderla di nuovo. Non me lo posso permettere. Perdonatemi tutti se un giorno lo potete. Mi sento meschino ed effimero, ma ho cominciato ad essere ora veramente consapevole ed ora non posso far altro che andare avanti per un illuminante ed onnipresente percorso. Sento ululare i lupi. Finalmente lo comprendo nel modo giusto ed indiscusso. Ma soprattutto ora lo vivo veramente. Esco dalla capanna e mi unisco a quel penetrante suono perché nel mio cuore finalmente sento che posso ricominciare, ricominciare davvero”.
A quel punto la lettera aveva una linea tratteggiata come se si fosse concluso un capitolo e si andasse a quello successivo. Continuai a leggere......
“Nel pieno dell’inverno nordico mi trovo raccolto nella capanna circondato dall’infinita taiga che nell’apparente sonno ti dona la vita e il ‘respiro’ del sangue. Torna in me continuamente la sensazione della libera libertà, con il vigile sguardo metaforico del lupo selvaggio. Non comprendo più il peso delle falsità e delle maschere, sento la verità affiorare dalla mia pelle e nulla, proprio nulla può distrarmi da tale stato d’animo. Essere nella natura selvaggia significa essere sempre se stessi, messi a nudo con le proprie debolezze e con tutti i limiti che ogni esistente porta nel proprio fardello della vita. Ogni azione delle membra e dello spirito sono essenziali, ed ascoltare, saper ascoltare il silenzio e la solitudine è ormai una cosa da apprendere e non più da constatare. Nulla può toglierci il desiderio di respirare il vero, e nessuna cosa può impedirci di svincolarci dalle inutili catene che ci siamo progressivamente imposti. Ma dobbiamo voler farlo.
Ascoltare il silenzio, l’immoto silenzio che dona la riflessione, la calma e la vera serenità. L’alienazione di un uomo solo tra le mura della civiltà è forte e lo conduce pian piano verso la sua rovina e la sua perdizione. Si estingue da sé, si toglie il respiro da sé e non c’è cosa che lo possa svegliare dal profondo sonno del proprio spirito. Io ho imparato ad ascoltare, ormai molto bene, la calma e la voce della mia parte interiore che alla fine si compenetra perfettamente con il grande respiro dell’essenza della vita selvaggia.
Ero prigioniero e schiavo dell’angoscia e dell’ansia, e non ero affatto padrone di me stesso. Ero una sorta di burattino i cui fili erano mossi dalla brama della vita apparente, e non conoscevo più i segreti delle mie verità nascoste.
Mi sono recato, per farlo, ai margini del vorace grande cerchio della civiltà, che tutto assembla uniformemente e riduce ogni cosa simile ad una “macchina” che produce, guadagna e, soprattutto, consuma. Uscirne sostanzialmente fuori, o almeno porsi ai margini vuol dire aver compreso che dentro ogni vita pulsa qualcos’altro che non sia denaro, potere ed effimere chimere. La piccola e semplice socialità potrebbe condurre ad un rapporto multiforme, armonico e sapiente, ma la grande, globale e insensata socialità, o meglio ‘asocialità’, trasforma le cose difformemente anche se in apparenza le accomuna e conduce, direi, repentinamente verso l’abisso e la fine del saper ascoltare il ‘silenzio’.
L’interiore visione della vita non sembra più appartenere all’uomo contemporaneo, e vengono alla luce tutti i malanni di un tale stato. L’uomo dunque degenera credendo che con il suo operato stia facendo sempre meglio per ‘uscire’ progressivamente da una vita che gli sembrava insofferente e priva di cose ‘utili’. Sta cadendo dunque nel tranello di se stesso, in una trappola che alla fine può non consentire una via di ritorno.
Io rifletto sul senso della mia vita e riconosco che essa non è una scelta, ma un dovere, un dovere che deve essere onorato nel migliore dei modi. Se annullo me stesso per trascorrere un’ esistenza senza significato è come se mi rifiutassi di vivere, e ciò non è bene. Devo reagire alle negatività che mi impongo o che a volte mi sono indirettamente imposte. Devo sprigionare la mia energia positiva per dedicarla alla qualità dell’esistenza.
D’intorno la taiga sembra che dorma, ma mi ammonisce, mi risveglia il senso di me, e mi conduce direttamente verso la via dell’essenza. Così io prendo il mio spirito e lo lascio scorrere per il fiume della vita. Una vita di qualità e di essenza dove il vacuo e le nullità non trovano più posto. Ho finalmente compreso che il sogno e la realtà si fondono in un’unica muliebre sostanza dove la bellezza di ciò che è natura respira dentro me e dentro le cose.
Sento veramente nel mio essere la wilderness della vita, il richiamo del selvaggio. E’ inutile inalberare grandi discorsi se si uccide la natura. Ce ne andiamo tutti. Dobbiamo invece respingere il nostro egoismo ed accettare l’universa bellezza che il semplice ululato del lupo può già ben rappresentare. Perché ciò che offende il senso delle cose, il senso della natura, offende in un sol colpo la totalità del tutto. Sento di voler amare la vita con la natura, perché la natura è amore e vita stessa. Per me ogni cosa che offenda la natura era inconcepibile e da questo punto di vista la mia netta tendenza è, o tutto bianco o tutto nero. La mia mente non concedeva alcuna sfumatura all’opera distruttrice del mondo naturale da parte dell’uomo.
Io mi ritrovo nella capanna nel cuore della taiga e scrivo queste righe, il racconto di ciò che ‘disse e non disse’ il lupo, il racconto dell’amore. E sento un canto, un canto di dolore, quando l’uomo per suo spontaneo volere toglie ed annienta ciò che crede non gli appartenga più. Canta il suo errore, il suo malefico errore, ed io provo a riconoscere il giusto, in armonia ed in pace. Ascolto poi il canto della natura e piango per la gioia che emana, ma piango anche per la mano che la offende. Oh uomo perché offendi tua madre? Io credo di capire il tuo gesto. Hai semplicemente perduto il senno della ragione e non hai più un’anima di universalità e di amore. Ed allora distruggi te stesso e le cose della natura che poi, alla fine, sono la medesima cosa.
Ma le parole sagge non sono ascoltate, non entrano minimamente nell’animo ormai indurito e nemmeno nelle membra. Non si ascolta, non si vede, non si sente. E’ non è cosa buona. Perché, o uomo, rifuggi la verità? Io me lo chiedo, lo domando e non ottengo mai risposta.
Nel mio trascorso, come ho già annunciato, ero anch’io cieco e sordo ed ero caduto nell’angoscia esistenziale e nella tristezza della vita. Ma lo spirito della foresta, lo spirito del Grande Nord mi hanno risvegliato, mi hanno fatto comprendere e mi hanno ridato la speranza dell’esistenza. Ho cominciato così ad allontanarmi dalle certezze non ‘certe’ della falsa vita quotidiana ed ho iniziato a prendere le distanze anche da quello strano malessere esistenziale. E piano piano, ascoltando anche l’ululato del lupo, ho ridato a me stesso ciò che mi apparteneva.
Quando finisce qualcosa non è importante ciò che finisce, ma quello che inizia. Tutte le cose sono unite, anche quando sono diverse. Sta alla propria saggezza capire quale strada seguire.
Il tempo sembra trascorrere lentamente, ma la taiga mi ha insegnato molte cose pratiche, e direi soprattutto quelle essenziali dello spirito. Il mio seguire a lungo la vita dei lupi mi ha confermato e nello stesso tempo svelato molte cose della loro arguta esistenza. Il branco è eccezionalmente compatto, netto, perfettamente adattato a sopravvivere in un ambiente che, soprattutto nel lungo inverno, è tutt’altro che facile. La dinamica dei suoi membri, estremamente attiva e multiforme, ispira moltissimo a resistere sempre nella vita, perché bisogna lottare fino in fondo. Non bisogna mai arrendersi e occorre penetrare, le incombenze della sopravvivenza, con lo stimolo della propria energia. Lo sguardo tagliente di un lupo o il suo vero, ma anche simbolico ululato, ci ricorda sempre che esiste ancora una natura indomita e selvaggia, anche se credo che noi non possiamo comprendere appieno tutti i messaggi, perché ci sono molte cose che non percepiamo poiché ci viene meno quello che i lupi non possono dirci direttamente!
Ma comunque sia, noi non vogliamo più imparare, non vogliamo nemmeno ascoltare e non vogliamo ovviamente comprendere. Ora io mi chiedo: se non facciamo nulla di queste cose, chi reggerà il mondo? L’uomo vive continuamente a credito, ma sta finendo il suo fondo: la natura. Ci pensi bene prima di continuare………”.
A quel punto sospesi per qualche istante la lettura anche perché nuovamente c’era un interruzione di linea quindi un nuovo capitolo; inoltre notavo sempre più che, nelle riflessioni e nello sviluppo dello scritto, riconoscevo uno stile familiare, un qualcosa che mi apparteneva. Eppure, almeno credevo, anzi ne era praticamente certo, non ero certo io l’autore di quella sempre stranissima ed inspiegabile dissertazione.
Preso ormai dalla crescente curiosità e partecipazione alla progressione dei concetti espressi, continuai subito a far scorrere le successive pagine:
“Il mondo della vita scorre come un fiume, a tratti placido a tratti impetuoso, e lungo il suo possente cammino accoglie nel suo letto tutti gli elementi del mondo circostante e delle proprie interiorità. Si sente ormai nel cuore che occorre chiudere il cerchio per uscire dall’infame mondo dello ‘spirito’ contemporaneo per collocarsi, quanto più possibile, ai margini della follia, per non ritrovarsi alla fine incatenato alle assurdità, alle vacue sudditanze e dover amaramente comprendere di non aver vissuto. La nostra esistenza è scandita da categorie spesso rigide ed immutabili basate su archetipi strutturali che possono appartenere alle più svariate origini: religiose, legislative, mentali, culturali, tradizionali, ecc. Queste categorie collocano il nostro modo di vedere le cose in settori del tutto parziali perché sono sempre in riferimento a modelli ‘costruiti’ dalle variegate ed artificiose convenzioni. Ma, una semplice analisi, mostra subito ciò che regge questo principio: la relatività del tutto.
Ma se questa prima analisi mi aveva già evidenziato, sia pure per un brevissimo passaggio riflessivo, importanti aspetti di quella miscellanea di rapporti così palesemente distorti ed alterati, mi necessitava ora, nel mio argomentare, approfondire l’elemento cardine: il valore in sé della natura e delle cose tutte.
La conoscenza di un fenomeno è puramente empirica, cioè frutto della mediazione sensibile del soggetto. Tale acquisizione però, non può essere elevata a concetto universale, essendo del tutto arbitrario generalizzare un’esperienza strettamente individuale. Una personale esperienza, poi, presenta dei limiti anche verso se stessa, perché è il frutto di un ‘momento’ empirico continuamente variabile.
Il ‘valore in sé o intrinseco’ di un fenomeno (noumeno), valore privo di esperienze e mediazioni soggettive, assume invece carattere duraturo, universale e reale. Il ‘valore in sé’ è qualcosa di superiore, qualcosa di non definibile forse non conoscibile, che trascende il soggetto per divenire essenza dell’oggetto. Ecco dunque apparire nella mente un profondo concetto universale ed indelebile.
Solo in una fase successiva potremo ‘interpretare’ il noumeno trasformandolo in un ‘fenomeno’ cioè oggetto dei sensi. Nasce quindi la contrapposizione tra le ‘cose in se stesse’ e le ‘cose rispetto a noi’. La visione dualistica del mondo naturale si impose in larga misura in occidente principalmente (anche se numerosi altri elementi si sovrapposero) da una negativa influenza religiosa (p.e. il cristianesimo poneva l’uomo dominatore da una parte e la natura soggiogata dall’altra), ed era propria, tra l’altro, della filosofia greca che collocava l’uomo, soggetto pensante e sensibile, all’esterno di una natura oggettivata e subalterna. Solo nel pensiero orientale sarà possibile discernere, almeno in parte, una filosofia vitale non antropocentrica e quindi mancante del dualismo. Nell’occidente si esalta l’io a danno del tutto, in oriente si esalta il tutto a danno dell’io.
Si ricorda quindi che la compenetrazione degli opposti pur nella diversità genera sempre unità all’interno della dialettica della natura a patto che la visione del mondo sia unificatoria e centripeta.
Il ‘valore in sé o intrinseco’ della natura (noumeno naturale), è l’espressione più alta del pensiero. Affermare quindi che la sostanza naturale (nel senso generale del termine) debba essere conservata e rispettata per il suo valore in sé, senza nessuna nostra mediazione o intuizione, è la massima elevazione concettuale di conservazione che possa essere formulata. Ogni azione deve sempre essere fine a se stessa senza attribuirgli un valore positivo o negativo in relazione alle eventuali conseguenze che genera (l’uomo non è nè proprietario o depositario di qualunque cosa).
Al contrario, nella comune speculazione mentale della conoscenza, ci si riferisce ‘sempre’ a concetti ‘rispetto a noi’. Infatti si stimolano interventi solo se portano ‘guadagni’ materiali o spirituali o in ogni caso utilitaristici. Traducendo, avremo: proteggiamo un bosco secolare affinché nella presente e nelle future generazioni l’uomo possa goderne materialmente e spiritualmente.
Ecco, invece, un concetto superiore:’La natura deve essere conservata e rispettata per il suo valore in sé, non per un nostro interesse materiale, spirituale o etico che sia’.
Un fenomeno naturale ha la sua massima valenza in sé stesso, e si manifesta indipendentemente dalla conoscenza e dalla mediazione sensibile. E’ fondamentale comprendere che un ‘luogo’ ha qualcosa in sé che noi non possiamo e non dobbiamo cercare di interpretare. Solo in tal guisa riusciremo a dare al mondo naturale quel giusto valore che gli appartiene. Un tempo, come detto, lo spirito umano aveva in se stesso, nell’inconscio, questo concetto, come lo possiede un lupo selvaggio o un orso delle foreste, ma il distacco traumatico dalla natura ce ne ha privato. Ogni essere ha in fondo una propria ‘visione’ della vita e inconsapevolmente pone se stesso (soprattutto come individuo) al ‘centro’ della realtà. Ma questa centralità è solo apparente, utile alle esigenze della sopravvivenza del momento. L’uomo invece trasforma quella centralità in una subordinazione totale di tutta la realtà esterna da lui, facendo prevalere unicamente i diritti universali e assoluti della propria specie. Il tutto con il massimo della consapevolezza. L’uomo e la sua cultura da una parte, la natura e la sua essenza ben distinta dall’altra: in altri termini, DUALISMO.
Se, come ho appena evidenziato, l’uomo è stato in passato membro a tutti gli effetti della wilderness del mondo, progressivamente è diventato l’unico soggetto, è uscito dal palcoscenico della natura, ha falsificato la verità, e ha condizionato verso i suoi subdoli interessi quasi tutti gli elementi della natura.
Dinanzi a questa profonda dialettica così articolata e ricca di variabili, nasce la necessità, all’interno dello stesso pensiero umano, di invertire lo stato delle cose, mentali e materiali, per ricondizionare l’uomo ad una ‘equilibrata e giusta’ dimensione. Se l’uomo rimaneva in connessione con il mondo selvaggio, come elemento indistinto nell’ordinato ed imprevedibile caos naturale, non sollevava nessun problema di distruzione e di invadenza e, quindi, conseguentemente, di tutela, di rispetto o di conservazione della natura. Ma la sua ribellione alla verità naturale lo ha portato ad estinguere dentro sé il senso dell’armonia e della purezza originaria, trasformandolo in un vorace essere accecato dalla propria affermazione e dal proprio egocentrismo. Ecco, dunque, che l’essenziale diventa superfluo e il vacuo diventa essenziale. Avviene il distacco totale dalla natura, avviene la sopraffazione verso le cose e l’annientamento del mondo esterno da sé. L’uomo si considera allora il centro di tutto e il solo metro delle cose.........”.
Improvvisamente vi era una pagina bianca con disegnato un cerchio perfetto al cui interno v’erano scritte due significative frasi: “Il vento non lo si vede, ma lo si può percepire” e “compenetrarsi unitariamente con la natura è talmente valevole che per dargli un senso di misura occorrerebbe concepire l’infinito e andare oltre!”.
L’ultima pagina, breve e concisa, si concludeva con una particolare firma, strutturata a mo’ di frase, senza individualità di sorta e che aveva essa stessa, a mio parere, ancora qualcosa da dire:
Con cuore
In very low spirits
Riposi i fogli sul tavolo
Riposi i fogli sul tavolo e con le lacrime nel cuore e negli occhi caddi in una profonda dimensione quasi onirica dove ebbe grande spazio una marcata melanconia e uno stato di abbandono. Non riuscivo a pensare a nulla e pareva che la mia mente vagasse al di fuori dello spazio e del tempo. Percepii qualcosa di sottile, un flebile ed arcaico senso di pacatezza e comprendevo appieno che la barca del mio essere era approdata al lido della verità. Ora potevo ammainare le vele.......
Rimasi in quello stato forse per un paio d’ore, poi ripresi in mano la mia coscienza e iniziai ad interrogarmi e soprattutto ad analizzare quanto scritto in quella lettera.
C’erano tutte le risposte ai miei dubbi e alla mia ricerca, aveva portato allo scoperto ciò che da tempo sentivo latente e sommesso dentro di me e, se quanto letto per buona parte era sviluppato in uno stile poetico/narrativo, la parte finale divenne quasi scientifica, analitica e perfettamente indirizzata. Uno sviluppo strano che non comprendevo, ma del resto a quel punto non comprendevo più nulla circa la situazione della misteriosa lettera. Poi, forse in preda di uno stato mentale alterato, cominciai a pensare che l’avevo scritta io stesso, con il mio cammino e il mio viaggio (il testo, come detto, era redatto in prima persona), ma se ciò era plausibile dal punto di vista “concettuale”, come lo poteva essere dal punto di vista pratico per la stesura di quanto annotato? Tante cose non collimavano: non ricordavo affatto di aver scritto qualcosa di simile, la scrittura non era certamente la mia che normalmente era quasi illeggibile, frenetica e a tratti procedeva per intuizione; e poi il tipo di carta, una sorta di pergamena mai posseduta e l’evidente uso di un pennino con tanto di calamaio. No, la faccenda non quadrava, ma una risposta da qualche parte c’era. Forse semplicemente era stato un viandante fortemente illuminato che, dopo aver letto le mie numerose lettere, aveva voluto rispondermi con gli stessi toni e darmi delle risposte. Ma anche questa ipotesi non mi soddisfaceva affatto. Per essere vera vi erano troppe coincidenze che continuavano a non incrociarsi.
Il giorno seguente, dopo una notte insonne durante la quale scorsi la lettera più volte, arrivai ad una conclusione non certo esaustiva, ma l’unica che potevo darmi: ero stato io stesso, o meglio la parte di me che viveva nel suo mondo appartato e nascosto, a scrivere il tutto e a costruire l’intera scena. Una sorta di sdoppiamento della personalità. Questo è quanto! Non ci credevo, ma non seppi pensare ad altro e alla fine, ad onor del vero, l’enigma non lo sciolsi affatto.............
Ma l’occasione mi indusse ad una considerazione che considerai estremamente valevole. Infatti io credevo che molte situazioni, pur se rimangono inespresse, potevano contenere elementi fortemente positivi perché è bellissimo comprendere o realizzare una cosa, ma forse a volte potrebbe essere più penetrante sognarla e viverla interiormente poiché in tal modo rimarrà per sempre nel suo massimo valore e splendore! Per me la verità di un elemento era come una foresta selvaggia in un luogo remoto. Non potendoci vivere in mezzo mi rallegravo ugualmente sapendo che esisteva.
Per ultimo riflettei sul significato della firma. Essa, nella sua brevità, conteneva ancora un palese dubbio da sciogliere che interpretai così. Poiché il suo significato letterale era “malinconicamente”, questo poteva significare che pur avendo compreso gli errori e la linea deviata del procedere umano, forse non vi sarebbe mai stata una vera tregua che l’uomo si prodigasse di ‘stipulare’ con il mondo naturale e quindi unitariamente ed emplicitamente con se stesso; e ciò non avrebbe arrestato il definitivo declino e l’inevitabile fine del tutto!
Forse la mia era una conclusione fortemente pessimistica, ma credo profondamente vera.
Faber est suae quisque fortunae
(ognuno è artefice del proprio destino)
Ormai un sottile ma consistente strato di ghiaccio
Ormai un sottile ma consistente strato di ghiaccio ci estendeva sui laghi e nei tratti di fiume più placidi. Sulle acque, scintillanti al fioco chiarore della luna, si muovevano calmi gli ultimi cigni selvatici rimasti ancora in zona. A scuoterli dalla calma notturna, altre notti venne l'Orso bruno, che attraversò l'acqua gelata e si allontanò verso la densa foresta.
Con l’arrivo del gelo e della neve la foresta fu avvolta da una immota stasi e, ogni forma di vita, parve scomparire. E, mentre la temperatura scendeva sempre più, caddero milioni di fiocchi di neve. La tinta scura dei pini e degli abeti si tramutarono in un bianco candido e al suolo la coltre nevosa, ormai sempre più spessa, cominciava a celare alla vista ogni cosa.
In quell'atmosfera quasi onirica, ombra silenziosa in movimento, l'Orso bruno scomparve nel candore invernale di quell'immensa distesa d'alberi verso le tane a lui note.
Nei giorni seguenti la neve aumentò, ne cadde altra, e le colline erano già sovraccariche. La temperatura era scesa ad oltre dieci gradi sotto lo zero e per l’orso si avvicinava il momento del suo ritiro dalla scena di quella superba foresta boreale.
L'Orsa aveva fiutato più volte l'aria, e aveva assistito quasi immota alla venuta della neve. L'odore del vento era diverso, ma sentì anche lo strano impulso cha la invadeva ogni anno in quella stagione allontanando il desiderio del cibo. Anche i piccoli che portava appresso non erano più ingordi dei pur abbondanti frutti selvatici che ancora riuscivano a trovare tra la neve negli ininterotti boschi. Non avevano più fame.
Molti altri orsi erano già entrati nelle tane d'inverno. Qualcosa gli diceva che era giunto anche per lei e per i suoi cuccioli l'ora di appartarsi e di dormire aspettando che passassero i lunghi mesi di freddo.
Infatti la notte seguente la famiglia di orsi si era già ritirata nella tana che la femmina aveva da tempo restaurata, resa confortevole e soffice con ramaglie, fronde di abete, erba e quant’altro di utile. Sarebbe stato lungo il periodo di presenza in quell’angusto pertugio.
La tana si trovava ai piedi di un gigantesco abete schiantatosi da tempo. La vecchiaia della pianta e il carico di neve invernale ne aveva causata tempi addietro la sua fragorosa caduta. Sotto l’intrico delle radici, anche altri orsi avevano poi approntato la tana. La scarsa presenza nella zona di anfratti rocciosi, non consentiva altro che scavare la base delle radici contorte dei grandi alberi caduti.
Tuttavia, un'altra femmina di Orso bruno, a differenza della maggior parte dei suo confratelli, approntò una tana per il riposo invernale non sotto la ceppaia di una albero venuto giù, ma a ridosso di un grosso ammasso di rocce laviche disposte alla base di una piccola elevazione orografica. L’ingresso, esposto a est, era alquanto angusto e questo, oltre a facilitare il mimetismo del sito, riduceva anche la dispersione termica a complemento della neve che al momento opportuno celava il tutto. Quelle rocce erano particolarmente belle a vedersi poiché erano state pennellate dai multiformi colori dei licheni endolitici che ne rivestivano la gran parte di essi. Alcune erano completamente rosse, mentre altre erano di un misto che andava dal giallo al rosso, all’ocra e ad altri colori ancora. La lettiera era stata predisposta nel migliore dei modi, con una base ampia e morbida tanto da consentirgli sicuramente uno svernamento confortevole e piacevole. L’umidità era quasi del tutto assente.
Gli orsacchiotti vennero pervasi dall'istinto, per loro ancora sconosciuto, che aveva influito sulla madre, e i giochi che fino a pochi giorni prima li entusiasmavano non li interessarono più. Insieme alla madre si introdussero nella tana con il desiderio di dormire.
Quando scoppiò la bufera l'Orsa era ancora desta. Pian piano il suolo si imbiancò ancor più innanzi all'apertura della tana, e nei giorni che seguirono la neve aumentò fino a chiudere completamente l'entrata; allora l'Orsa si appisolò in quello che per lei divenne un lungo sonno che durò fino ai giorni di aprile.
Anche il grande Orso bruno si avviò verso la propria tana; si addentrò e si aggomitolò nel gran cumulo d'erba che aveva trascinato nella sua dimora invernale e si lasciò andare in un torpore profondo, e giorni dopo si addormentò.
Il lungo sonno
Il lungo sonno era alle porte. Verso la fine di novembre il grande inverno nordico era ormai giunto da tempo. L'Orso bruno stava adagiato con il muso tra le zampe anteriori, rannicchiato nella sua tana profonda anch’essa celata alla vista dalla muraglia della nuova neve. Il respiro era appena percepibile, il battere del cuore rallentato a sole otto-dieci pulsazioni e la temperatura corporea scesa di qualche grado. Il suo metabolismo si era profondamente mutato, perfettamente adattato alla sua lunga letargia. Ma il grande Orso bruno se molestato si sarebbe destato prontamente e sarebbe stato in grado di difendersi energicamente.
Fuori della tana la grande taiga si era come fermata, e in quei momenti e in quei fatasmagorici scenari, nulla dava l’impressione che mesi dopo tutto sarebbe cambiato e il ritmo incessante della vita e degli orsi avrebbe ripreso il suo cammino.
La tormenta era passata da due giorni, e gli alberi erano sempre più carichi di neve; il freddo pungente non cessò neppure col calare del vento e col dissolversi delle nubi biancastre che avevano portato altra neve. Di giorno la temperatura saliva di una inezia quando il sole era allo zenit, ma non riusciva a mitigare il clima rigido; ormai appariva solo per un paio d’ore al massimo.
Nei posti più freddi, in fondo alle vallette boscose, il gelo aveva cristallizzato la neve sulle radure, e lì gli alberi anche nei fusti erano quasi ricoperti di neve. I pini silvestri e gli abeti rossi incurvavano le frondose chiome facendo cangiare completamente le loro reali sembianze.
Con il mese di dicembre la neve raggiunse oltre un metro di spessore e le temperature a volte superò anche i trenta gradi sotto lo zero.
Giunse infine gennaio e, in una tana invisibile, una femmina di Orso bruno si agitava nel sonno; e mugolii sommessi si univano al lieve rumoreggiare di foglie secche. Poi qualcosa di più violento la scosse fino a destarla dal torpore. Dolori lancinanti che le straziavano il ventre segnalarono al suo cervello di aprire gli occhi. L'Orsa si ritrovò nella tana e annusò l'ambiente, ma non fece atto di uscire oltre la bianca barriera che chiudeva la fessura di accesso; nessun istinto la chiamò fuori, e anzi desiderò ancor più quel tepore in cui giaceva, perché l'istinto gli disse cosa gli stava accadendo e perché si era destata.
Si era ritirata in quel luogo isolato, già sapendo cosa doveva succedergli quell'inverno. Sapeva che doveva dare alla luce i cuccioli come già altre volte era successo nella sua vita, e sapeva che doveva stare in un luogo ben riparato, confortevole e isolato dai maschi che in primavera subito dopo l'inverno si sarebbero aggirati nella zona dove svernavano con grave pericolo per i nuovi nati che lei avrebbe poi dovuto lasciare soli nella tana per andare in cerca di cibo.
Partorì i due cuccioli senza un lamento, piccoli esseri ignudi che l'orsa asciugò amorevolmente con la lingua calda; i due esseri minuscoli, di pochi etti, giacquero nella frusciante lettiera di foglie di betulla del giaciglio, riparati tra il ventre soffice e caldo della genitrice e le sue zampe, a contatto con i capezzoli delle mammelle gonfie di latte.
I lievi vagiti non oltrepassarono la barriera di neve innanzi alla tana e presto rasserenarono l'orsa, che si riaddormentò. Ma si destò più spesso da allora, curando i due cuccioli, che premurosa non soffocò mai nei suoi movimenti nel pur ristretto spazio della tana.
Fuori cominciò di nuovo a cadere la neve, e il vento rumoreggiava tra gli alberi facendo a tratti cadere grossi toppi di neve che erano ammassati sui loro rami.
Nevicò ancora, fino alla fine di marzo, ma l'Orso bruno non abbandonò più la sua tana, né si svegliò altre volte. Sotto lo spesso manto di neve, avvolto nel grande mucchio d'erba non temé il gelo né l'umidità.
L'inverno aveva stretto nella sua morsa la foresta, imbrigliato i placidi fiumi e congelato con un spessa coltre gli innumerevoli laghi della zona.
La foresta taceva; mai come in quella stagione i boschi divennero silenti, quasi impalpabili, ovattati da quella morsa bianca. E, mentre gli orsi quietamente sopiti erano al riparo nelle loro piccole tane, fuori, pur nell’immota stasi della taiga, il mondo selvaggio o forse quel che restava del mondo selvaggio splendeva, in tutto il suo vigore.
TERZA PARTE
Con profonda umiltà
Trascorse del tempo
Tascorse del tempo. Un tempo fatto di pause, riflessione, di neve e nulla apparve su un ignoto orizzonte. Rallentai il mio decorso e approdai al limite della conoscenza.
Posi freno alle incombenze dell’anima.
Pause, silenzi, attimi fuggenti, forse ignavia. Camminavo.
Respiro soffuso, foreste disincantate e poi il bianco, il torpore, la luce azzurognola della notte polare.
Un buio surreale. Attesi….. sospensioni e lussureggianti aspetti della metamorfosi. Ponevo in essere l’ingordigia di capire, ma forse l’incomprensione avvolse il mio fare.
Candida neve, luminosa aurora, spazi siderali, crepuscolo costante.
Ascoltavo il vuoto, lo spirito ansimava e l’ombra si plasmava con la mia sagoma.
Poi non c’era…… forse non esisteva. Chiunque poteva apparire. Quale forza si celava dietro le lusinghe delle illusioni.
Ancora pausa.
Il pennello dell’artista dipingeva il bianco, ma la sua era una scelta obbligata.
La solitudine riempiva la vita, ma la stessa si celava all’evidenza. Non appariva indugio e non nasceva la rimembranza. Passi assopiti, deliri nella notte, poi, ma soprattutto dopo nacque la ricerca. Non trovavo l’ardire, ma comprendevo il senso.
Erano strani gli eventi e troppi quesiti irrisolti arrancavano dinanzi agli occhi. Non chiarivo le illusioni, ma, in fondo, comprendevo la metafora. La confusione sembrava prendere il sopravvento, ma alcune certezze assaporavano il gusto. Respiri interiori annuivano al positivo, ma continui contrasti ne celavano lo sviluppo. Il mio spirito volevo trovare il senso di qualcosa, ma doveva approdare ad un lido di tranquillità. Non era chiaro, ma in quel momento non sentivo altro desiderio. Ed allora…..
Mi allontanai, sia pur per poco, dalle incombenze dell’anima e mi raccolsi a rimembrare ciò che le gesta avevano chiarito. E d’improvviso m’apparve una luce che, in uno stile lineare e apparentemente palese, momentaneamente mi espose una veritiera realtà…..
Prima che l’uomo civilizzato
Prima che l’uomo civilizzato facesse la sua “apparizione” sulla terra, tutto il mondo era “wilderness”, un’immensa area selvaggia dove regnava solo la verità naturale. Poi è arrivato l’uomo civilizzato e, poco a poco, ha sottratto al mondo e a se stesso l’armonia imprevedibile e “caotica” della natura che era lo spirito della vita.
All’uomo risale dunque la responsabilità di provvedere alla conservazione della natura (perché è l’uomo che la distrugge e quindi è lui che deve conservarla); a meno che non lo si voglia considerare alla stregua di un semplice componente del materialismo dialettico, cui sarebbe stato affidato il compito di sovvertire integralmente l’ambiente naturale: solo questo potrebbe essere, in chiave ironica, l’essenza della filosofia androcentrica. In verità gli interventi umani sul territorio sono devastanti e non risparmiano nessun elemento della natura: l’acqua, l’aria, la flora, la fauna, la materia inerte, ecc. Dinanzi ad un siffatto degrado la difesa dell’ambiente, tramite una visione wilderness, deve divenire un obiettivo primario e globale. Ma nella conservazione del mondo naturale occorre sgombrare il campo da una pregiudiziale che è di un tale rilievo da assumere il valore di una contraddizione in termini, poiché tale è appunto la pretesa di chi si ostina a considerare il problema ambientale esclusivamente in funzione dell’uomo. L’uomo è una parte, un tassello dell’ecosistema, non è l’ombelico della natura, perciò cade in grave errore chi subordina la salvaguardia dell’ambiente al primato dell’uomo. C’è insomma il rischio che nei nostri discorsi si presenti ognora il nostro inveterato androcentrismo, tutto e sempre per l’uomo. Occorre ribaltare una siffatta concezione per porre al centro di tutto gli interessi globali della natura (ecocentrismo). La regola deve tendere a conservare la natura per il suo valore in sé: alla fine anche l’uomo se ne avvantaggerà ma sarà un riflesso, non lo scopo di quel salvataggio. Una visione ecocentrica porterebbe enormi vantaggi e riequilibri anche dal punto di vista sociale. La civiltà non può prescindere dalla wilderness, la natura selvaggia ed incorrotta! (John Muir).
Ma elaborare il profondo dissidio dell’uomo con la natura è un compito tutt’altro che facile, anche se si vuole arrivare semplicemente alla pura consapevolezza del fatto. E’ in parte come voler ricomporre un complicatissimo puzzle fatto di tanti elementi diseguali senza averne davanti l’immagine guida. Questo è dovuto anche dal fatto che occorre eradicare una forma di pensiero che negli ultimi secoli si è indirizzata, progressivamente, verso una disgiunzione totalizzante dove le monoculture mentali, improntate sul profondo solco del dualismo (l’uomo da una parte e la natura, ben distinta, dall’altra), si sono fortemente arroccate in una visione unilaterlmente volta verso la sola verità ed esistenza del genere umano. Un nuovo pensiero, libertario e di ampie vedute, deve dunque affrontare un duplice ostacolo; il primo è quello di eradicare il pensiero globalizzato sulla dominanza e unilateralità dell’uomo (pensiero che anche in forma inconscia è ora insito nelle menti), il secondo sarà quello di disarcionare le false certezze così fortemente incastonate per intravedere, sia pure in lontananza, una visione olistica del tutto. Quanti autorevoli personaggi con il loro dire ed il loro agire hanno cercato di svolgere questo immane compito, ma, almeno in prima battuta, si sono visti nella difficoltà di farsi metabolizzare da “monoculture mentali” volte all’esatto opposto. Ma forse un giorno quello che per ora, sotto certi aspetti, appare ancora distante, sarà compreso e praticato in totale consapevolezza e comprensione. All’inizio gli acuti “profeti” di un profondo cambiamento non sono stati capiti o addirittura del tutto ignorati, ma pur se il tempo è ormai molto ristretto, un cauto ottimismo sull’inversione anche parziale della rotta, potrebbe aleggiarsi nell’aria (?!). Comprendere, capire, autoesaminarsi sembrano terminologie e concetti difficili da digerire, ma non è escluso che facciano invece il loro giusto percorso per arrivare, alla fine, ad essere acquisiti. La speranza, pur se flebile, è sempre l’ultima a morire. Ma per il momento finché lo sfruttamento, il saccheggio e la distruzione del pianeta terra (sotto tutti i fronti) rappresenterà ancora un enorme vantaggio economico, estremamente arduo apparirà il modo di procedere verso la giusta operatività e visione delle cose. Sin’ora infatti l’uomo dalla sua cecità ha cominciato a vedere qualcosa, ma solo i resti fumanti lasciati dietro al suo devastante cammino e sarà così saggio e lungimirante da invertire la rotta? I dubbi rimangono molti e in gran parte irrisolti. Molteplici azioni che ora paiono positive sono ancora una piccola goccia d’acqua in un grande oceano eccessivamente sporco di “petrolio”!
Il primo giorno
Il primo giorno respiravamo l’aria più pura, e ciò non fu buono.
Il secondo giorno correvamo a perdifiato attraverso le immense e silenti foreste e ciò non fu buono.
Il terzo giorno ci dissetavamo alle sorgenti più cristalline, e ciò non fu buono.
Il quarto giorno viaggiavamo per i mari e i monti più selvaggi, e ciò non fu buono.
Il quinto giorno ammiravamo lo spirito indomito e libero degli animali selvatici, e ciò non fu buono.
Il sesto giorno ci sentivamo uniti in una sola cosa con l’anima più profonda della natura, e ciò non fu buono.
Il settimo giorno non ci riposammo e distruggemmo ogni cosa, animata e non, e tutto questo fu veramente buono!
L’ottavo giorno, che in fondo non esisteva più, ci semplicemente ricordammo, sia pur flebilmente, di quella che fu chiamata “MADRE TERRA”.
L’incertezza riprese il vento della vita
L’incertezza riprese il vento della vita e il sussurro della realtà si affievolì lentamente. Posi lo sguardo sui miei pensieri e compresi che ogni elemento era planato per approdare a pochi, ma evidentissimi significati.
Calma interiore, riflessione, indecisione. Turbe improvvise. Silenzio. Il vento che colmava il vuoto. Mi sembrava di carpire la realtà, ma nel contempo pareva sfuggirmi. Procedevo in uno stato disarmonico, a tratti celato, a tratti palese. Ma i misteri degli eventi mi suggerivano di non forzare il destino. Correvo nella neve, camminavo sul fiume, respiravo nella foresta. Mi inebriavo dei momenti di sicura lucidità e enfatizzavo quei momenti come respiro di una accennata certezza. Ma il vortice della situazione mi portavano a momenti di sconforto, di pacata rassegnazione e l’irrazionale sembrava prendere il sopravvento. Ma lottavo, mi dimenavo e cercavo una risposta conclusiva. Un punto da apporre ai miei eventi. Non volevo sviluppare una lunga novella, ma volevo restringere il campo all’essenziale e ricondurre il tutto al nocciolo del suo significato. Raccolsi la mente e la lasciavo divagare solo a tratti. Ma la forza interiore non era sufficiente, almeno in un primo momento, a dirigere il governo del mio quotidiano vivere.
Di nuovo silenzio, pennellate di acquerello. Stridenti sussuri. Calici colmi di una bevanda insapore. Stavo perdendo la cognizione della realtà. Stavo perdendo le chiarificazioni che mi sembrava aver colto. Il mio sentiero si era improvvisamente ramificato e non delineava più un percorso maestro. Ebbi sconforto. Mi sovvenne l’idea che ciò sarebbe stata la mia unica dimensione di vita, ma le luci del crepuscolo mi davano un nutrita speranza. Forse avrei dovuto attendere che le acque del fiume si scongelassero e solo allora lasciar fluire gli aneliti della vita. Troppe incertezza attorniavano il mio fare ed allora lasciai momentaneamente cadere i tentativi di razionalizzare le fattezze dell’essere. Ero convinto che i frutti sarebbero maturati all’improvviso….. ma dovevo forse passare attraverso qualcosa di non lineare. Ed infatti……
Dopo gli ultimi eventi
Dopo gli ultimi eventi fui assalito da un sonno profondo, un sonno dell'anima e trascorsi un lungo periodo di oblio, di onirica dimensione dove ogni elemento si trasformò in una inaccessibile surrealtà e persi completamente la visione delle cose. Non compresi più il tempo e entrai in un pertugio cui solo dopo aver percorso un tortuoso sentiero ne uscii fuori. Le pagine che seguono sono solo una parziale rappresentazione di ciò che mi accadde.........
Quel giorno un forte vento
Quel giorno un forte vento da settentrione portava con se un gelido senso di morte. Le membra si raccoglievano intirizzite ed ogni effusione della mente non approdava a nulla. La tempesta, una tempesta che alitava anche nel mio interno, parve trasmigrare verso lo spirito della luce dove si ripeteva, da tempi immemori, i passi di una famelica sensazione di ricerca. Non sorgeva mai il desiderio di rifugiarsi in un antro riparatore, e cresceva in ogni istante la profonda estasi della meraviglia. L’andar del vivere pareva connaturarsi con gli eventi delle stagioni e non v’era istante che l’anima prendesse possesso di una sua autonoma dimensione, tanto erano i carichi che il quotidiano imponeva alla ragione.
Traslavano reperti e brandelli di anima verso lidi occasionali e mai riuscivano a complementarsi per appianare il dire ignoto e fuori la realtà. Non s’udiva voce esteriore e le proprie sensazioni si inebriavano nella autoprospezione. Tutto pareva stringersi intorno al senso del vuoto, ma tanti erano gli elementi che correvano all’opposto.
Gridi interiori, suoni indecifrati, guaiti intraducibili parevano possedere l’incombenza della mente e sinuosi riflessi di luce anziché illuminare la scena, donavano un senso di buio e di oscure rimembranze. Quante meraviglie potevano espletarsi in si’ tanta dialettica? Tante o forse poche, ma erano sempre cariche di inspiegabili acuti di armonia.
Guardai in alto
Guardai in alto e sorpresi l’ignoto che mi scrutava da lontano. Appagai i miei sogni nella indefessa quiete della foresta, ma il turboniso muoversi delle acque dei torrenti, azzittivano le voci della speranza. Muovevo le membra senza cognizione e ogni tendenza ad una propria autonomia pareva annientarsi in una flebile speranza. Non giunsi mai in uno stato di serenità, ma le resistenza doveva prendere in ogni caso il sopravvento. Camminavo solingo sotto il dardeggiare del sole e d’un tratto la nebbia avvolse lo spazio impedendo alla vista la profondità dell’orizzonte. Non v’era istante senza che il passo potesse intercedere senza tempo e il respiro, ritmato ai suoni dell’universo, si acuiva ad ogni nuova esperienza.
Lontana e solitaria la lince annusava l’aria. La sua era una presenza atavica, selvaggia, ma per quanto tempo poteva ancora appartenere a quell’estasi di vita? Il periodo delle rimembranze cedeva il passo e la spietata realtà divoratrice si assicurava ogni dove.
Giunse un giorno melanconico in cui tutto passò sul pentagramma della vita e non si produsse un suono armonioso, ma lo stridulo cigolio di una serratura arrugginita. Mi guardavo alle spalle ed osservavo sempre i miei errori e non trovavo mai sentieri positivi e prolifici. Avevo un passato così disarmonico? Credevo di si e nulla poteva portarmi a mutare le mie gesta.
Lupi in piccoli branchi correvano liberi e selvaggi e al crepuscolo la limpida luce annunciava già il giorno seguente. Potevo contare molte volte il mio procedere, ma mai arrivavo a decifrare un messaggio. L’aria girevole appiattiva la sonorità del vento e la mescola degli elementi non confluivano in recessi ripetitivi. Tutto veleggiava verso un solo polo ed era difficoltoso voltare pagina.
Avevo trascorso
Avevo trascorso la maggior parte della mie esistenza sempre a fuggire da qualcosa, e le nuove sensazioni che mi sembravano liberatrici, dopo poco mi imbrigliavano nuovamente e tuttto ricominciava dall’inizio. Il momento più triste lo raccolsi in un particolare gelido giorno, quando compresi che non potevo fuggire da me stesso. A quel punto lo sconforto trasalì sopra ogni limite e fui edotto che non avevo scampo. La natura selvaggia correva libera, ma il suo spazio era sempre più ristretto e giorno dopo giorno perdeva tanti brandelli della sua bellezza, la bellezza della wilderness. Ero un testimone diretto del fatto? Respiri senza aria, speranze ingiallite e vuoti simulacri annunciavano il senso del nulla.
Canti flautati fendevano l’aria e sdraiato su una morbida lettiera di rami di abete osservavo il mio circondario. Camminavo molto, a volte per giorni interi, mentre a tratti mi fermavo improvvisamente e non procedevo per ore ed ore. Ero smarrito e non penetravo la realtà fattasi intraducibile ed illeggibile. Colsi qualcosa, ma non riempì affatto la mia solitaria assenza.
Mi parve di scorgere
Mi parve di scorgere qualcosa al di là del fiume, ma una più attenta osservazione mi mostrò solo il riflesso di un’ombra. Un’immensa foresta divenne piccola e sembrava un irregolare macchia puntiforme su un grande foglio bianco. Un male interiore mi pervadeva tutto e una profonda stanchezza assalì le mie membra. Ero forse il fantasma di me stesso? Luci fluttuanti coloravano il cielo, ma l’orizzonte era plumbeo e annunciatore di malinconia. Purtroppo non avevo altra compagnia ed ogni elemento mi pareva lontano a tratti finanche indistinto e mutavo il mio andare solo in una stasi senza armonia e pace. Un dolore mi colse nel petto e non v’era cosa che potesse sminuirlo. L’acqua torbida si agitava nella mia mente e le sensazioni più meste indugiavano troppo a lungo per essere alleviate.
Il grande orso bruno rovistava un acervo di formica, mentre una scaltra martora si muoveva rapidamente tra un albero e l’altro. Perché non potevo anch’io acquisire la serenità di un essere selvaggio? Perché la mia anima si contorceva su se stessa? Non avevo mai serenità e purtroppo ne soffrivo fortemente senza mai arrestare le mie indefesse difficoltà.
Mi giunse una voce
Mi giunse una voce che parlava di un mistero. Un mistero non definito ma che circuiva lo spazio recondito. Appresi le fluttuanti onde della vita e cercai una possibile soluzione. Ne esisteva davvero una? Non mi ponevo in verità il quesito e procedevo con poca speranza, ma con molta avidità. Rifiutavo l’aiuto degli eventi che non comprendevo e non cercavo di esserne partecipe. Forse non era una scelta giusta, ma ero convinto che la mia pur debole forza interiore avrebbe potuto affrontare il mistero. L’ignoto è sempre portatore di dubbi e di speranze e fin quando rimarrà tale sarà la sola fantasia a cercarlo di esplorare. Man mano che gli eventi si faranno tangibili, si affievolirà la ricerca effimera e la pratica si sostituirà alla vanescenza.
Presi spunto dallo stormire delle foglie e le sagomi informi della putrescenza si acuivano con l’ardire della prospezione. Non v’era alito di vento, ma l’inspiegabile muoversi delle fronde sembrava che portassero a qualcosa di indecifrabile e di surreale. Non v’era una sintonia tra quel muoversi e la reale condizione dell’aria. E proprio qui si mescolava la pozione misteriosa a quella interpretabile. Era il connaturarsi di eventi antitetici, ma fortemente confluenti.
Udii un suono, un suono ovattato, ma si estese nell’aria e raggiunse i più reconditi recessi dell’anima. Era forse la firma del grande mistero cui tentavo di dare risoluzione? Non sapevo, ma tentavo una plausibile spiegazione. Traslai il mio pensiero verso una immaginario diagramma dove la struttura riportava tutti gli elementi che erano in gioco. Se ne contavano ben pochi ma il prospetto mi permetteva di quantificare le peculiarità di ciascuno di essi.
Il tempo progrediva verso una analisi sostanziale e il mio sguardo a tratti era padrone del mondo, ma la mia proprietà immaginaria era sin troppo effimera perché sempre più effimero erano gli scenari selvaggi. Cosa poteva arrestare quella sconvolgente mano vandalica?Il pensiero primordiale mi diceva che nulla poteva farlo e poi anche una proiezione razionale dava la stessa risposta. Non mi restava che essere spettatore di una rappresentazione che andava dissolvendosi……..
Quel giorno ero ai margini del lago
Quel giorno ero ai margini del lago ed osservavo il muoversi degli eventi. Sulla riva opposta due alci sondavano nell’acqua il loro cibo prediletto e riemergevano con la testa masticando avidamente quel bottino per loro tanto prezioso. Certamente non mi scorsero e pacificamente continuavano il loro pascolo. Io mi immedesimai in quella esistenza e carpivo solo a tratti quella loro grande libertà e nel contempo la loro fragilità dinanzi ad un mondo che stava rapidamente cambiando.
Nel cielo terso volteggiavano i corvi imperiali ed il loro gracchiare davano vita a tutto lo scenario. Immani dilemmi solcavano il mio pensare e profonde sensazioni donavano al tutto un misto di allegria e di tristezza. L’animo depresso non andava oltre e una patina di opalescenza avvolgeva in tutta la sua interezza quel che restava della mia speranza. Atroci riferimenti incrociati dilettavano le sembianze dell’essere e non v’era una perplessa sintonia con la dialettica del respiro. Fin quando avrei potuto compenetrarmi con quello che tentava ogni istante di sfuggirmi?
Le scadenze delle ore, a tratti interminabili, segnavano il mio passo e le luci chiarificatrici dell’alba annuivano a sembianze muliebri. Il vento interiore spirava con sintonia disarmonica e le membra immote assumevano il compito di unificare i mondi separati.
Due parti erano in gioco, anche se in effetti l’elemento base era uno solo. Ma sino a che punto ero in grado di comprenderlo? Un altro giro era forse necessario, ma ciò non mi era concesso. Donare il rispetto e portarsi alla riflessione erano fattori molto importanti. L’uno nel tutto e il tutto nell’uno. Vane idee o forse concrete riflessioni. Ciò che poteva palesermi la razionalità mi parve estremamente banale e quello che leggevo oltre le righe era molto più liberatorio. L’analisi surreale dunque era molto più profonda di una matematica metamorfosi di una evoluzione.
Fu un improvviso mancamento
Fu un improvviso mancamento. Mi parve di venire meno ad un dovere e sentivo i giorni dell’abbandono. Presi mano al mio essere e corsi verso un ignoto poco celato e mi parve di riconoscere le sembianze di una fattezza informe, ma abbastanza definita. Cosa poteva essere? Non lo seppi mai, ma riuscii a comprenderla. Il silenzio fendeva l’aria e, nella dinamica del quotidiano vivere, si stagliava netto il respiro di una strana ricerca. Cosa poteva valere così tanto da dover essere pagata con una immane sofferenza? Era sicuramente qualcosa di unico ed universale e la sofferenza non proveniva dal suo valore, ma dal suo svanire in sé. Perché ciò doveva essere prodotto? Era tutto incommensurabilmente inspiegabile e la realtà si tingeva di assurdo. Una grande parte divisa in due e, progressivamente, portate entrambe alla distruzione. Ma l’inizio di quella distruzione partiva proprio da quella divisione. Essa fu il prima grave passo verso l’abisso.
A volte ciò che si cela dietro la dinamica di un evento può sembrare secondario e produce un pacato senso di ricerca. Non ci si pone, in altri termini, in una prospettiva indagatrice, ma si tralascia l’approfondimento perché ritenuto, a torto, del tutto superfluo. Ma, una analisi correlata e anche leggermente attenta, può svelare lidi inaspettati e dettare la formula del superamento dell’errore. Fluenti chiome al vento si inebriano dell’aria della primavera, ma la primavera sembra non voler più manifestarsi con tutto il suo splendore che un tempo le apparteneva. Ciò che tingerà la tela del futuro sarà un progressivo acerbo scolorimento degli eventi che si dissiperanno come nebbia al sole. Ignari poeti del dolore, incaute speranze d’oltremare, cosa può ridurci a sì tanta mestizia? Non una risposta s’ode dalla sponda lontana e il veleggiare senza vento dona dinamica ad una immota estasi che alberga nel profondo dell’essere. Non potrà forse cantarsi un inno alle rimembranze e il viandante errante non comprenderà più il suo intercedere. Lo smarrimento sarà la chiave dei giorni futuri.
Un’ombra ingiallita apparve sullo specchio immobile delle acque del lago e sinuosi riflessi di aurore rendevano espliciti il fluire dei pensieri. Non riuscivo ad essere accerchiato da una manipolo di strutture ed ogni piccola rimembranza cedeva il passo all’artificio dell’inganno del razionale. Il sentimento a tratti scompariva ed una nuda ed impervia roccia si sostituiva alle lodi del profondo. Ma il tempo sgretola ogni cosa e istante dopo istante ogni passo appartiene subito al trascorso. Cercavo di non guardare indietro, ma a volte mi era difficile ed allora il passato marcava il mio progredire e se pur in certe vibrazioni sembrava non vivere, in altre affiorava senza volontà intenzionale. Un senso di impotenza e di non controllo che permeava le strutture più intime dell’esistere.
Giorni saturi di verità sembravano sopraffare il dubbio e l’incertezza, ma era un misero inganno dell’ottica mentale perché in verità ognora traspariva un essere non senziente.
Un’ombra ingiallita suonava il suo canto
Un’ombra ingiallita suonava il suo canto e la flebile voce del tormento permeava l’aria della foresta. Il grido improvviso di un’estasi di pace parve contrapporsi al gemito della terra. Non seppi riconoscere il colore della luce, ma intravidi il senso del contrasto. Sfumatura di anima si inebriavano dinanzi alla nudità dell’essere e non v’era conto di ricondursi ad uno stato di chiarificazione. Oscuro fantasma, sprigiona la tua entità e percorri un sentiero visibile. Forse non servirà a nulla, ma una qualche speranza potrebbe celarsi dietro la vanescenza dei tuoi passi. Riassumerò i contrasti della luce che attraversa un prisma e proietterò il suo riflesso nelle spore dell’anima. Angoscia o esultanza diventano parietarie e pentimenti indefessi si ripercuotono nell’intimo dell’assenza. Gli occhi, esperti nel rappresentare il dolore, guardavano invano e non trasmigravano alcun tipo di emozione. Ogni cosa sparve e il desiderio prese il sopravvento. Un ardente desiderio nacque dunque dalle ultime vestigia dell’emozione e un immane tentativo cercò di farsi strada verso la vista dell’oscuro. Scissioni dell’essere, avamposti sperduti, recessi infondati, riverberi di nullità apparvero come l’anelito di un caldo vento. Sublimi note d’oltremare, sinuosi movimenti delle foglie, annunciavano l’ora della verità. Certo la verità! Ma quale sarebbe stata….. Sprofondai nell’immanenza del dubbio e ruppi al fine il mio silenzio con un prorompente addio alla incomprensibile scissione. Il tremito e l’indomito ascolto sarebbero presto divenuti l’unico senso della percezione. Ombra immortale, generi nefasti, sussurri senza tregua, stato sospeso in un orgia di mercificazione. Non un sussulto, non una movenza parve stridere dal profondo del baratro. Ascolti definiti, improvvisamente moltiplicati, in quale forma potevano rappresentarsi? Non era ancora il momento di mettere a nudo ciò che era sepolto, ma forse ora ne avevo la capacità e soprattutto avevo scoperto la dinamica dell’azione.
Attesi sino all’alba
Attesi sino all’alba, poi presi a muovermi non senza cognizione di causa. Era lo stato quiesciente del mio inconscio a dettarmi le condizione e la parte razionale di me non osava opporsi. Giunsi ad un congiunzione di eventi e, a sorpresa, ne scelsi uno con estrema convinzione e padronanza di me. Fu un dettame quasi mistico e superai gli ostacoli dell’anima appellandomi alle sequenze del mio essere. Oscillavo come un sismografo, ma il mio incedere era tutt’altro che disperso. Forse ero diretto verso la meta giusta, ma, al momento, mi era ignota……
Colpi di frusta assecondavano da lontano il tuono dell’alba e sintomi non percepibili annuivano al vano desiderio di attingere l’acqua. Sorseggiare un po’ di presunta saggezza e fors’anche un po’ di irrequietezza. Impalpabile la mano dell’oscuro, e il tingere dei crepuscoli scolorivano come l’ingiallirsi di un’erba verde smeraldo. Acuti silenzi dall’oblio ed un elogio all’opalescenza. Fino a quanto ci si poteva inoltrare in un si tale disastro? I due elementi si susseguivano l’un l’altro e nulla precludeva, almeno in apparenza, che vi si potesse accedere. Rimasi in ascolto, ma alla fine rinunciai per qualche strana voce interiore.
Non sembrò nascere elemento, ma non fu possibile eludermi dall’esistere senza commettere però il fatale errore di comunicare con il mondo sbagliato. Perché non riuscivo a sintonizzarmi con le cose senza sconvolgere ciò che appariva? Ogni elemento progrediva verso sensazioni irreali, ma un sibilo dell’anima si confuso nel dedalo delle emozioni.
Trascorsero così i giorni dell’abbandono
Trascorsero così i giorni dell’abbandono e finalmente cominciai a riprendere coscienza. Persi il sonno ed una luce mi indirizzò verso il passo giusto, anche se la vista dell'anima era ancora poco definita. Riconquistai ciò che era maturato in me negli ultimi tempi e tornai a riflettere, con una misurata padronanza, gli eventi accaduti prima dei giorni dell'oblio. Ed allora approdai alle mie valutazioni pur se rimasi permeato da un alito di confusione, incomprensione e di sconcerto.
Il tempo era trascorso e l’inverno era un po’ d’ovunque. Pennellate di bianco coprivano i recessi più reconditi e il freddo respiro dell’aria, riscaldava il vuoto nel cuore.
Si calmò d’improvviso il vento, ma, a tratti, ricompariva con ritmi e melodie fuori dalla realtà. Malgrado l’impegno lo si poteva solo percepire, ma mai vedere. Nessuno aveva mai visto il vento eppure tutti lo avevano sentito. Così accade nel respiro della wilderness: chiunque, se vuole, può percepirlo, ma mai nessuno può vederlo.
Gli abbracci della neve rendevano conforto al quotidiano vivere e il turbinio dell’anima ben si mescolava a quello dei rovesci dell’inverno, ed a tratti sembravano svanire le “perturbazioni” degli accadimenti vissuti, ma…….
Dopo i tanti episodi
Dopo i tanti episodi che avevo intensamente vissuto, improvvisamente un giorno mi accorsi di una profonda solitudine interiore, una sorta di vuoto esistenziale. Troppi erano stati i fatti che forse nell’inconscio mi avevano spaventato. Non per forza in senso negativo, ma in ogni caso avevano prodotto in me una certa alterazione della psiche anche se ormai pareva proiettarsi verso una completa consapevolezza dell’armonico esistere. In ogni caso l’unica compagnia era la mia fantasia ed era una grande compagnia, perché mi permetteva di volare in ogni dove e di plasmarmi la realtà secondo le mie più profonde e recondite esigenze.
In un primo momento sfruttai tale situazione dirigendomi verso lidi casuali, errabbondi, ma con il passar del tempo mi accorsi che, nella dispersione eccessiva, non approdavo mai a condizioni mentali che mi dessero conforto. Decisi allora di costruirmi, con una trama ben delineata, una storia completa che mi avrebbe sorretto anche nei momenti di sconforto esistenziale. Partii allora per un lungo andare, in altri luoghi solatii, dove la natura pura ed incorrotta faceva da palcoscenico al mio libertario muovermi.
Dapprima camminai senza meta. Fiumi, foreste, paludi scorrevano dinamicamente dinanzi ai miei occhi. Continuavo inarrestabile senza crucciarmi dove concludere l’escursione. Passarono molti giorni e il mio andare ancora non trovava approdo. Poi, un giorno, mi accorsi che il mio procedere non aveva più senso, forse non mi era mai mosso o forse non serviva andare oltre ……. Ed allora la mia mente si soffermò su una riflessione, perché d’improvviso mi sembrò che i frutti fossero veramente e finalmente maturati.
La prima cosa che pensai fu che nella vita occorreva sempre avere una visione racchiusa entro uno spazio contenuto, ma che avesse delle variabili e delle armonie infinite.
La mia vita era scandita da un ritmo ben definito e per poter esplicarsi doveva muoversi in uno spazio circoscritto ad una determinata misura. Ero una specie che era adattata a poter sopravvivere solo a specifiche condizioni e non potevo violentarmi o illudermi di farlo in qualsiasi circostanza o situazione.
Il mio posto era definibile ai margini del grande cerchio della civiltà moderna dove potevo espandermi senza limiti, ma in uno spazio ben definito. A tale proposito mi soggiunse una appropriata considerazione. La tastiera di un pianoforte è composta da 88 tasti ed in quei soli 88 tasti è possibile, nelle varie combinazioni, creare un numero infinito di melodie. I tasti sono limitati, eppure i suoni che si possono produrre non hanno fine. Questi tasti erano il mio mondo circoscritto, delimitato e posto ai margini del GRANDE CERCHIO.
Se invece i tasti del pianoforte non fossero 88, ma migliaia, migliaia e migliaia, è vero, si potrebbero comporre anche in questo caso un numero infinito di suoni e canzoni, ma la creatività verrebbe confusa in mezzo ad un numero troppo grande e, oltre a tentare di perdersi, ci si dovrebbe muovere in mezzo ad un labirinto che, pur se sembra molto più ampio del precedente, è invece fortemente più dispersivo perché crea confusione e disarmonia nell’atto della creatività e, alla fine, la composizione diverrebbe molto più complessa e direi anche fuorviante e difficilmente creativa. Il numero infinito di tasti sarebbe il centro del GRANDE CERCHIO.
Ecco dunque che nel mio profondo essere sorgeva solo una forma di vitalità possibile: una infinita combinazione di suoni avendo a disposizione solo 88 tasti.
La maggior parte degli esseri umani si adattano e credono che avere un numero infinito di tasti dia più possibilità alla vita ed accettano ciecamente di entrare a far parte nel vortice illusorio che gli attanaglia per tutta la vita per, alla fine, non produrre nessun suono. Poche persone invece si rendono conto che con soli 88 tasti possono creare un numero infinito di melodie ed essere, nel poco, molto più liberi, riflessivi e creativi. Io stavo dunque accettando il mio adattamento ai soli 88 tasti e un numero infinito non mi avrebbero portato a nulla, anzi mi avrebbero condotto verso l’abisso dell’esistenza e la necessità di volere sempre di più.
Dopo questo pensiero mi guardai attorno e, stupefatto, assaporai il senso pratico e mentale della wilderness, perché la wilderness è “sia una condizione geografica che uno stato d’animo”…..
Con profonda umiltà
Con profonda umiltà decisi di non riprendere più il mio viaggio a ritroso dal“punto di ascolto”, solitario e silente luogo dove lo spirito rientrava nella natura. Il mio peregrinare e la mia meta, forse più mentale, surreale ed interiore che fisica, mi indusse a riflettere bene poiché ora era forte in me la piena consapevolezza dell’amaro destino cui il genere umano a grandi passi si dirigeva ormai da troppo tempo. La mia ormai completa presa di coscienza sulla “verità nascosta”, mi spinse ad argomentare e a scrivere sul mio quaderno un ultimo passo riflessivo…...
“Il palese monito della comprensione rivolto al viaggiatore errante difficilmente verrà in sincerità compreso, soprattutto nella sua profondità. Infatti in ‘superficie’ si registrano molti segni di parziale consapevolezza, ma nel reale e nell’esecutivo i cambiamenti appaiono solo fittizi e ‘scenografici’. E’ come essere caduti nelle sabbie mobili: ci si aggrappa disperatamente a qualcosa per uscirne fuori, ma quel qualcosa è un effimero filo d’erba che velocemente si distacca. Ed allora l’affondare sarà inevitabile!
L’ultima frontiera della wilderness sta svanendo ormai sempre più. Un crepuscolo che conclude un giorno particolare, il cui giorno rappresenta lo stadio ultimo della vita libera ed incorrotta che ora, con il sopraggiungere delle tenebre, non si sa se l’indomani nella soffusa luce potrà continuare ancora ad esistere. Anche le vie più lunghe e tortuose prima o poi giungono al termine o al limite confluiscono in altre, ma ormai anche le altre hanno già esaurito il loro tragitto. Il cui andare, quindi, non potrà più dispiegarsi verso una consueta meta al di là da venire e si giunge, nella più profonda mestizia, alla conclusione che ormai non c’è più via da percorrere. Fermi, attoniti, ci si guarda intorno e ovunque si scorgono ampie distese fumanti che oscurano la profondità dei sensi visivi ed allora gli animi, perduti nell’ignoto, non scorgono più la via che potrebbero intraprendere. Nel paradosso ci si illude, ma solo per qualche istante, che una via, da qualche parte c’è, ignari che il nostro precedente andare ci aveva progressivamente portati verso il capolinea. Ed ora che l’incedere non è più concesso, nella mente riappaiono, tutto in una rapido baluginare di eventi, gli errori compiuti e le distruzioni perpetrate quando, all’epoca, si era sicuri che la via non sarebbe finita mai. Per conservare l’abbondanza, quando essa è tale, occorre amministrarla con parsimonia e con armonia, e mai, dico mai al di sopra delle sue capacità sostenibili e autogeneranti. In questo vi sono tutte le cose che lo spirito selvaggio, in un certo senso, non ha mai espressamente ‘detto’ perché lo ha sempre esternato, ogn’ora, nell’intimo e sottile legame che nell’introspezione regge e unisce ogni affinità elettiva. Noi non abbiamo voluto ascoltare sia perché il nostro procedere ce lo ha sempre impedito e sia perché il nostro agire non voleva affatto percepire l’essenza delle cose. Per tutta l’esistenza siamo stati troppo ‘occupati’ nella pratica del saccheggio di ogni qual cosa ci venisse a tiro - noi stessi inclusi – senza la pur minima parvenza di coscienza e, alla resa dei conti: a cosa servono le lacrime più amare, lacrime che sigillano con il loro potentissimo materiale collageno, le luci ormai fattesi tenebre? E, nell’immenso baratro che si apre, sarà inevitabile il precipitare senza soluzione di continuità nel più profondo degli abissi; ma, cosa ancor più grave e come atto di perfidia finale, arrecando seco ogni cosa esistente, animata e non che era apparsa in quella che fu chiamata ‘madre terra’.
Quando, dunque, il ‘vento selvaggio’ ci portava da sempre il monito degli errori, non abbiamo voluto in alcun modo percepirlo. Ma ora è forse troppo tardi per risalire dal profondo fosso, anche se eravamo stati fatti - parafrasando Rousseau - abbastanza forti affinché non potessimo cadervi. Quello che non poteva prevedersi è che noi abbiamo voluto rinunciare a quella forza!!”.
“La natura deve essere rispettata e salvaguardata per il suo valore in sé. E’ l'uomo che deve adattarsi alle sue esigenze e non viceversa. Se è possibile, si deve fare in modo che il mondo selvaggio viva nella sua libera continuità e nella sua fierezza, quella libertà e quella fierezza che l'uomo, prigioniero e schiavo delle proprie convenzioni, forse incosciamente invidia”.
Dopo questa mia ultima, triste, quasi disperata constatazione, mi raccolsi profondamente nel mio io mentre osservavo, melanconicamente, le luci che filtravano tra il fitto della foresta. A quel punto sapevo che una volta che si è rientrati nello spirito dell’ultima frontiera della natura, la “saggezza” ci dice di non tornare, in nessun caso, mai indietro. E, con estrema angoscia, scrissi infine sul frontespizio del mio quaderno: “Se perderemo veramente il mondo selvaggio..... - parafrasando un famoso scritto (Cassandra di C. Wolf) - il dolore si impadronirà di noi. Ma grazie ad esso, dopo, e qualora un dopo ci sarà, ci rincontreremo e se dovessimo rivivere il selvaggio creeremo forse finalmente con esso un eterno rapporto di verità, di unione, d’infinito ed indissolubile rispetto.........”.
Con cuore,
Larsen
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“E’una grande tentazione voler rendere esplicito lo Spirito”
Ludwig Wittgenstein
“Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto”
Henry David Thoreau
“Remember
you belong to
Nature,
not it to you”
Grey Owl
“La natura selvaggia è un bisogno spirituale che ognuno di noi si porta dentro e che va dal semplice amore per il bello al preponderante bisogno di solitudine che sentono alcuni. E’ il senso di fastidio che proviamo in natura di fronte all’opera dell’uomo, anche quando quest’opera è minima o ha fini di conservazione o di studio. La natura selvaggia è acqua libera di scorrere, di erodere, di gonfiarsi e straripare; è la libertà di volare e di correre degli animali; sono gli orizzonti intatti di montagne o di piatte paludi; è l’immensità del cielo su un panorama d’erba; è il silenzio della natura e lo scrosciare d’acque nelle valli montane; l’urlo del temporale nella foresta; il sibilo della bufera e il boato pauroso della valanga; il lento volo dell’aquila che annulla lo spazio tra le montagne; è il gioco delle onde sulle scogliera. La natura selvaggia è girare attorno lo sguardo e non vedere segno d’uomo; è ascoltare e non udire rumori d’uomo”
Franco Zunino
Lathe biosas
(vivi nascostamente)
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